Per un’etnografia sperimentale

Riflessioni a partire dall’esperienza di un’antropologa nell’accoglienza.

Maddalena Gretel Cammelli

Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin”, Università di Bologna

Indice

Accoglienza e antropologia: parole e prassi di un comune agire
Osservazione partecipante e partecipazione dell’osservazione
Individualità vs. comunità: praticare alcune sensibilità antropologiche
Isolamento vs. reti: studiare network e promuovere incontro
Per un’etnografia sperimentale: il sapere antropologico nell’accoglienza
Bibliografia

Abstract.  This paper seeks to give ethnographic evidence of the role played by anthropological knowledge when involved with asylum seekers reception centres. Moving from an engaged, action-oriented anthropology, with the purpose of working “with” the community where the anthropologist is living, in the following pages I illustrate some situations I lived while working in the emergency program of Italian asylum seekers reception centres. Knowledge, power, community and networks are some of the tools used to illustrate how an anthropologist working in this context can promote processes of concrete experimentation of the anthropological critique in the daily life of working places.

Keywords: Antropologia; accoglienza; asilo politico; migrazioni; etnografia.

Questo articolo prende le mosse da un’esperienza biennale di lavoro in alcuni Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) per richiedenti asilo in una città del Nord Italia. La base etnografica di queste riflessioni non è dunque legata ad un periodo di osservazione partecipante all’interno di tali centri svolta in qualità di ricercatrice e antropologa. Al contrario, le seguenti riflessioni muovono a partire da un’esperienza di lavoro per conto di una Cooperativa Sociale impiegata da anni nella gestione di alcuni centri SPRAR nel Nord Italia, che si è vista assegnare la gestione di vari centri CAS dall’avvio dell’operazione "Mare Nostrum" in poi. Venni assunta nell’estate 2014, con l’alto numero di sbarchi e la necessità di aprire nuove strutture di quell’estate. Venni assunta non poiché antropologa, ma grazie anche al mio percorso di studi e di dottorato che mi rendeva antropologa: questo emerse fin dal mio primo colloquio di lavoro.

Ho lavorato per circa due anni per conto della stessa Cooperativa Sociale, svolgendo differenti mansioni, incarichi e ruoli, in differenti CAS. Sono stata operatrice di prima accoglienza, operatrice legale, coordinatrice operativa e ho seguito alcune fasi di progettazione e analisi di dati.

Le riflessioni che seguono sono un primo tentativo di ragionamento, a posteriori, su tale esperienza. Per motivi legati alla natura del mio ruolo sul “campo”, non posso fornire ulteriori dettagli riguardo a luoghi e contesti, poiché, come già evocato, si tratta di uno sguardo retrospettivo, che cerca di rileggere etnograficamente alcune esperienze di lavoro – e di vita – che ho vissute in prima persona, seppur non da sola, e per raccontare le quali è necessario un minimo di tutela del contesto.

Accoglienza e antropologia: parole e prassi di un comune agire

Nelle parole di noti antropologi, l’agire dell’umanitario opera attraverso una dinamica di care, cure and control (Agier 2005) e si trova in costante dialettica tra “compassione e repressione” (Fassin 2005). Il sistema di accoglienza per richiedenti asilo e la procedura di richiesta di protezione internazionale è segnata da tanti e tali passaggi burocratici che viene agito un “disciplinamento” in ottica foucaultiana dell’altro, volto a trasformarlo in rifugiato (Sorgoni 2011a; 2011b).

Il mondo dell’accoglienza di richiedenti asilo viene descritto, da alcune persone che vi lavorano, come un sistema che opera attraverso la “relazione di aiuto”, in un’ottica “trasformativa della persona”. L’accoglienza sembrerebbe dunque un mondo in cui le principali parole chiave appaiono la relazione e la trasformazione della persona.

Quando poi parliamo di antropologia, facciamo riferimento ad una scienza del sapere, ad un metodo di ricerca e riflessione sulla realtà, che parte dall’etnografia come momento legato al concreto posizionamento del ricercatore rispetto al contesto che intende studiare. Dunque l’osservazione partecipante, legata inevitabilmente alla relazione col proprio “oggetto/soggetto di studio”. Infine, la riflessione e rielaborazione a posteriori, ai fini della documentazione e produzione di scritti che documentino un sapere critico, ma posizionato, sulla realtà.

