L’accoglienza emergenziale

Pratiche di resistenza dei richiedenti asilo e il ruolo dell’antropologo

Cecilia Guida

Coordinatrice del progetto di prima accoglienza richiedenti protezione internazionale presso la Cooperativa Vivere Verde

Indice

Introduzione: il centro di Nicara in risposta “all’emergenza”
La maschera dell’emergenza e l’esercizio del potere
Da vittima passiva a soggetto attivo
Dall’emergenza alla consapevolezza: il ruolo dell’antropologo
Bibliografia

Abstract. This paper stems from a fieldwork I carried on for a period of ten months in a CAS (Centre for extraordinary hospitality) for asylum seekers where I played a double role, both as reception operator and as researcher. Through some ethnographic descriptions my purpose is twofold: on one hand I mean to analyze how the emergency paradigm leads to control and compassion politics, both aimed at a securitarian management of asylum seekers; on the other my work highlights how the awareness achievement process of asylum seekers' rights turned them into active players, thus deconstructing the image of passive victims. Finally, by examining my position in the Nicara Center, I would like to suggest some considerations upon the role of the anthropologist, who is to be considered not only in the field of ethnographic analysis, but also as an active player in everyday emergencies thanks to his reflective and critical qualities on anthropological knowledge, which are essential in order to promote a different kind of reception by acting as direct witness and no longer as simple observer. Based on this premises, my main objective is that of analyzing how the anthropological knowledge can be intended not only towards observation aimed at understanding security and power balances, but also towards a change in the context by promoting a kind of anthropology ready to implement social interventions which deconstruct emergency logics and, at the same time, capable of preserving its theoretical depth and self-reflective dimension.

Keywords:  asylum seekers; emergency; power dynamics; forms of resistance; anthropologist as witness.

Introduzione: il centro di Nicara in risposta “all’emergenza”

Questo articolo nasce dall’osservazione partecipante che ho condotto presso la struttura del centro di accoglienza per richiedenti asilo di Nicara[1], piccola località marchigiana. La ricerca, confluita poi nell’elaborato della mia tesi di laurea magistrale, si è protratta per circa dieci mesi, durante i quali ho svolto un doppio ruolo, quello di osservatrice e quello di operatrice/volontaria.

L’accoglienza dei richiedenti asilo presso queste due strutture è nata in riposta ad una situazione di emergenza, come si evince chiaramente dall’intervista che ho condotto con il Presidente dell’Associazione “Dalla parte degli ultimi”[2]:

I due centri di accoglienza sono nati da una disponibilità che abbiamo dato come Associazione alla Prefettura che, stante la mancanza di posti in altre Associazioni, ci aveva chiesto la disponibilità ad accogliere i nuovi arrivati; ci è stata fatta questa Convenzione per chiamata diretta, quindi l’esperienza è nata come risposta ad una situazione di urgente necessità[3].

È chiara la logica dell’emergenza che ha caratterizzato, non solo l’apertura dei due centri, ma anche la loro gestione, con conseguenze concrete e pratiche sui rapporti quotidiani tra richiedenti asilo e operatori. La logica emergenziale ha infatti costretto ad un’organizzazione frettolosa ed approssimativa con il reclutamento di operatori con scarsa esperienza e competenza in quel campo, sia dal punto di vista giuridico che linguistico, il che ha creato non poche difficoltà nei rapporti.

Sia il Presidente che gli operatori del centro non si erano infatti mai occupati di questo tipo di accoglienza. Inizialmente, per tamponare la mancanza di figure professionali l’associazione ha messo in gioco la retorica della carità e dell’aiuto disinteressato verso i più bisognosi coinvolgendo personale volontario. Il linguaggio che l’antropologo Apthorpe (2005) definisce “donativo”, è stato utilizzato con estrema facilità grazie alla matrice cattolica dell’associazione e al ruolo del Presidente, sacerdote della diocesi di Nicara, responsabile di un’altra ONG internazionale, sempre di matrice cattolica e attivo in altri ruoli importanti a livello ecclesiastico che ne garantivano la credibilità e l’autorevolezza. L’Associazione nasce infatti con l’obiettivo di accogliere chi non ha nessuno e si rivolge dunque a qualsiasi tipo di categoria sociale, promuovendo un’accoglienza di tipo assistenzialistico e paternalistico.

Il linguaggio “donativo”, tipico delle politiche dello sviluppo, verte sempre su persone che danno e fanno cose ad altre persone, paesi e culture; le enunciazioni dei problemi sono in gran parte determinate dalla supposta natura delle soluzioni: in questo modo le anticipazioni delle soluzioni precedono le enunciazioni dei problemi. L’utilizzo del linguaggio donativo, per procedere più velocemente verso le soluzioni, non indugia sulla diagnosi dettagliata dei problemi, semplicemente dichiara che c’è una “crisi” attuale alla quale va posto riparo: “crisi migranti”, “crisi profughi”. Questa modalità di approccio al problema, da un lato assume il compito chiave di investire il discorso su alti ideali, in modo da essere persuasivo attraverso la sua capacità di stimolare ispirazioni, elaborare morali ed essere teologico; “Dalla parte degli ultimi” stimolava infatti ispirazioni attraverso il valore della carità cristiana: “educare ed educarci alla carità” era lo slogan che veniva utilizzato per invitare la cittadinanza a prestare servizio presso l’Associazione o per donare generi alimentari, vestiario o medicinali. Dall’altro lato assume anche un proposito operativo che è quello di procedere con rapidità ed efficienza nel lavoro poiché lo stile donativo ha l’intenzione di essere pratico, non solo teorico o filosofico.

Nel concreto tale linguaggio è stato espresso in due modalità o fasi: dapprima tutti i sacerdoti della diocesi pubblicarono sui vari social network e giornali locali, un appello urgente per 26 richiedenti asilo; si chiedevano vestiti, medicine, generi alimentari e soprattutto volontari disponibili a dedicare qualche ora della loro giornata presso le strutture. Successivamente i richiedenti asilo vennero invitati in vari luoghi pubblici per rendere la propria testimonianza. Il presidente sceglieva due richiedenti asilo e facendo leva sul loro senso di gratitudine per essere stati generosamente accolti e quindi attraverso la logica della “restituzione”, di fatto imponeva loro di raccontare la propria personale esperienza migratoria (Mauss 2002; Healey 2014). Lo stesso racconto veniva previamente pilotato con la richiesta di mettere in risalto i dettagli più cruenti della guerra o delle sofferenze durante il viaggio per far comprendere bene cosa significasse fuggire dal proprio Paese. Lo scopo era quello di indurre lo “spettatore” a farsi carico di tali sofferenze attraverso un atteggiamento caritatevole che a tali sofferenze avrebbe potuto porre fine (Boltanski 2000). In tali occasioni, prima di dare la parola ai migranti, veniva naturalmente spiegato cosa fosse l’Associazione e di cosa si occupasse e quale fosse l’aiuto concreto che ciascuno degli spettatori avrebbe potuto dare. Si presentava l’accoglienza come un servizio caritatevole verso i bisognosi da parte della diocesi, in risposta all’appello del Papa che, proprio in quei giorni, aveva invitato la comunità cattolica ad ospitare i profughi in ogni diocesi, ma, si ometteva di precisare che in realtà l’Associazione aveva stipulato una convenzione con la Prefettura in base alla quale era tenuta a garantire precisi diritti ai richiedenti asilo per i quali peraltro riceveva il contributo di legge.

