Discipline al lavoro

Sull’ambiguità del ruolo dell’antropologo nell’accoglienza italiana

Tommaso Sbriccoli

Università di Siena

Indice

Introduzione
Amici, poliziotti e baby-sitter
Discipline e confini
L’ambiguità del ruolo dell’antropologia nell’accoglienza italiana.
Eventi esplosivi: convocare jiin all’ASL
Bibliografia

Abstract.  In recent years, we have been witnessing an increasing involvement of anthropologists as workers within the Italian system of shelter for asylum seekers and refugees. Such involvement deserves to be investigated for many reasons. On one side, it illustrates what role and function society at large believes anthropology should take on. On the other side, it also makes explicit what role and competences anthropologists themselves deem to be able to perform and deploy. At the same time, it also shows the complex relations that are produced – in the neo-liberal context of dismantling of public university and externalization of welfare services – between academia, market, civil society and institutions. Finally, such collaboration of our discipline with institutions governing Other’s life inevitably evokes past connections between anthropology and colonialism and consequently asks for a particularly sound analytical effort. In this article, I will thus delineate some areas of problematization of the roles of anthropologists within the area of administration of asylum seekers’ and refugees’ lives. I will thus shade light on the discursive and institutional devices operating in such field, showing how the knowledge and roles that anthropologists respectively deploy and enact work, or might work, in a twofold direction. On one side, in fact, they further structure the field in which they are inserted. On the other side, they can trigger what Lotman defines “explosive events”, by calling into question practices and models at work and pushing the contexts in which they are inserted towards unexpected reconfigurations.

Keywords: .  centri di accoglienza; Italia; richiedenti asilo e rifugiati; antropologia politica; processi traduttivi.

Introduzione

L’antropologia studia e interroga, da ormai lungo tempo, il campo che prende forma (istituzionale e discorsiva) attorno alla categoria legale di “rifugiato”[1]. È solo negli ultimi anni, tuttavia, che in Italia un crescente numero di antropologhe e antropologi ha iniziato a confrontarsi direttamente, e attivamente, con esso. Non solo, o non tanto, come oggetto di studio, ma come vero e proprio ambito di lavoro[2]. Il forte aumento di arrivi sul territorio italiano di persone che fanno richiesta di asilo e l’apertura di centinaia di nuove strutture di accoglienza emergenziali (i cosiddetti CAS[3]) accanto al sistema ufficiale SPRAR, ha fatto sì che molti giovani (e meno giovani) laureati in antropologia si indirizzassero, quasi “naturalmente” (su questo punto tornerò in seguito), verso questo settore di impiego[4]. Lo hanno fatto ricoprendo quasi tutta la “filiera” lavorativa dei centri, con ruoli che vanno da quello di operatore, a quelli di coordinatore, mediatore culturale o linguistico, consulente legale e, molto raramente, consulente antropologico[5].

Questo crescente coinvolgimento va a mio avviso a sua volta interrogato. Da un lato perché ci dice qualcosa sulla funzione che la società ritiene essere quella propria dell’antropologia, una disciplina cui, fino a pochi anni fa, pochissimi erano in grado di dare un collocamento chiaro, se non addirittura una descrizione appropriata. Dall’altro, esso esplicita anche il ruolo e le competenze che gli antropologi stessi ritengono di dover/poter ricoprire e, allo stesso tempo, disegna le relazioni complesse che – nel contesto neo-liberista di smantellamento dell’università pubblica ed esternalizzazione dei servizi sociali e di welfare – si vengono a produrre tra accademia, mercato, società civile e istituzioni statali.

Infine, tale coinvolgimento della disciplina con forme e istituzioni del governo dell’Altro richiama inevitabilmente alla memoria le connessioni tra antropologia e colonialismo e richiede per questo un particolare sforzo di analisi.

In questo articolo cercherò quindi di delineare alcune aree di problematizzazione del ruolo degli antropologi nel campo dell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati. Lo farò mettendo in luce i dispositivi all’opera nel in tale ambito e come il sapere e i ruoli che gli antropologi rispettivamente dispiegano e occupano funzionino, o possano funzionare, in una duplice direzione. Da un lato strutturando a loro volta il campo in cui sono inseriti. Dall’altro, invece, scatenando quelli che Lotman (1993) definisce “eventi esplosivi”, ovvero provocando la messa in discussione di pratiche e modelli in uso e spingendo il contesto in cui sono inseriti verso riconfigurazioni impreviste.