Vi sono dunque almeno due aspetti che accomunano il mondo dell’accoglienza dei richiedenti asilo e quello dell’antropologia: in entrambi i contesti si parla di relazione e di persone. Se l’accoglienza come sistema vede gli operatori sociali agire attraverso la relazione con i richiedenti asilo, ai fini di “trasformare” questi ultimi; dall’altra parte l’antropologia come disciplina vede il ricercatore agire attraverso la relazione nel proprio campo etnografico, ai fini non di trasformare persone, bensì di produrre un sapere critico, ancorato alle esperienze delle persone così come del ricercatore stesso.

Tale promiscuità di modalità riflessive e operative può essere sintomo del rapporto stretto che esiste tra il mondo dell’accoglienza e quello dell’antropologia. Inoltre, c’è un tipo di antropologia che mette in campo anche un secondo anello in continuità con il mondo dell’accoglienza. L’antropologia, infatti, non è solamente una scienza del sapere il cui fine ultimo sia circoscrivibile nella produzione di testi scientifici e critici. Esiste anche un’antropologia impegnata ed orientata all’azione (engaged action-oriented anthropology): una backyard anthropology il cui lavoro implica «l’utilizzo di strumenti e saperi antropologici per problemi e bisogni nelle città e comunità che chiamiamo casa» (Johnston 2010: 238). Un’antropologia dunque, quella che promuove Barbara Rose Johnston, il cui approccio sia focalizzato sui problemi (problem focused approach) e orientato verso i servizi pubblici (public-service oriented anthropology). Un’antropologia il cui fine ultimo non sia solo la produzione di testi e scritti critici sulla realtà presa in esame, bensì una ricerca partecipata e focalizzata sui problemi, in cui l’antropologo si metta in gioco non solo lavorando «nelle comunità», bensì «con le comunità» (Johnston 2010: 235).

Il mondo dell’accoglienza dei richiedenti asilo, nelle sue variegate e differenti espressioni lungo la penisola italiana, può prestare un facile fianco ad un antropologo che abbia voglia di mettersi in gioco come parte di tale realtà, intrisa di problematiche concrete ed operative, le cui risoluzioni non sono facili né scontate. L’antropologia necessaria in tale contesto è però un’antropologia impegnata come poc’anzi descritta, accompagnata anche da un constante richiamo ad una prospettiva globale, capace di fornire la lente d’ingrandimento necessaria per cogliere i meccanismi all’interno dei quali ci si trova ad intervenire (come ricercatori, come antropologi, come lavoratori). Intendo un’antropologia del sistema globale, analitica degli apparati e delle strutture di potere, capace di mantenere uno sguardo che metta in luce il posizionamento, così come le relazioni strutturali, economiche e politiche che condizionano l’operare nell’accoglienza. Un’antropologia che sia così in grado di cogliere quali effetti vediamo nel locale di dinamiche sistemiche più ampie (Wolf 1990; Friedman, Friedman 2008). Accompagnare una pratica problem-focused ad un’analisi sistemica permette all’antropologo calato nel mondo dell’accoglienza di agire su più livelli: da una parte egli può facilitare l’accesso alle informazioni e la consapevolezza dei ruoli agiti dai vari attori presenti; dall’altra parte, può problematizzare l’operato stesso di tale lavoro. Tale approccio permette di costruire una visione complessa e multi-dimensionale necessaria quando si parla di accoglienza, e ancor di più quando all’interno di tale sistema si agisce.

Un’antropologia politica articolata attraverso il lavoro dell’accoglienza può – mettendo in luce le dinamiche sistemiche, strutturali e violente di tale sistema – agevolare l’azione dei soggetti ivi coinvolti che per primi potrebbero cercare di migliorare la propria condizione (richiedenti asilo e operatori). In quest’ottica ho cercato di operare nella quotidianità della mia esperienza – che mi ha portato a lavorare con incarichi e responsabilità differenti, e in luoghi differenti, all’interno del mondo dell’accoglienza e delle sue espressioni emergenziali sviluppatesi a partire dalla nota operazione Mare Nostrum. Il corrispettivo territoriale dell’operazione di salvataggio in mare che inquadra l’accoglienza, porta il nome di “Emergenza Sbarchi 2014 - 2015”. Tale denominazione ministeriale disciplina i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) aperti tramite affidamento prefettizio ai fini di “accogliere” le persone sbarcare nelle coste del Sud d’Italia e sopravvissute alla traversata del Mediterraneo. È in tale contesto che mi sono trovata, tra il 2014 e il 2016, a lavorare.