L’utilizzo del linguaggio “donativo” ottenne però un enorme successo, vi fu infatti una grande risposta da parte della cittadinanza, sia nel donare i beni materiali, sia nel voler prestare servizio verso le strutture ospitanti i richiedenti asilo (Apthorpe 2005). Il Presidente decise così di organizzare una riunione per creare un’équipe che potesse svolgere i diversi ruoli all’interno delle strutture. La mia attività di volontariato e di ricerca è iniziata così; ho partecipato alla riunione, perché interessata a questa esperienza, per me totalmente nuova e ho iniziato a prestare servizio presso la struttura quotidianamente, anche nel fine settimana.

Il centro ospitava sedici richiedenti asilo, tutti uomini, provenienti dall’Africa occidentale[4], di età compresa tra i venti e i trent’anni. Sono tutti arrivati tra il mese di settembre e di ottobre e, fatta eccezione per alcuni che hanno lasciato la struttura, il resto del gruppo è rimasto sempre lo stesso per tutto il periodo della mia ricerca. Nonostante la diversa provenienza, tutti erano in grado di parlare sia inglese che francese e ciò ha permesso sin da subito una buona comunicazione tra tutti loro e la formazione di un gruppo coeso funzionale alle resistenze messe in atto.

L’équipe era composta dalla vice-Presidente, una donna di cinquant’anni che si occupava da molti anni di accoglienza per altre categorie sociali: aveva il compito di controllare se tutto ciò che veniva detto dal Presidente venisse messo in atto. Nella struttura era presente un responsabile di quarant’anni ed un altro operatore di trent’anni che prestava servizio ventiquattro ore su ventiquattro, e altri due operatori ventenni che si alternavano nei turni di mattina e pomeriggio.

Essendo l’unica nell’équipe ad avere conoscenze linguistiche e, quindi, a poter comunicare con i richiedenti asilo, mi sono ritrovata in poco tempo a dover gestire le giornate nel centro e le visite mediche dei richiedenti asilo. Inoltre, essendo assente la figura di un operatore legale, mi sono improvvisata anche in questo ruolo, aiutando i richiedenti asilo nella ricostruzione delle loro storie e spiegando loro l’iter legale che dovevano seguire per ottenere il riconoscimento di protezione internazionale.

Il caso del centro di Nicara è molto interessante perché rispecchia, in tutti i suoi aspetti, la logica emergenziale che ha ispirato fino ad oggi ogni tipo d’intervento, anche legislativo, in materia di accoglienza. L’apparato dell’emergenza si costituisce all’interno di un campo politico che si legittima attraverso la semiotica dell’immagine, la retorica della compassione e della necessità dell’azione. La dichiarazione dell’emergenza costringe ad una forma di esclusione, la quale si materializza attraverso misure sempre più repressive nei campi dei rifugiati e degli immigrati (Malighetti 2007).

L’accoglienza diviene dunque una zona grigia, identificata nell’aggettivo “umanitario”, che autorizza e giustifica il mancato rispetto di alcuni diritti e il tamponamento della situazione con operatori improvvisati che non hanno alcuna conoscenza in materia. Tale logica finisce per creare un sistema eterogeneo, frammentario e fragile che, da un punto di vista antropologico si risolve in una politica di segregazione e di controllo e non di accoglienza e accompagnamento del migrante irregolare verso lo status di riconoscimento, come viene invece rappresentato dalle istituzioni e dalla politica (Kobelinksy 2010; Pinelli 2015). La logica dell’emergenza produce dunque conseguenze pratiche e concrete nei rapporti tra richiedenti asilo ed operatori e nella gestione dell’accoglienza; il centro risulta essere un dispositivo di potere, funzionale allo stato nazionale al fine di controllare, amministrare e assistere agevolmente i soggetti non appartenenti al suo territorio, separando i cittadini dai non cittadini (Ravenda 2011; Pinelli 2015; Turner 2015).

Il centro di Nicara rappresentava in realtà uno “spazio di eccezione” nel quale le normali regole che disciplinano l’azione dello Stato non erano applicate e dove i residenti erano condannati ad una vita di esclusione sociale e di rapporti asimmetrici, in contrasto con il diritto internazionale che dichiara di voler garantire la loro protezione e il loro sostentamento (Agamben 2014). Il centro rappresentava una zona franca e di emergenza, dove tutto era possibile per chi ne detiene il controllo (Agier, Bouchet-Saulnier 2003).

Esso rappresentava, in tutti i suoi aspetti, uno spazio di segregazione finalizzato a contenere e controllare l’emergenza migrazione (Pinelli 2015). Tanto più pregnante proprio perché ambigua: infatti una segregazione vera e propria, in termini concreti, non vi era, almeno durante il giorno: il richiedente asilo poteva andarsene e non fare più rientro, ma doveva farlo di nascosto, poiché le regole imponevano che ogni uscita dovesse essere giustificata ed autorizzata dal Presidente. Di notte invece la porta del centro veniva chiusa a chiave e l’operatore nascondeva la chiave in un cassetto, anche questo a sua volta chiuso a chiave.

Nonostante dunque l’esclusione spaziale e sociale dei richiedenti asilo, favorita dalla circostanza che le strutture si trovavano entrambe lontane dal centro cittadino e non collegate da mezzi pubblici, i richiedenti asilo del centro di Nicara sono sempre stati alla ricerca di “margini di azione”, inizialmente in quella miriade di pratiche, immaginazioni, negoziazioni e poi nella contestazione aperta e dichiarata presso il Commissariato della città di Nicara (Giudici 2013).

Delineato il quadro generale all’interno del quale si pone l’origine e la struttura del centro, va ora analizzato come il paradigma dell’emergenza conduca a politiche di controllo e di compassione ed all’esercizio di forme di potere, seppur non eclatanti, che vengono mascherate sotto la logica dell’emergenza (Fassin 2005). In seguito, attraverso l’analisi delle forme del verbale segreto dei richiedenti asilo confluito poi in una protesta aperta e dichiarata, potrà approfondirsi come il mio doppio ruolo, di operatrice e osservatrice, abbia permesso il nascere di un’osservazione, non solo come spettatrice, ma anche come testimone (Scheper-Hughes 1995; Reed-Danahay 2016). Potrò quindi offrire uno spunto di riflessione che si inserisca nel dibattito attuale su come il ruolo dell’antropologo in questi contesti possa, non solo essere funzionale alla raccolta dei dati per l’etnografia, ma come possa anche agire concretamente nella quotidianità emergenziale, mettendo in campo le qualità riflessive e critiche del sapere antropologico volte ad un cambiamento di rotta e di promozione di un diverso tipo di accoglienza.

La maschera dell’emergenza e l’esercizio del potere

L’emergenza determina una situazione paradossale, extra ordinem, una forma di esclusione che si concretizza nelle legislazioni, sempre più repressive delle politiche migratorie e nei campi dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Questi luoghi sono popolati da esseri umani trasformati in entità astratte, pronte a essere censite, contate e quantificate, catalogate, etnicizzate e, in ogni caso, identificate da poteri alieni.

Il richiedente asilo rappresenta la vittima esemplare, perché astratta e malleabile, e viene concepita attraverso un modello funzionalista: la perdita del luogo viene fatta coincidere con la perdita di cultura, di risorse proprie, di proprie istituzioni e reti di assistenza, e, questa assenza presupposta è alla base dell’asimmetria e della passività forzata di molte relazioni di aiuto (Van Aken 2005: 8).