Fondamentale nelle riflessioni che seguono è un principio metodologico che mi guida fin dall’inizio del mio lavoro, pratico e di ricerca, in questo contesto. Esso è la riflessività come mezzo essenziale di apertura della propria esperienza personale all’indagine e come strumento allo stesso tempo metodologico, etico e politico da operare per oggettivare la propria stessa pratica e renderla disponibile alla critica. Come ha evidenziato Lash (1994):

Una caratteristica primaria di una tale riflessività che si pone aggressivamente nei confronti del sé [self-confrontational reflexivity] è quella che i detentori di un sapere mettono in discussione sia le condizioni sociali dell’esistenza e della produzione di quel sapere, sia loro stessi attraverso un auto-monitoraggio (Lash 1994, citato in Good 2007: 253).

In quest’ottica, prima di affrontare le problematiche concernenti il posizionamento dell’antropologia nell’ambito dell’accoglienza, è necessario investigare questo campo per come viene pensato da chi ne fa parte e nei suoi presupposti e processi di strutturazione.

Amici, poliziotti e baby-sitter

Nel corso di un incontro di formazione, il membro di una associazione che gestisce un progetto di accoglienza ha sostenuto che, riguardo alle modalità di gestione della relazione con i richiedenti asilo ospitati nei centri, l’attenzione degli operatori doveva concentrarsi sull’evitare di trovarsi imbrigliati in un triplice rischio relazionale: bisognava rifuggire dall’essere un poliziotto, un babysitter o un amico.

Tale imperativo a non essere qualcosa sembra fornire l’indicazione a costruirsi come soggetti, per così dire, “amorali”, ovvero a neutralizzare nella relazione con l’altro qualsiasi qualità eccessivamente connotata sia in senso gerarchico (poliziotto), sia verso un’eccessiva intimità (amico), sia in direzione di un mero assistenzialismo (baby-sitter). Tali indicazioni sembrano essere intese come suggerimenti per evitare che si arrivino a produrre processi di infantilizzazione, disimpegno e repressione assai frequenti in molti centri di accoglienza e da tempo descritti nella letteratura scientifica[6].

Si badi bene, tuttavia, che il comandamento non si articola secondo le direttrici di un non-fare, bensì lungo quelle di un non-essere. La deontologia si trasforma qui in “ontologia” proprio in virtù dell’occultamento della cornice inevitabilmente “morale” di ogni relazione inter-soggettiva, soprattutto in un contesto di diseguaglianza gerarchica dei differenti ruoli in gioco. Con questo intendo dire che appare qui un fraintendimento per il quale si ritiene che il proprio fare sia legato al proprio essere in modo automatico, ovvero che un ruolo non sia il punto di emersione di una serie di dispositivi e relazioni che ne costituiscono il senso ed il contenuto, ma una sorta di habitus che, tuttavia, può essere dismesso all’occorrenza. Tale posizione non tiene in considerazione il fatto che essere e fare si costituiscono vicendevolmente all’interno di dispositivi di soggettivazione e relazioni di potere ben specifici. Solo nel momento in cui li si colga assieme si può organizzare consapevolmente il proprio fare all’interno di una cornice che pur tuttavia permane e limita la libertà di azione (deontologia). Tale livello presuppone tuttavia la cosciente elaborazione del proprio agire su un piano etico-morale che ne stabilisca le coordinate e ne controlli le emergenze. L’occultamento di tale piano conduce per forza di cose a ridurre una relazione al contenuto immediato della sua manifestazione empirica, in cui si è o non si è qualcosa a seconda di cosa e come lo si fa (e viceversa), piuttosto che considerarla come il punto di presa su due o più soggetti di un dispositivo che già ne prevede, e in parte ne organizza, l’interazione.

È importante sottolineare come l’imperativo riportato, sebbene pronunciato da una particolare persona all’interno di un progetto particolare, identifichi in realtà un atteggiamento molto diffuso nel campo dell’accoglienza, una cornice operativo-metodologica che viene implicitamente messa in campo in molti progetti.

Esso pone in luce un primo paradosso per chi da antropologo lavora all’interno dell’accoglienza.

Da antropologi siamo abituati infatti a concepire le relazioni come il primo oggetto di problematizzazione all’interno del campo sociale che ritagliamo in un campo di ricerca (fieldsite) in ragione di una selezione di pertinenza sulla base di criteri, prevalentemente, relazionali. Il modo in cui noi selezioniamo l’unità della ricerca e ci posizioniamo al suo interno, e il fitto reticolo di relazioni che costituiscono tale campo e la nostra presenza in esso, sono da un lato oggetto primario di analisi, dall’altro fungono da accesso epistemico alle logiche che intendiamo studiare. Vale a dire che gli antropologi studiano relazioni per mezzo di relazioni.