Darò ora alcuni esempi di situazioni in cui mi sono trovata, dove il sapere antropologico è entrato in contatto col mondo del lavoro nell’accoglienza e dove ho provato a portare un contributo che, tenendo conto di una prospettiva teorica, proponesse di volta in volta alcune strategie pratiche in risposta ad esigenze concrete.

Osservazione partecipante e partecipazione dell’osservazione

Il Manuale Operativo del Servizio Centrale fornisce le linee di riferimento per l’attivazione e la gestione dell’accoglienza per richiedenti asilo (SPRAR). Qui, l’obiettivo dell’accoglienza viene definito nella «(ri)conquista dell’autonomia individuale dei richiedenti» (Servizio Centrale 2015: 6). Nonostante tale mandato, studi antropologici hanno messo in luce come il mondo dell’accoglienza tenda, al contrario, a produrre dipendenza e promuovere vulnerabilità (Van Aken 2008).

All’interno di tale contesto, il sapere può assumere nuovamente quel ruolo primario nella relazione di potere che descrisse un tempo Michel Foucault (1976). Proprio perché sapere e potere sono inevitabilmente legati, fare circolare le informazioni agli attori in campo – siano essi richiedenti asilo o operatori – permette non solo di rendere reciproca la relazione, bensì, in termini più ampi, di rendere “partecipata l’osservazione”. La consapevolezza del proprio ruolo che l’antropologia permette di sviluppare, è indispensabile perché si sviluppi qualsiasi pensiero critico e autonomo, nonché è la base per un cambiamento delle pratiche quotidiane (Vianelli 2014).

Si possono fare vari esempi di come le informazioni, se fatte circolare all’interno di tali contesti, possano promuovere il benessere delle persone coinvolte nonché la loro capacità di sviluppare consapevolezza, contrastando in tal modo la condizione di dipendenza e vulnerabilità messa in luce dagli studi antropologici.

I Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), noti anche come “accoglienze prefettizie” – a differenza del sistema di accoglienza tradizionale, lo SPRAR – vengono aperti in condizioni emergenziali, spesso nell’arco di pochi giorni, e possono essere di varie tipologie: appartamenti, alberghi, strutture di piccole o medie dimensioni. Nella mia esperienza ho lavorato in vari CAS tutti definibili «centri collettivi di grandi dimensioni (oltre trenta persone)» (Servizio Centrale 2015: 30). Tali strutture erano organizzate riproponendo all’interno dei CAS la modalità di gestione dell’accoglienza già sperimentata dalla stessa Cooperativa nella gestione dei centri SPRAR, dunque, attraverso riunioni di équipe settimanali (Servizio Centrale 2015: 14-16). In tali riunioni tutti gli operatori si ritrovano con i coordinatori di struttura e insieme si condividono le problematiche del centro, dei richiedenti asilo e dei singoli operatori. Le riunioni di équipe sono momenti di confronto e discussione importanti, in cui frequentemente emerge la frustrazione degli operatori, causata dal complesso ruolo che si trovano ad agire nel lavoro quotidiano. In questo contesto, ho tentato di condividere un’analisi della frustrazione vissuta in termini strutturali e analitici (Fassin 2005), ponendo la questione dunque come sistemica e non individuale e propria al singolo operatore. Il tentativo di trasformare le riunioni di équipe in momenti di formazione continua, dove sia possibile citare un articolo di Didier Fassin, può ritrasmettere al sapere antropologico quella valenza critica e legata alla realtà sociale e ai suoi vari contesti, che spesso viene meno quando il frutto della ricerca si limita a scritti in riviste di settore. Permette al sapere antropologico prodotto da un singolo ricercatore di essere non solo appropriato dall’intera comunità scientifica, ma anche di essere diffuso in modo capillare nei territori e nei luoghi di lavoro in cui una sua restituzione potrà incontrare persone e menti che in tal modo parteciperà a formare (Biscaldi 2015).