Mentre la legge classica pensa in termini di individui e di società, cittadini e Stato, l’apparato umanitario, che diversi autori definiscono foucaultianamente come biopotere, ragiona in termini di corpi indistinti e de-localizzati, da nutrire, sfamare, vestire, curare, secondo le strategie e le categorie diagnostiche dell’amministrazione umanitaria esportabile in tutti i contesti (Malkki 1996; Agamben 2005; Malighetti 2005).

Da un punto di vista giuridico, l’urgenza è una categoria astratta, riconosciuta dal diritto, definita come deroga temporale in un contesto preciso, determinato e a termine, ma l’urgenza sospende le norme in atto e inverte la categoria di ordinario. Il punto è che, nel campo dei richiedenti asilo, tale deroga temporale non costituisce più una situazione straordinaria, ma tende a diventare la modalità temporale consuetudinaria e perennizzata del contratto sociale dell’umanitario.

Ecco dunque che l’emergenza migranti è diventata così un perenne “stato di eccezione”, legittimando in tal modo il fatto che la sofferenza umana diventi sofferenza dei corpi, attraverso forme di biopotere (Agamben 2014). I richiedenti asilo vengono rappresentati come massa omogenea e destoricizzata, vittime senza voce, e la condizione di vittima pretende una risposta unanime, come nel caso dei richiedenti asilo: modelli di assistenza asimmetrici; senonché una risposta unanime è sempre falsa, poiché non permette di vedere quali sono le vere linee di frattura, ingiustizia e ineguaglianza da cui è segmentato il terreno dei rapporti di forza; la mitologia “vittimaria” è un subalternità che perpetua il dominio (Malkki 1996; Giglioli 2014).

Tale assenza di consapevolezza del fenomeno migratorio, lo fa associare ad un’idea astratta, un fenomeno moderno, un movimento di massa senza precedenti nella storia per la sua entità e, dunque, un'emergenza. Tale miopia di approccio non tiene conto di tutta la complessità, la multidimensionalità e la storicità di un fenomeno, come quello delle migrazioni, che non ha certamente inizio nel ventesimo secolo, ma che esiste da sempre nella storia dei popoli del mondo. Ciò aumenta il rischio di assoggettamento e di gestione securitaria dell’accoglienza, lasciando non affrontate le conseguenze problematiche delle politiche mosse da pratiche emergenziali. Attraverso questa logica nascono i Centri di Accoglienza Straordinaria, che diventano l’ordinario, strutture che Rahola (2003) definisce “zone definitivamente temporanee”, dove il richiedente asilo è all’interno dello Stato, ma allo stesso tempo è fuori, perché confinato ai margini della società, isolati ed emarginati, in uno spazio circoscritto: «Siamo chiusi qui, non sappiamo niente, non conosco nessuno, non capisco niente di come vivete voi, non so niente»[5].

I centri di accoglienza diventano zone di frontiera interna, dove le politiche emergenziali trovano concretezza e incidono sia sull’operato degli attori dell’accoglienza, sia sulle vite dei richiedenti asilo (Rahola 2005; Pinelli 2015).

Le strutture dei centri di accoglienza fanno della provvisorietà un sistema, e la pratica di confinamento all’interno dei centri diventa una forma di “governamentalità” basata sulla riduzione delle possibilità di azione dei richiedenti asilo. Tale sistema riflette la logica della difesa da un possibile “nemico” e del controllo che lo Stato deve fare nei confronti dei cittadini stranieri, di chi non appartiene alla comunità.

Il richiedente asilo si trova dunque a dover affrontare due frontiere: quella esterna, il confine territoriale di uno Stato - nazione e quella interna, il centro di accoglienza; nella frontiera interna i richiedenti asilo si incontrano in uno spazio di transito, in attesa di una definizione giuridica che possa permettergli di divenire cittadini con possibilità di azione (Kobelinsky 2005; Rahola 2005).

Sottolineo il fatto che ho scelto di utilizzare il termine frontiera e non confine, poiché come evidenzia Franco La Cecla (2009), il confine va ad indicare un limite interno o esterno da non valicare, mentre la frontiera richiama l’idea che c’è un luogo, dove si fanno fronte due diversità; da un lato vi sono gli operatori dell’accoglienza, che spesso incarnano il ruolo dello Stato e, dall’altro il richiedente asilo. Diventa quindi sì una separazione, ma anche il luogo dove avviene un confronto o scontro. La frontiera diventa un processo socio-spaziale articolato e dinamico, che non può essere ridotto a mere linee di demarcazione della sovranità territoriale; è un prodotto dell’uomo che contribuisce alla produzione delle identità individuali e collettive, partecipando alla costituzione della differenza nello spazio sociale. Ciò emergerà chiaramente nel centro di Nicara, frontiera interna, ma che diventa spazio-sociale articolato e dinamico, dove è presente il potere, il controllo e il confinamento, ma anche la resistenza e la protesta (La Cecla 2009; Brambilla 2014).

Ritengo sia fondamentale l’analisi delle dinamiche di potere all’interno dei centri di accoglienza, «perché è lì che il potere diventa capillare, è lì che si impianta e produce i sui effetti reali, piuttosto che sulle forme regolate e legittime. Il potere deve essere visto come prassi, all’interno di quei processi continui e ininterrotti che assoggettano i corpi, dirigono i gesti, reggono i comportamenti» (Foucault 1976: 31-32; Boni 2011: 24-25). Con questo non si vuole negare il fatto che la sovranità istituzionale eserciti il potere, ma piuttosto lo studio delle dinamiche quotidiane dell’esercizio del potere devono essere implementate ad esso poiché, sebbene tale prospettiva non sia totalmente scissa dal potere istituzionale, non è riducibile a questo.

Il centro di Nicara ha agito intrecciando politiche di compassione e politiche di repressione, utilizzando certamente dinamiche differenti, ma che inevitabilmente hanno come conseguenza la riduzione dei migranti a massa anonima e destoricizzata, da curare e da sorvegliare contemporaneamente. La categorizzazione di vittima trasforma i soggetti in vittime de-personificate, sostituendo il diritto con la generosità, che doveva essere dunque restituita in dinamiche asimmetriche (Agier, Bouchet-Saulnier 2003). A Nicara spesso le risposte che gli operatori davano alle richieste dei richiedenti asilo di essere visitati erano «nulla ti è dovuto… Quindi aspetta e ringrazia che qui abbiamo improvvisato tutto» — oppure — «senti, qui è stato tutto improvvisato... quindi stai calmo, che è già tanto che hai un tetto sulla testa».

Tutto ciò andava a creare delle asimmetrie di potere, legittimate proprio dall’urgenza dell’intervento; i richiedenti asilo erano concepiti come “vittime”, il che comportava e legittimava la loro passività, dipendenza ed “infantilizzazione” e rappresentavano quindi una “emergenza” da controllare e sorvegliare (Van Aken 2005; Kobelinsky 2010). L’improvvisazione, l’urgenza dell’intervento, giustificavano l’attesa e pretendevano una forma di ringraziamento da parte dei richiedenti asilo: «aspetta e ringrazia».

Tale rapporto facilita il controllo, poiché chi veniva accolto, si sentiva “obbligato”, quello che Mauss (2002) chiama obbligo libero, a restituire in qualche modo il dono. Attraverso l’instaurazione di un rapporto di gratitudine e di dipendenza si inducevano i richiedenti asilo ad assumere determinati comportamenti imposti dal Presidente e, conseguentemente, dagli attori dell’accoglienza.