L’ambito dell’accoglienza, da questo punto di vista, non è differente dagli altri campi sociali e il paradosso dell’imperativo citato si esplicita nello scarto tra l’aspetto formale, ideale e normativo del cosa sia e come si debba fare l’accoglienza, e il suo dipanarsi reale, sostanziale, nelle pratiche quotidiane dell’accoglienza stessa.

Tuttavia, esso si articola anche secondo leggi, normative e regolamenti (da quelli europei, a quelli italiani, a quelli stabiliti nelle convenzioni con le prefetture o con il Servizio Centrale SPRAR) che danno in partenza una specifica curvatura al piano delle relazioni che al suo interno possono o devono stabilirsi tra i vari soggetti coinvolti.

C’è quindi una specifica qualità di questo spazio sociale. Dall’alto, le istituzioni e le leggi che rispettivamente ne finanziano e regolano l’agire vi proiettano un’istanza di controllo e di omologazione gestionale. Dal basso, dal punto di vista degli enti gestori, la ricezione di tale istanza si associa alla necessità di sviluppare una cornice d’azione che garantisca allo stesso tempo l’efficacia delle proprie pratiche, la loro replicabilità e l’obbligo di rispondere (accountability) all’istituzione committente.

L’operatore logico-pratico che permette di mediare tra il livello normativo e quello “fattuale” (quello delle relazioni effettive tra i soggetti in gioco), è il concetto di “professionalità”[7]. Esso lo fa nella sua duplice articolazione: da un lato il campo delle capacità, conoscenze ed esperienze individuali in un dato ambito lavorativo; dall’altro, l’agire tali competenze, conoscenze ed esperienze all’interno di protocolli, codici etici, flussi decisionali, etc. stabiliti in precedenza e in grado di indirizzare il lavoro del singolo professionista.

L’idea di professionalità in azione in tale ambito è costruita interamente secondo concezioni interne alla visione, chiamiamola scientifica-oggettivante per pura comodità, che è quella imperante nelle società europee.

Il professionista è tale perché è in grado di astrarsi dal contesto in cui agisce e, replicando attitudini e capacità oggettive in situazioni differenti, di applicare schemi pre-ordinati alla complessità empirica, di ordinare addirittura attraverso il suo sguardo categoriale il caos che la pratica empirica presenta. Tale sguardo e tali pratiche stabiliscono, o dovrebbero stabilire, di volta in volta gli estremi di una relazione così da neutralizzarne gli aspetti rischiosi, controproducenti, e tutto ciò che per statuto non deve entrare nell’orizzonte inter-soggettivo della sua pratica.

Quanto illusoria sia tale idea è immediatamente percepibile, persino nei contesti in cui ad essere implicati in una relazione intersoggettiva del tipo professionista/cliente-beneficiario siano persone che, almeno si suppone, abbiano lo stesso orizzonte normativo-culturale di riferimento. In presenza di persone con riferimenti socio-culturali diversi e che costruiscono secondo altre modalità il senso e il contenuto di una relazione, tale idea non solo appare come poco realizzabile, ma addirittura come illusoria.

Essa ignora inoltre tutto quel micro-reticolo di dispositivi e poteri, disseminati, messi in atto e spartiti nel campo relazionale dei soggetti coinvolti, con i loro posizionamenti tattici, le loro strategie, i loro riferimenti ideologici. E, dall’altro le risposte indotte da tale reticolo, sia i processi di soggettivazione, sia i contro-poteri, le resistenze, che su questo stesso campo agiscono mettendolo in discussione o utilizzandolo strategicamente.

L’imperativo da cui sono partito mette dunque in luce tutto lo scarto esistente tra un modello che vorrebbe poter pensare in termini professionali e neutrali il suo campo di azione e le modalità di strutturazione di questo stesso campo. Esso, per poter essere produttivo in vista di una critica ai processi che vi avvengono, andrebbe a mio avviso ribaltato e riformulato nel seguente modo: «nel campo dell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, l’operatore, a seconda dei casi e delle situazioni, non può non agire, e trovarsi ad agire, come un poliziotto, un babysitter o un amico (e volendo anche altre cose)».

Discipline e confini

Tale operazione di ribaltamento indica un aspetto fondamentale, l’aspetto centrale direi, del sistema di accoglienza: esso è una istituzione ad alto contenuto disciplinare, volta a controllare e produrre un determinato tipo di soggetti[8]. Come in ogni progetto disciplinare, in esso sono coinvolti un numero elevato di saperi, che agiscono tutti (in conflitto o in collaborazione) nel dare forma a specifiche soggettività. Dal diritto alla medicina, dalla psichiatria alla psicologia, dalla economia alla sociologia, dalle più recenti scienze della mediazione alla antropologia, numerose discipline sono al lavoro nella “gestione” di richiedenti asilo e rifugiati.