Allo stesso modo, si può tentare di fare circolare le informazioni necessarie alle persone inserite nel contesto di accoglienza e che hanno fatto domanda di protezione internazionale. L’accompagnamento nell’espletazione delle procedure legali è responsabilità di chi lavora nell’accoglienza. Anche in questo contesto, il tentativo che ho sperimentato è stato quello di spiegare la complessità della procedura giuridica senza misteri, senza omissioni, con l’obiettivo di stimolare la presa in carico da parte del richiedente asilo di sé stesso. In tali situazioni alle volte può accadere che l’operatore legale si trovi ad utilizzare espressioni quali, ad esempio «faremo il possibile», magari rispondendo ad una domanda delicata che sottende timori del richiedente asilo relativi al proprio futuro. Tale frase è esplicativa di più aspetti. Parlando in tal modo, l’operatore legale in primo luogo svela la propria conflittualità interna, invischiata tra il desiderio di «fare il possibile» e le concrete possibilità del fare, costipate tra decreti ministeriali e legislazioni europee. Tale frase svela inoltre la propria difficoltà nello scindere il proprio ruolo operativo e di assistenza, da un ruolo ben distinto che è quello di chi stabilisce le possibilità, ruolo dunque della giurisprudenza e della politica. Nel «faremo il possibile» si evince un’identificazione dell’operatore legale con il sistema istituzionale, politico e statale che egli va a incorporare. Infine, tale frase produce l’effetto di mettere il richiedente asilo in una posizione di totale subordinazione e dipendenza rispetto all’operatore, sottolineando il disequilibrio insito nella “relazione di aiuto”, dove il richiedente è tenuto solo a ricevere, riproponendo quella forma di assoggettamento al potere del dono già rilevata nel testo classico di Mauss (1968) e in studi successivi (Harrell-Bond 2005; Lazzarino 2014). Al contrario, tentare di fornire al richiedente asilo gli strumenti necessari – le informazioni in primis – affinché egli comprenda in quale sistema si trova e la sua complessità, può essere un modo per impostare una relazione su diritti e leggi, piuttosto che su sofferenza e fragilità (Vacchiano 2005).

Si possono illustrare con minuzia le leggi, i passaggi obbligati e inoltre i ruoli agiti dall’insieme di attori in campo nel mondo dell’accoglienza (ente gestore, Prefettura, Questura, Comune, Commissione Territoriale, Unione Europea, etc.). In tal modo, si può rimettere al centro il ruolo di potere insito nel sapere e la sua capacità di fabbricare dipendenza o di promuovere autonomia. Allo stesso modo, sottolineare i limiti del lavoro dell’operatore dell’accoglienza, il quale sarebbe tenuto ad accompagnare il richiedente asilo nella specificità del proprio percorso personale, e non a sostituirsi a quest’ultimo nella valutazione delle possibilità concretamente disponibili. Al «faremo il possibile» è possibile sostituire una descrizione circa le “possibilità del fare”.

La condivisione delle informazioni a più livelli di attori in campo – sia tra responsabili e operatori, sia tra questi ultimi e i richiedenti asilo – è un modo per passare dall’osservazione partecipante, alla “partecipazione nell’osservazione”. Con questo termine, intendo la possibilità di stabilire relazioni il più possibile situate ma orizzontali, capaci di mettere in luce ai vari attori i limiti e le violenze promosse dal sistema e dai suoi vincoli strutturali (Pinelli 2011). La “partecipazione nell’osservazione” può avere due livelli di conseguenze: da una parte, permette di sollevare responsabilità e frustrazioni nella routine lavorativa dell’operatore, facilmente presenti laddove ci si assuma la responsabilità del funzionamento dell’intero sistema (insita nella stessa dicitura «faremo il possibile»); dall’altra parte può favorire un processo di concreta autonomia del richiedente asilo, allenando la capacità di compiere un’osservazione e comprensione multi-situata del complesso mondo dell’accoglienza (rimanere all’interno del quale dovrebbe essere una scelta consapevole).