Come esprime chiaramente un richiedente asilo: «Io lo faccio perché è così, Cecilia… Cioè loro mi hanno dato casa, mangiare, letto, devo fare tutto, quindi anche se non ho voglia, lo devo fare per forza […] per vivere qua tu devi fare, tu devi aiutare»[6].

Vi era quindi la percezione che quei “doveri” fossero da adempiere come condizione per restare in quella struttura, in una logica quindi di “corrispettivo” al dono. L’elemento che caratterizzava il centro di Nicara era che tale relazione di gratitudine veniva esercitata anche sugli operatori, i quali, fatta eccezione per i due operatori ventenni, avevano a loro volta delle relazioni asimmetriche con il Presidente, il quale li aveva accolti precedentemente nell’Associazione per problemi personali; a loro quindi nella stessa logica di restituzione era stata imposto di svolgere la stessa attività. Essi eseguivano ciò che veniva detto loro di fare, del tutto acriticamente e senza nessuna obiezione: «Lo ha detto il Don, non c’è tanto da spiegare; è un grande uomo, ha fatto di tutto per me, quello che mi dice si fa. Punto»[7]. Vi era dunque una sorveglianza gerarchica: il Presidente ordinava ciò che doveva essere fatto e il suo controllo veniva esercitato su ogni attività della struttura: egli decideva se i ragazzi potevano uscire, cosa dovevano mangiare o se si poteva somministrare una medicina; in questo caso l’operatore doveva comunicare al Presidente attraverso lo strumento di telecomunicazione quali fossero i sintomi del richiedente che chiedeva la medicina, molto spesso si trattava di paracetamolo, e bisognava attendere la sua autorizzazione prima di poterla somministrare, la risposta poteva anche arrivare dopo alcune ore:

12.30 — Operatore: «Babatunde dice che ha mal di testa, non ha la febbre, posso dargli una tachipirina?».

18.30 — Presidente: «Sì, ma da 500»[8].

L’utilizzo dunque del potere tramite la relazione di gratitudine avveniva dall’alto e ricadeva in ultimo sui richiedenti asilo; nessuno si trovava in una posizione simmetrica fatta eccezione per me, in quanto ero l’unica esterna all’Associazione, non avevo mai avuto nessun tipo di rapporto con il Presidente che avevo conosciuto in occasione dell’apertura del centro. Questa mia particolare e privilegiata posizione di soggetto libero da ogni obbligo di riconoscenza nei confronti degli attori dell’accoglienza, insieme all’utilizzo del sapere antropologico, mi ha consentito, oltre ad un ampio margine di manovra anche l’osservazione e la riflessione distaccata dalle dinamiche di potere che si instauravano quotidianamente. Nonostante ciò anch’io inevitabilmente ho vissuto, e non solo osservato, tali dinamiche di potere, non tanto nei confronti degli attori dell’accoglienza, ma con il Presidente; per evitare di non avere più accesso al campo, non ho mai instaurato polemiche con il resto dell’équipe e a volte, dunque, ero costretta a svolgere alcune mansioni di controllo, pur non condividendole. Ad esempio non potevo far cucinare il cibo che preferivano, ma dovevo attenermi a ciò che era stata stabilito dal Presidente, dovevo sempre chiedere il permesso prima di accompagnare un richiedente asilo in città e nei colloqui non ho mai difeso apertamente il richiedente asilo, ma mi trovavo in una posizione di traduttrice vivendo, in maniera non facile, alcuni commenti da parte dell’équipe come «se non la smetti di comportarti così ti rimando a casa tua con il barcone» — oppure — «non hai alcune riconoscenza nei confronti di Dio che ti ha salvato? Molti altri come te sono morti, tu sei vivo ed è questo il ringraziamento». Dall’altra parte durante i colloqui informali con i richiedenti asilo ho dimostrato apertamente la mia contraddittorietà alle loro forme di controllo, e dunque, pur vivendo in parte quelle dinamiche di potere, continuavo a costruire il rapporto di fiducia con i soggetti studiati.

Il Presidente aveva dunque costruito una sorveglianza gerarchizzata che permetteva al potere disciplinante di diventare un sistema integrato, di essere indiscreto perché era ovunque, non lasciando nessuna zona d’ombra (Foucault 2014). Tale gestione securitaria e di utilizzo del potere derivava oltre che dalla mancata consapevolezza di come gestire l’accoglienza del richiedenti asilo, dalla visione del fenomeno migratorio, come movimento da sorvegliare e dalla scarsa esperienza di tutta l’équipe.

Un potere che inizialmente era visibile e circoscrivibile, perché fatto di regole precise, come il divieto di uscire dalla struttura ma, non appena sono iniziate le resistenze da parte dei richiedenti asilo, l’équipe ha iniziato ad adottare forme di “socio-potere”. «Esse non erano circoscrivibili, e soprattutto non visibili ad un esterno, poiché si dispiegavano nel quotidiano, non prevedevano l’uso della forza, né la persuasione razionale, ma avvenivano attraverso la comunicazione, la classificazione del reale, la costruzione del sapere e della verità, la legittimazione e trasmissione dei modi di fare e di pensare» (Boni 2011: 34). L’osservazione partecipante ha avuto in questo un ruolo fondamentale, perché, condividendo la quotidianità con i soggetti studiati, ed essendo presente tra i due mondi (operatori dell’accoglienza e richiedenti asilo), grazie al mio doppio ruolo, ho potuto analizzare sia la costruzione del socio-potere sia la sua messa in atto.

Le regole iniziarono ad essere presentate come decise dalla Prefettura, nascondendosi dunque dietro le istituzioni, ai fini di evitare proteste dirette con l’Associazione; ad esempio la regola di non poter uscire dal centro venne rappresentata come imposta da parte della Prefettura, pena l’esclusione dal progetto, mentre in realtà era stata creata ai fini di controllare in maniera semplice i richiedenti asilo; la paura principale era che essi potessero entrare a far parte dei circuiti di lavoro illegale o di criminalità e secondo il loro punto di vista la sorveglianza continua era l’unica soluzione, come si evince dalle parole del Responsabile: «Non si può lasciare la casa scoperta, senza nessuno, devono essere controllati ogni giorno, altrimenti sai che fine fanno tutti quanti?»[9].

Come sottolinea Barbara Sorgoni,

il centro in questi casi più che come “spazio di eccezione” diventa uno spazio in cui sussistono diverse forme di potere il cui fine non è necessariamente la “leggibilità” dei soggetti e dove le pratiche di attuazione di leggi dello Stato entrano in tensione con l’applicazione di altre forme di regolamenti interni, parzialmente ispirati a normative nazionali o sovranazionali, il cui rispetto è indotto attraverso forme coercitive e di persuasione (Sorgoni 2011: 24).

L’altra forma utilizzata per agevolare l’esercizio di potere, era quella dell’autorappresentazione come “famiglia”, il “padre” era il Presidente, e la “madre”, la Vice-Presidente:

Il mio ruolo è quello della mamma che ricopre a 360 gradi tutto quello che c’è da fare, quindi è un coinvolgimento anche a livello emotivo, perché arrivano e per me sono tutti figli. È quindi un’accoglienza molto particolare, noi viviamo con queste persone, non è soltanto un dare da mangiare, ma è vivere con la persona. Insomma un rapporto di madre e figlia[10].

Spesso quando i richiedenti asilo facevano delle richieste come di poter avere un colloquio con un operatore legale, gli veniva risposto che si trovavano in una famiglia e quindi loro stavano facendo tutto il possibile per aiutarli, dovevano solo avere pazienza. Se le richieste diventavano più incalzanti, veniva detto loro che nei confronti di un padre o di una madre non è questo l’atteggiamento, ma dovevano fidarsi senza chiedere continuamente.

L’autorappresentazione dell’Associazione era dunque funzionale non solo per posizionarsi retoricamente nei confronti delle istituzioni locali e della cittadinanza allo scopo di suscitarne l’ammirazione rappresentandosi come “famiglia accogliente”, ma anche ad indurre comportamenti e imporre abitudini funzionali al controllo (Boni 2011).

Se tutto ciò aiuta a comprendere come si dispiegava il potere nella quotidianità, nelle forme di potere non visibili ad uno sguardo esterno, consente altresì di comprendere anche le modalità con le quali, i soggetti, seppur all’interno di una logica securitaria e di controllo, riescano a ricostruire il sé, la propria soggettività, sviluppando ampi margini di azione e di resistenza.

Erano infatti gli stessi richiedenti asilo a destrutturare la concezione di “famiglia”. Durante una riunione con il Presidente, i richiedenti asilo chiesero di poter avere un tappeto per pregare durante il periodo del Ramadan, e delle biciclette per potersi spostare nella città, il presidente rispose di no, spiegando che non erano servizi che lui era tenuto a fornire stando alle richieste della Prefettura; nonostante ciò continuava a autorappresentarsi come “padre” che stava facendo di tutto per poterli aiutare. Iqbal, un richiedente di 20 anni, in quell’occasione, si alzò in piedi e guardando negli occhi il Presidente domandò: «Tu sai come mi chiamo?» — il Presidente, sorridendo, rispose — «Non posso mica ricordarmi i nomi di tutti quanti!». Il Presidente provò ad indovinare il nome del ragazzo, con evidente imbarazzo, che si leggeva nel rossore improvviso del suo viso. Dopo aver tentato con un’infinità di nomi, ma senza mai pronunciare il nome di Iqbal, il Presidente disse: «Dai, dimmi come ti chiami, non mi ricordo» — e Iqbal rispose — «dici sempre di essere nostro padre, che fai tutto perché sei nostro padre, ma un padre si ricorda i nomi di tutti i suoi figli». Il Presidente, ridendo, rispose «Io ne ho troppi di figli» ed uscì immediatamente dalla struttura[11].

Il potere giocava quindi sull’ambiguità, delle volte si autorappresentava come famiglia, altre volte giustificava l’assenza di alcune servizi perché non richiesti dalla Prefettura. Oscillando tra generosità, carità e istituzioni. I richiedenti asilo decostruivano tali rappresentazioni, si posizionavano come attori capaci di azioni; l’intervento umanitario genera infatti, innumerevoli tentativi di riappropriazione, manipolazione e uso dell’aiuto stesso da parte dei rifugiati, in relazione a specifiche esigenze locali, materiali o simboliche. L’etnografia ricostruisce dunque il richiedente asilo come attore, capace di azione, e determinato a posizionarsi diversamente rispetto a ciò che impongono le istituzioni statali e i centri di accoglienza (Boni 2011; Giudici 2013; Pinelli 2013).

Da vittima passiva a soggetto attivo

Studiando la realtà dal punto di vista degli attori in gioco è risultato evidente come i margini di azione e di agency siano sempre stati attivi; i richiedenti asilo hanno inventato quotidianamente azioni di resistenza funzionali a far sentire la propria voce e a districarsi tra le dinamiche di potere e di sorveglianza (Giudici 2013).

L’analisi delle forme di resistenza che hanno permesso il passaggio da vittima passiva a soggetto attivo, non vuole fornire una visione eroica dei richiedenti asilo, come soggetti capaci di dar voce ai propri interessi in qualsiasi circostanza, ma si propone di decostruire le varie categorizzazioni, mettendo al centro i soggetti e le loro identità, sottolineando il fatto che, il posizionamento come soggetto attivo di fronte al potere, è avvenuto in maniera graduale, e dopo un processo di “coscientizzazione” che è stato strumento per l’espressione degli scontenti, determinando l’inserimento del soggetto come parte attiva nel centro di accoglienza, alla ricerca della propria affermazione come soggettività (Freire 2002).

Il potere del centro di Nicara assoggettava, nel senso che dominava, producendo e plasmando soggettività, tuttavia, attraverso le azioni dei richiedenti asilo, è emersa la loro capacità di agency, intesa proprio come il contributo del singolo, l’espressione soggettiva di una volontà.

«Le agenzie[12] sono le forze messe in campo dagli individui, rappresentano la loro capacità di condizionamento e quindi il loro esercizio di potere. Infatti tutti i soggetti esercitano una potenza soggettiva nelle relazioni, non esistono rapporti con soggetti passivi, privi di agenzia, per quanto essa possa essere marginalizzata, calpestata, derisa e sopraffatta e le sue scelte sono, in un’ottica antropologica, innestate necessariamente in disposizioni collettive» (Boni 2010: 48-49).

Tali margini di azione inizialmente avvenivano in quella grande varietà di forme di resistenza travestita, non dichiarata, di basso profilo che Scott (1990) definisce “l’infrapolitica” dei gruppi subordinati, laddove per politica si intendano le sole attività apertamente dichiarate. Tali forme di resistenza avvengono nei discorsi fuori dall’osservazione diretta di chi detiene il potere, e che vengono definiti “verbali segreti” (Scott 1990). Si utilizza il termine verbale, ma si indica una grande gamma di attività anche non verbali: il mancato rispetto degli orari dei pasti stabiliti dal Presidente, il rifiuto di fare alcuni lavori richiesti dagli operatori, come verniciare il cancello o il rifiuto di spiegare le regole ai nuovi richiedenti asilo e il rifiuto di parlare la lingua italiana, in modo da evitare dialoghi con gli operatori dell’accoglienza sono solo alcuni esempi. Come nel caso di Ibrahima, un ragazzo maliano di venticinque anni che era solito fare da mediatore con gli altri richiedenti asilo perché aveva appreso molto in fretta la lingua italiana; un giorno come solito gli venne chiesto di aiutare l’operatore nell’accoglienza dei nuovi richiedenti asilo, ma lui si rifiutò.

La vice-Presidente lo convocò in ufficio, ed io fui presente come mediatrice, perché Ibrahima si rifiutava di parlare in lingua italiana; la vice-Presidente sosteneva che Ibrahima fosse un bugiardo perché diceva di essere malato, mentre poco dopo arrivò una chiamata dall’operatrice per chiedere il permesso se poteva mandare Ibrahima a giocare a pallone. Il colloquio durò circa un’ora, ma Ibrahima non parlava, le uniche frasi che diceva erano «ok, ok» e prima di uscire dalla stanza mi disse «io ho paura di dire ciò che penso, aspetto la Commissione Territoriale e me ne vado»[13].

La sera stessa ho avuto modo di parlare con Ibrahima il quale mi confidò che non avrebbe più parlato la lingua italiana, perché era molto stufo e non voleva più avere rapporti con nessuno all’interno del centro, che era suo diritto avere un mediatore ed in questo modo li avrebbe costretti a chiamare qualcuno, creando maggiori difficoltà.

Come si evince, la grande varietà di forme del “verbale segreto” non rappresenta categorie astratte, un linguaggio dei subordinati dietro le quinte, ma è una pratica messa in atto, attraverso vari stratagemmi di basso profilo, di una forma di resistenza volta all’ottenimento di alcuni diritti e concessioni. Ovviamente la frontiera tra il verbale pubblico e quello segreto è una zona di lotta incessante tra dominanti e subordinati, non un muro invalicabile. La capacità di scoprire il verbale segreto è uno degli obiettivi del potere al fine di controllare il gruppo subalterno: è una continua lotta quotidiana (Scott 1990).