Parafrasando Michel Foucault (1976), laddove “sapere è potere”, condividere le frammentate informazioni sul funzionamento non solo della procedura giuridica, ma anche dell’accoglienza, può permettere a richiedenti asilo e operatori di partecipare insieme all’osservazione del sistema nel quale agiscono sia pure con ruoli distinti, gettando in tal modo le basi per una relazione non più solamente basata sul disequilibrio e l’“aiuto”, bensì su condivisione e consapevolezza. Uno strumento dunque per provare a dare seguito concreto all’invito che si legge nel Manuale Operativo, dove si parla di “relazione di reciprocità”, invitando a non considerare i «beneficiari come destinatari di servizi» (Servizio Centrale 2015: 23).

Individualità vs. comunità: praticare alcune sensibilità antropologiche

Le procedure burocratiche che definiscono l’accesso all’asilo non rappresentano un monolite uniforme (Giudici 2014). Al tempo stesso, la vita quotidiana all’interno dei centri di accoglienza in Italia non è omogeneamente descrivibile. Come testimoniato da Pinelli e Ciabarri (2015), spesso all’interno dei centri l’abbandono si accompagna al controllo. In modo differente, la mia esperienza professionale è stata caratterizzata da un gruppo di lavoro competente che cercava di mettersi in gioco per svolgere il proprio ruolo in modo attivo.

La procedura di richiesta di protezione internazionale, così come la gestione quotidiana dei centri di accoglienza, sono caratterizzate da regolamenti che agiscono su ogni singola persona e la sua esperienza individuale tendendo, come dimostrato da studi antropologici, a “trasformarlo in rifugiato” (Sorgoni 2011a; 2011b). Questa tendenza all’individualizzazione delle procedure e della gestione della vita nei centri rischia di esasperare l’isolamento già vissuto da ogni migrante, persone per lo più costrette a migrare lasciando i propri affetti lontano. L’isolamento e la tendenza all’individualizzazione all’interno del sistema accoglienza ha anche l’ulteriore effetto di rendere più facile l’esplosione di conflitti interni che – da regolamento prefettizio – qualora si manifestino con espressioni di violenza, devono essere regolati con una “lettera di richiamo”. Il regolamento prefettizio che disciplina tali centri prevede infatti che alla terza lettera di richiamo il richiedente asilo venga espulso, perdendo così il diritto all’accoglienza, all’accompagnamento legale, nonché alla residenza fondamentale per potere continuare la procedura legale, che altrimenti decade.

Il più delle volte i richiedenti asilo si vedono costretti a vivere lunghi periodi (tra i 12 e i 24 mesi, o più) dentro centri di accoglienza dove dormono in stanze affollate, condividono i pochi servizi igienici così come i pochi spazi comuni, privi della possibilità sia di scegliere i propri “coinquilini”, sia della possibilità di chiudere la porta e stare in solitudine. Emerge così un’altra contraddizione insita nel modello di accoglienza in esame: se da una parte l’analisi delle domande di asilo e i percorsi di integrazione sono effettuati in modo totalmente individuale, dall’altra parte non viene riconosciuto nella quotidianità dei centri nessuno spazio affinché questa individualità possa esprimersi o anche semplicemente esistere. Annegata com’è, il più delle volte, tra persone che non sono più volti, bensì numeri (Harrell-Bond 2005).

All’interno di tale contesto, promuovere forme di vita comunitaria, tali da sviluppare e rafforzare relazioni affettive all’interno di ogni centro, diventa una pratica concreta, dove la sensibilità antropologica allo studio delle comunità trova una sua messa in pratica effettiva e utile contro i rischi dell’individualismo estremo. Questa tendenza al promuovere relazioni e una gestione collettiva all’interno dell’accoglienza può prendere forma in vari modi.

Il Manuale Operativo suggerisce di promuovere riunioni mensili nella gestione dei centri (Servizio Centrale 2015: 35). Essendo però scritto pensando al sistema SPRAR, non affronta la problematica delle numerose presenze dei centri CAS (che possono superare di molto le trenta persone). In tali centri, la gestione emergenziale della vita quotidiana può portare a prendere scelte dettate dall’urgenza del momento, senza valutare il portato sociale che queste si portano appresso (Vianelli 2014). Ad esempio, nel momento in cui si devono fare informative relative a processi decisionali nel centro, oppure riunioni con gli “ospiti” e i coordinatori, in relazione alle più svariate questioni (dall’organizzazione di feste per Natale o per il Ramadan, all’aggiornamento sulle ultime novità giuridiche, all’ascolto di rivendicazioni specifiche dei richiedenti asilo), ci si può trovare a dividere il gruppo di persone in base alla lingua veicolare parlata. Si organizzano così due o tre riunioni, dividendo in tal modo il gruppo in base a distinzioni linguistiche che – per di più – riproducono le divisioni di un passato coloniale. Questa scelta può sembrare efficace in termini di risparmio di tempo sul momento, eppure può avere effetti secondari che la rendono più insidiosa: esasperare differenze e divisioni può agevolare l’esplosione di conflitti, che dovranno poi essere gestiti aprendo ulteriori piani di gestione e contrattazione.

Nella pratica, ho provato a sperimentare la promozione di riunioni generali, dove tutti insieme ci si confrontasse, parlando contemporaneamente quattro lingue. Tali tentativi certamente richiedono molto tempo ed energia sul momento, poiché non è semplice gestire una riunione con 60 persone di tre continenti diversi. Eppure, l’effetto indiretto di tali momenti è stato quello di mettere tutti i richiedenti asilo abitanti nel centro sullo stesso piano, facilitando un processo di produzione di relazioni, di conoscenza, affetto e comunità, tale da disincentivare i conflitti interni e promuovere l’incontro e lo scambio reciproci.

Sulla stessa linea, il tentativo di non enfatizzare differenze tra richiedenti asilo che potrebbero sembrare incompatibili, ma che possono ridursi ad un concreto allenamento alla reciproca conoscenza e incontro. Un giorno, ad esempio, mi fu richiesto di dividere i bagni per nazionalità (o continente di provenienza), il che corrispondeva anche ad una differente maniera di utilizzare gli stessi servizi igienici. Seppure consapevole dell’importanza del benessere di ognuno per il benessere di tutti, trovai questa proposta nociva allo stesso benessere del gruppo di richiedenti asilo abitanti il centro. Nociva per tanti motivi: perché occorre conoscersi, incontrarsi, accettarsi. Perché se non si comincia ad accettarsi e rispettarsi con le proprie esigenze all’interno del centro, come si farà ad accettare e farsi accettare all’esterno?

In pratica ho tentato di facilitare forme comunitarie e collettive di gestione della vita nei centri e di risoluzione dei vari problemi, permettendo di riportare al centro l’importanza di sviluppare relazioni di affetto con le persone con cui il richiedente asilo è costretto a condividere la quotidianità e la lunga attesa. Infatti, all’interno dei centri non esiste solo la relazione di aiuto (disequilibrata) tra operatori e richiedenti asilo: esiste anche la relazione di potenziale amicizia, o di complicità, o di sostegno, tra i vari richiedenti asilo fra di loro (dunque potenzialmente orizzontale). Se la procedura giuridica tende a promuovere isolamento individualizzando ogni caso, facilitare nel quotidiano lo sviluppo di relazioni di affetto e di solidarietà tra tutti i richiedenti asilo di un centro permette di uscire da una visione individualizzante, promuovendo la consapevolezza di essere un gruppo. Permettendo altresì a ciascuno di rafforzare il proprio posizionamento individuale, il proprio capitale sociale. Al tempo stesso si riduce il rischio di conflitti interni, di lettere di richiamo, di espulsioni.

Così come, per quel che riguarda gli operatori, è nelle riunioni di équipe e nelle supervisioni che il gruppo di lavoro prende forma nella sua capacità di sostenere ogni singolo operatore, e al tempo stesso nella sua capacità di svilupparsi come esistenza a sé stante, quella del «gruppo di lavoro» (Servizio Centrale 2015: 9); allo stesso modo promuovere la formazione di relazioni e la gestione collettiva e comunitaria all’interno di un centro permette a tutto il gruppo di prendere forma ed esistere, guadagnando in tal modo accesso ad un’esistenza ulteriore. Non solamente dunque i singoli migranti richiedenti asilo, ma la comunità abitante un determinato centro, che in virtù di tale posizionamento ha accesso e diritto a determinati diritti: collettivi. Il gruppo di richiedenti asilo che abitano un centro può diventare un attore di primaria importanza laddove tale gruppo può fare la differenza sui singoli percorsi, sostenendosi a vicenda.