A Nicara il verbale segreto non è mai stato compreso pienamente dall’équipe ed è per questo che ha funzionato ed ha permesso la protesta dichiarata apertamente presso il Commissariato di Nicara. L’équipe, pur consapevole dei dissensi e dei malumori, non era in grado di decifrarli, e gli operatori continuavano ad attivare nuove forme di socio-potere che, apparentemente, concedevano più libertà ai richiedenti asilo, ma che comunque non sono stati sufficienti a reprimere le resistenze.

Quindi, se da un lato l’approccio biopolitico consente di risalire alle rappresentazioni da cui muove il dominio umanitario e il paradigma dell’emergenza, dall’altro, lo studio dell’infrapolitica, che si sedimenta nei verbali segreti, permette di far emergere con ragione le strategie dissimulate di resistenza.

Se inizialmente, come già accennato in precedenza, i richiedenti asilo avevano instaurato rapporti di restituzione del dono, successivamente, poiché la situazione di isolamento, controllo e privazione di spazi di autonomia era divenuta intollerabile, la gratitudine lasciava il posto alla delusione e quindi alla perdita di fiducia nei confronti di tutta l’équipe, poiché le promesse riguardanti l’orientamento lavorativo e l’assistenza legale, non erano state mantenute:

Io prima mi fido di loro, io pensavo fosse un Imam che si occupava dei migranti musulmani, dopo ho capito che era un prete, ma ho pensato che era meglio per noi di non stare in un centro governativo. Lui è uomo di Dio quindi ci aiutava sicuramente, quindi io facevo tutto. Lavoravo, pulivo, non chiedevo niente. Ero bravo […], ma dopo no, perché capisco che non sono le persone che promettono e poi lo fanno, loro non fanno niente, solo a parlare sono bravi e promettere tante cose, ma non ho visto niente io[14].

La perdita di fiducia ha permesso l’inizio di uno sguardo critico nei confronti del tipo di aiuto che stavano ricevendo, incrinando i rapporti di riconoscenza e di restituzione del dono; i richiedenti asilo, attraverso la costruzione “dell’infrapolitica”, hanno iniziato un processo di acquisizione di consapevolezza dei propri diritti sfociato poi in una dichiarazione aperta presso il commissariato della città di Nicara, che ha portato al loro trasferimento presso altre associazioni.

Due brevi descrizioni etnografiche possono rivelarsi utili per far comprendere come, lo studio dell’infrapolitica ci permetta di analizzare il processo, graduale, dei richiedenti asilo, da vittime a soggetti attivi e come la protesta dichiarata non sia un momento straordinario di rivolta, ma l’insieme di tutti i piccoli atti di resistenza.

Diloma, un richiedente asilo di 25 anni, che aveva appreso la lingua italiana molto in fretta e che si faceva spesso portavoce delle richieste di tutto il gruppo, durante i richiami disciplinari, assumeva sempre lo stesso identico atteggiamento: sorrideva e rispondeva «ho capito». Gli operatori non comprendevano tale atteggiamento e si limitavano a definirlo «irrispettoso». Durante i colloqui informali fu Diloma a spiegarmi tale atteggiamento: «ho capito» era la frase utilizzata dal Presidente del suo paese che non significa né sì, né no, utilizzata quando non vuoi rispondere o quando non vuoi far capire cosa pensi; il suo obiettivo infatti era quello di mascherare il suo reale pensiero, non facendo comprendere la sua disapprovazione nei confronti del potere. Come sottolinea Scott (1990), nei verbali segreti viene sempre messa in atto una sorta di recita. Nessun atto di resistenza prende avvio senza un po’ di recitazione.

L’altra descrizione etnografica riguarda invece il “verbale segreto” messo in atto da tutto il gruppo: il rifiuto da parte dei richiedenti asilo di fare la raccolta differenziata. Dopo numerosi richiami da parte dell’équipe, risposero che non erano in grado di farla. L’équipe dunque spiegò come funzionava, ciò nonostante continuavano a non differenziare i rifiuti, mentre l’operatore continuava a spiegare che se non avessero provveduto a farla, ci sarebbero stati dei richiami disciplinari. Un richiedente asilo ridendo, disse in inglese, in modo da non far comprendere a nessun membro dell’équipe, «non facciamola questa raccolta differenziata, tanto paga l’Associazione, almeno spendono tutti i soldi che prendono su di noi»; questo perché era stato detto loro che la mancata raccolta differenziata avrebbe portato delle sanzioni pecuniarie ai danni dell’associazione. Tale esempio etnografico mette in luce che il grado di consapevolezza dei richiedenti asilo stava aumentando, e ciò non veniva, volutamente, fatto comprendere all’équipe. Inevitabilmente, la maggiore consapevolezza avrebbe portato all’aumento delle resistenze (Boni 2010).

Tale processo di acquisizione della consapevolezza è iniziato con la messa in dubbio di ciò che l’équipe aveva detto fino a quel momento ed è proseguito quando i richiedenti asilo hanno iniziato ad avere le audizioni in Commissione Territoriale.

Prima dell’audizione, i mediatori linguistici hanno il compito di spiegare ad ogni richiedente asilo come funziona l’iter burocratico per l’ottenimento dello status di protezione internazionale e quali siano i parametri decisionali utilizzati dai commissari. Venne così smentita la promessa fatta loro dal Presidente di aiutarli ad ottenere i documenti se avessero avuto una buona condotta, acquisendo la consapevolezza che il loro documento dipendeva da altri parametri che nulla avevano a che fare con il proprio comportamento. Inoltre, notarono che altri richiedenti asilo avevano due documenti: la tessera sanitaria e la carta d’identità, mentre loro non possedevano nessuno dei due. Ovviamente, tale mancanza, come verrà poi confermato dagli stessi richiedenti asilo, fu soltanto il pretesto che giustificava l’inizio delle loro resistenze dichiarate, ma che nascondeva il loro essere stanchi di venir isolati e della categorizzazione di vittima a loro imposta.

La maschera del verbale segreto venne dichiarata apertamente da Diloma. Rientrato dall’audizione in Commissione, i giorni successivi iniziò a domandare il motivo per il quale loro non avevano né la tessera sanitaria, né la carta d’identità: le risposte da parte dell’équipe erano sempre molto vaghe. Passate alcune settimane chiese di poter parlare con la vice-Presidente e, dopo un dialogo del tutto insoddisfacente senza risposte, Diloma esclamò: «Senti, io non vado a scuola finché non mi dai la tessera sanitaria e se non me la dai anzi vado dalla polizia». La vice-Presidente replicò urlando e Diloma rispose: «Non urlare, perché hai paura? Se tu hai fatto tutto quello che dovevi non devi avere paura»[15]. Con tale azione, pur continuando a trovarsi in una situazione di subalternità, Diloma aveva lanciato una sfida e non aveva più finto di riconoscere il potere.

Ora si ponevano di fronte al potere in maniera aperta e dichiarata, non avendo più alcun timore nei confronti dell’équipe, perché erano consapevoli dei loro diritti, del ruolo dell’Associazione nei loro confronti avendo decostruito l’immagine di vittima passiva. «Per i rifugiati agire e prendere la parola nei luoghi dell’esilio significa rifiutare la vulnerabilità come cura della vittima pura e senza nome, pur iscrivendosi nello spazio che fonda in maniera più netta questa stessa vulnerabilità, lo spazio dei campi. È lì che nasce la sola rivolta logicamente possibile, quella che incarna una politica della vita che resiste» (Agier 2005: 61).