Isolamento vs. reti: studiare network e promuovere incontro

I centri di accoglienza per richiedenti asilo sono per lo più ubicati in zone sub-urbane e periferiche, localizzate ai margini delle città. L’isolamento cui sono confinati i centri di accoglienza rispetto alle realtà cittadine, quando caratterizzato anche dalla privazione della libertà di movimento dei migranti, è stato descritto come un processo di encampment (Verdirame, Harrell-Bond 2005). In generale, è stato sottolineato il ruolo del campo come «processo politico intenzionale di segregazione» (Pinelli 2014: 72) e il suo rapporto con le pratiche di controllo e circolazione dei migranti (Makaremi, Kobelinsky 2008). L’isolamento di tali centriè uno specchio capace di riflettere la pluralità di muri e confini presenti sul nostro territorio (Mezzadra, Neilson 2013), nonché sintomo delle difficoltà che dovranno affrontare i migranti per raggiungere la polis, nel senso etimologico e storico di raggiungere un’esistenza sociale e politica condivisa. Quando si vive o si lavora nell’accoglienza e si varca la soglia di un centro di accoglienza ogni giorno: tale isolamento diventa esperienza quotidiana, entrare in contatto con le persone e le realtà sociali presenti sul territorio si trasforma in un obiettivo per raggiungere il quale non sempre si hanno a disposizione gli strumenti necessari.

L’antropologia, in particolare quella parte della disciplina che si è dedicata allo studio dei processi migratori, ha messo in luce l’importanza di studiare i network sviluppati dalle singole persone migranti per cogliere la multidimensionalità del fenomeno. Le relazioni possono così illustrare la presenza dei migranti e dei richiedenti asilo come persone che, in quanto abitanti di un territorio, ne possono provocare anche un cambiamento (Glick-Schiller, Caglar 2011).

In tale contesto, all’interno del mondo dell’accoglienza la promozione e lo sviluppo di reti e network attorno i singoli centri non è qualcosa di semplice da mettere in pratica, ma è un’importante sfida che si può cogliere. Nella mia esperienza, ho cercato di favorire la promozione di percorsi condivisi di costruzione di un immaginario collettivo in cui i richiedenti asilo fossero protagonisti del territorio che attraversavano. Come rendere possibile che un richiedente asilo si proietti nel territorio che si trova ad abitare ed arrivi a pensare di potere lasciare un segno in questo spazio (data la precarietà della condizione, l’incertezza sull’esito della domanda di asilo e della procedura)? L’antropologia insegna che la teoria è già nel metodo. Studiare i network può significare promuovere incontro e conoscenza come precursori di solidarietà, anziché enfatizzare i muri, i confini e l’isolamento come embrioni di paura e xenofobia.

Una serie di eventi possono essere portati ad illustrazione di tale tendenza progettuale.

Uno tra gli altri è il progetto di una rivista che ha permesso di raccogliere l’insieme di voci e sguardi che attraversavano un centro di accoglienza. Una delle principali caratteristiche capace di promuovere la nascita di sentimenti xenofobi e di razzismo è, infatti, la mancanza di informazioni ed esperienze di incontro e condivisione con persone considerate “diverse”. Contemporaneamente, la gestione emergenziale e prefettizia di questo sistema di accoglienza, con le sue varie diramazioni con bandi di affidamento al privato sociale, rende difficile la comunicazione e la contaminazione all’esterno di tutto quanto accade dentro i centri. I suoi limiti, ma anche le sue ricchezze.