«I dislocati e i rifugiati cessano di essere tali, non quando ritornano “a casa”, ma quando, in quanto tali, lottano per il loro corpo, la loro salute, la loro socializzazione: allora, cessano di essere le vittime che la “scena umanitaria” presuppone, per diventare soggetti» (Agier 2005: 63). La dichiarazione dei richiedenti asilo di Nicara è stata coraggiosa, eloquente e, se dall’esterno poteva apparire come qualcosa di folle, una volta presentata di fronte al potere sulla scena pubblica, ha consentito loro di dire molto, gridando a gran voce la propria rabbia e i propri sogni (Scott 1990).

Dall’emergenza alla consapevolezza: il ruolo dell’antropologo

Il mio accesso al campo è avvenuto come operatrice dell’accoglienza che stava svolgendo un tirocinio formativo con l’Università, al termine del quale avrei scritto una breve relazione, ma non come ricercatrice. Soltanto successivamente ho rivelato a quasi tutti i soggetti osservati parte dei miei obbiettivi di ricerca; potrei dunque definire il mio ruolo come “semi-dissimulato” (Corbetta 2015).

Lo “svelamento” è avvenuto dopo qualche mese dal mio accesso al campo, gli stessi richiedenti asilo incuriositi dalle mie domande, iniziarono a chiedermi quale fosse esattamente il mio ruolo. Ad aiutarmi in questa fase è stato Diloma, richiedente asilo con cui avevo più affinità rispetto ad altri, che spesso mi apriva la strada verso altri attori-chiave o verso situazioni particolari di difficile accesso. In una lunga conversazione mentre lo accompagnavo ad una visita medica, ho spiegato la ricerca etnografica che stavo svolgendo, e lui mi propose di parlare prima lui con i richiedenti asilo, e successivamente di fare un incontro insieme a me.

Diloma organizzò l’incontro, dove non mi fecero molte domande, ma quasi tutti chiesero di non essere riconoscibili nella ricerca e, se possibile, volevano che questo lavoro venisse poi letto dalla Prefettura o dalla Polizia per far conoscere cosa avvenisse in quel centro. Nonostante le poche domande, il livello di consapevolezza di ciascuno di loro riguardo la ricerca non era lo stesso, alcuni erano soliti suggerirmi cosa avrei dovuto scrivere, mi indicavano alcune situazioni da osservare o ironizzavano dicendo «quindi praticamente tu mi osservi tutto il giorno? Anche se giro lo zucchero con la destra o con la sinistra?». Altri mi confessarono apertamente che avevano un po’ di diffidenza, dubitando che avessi un reale interesse al cambiamento della loro situazione e che mi trovavo lì solo per terminare la mia ricerca. Le interviste mi hanno poi rivelato che la diffidenza di quel momento è passata vedendo che quotidianamente mi impegnavo concretamente per cambiare la loro situazione, come quando mi rifiutavo di mettere in atto alcune regole imposte dal Presidente.

Se da un lato dunque, in veste di ricercatrice, riflettevo e costruivo analisi critiche su ciò che vedevo ed osservavo, dall’altro, sperimentavo la concretezza del quotidiano e cercavo di agire nella quotidianità emergenziale che mi circondava, attraverso le qualità critiche e riflessive tipiche del sapere antropologico.

Tale approccio al contesto è stato fondamentale, perché ha permesso la creazione di rapporti di fiducia reciproca con i richiedenti asilo e l’utilizzo dell’empatia come strumento conoscitivo; mi hanno permesso l’accesso al quotidiano e al senso comune degli osservati (Fassin 2013). L’utilizzo dell’empatia, come sottolinea Cecilia Pennacini (2010: 274), non significa diventare come l’altro o attribuire ad altri il proprio stato emotivo, ma apprendere e comprendere il non noto attraverso l’analogia o risonanza con il proprio vissuto, in una continua tensione o rimando, tra il sé e l’altro, tramite il quale l’antropologo e il suo interlocutore svelano, illuminino e trasformano la propria identità personale, nel tentativo di creare un universo referenziale comune. Ovviamente poi c’è stata una comprensione delle emozioni che coincide quindi con un processo, nel quale, grazie al rapporto di fiducia, mi è stato più semplice capire e interpretare, perché la spiegazione proveniva direttamente da chi stava provando l’emozione.

I rapporti particolari creatisi a livello emotivo hanno, ovviamente, modificato alcune loro reazioni; ad esempio spesso mi dicevano di non recarmi in struttura perché volevano parlare con i responsabili e se fossi stata presente anch’io non si sarebbero sentiti liberi di urlare, perché se ne vergognavano; mi comunicavano che il giorno successivo avrebbero messo in atto forme di resistenza e quindi era opportuno che io non mi recassi in struttura, perché se i responsabili avessero scoperto che io ne ero a conoscenza, mi avrebbero cacciato. Si era sviluppato in loro un atteggiamento protettivo nei miei confronti, come se fossi l’unico loro appiglio e non potessero rischiare di perdermi; tale aspetto è stato fondamentale nella ricerca stessa e nel mio posizionamento perché, se inizialmente ero considerata come parte integrante dell’équipe, successivamente venivo vista come soggetto isolato e distaccato dall’Associazione.

Nel mio “praticantato etnografico” mi sono trovata, con non poche difficoltà, a gestire, da un lato la distanza dell’osservazione, che richiede un coinvolgimento empatico e riflessivo, e dall’altra l’essere testimone di una situazione di mancanza di tutela di alcuni diritti del richiedente asilo, con un ruolo di operatrice alle prime armi. È qui la difficoltà di bilanciamento tra osservazione e azione, tra distacco e coinvolgimento che apre numerosi dibattiti tra antropologi e che emerge, in particolare, quando si tratta di situazione dove vi è una mancanza di tutela dei diritti umani.

Le domande che spesso mi ponevo erano quanto dovevo osservare, quanto e come dovevo partecipare. Se da un lato il prodotto etnografico è già una forma di impegno, una forma di resistenza, perché attraverso tale prodotto si mettono in luce le pratiche errate e le forme di potere utilizzate all’interno del centro, dall’altra parte, in tali contesti, emerge sempre di più la necessità di intervenire per contribuire a cambiare il contesto; un’antropologia dunque che non sia soltanto osservazione, ma anche votata al cambiamento del contesto (Benadusi 2015).

Nel mio caso ho assunto una posizione sicuramente non neutrale nei confronti dei richiedenti asilo. Essi erano consapevoli delle mie conoscenze riguardo i loro diritti, e spesso mi domandavano come dovevano muoversi per poter migliorare la loro situazione. In tal caso ho ritenuto fondamentale non fornire risposte immediate, ma stimolare e supportare i meccanismi di rottura del loro isolamento. Il ruolo era quello di provare ad attivare processi formativi rivolti ad una presa di coscienza collettiva. Attraverso una riflessività intesa in senso duale e reciproco.