Un giorno proposi di iniziare a progettare una rivista, cartacea, che racchiudesse insieme (proprio perché la teoria è già nel metodo) contributi sia dei richiedenti asilo del centro, sia degli operatori che ivi lavoravano, sia di quelle persone e realtà collettive che, attraverso una serie di eventi (culturali, sportivi, festivi) erano venute in contatto con la vita del centro. Una rivista che mettesse insieme articoli e brevi racconti a tutto tondo sul mondo del centro di accoglienza, permettendo, allo stesso tempo, di informare fuori di quanto si faceva all’interno del centro, ma senza scrivere per conto di nessuno. Neppure scrivere insieme, al contrario, “lasciare scrivere” sia ai richiedenti asilo che agli operatori i loro racconti, le loro storie, le loro idee ed opinioni. La stessa cosa per volontari e solidali che avevano a vario titolo varcato la soglia del centro. Si è così prodotta una rivista esteticamente bella, intellettualmente semplice ma stimolante, ricca di materiale etnograficamente denso. Uno degli obiettivi è stato quello di cercare di non riprodurre l’isolamento del parlare solo dell’interno, né di enfatizzare la logica del vittimismo o della caricatura del richiedente asilo come mero corpo o mera vittima. Piuttosto, si è cercato di mettere sullo stesso piano la voce dei richiedenti asilo e quella di altri, creando reti e condivisione già nella praticità del fare insieme. E, allo stesso tempo, creando uno strumento utile in tempi di crisi e xenofobia diffusa, per promuovere differenti narrazioni, incontro e conoscenza.

In tal modo, basandosi su reti esistenti e mettendole in valore, si è cercato di fare conoscere un centro ubicato in un ghetto, dargli uno strumento per uscire dal margine, per raggiungere la città. Provare ad essere parte della polis.

Per un’etnografia sperimentale: il sapere antropologico nell’accoglienza

I vari esempi che ho portato alla luce in queste pagine illustrano alcune potenzialità dell’utilizzo concreto del sapere antropologico calato nel mondo dell’accoglienza di richiedenti asilo. In sostanza, si è trattato del tentativo di traslare nel mondo reale e concreto alcune tematiche care alla ricerca antropologica: dall’osservazione partecipante, alla partecipazione dell’osservazione; dallo studio di comunità, alla promozione di forme di gestione comunitaria e condivisa; dallo studio di network, all’attivazione di reti sul territorio.

Ritengo si possa chiamare “etnografia sperimentale” quel processo creativo e propositivo attraverso il quale l’antropologo promuove sensibilità, contenuti e progettualità legate allo sguardo del sapere antropologico, nella concretezza dell’esperienza quotidiana dei centri di accoglienza. Se l’etnografia è “un esperimento di esperienza” (Piasere 2002), la differenza tra una “pura” etnografia e quella esperita dall’antropologo all’interno del mondo dell’accoglienza, è la sua variabile sperimentale, concreta e risolutiva di problemi, che viene esercitata nel momento in cui all’esperienza si affianca una progettualità potenzialmente trasformativa.

È “etnografia”, perché è legata all’esperienza, all’osservazione partecipante, alla presenza dell’antropologo e della sua sensibilità acquisita principalmente sui libri, ma a fronte delle letture di varie altre esperienze etnografiche. Ed è “sperimentale” poiché cerca di agire all’interno di tale sistema, partendo dai suoi tanti limiti e violenze, promuovendo la consapevolezza di tutti gli attori in campo, la diffusione del sapere, la partecipazione all’osservazione, la progettazione di condivisione. Si tratta di un agire che non intende sostituirsi al sistema, né modificarne la struttura: è “sperimentale”, poiché si tratta di un apporto concreto che non sa prevedere, a priori, cosa accadrà a seguito della sua azione. Tale forma di sperimentazione etnografica decide di stare all’interno delle contraddizioni del lavoro dell’accoglienza così come del mondo sociale in senso ampio. Non rende l’antropologo “difensore dei diritti altrui”, al contrario cerca di muoversi affinché si aprano più spazi di presa di coscienza – e dunque di agency – anche all’interno di tali strutture, esasperandone le contraddizioni. È una sperimentazione in cui l’antropologo sceglie di fare parte del contesto in cui non solo osserva ma agisce: come diceva Barbara Rose Johnston (2010: 235), un’antropologia «con le comunità» e non solo «nelle comunità».

Bibliografia

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