Da un lato la riflessività dell’etnografo riguardo al suo posizionamento è determinata dalla sua presenza “perturbativa” attraverso cui, conoscendo se stesso, conosce gli altri. Il sapere così raggiunto grazie al dialogo, alla frequentazione e alla risonanza, porta alla comprensione del significato altrui. Dall’altro lato l’antropologo perturbatore, obbliga i soggetti a riflettere e discutere se stessi, sulle proprie pratiche e strategie. Il campo diventa incontro etnografico dove i soggetti sono coinvolti in un gioco di riflessività reciproca (Ciccaglione, Pitzalis 2015: 10-11)

Di contro, nei confronti dell’équipe ho assunto un ruolo ambiguo, non ho quindi mai dimostrato forme di dissenso ed ho evitato spesso di espormi nei confronti delle pratiche di potere e di assoggettamento. Tale posizionamento è derivato, inizialmente, dal mio essere improvvisata nel ruolo di operatrice; avevo dunque bisogno di osservare, analizzare e comprendere; successivamente ho compreso che un dissenso aperto nei confronti dell’équipe non avrebbe portato a nessun tipo di soluzione, ma soltanto alla mia esclusione dal campo. Nella pratica ho rifiutato di mettere in azione, in parte, le tecniche di assoggettamento e di controllo, ed i richiedenti asilo ne erano consapevoli, ma essi stessi hanno deciso di mascherarlo: «Tu quando ci sono loro devi stare in silenzio, altrimenti ti mandano via perché pensano che vuoi collaborare con noi»[16].

Dunque, pur non avendo mai partecipato attivamente alla messa in atto degli atti di resistenza, ponevo il mio sapere dialogicamente in campo, in uno scambio, dietro le quinte, sulle costruzioni del potere, le rappresentazioni all’interno delle quali erano relegati e le reciproche visioni del diritto. La relazione non si è rivelata utile solo ai fini conoscitivi, ma anche a sostegno di esiti pratici, ponendo gli attori nella condizione di comprendere il significato delle proprie esperienze, delle situazioni vissute e del ruolo che vi assumevano, al fine di attivare risorse per la risoluzione della propria situazione (Ciaccaglione, Pitzalis 2015: 11).

L’antropologo è un testimone, non solo attraverso la sua scrittura etnografica, ma anche attraverso la partecipazione politica diretta, poiché, talvolta, il mancato impegno degli antropologi li fa diventare complici di sopraffazioni e violenze (Scheper-Hughes 2015; Reed-Danahay 2016). Ma ciò deve essere fatto ingaggiando sempre la teoria antropologica in modi che siano rilevanti sia per la disciplina, sia per le persone che studia (Benadusi 2015). La militanza e l’attivismo possono guidare le ricerche in ambito applicativo, ma non sono, di per sé, l’ingrediente fondamentale e sufficiente per renderle o definirle antropologiche (Marabello 2016). Il rischio dell’antropologo militante è che parli al posto dei soggetti studiati, e agisca mosso da coinvolgimenti empatici diretti, non rielaborati dall’auto riflessività.

L’antropologo deve permettere che siano essi a parlare, e attraverso l’etnografia condurre le loro voci ad un pubblico più ampio siano essi gli attori dell’accoglienza e le istituzioni che promuovono le politiche di accoglienza;ponendosi non solo come osservatore, ma agendo nella pratica quotidiana senza mai rinunciare alla profondità teorica e ad una postura auto-riflessiva.

Praticare l’antropologia non significa rinunciare alla tensione teorico-argomentativa di analisi. Anzi essa necessita di affinare, al contempo, la sua capacità critica e analitica in relazione alle teorizzazioni disciplinari e l’abilità di descrizione etnografica ripensando le forme di scritture e la traducibilità nello spazio pubblico (Marabello 2016: 106).

La ricerca etnografia nel centro di Nicara si propone di fornire un’analisi critica dell’accoglienza straordinaria e delle sue conseguenze, spesso violente, sui soggetti coinvolti, analizzando come l’emergenza abbia delle conseguenze pratiche su di essi fornendo un’analisi per ripensare metodi e strumenti d’intervento nei centri di accoglienza.

Vuole altresì verificare come il posizionamento dell’antropologo, seppur difficile e con dei limiti, possa avere un ruolo attivo che porti a interventi sociali capaci di decostruire l’accoglienza emergenziale, poco efficace, ed il ruolo del richiedente asilo come vittima passiva.

La pratica antropologica non è una semplice questione di feeling o del “buon operare” in un contesto di accoglienza, ma incorpora e mobilita formazione e competenza. Operare come antropologhe/i nel contesto dell’accoglienza pone la sfida specifica di comprende il valore dell’antropologia come scienza, quando questa si confronta con le esigenze pratiche della realtà quotidiana. Il ruolo attivo dell’antropologo non è mosso dal “buon senso”, ma soltanto dopo un’analisi critica prodotta grazie all’osservazione partecipante, propone interventi sociali come nel caso di Nicara: stimolare e supportare i meccanismi d’isolamento dei richiedenti asilo.

Questo avviene attraverso l’etnografia, dove ogni azione è osservata e studiata, in un continuo slittamento tra sospensione del giudizio e presa di posizione. Lo spazio di azione può avvenire dunque anche all’interno del centro, chiarendo e cambiando molti degli assunti specifici e impliciti che sono alla base dell’azione di coloro che hanno responsabilità dirette nelle dinamiche dei centri. Non è un lavoro facile, perché il sapere antropologico ha bisogno di lunghi tempi prima di poter proporre un’analisi critica e dunque un cambiamento, che spesso si scontra con i tempi rapidi e veloci del paradigma dell’emergenza, dell’intervento urgente, ma credo sia necessario per le sue qualità specifiche di riflessività, evitando azioni nate da semplici relazioni empatiche.

Concludo con le parole di un richiedente asilo che ritengo siano molto eloquenti:

Tu non devi fare le proteste con noi. Tu fai l’antropologa, mi hai detto? Sono quelli che ci osservano se ho capito bene… quindi tu capisci meglio quello che succede, però capisci e non ci giudichi e quindi tu puoi dirci i nostri diritti, soprattutto tu puoi dirci come dobbiamo chiederli. Qui non è casa nostra, io non lo so. Tu puoi capire meglio come loro pensano e come noi pensiamo, e puoi aiutarci a non fare dei brutti casini. Ma dobbiamo parlare noi quando qualcosa non va, non puoi farlo tu per noi, siamo noi che subiamo la situazione, siamo noi che dobbiamo parlare. Tu però se poi dopo scrivi un bel libro su questa storia, è bello. Magari altri leggono e possono fare uguale[17].

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[1] Il nome della città è di fantasia; date le piccole dimensioni della città presso la quale ho svolto la mia ricerca, per la tutela degli interlocutori di ricerca è stato garantito il totale anonimato inserendo nomi di fantasia e pseudonimi.

[2] Il nome dell’Associazione è di fantasia.

[3] Intervista al Presidente del centro di Nicara, svolta in un’altra struttura dell’Associazione in data 21 luglio 2016.

[4] I paesi di provenienza erano: Mali, Niger, Costa d’Avorio, Senegal, Gambia, Nigeria, Sierra Leone, Ghana e Benin.

[5] Nota di campo, 8 febbraio 2016.

[6] Nota di campo, 20 novembre 2015.

[7] Nota di campo, 12 dicembre 2015.

[8] Nota di campo, 15 febbraio 2015.

[9] Nota di campo, 10 gennaio 2016.

[10] Intervista alla Vice Presidente, 24 giugno 2016.

[11] Nota di campo, 7 maggio 2016.

[12] I termini agency e agenzie si equivalgono.

[13] Nota di campo, 26 febbraio 2016.

[14] Intervista ad un richiedente asilo, 10 giugno 2016.

[15] Nota di campo, 20 aprile 2016.

[16] Nota di campo, 15 aprile 2016.

[17] Nota di campo, 20 aprile 2016.