Differenti istanze epistemiche costituiscono richiedenti asilo e rifugiati come oggetti di conoscenza e dispiegano su di loro i propri saperi e obiettivi[9]. Il gioco di queste discipline, pur nella differenza dei posizionamenti etici e politici dei singoli “attori” che se ne fanno di caso in caso rappresentanti, inevitabilmente cattura i soggetti presi in carico all’interno di reti di potere che proiettano sugli stessi dei progetti allo stesso tempo morali, sociali e politici. Tale dispositivo, che coinvolge e integra differenti istituzioni, soggetti e saperi, ha il suo punto di articolazione, materiale e discorsivo, proprio nei centri di accoglienza.

A livello etnografico, un dato chiarisce bene quanto, nella percezione stessa dei suoi “beneficiari”, il sistema di accoglienza sia, da un lato, strutturato secondo dispositivi disciplinari e di controllo e, dall’altro, si trovi in continuità con altri sistemi (detentivi, umanitari, etc.) attraverso cui i richiedenti asilo e rifugiati giunti nel nostro paese sono spesso già transitati. Tale dato riguarda il fatto che questi ultimi, nel giro di pochi giorni da quando vengono affidati ad una struttura di accoglienza, sia che essi siano accolti in un piccolo appartamento nel centro di una città, o in un casolare isolato nel mezzo della campagna, o in una ex-caserma, chiameranno il luogo della loro sistemazione camp [10].

Per quanto tali spazi possano apparire differenti, tra di loro e rispetto agli altri camps in cui spesso sono già stati bloccati nel loro percorso migratorio, ciò che ai richiedenti asilo appare come immediatamente percepibile è la continuità del dispositivo “campo”, al di là della qualità dei servizi, della “professionalità” degli operatori o della libertà o meno di allontanarsene. Il camp è dunque la figura percepita e vissuta dai richiedenti asilo della presa sui loro corpi e sulla loro soggettività (intesa come la modalità di prodursi nel discorso, di proiettare un “io” nel discorso) da parte dei dispositivi, umanitari o securitari, formali o informali, che li catturano e attraversano in tutto il loro percorso.

La baracca in cui dei trafficanti libici li tengono per una o più notti in attesa di imbarcarli per l’Italia obbedisce in fondo a logiche, almeno in parte, non così differenti da un appartamento in centro città a Milano. Il fatto interessante da notare rimane dunque quello che, al netto delle differenze tra un camp e l’altro – che possiamo sbizzarrirci a ricercare e individuare – le persone coinvolte in tali processi non solo percepiscano, ma addirittura sottolineino come significativa le continuità tra i vari luoghi della loro detenzione e/o accoglienza. Le parole di Rahola possono aiutare a chiarire questo punto:

Va detto che ricondurre tutti i campi a una comune matrice comporta sempre il rischio di generalizzazioni: nella distanza che separa un campo profughi in Indonesia o nel Darfur da un centro di permanenza temporanea, l’isola di Lampedusa o le enclavi di Ceuta e Melilla, sembra arduo poter rintracciare una “forma” comune. Se la logica “umanitaria” dei primi e quella detentiva che ispira i secondi fanno apparentemente a pugni, questa distanza è però destinata ad attenuarsi sensibilmente allorché si ragiona a partire dalla particolare “esteriorità” dei soggetti in questione rispetto a ogni ordine di appartenenza, e dagli effetti che tale condizione comporta: la “deportabilità” e quindi la particolare “ricattabilità” (“sei tutelato solo se non esci da qui”, “puoi essere espulso da un momento all’altro”) di corpi segnati da un internamento che ne ratifica materialmente la “clandestinità”, l’“illegittimità”, l’assoluta precarietà” (Rahola 2007: 23-24).

Rahola invita giustamente a ribaltare lo sguardo, dal “luogo” al soggetto, e nello specifico al posizionamento di quest’ultimo nell’ordine discorsivo, politico e legale globale. L’esteriorità strutturale di richiedenti asilo e rifugiati, il loro essere comunque su un confine, o meglio ancora il loro “funzionare” addirittura come operatore di confini, è qui il dato saliente: ciò che a sua volta inevitabilmente configura e curva lo spazio – per quanto si possa sforzarsi di immaginarlo o produrlo secondo logiche diverse – in cui essi vengono “accolti” o, più propriamente, confinati.

Per comprendere meglio l’utilizzo di quest’ultimo termine si può ad esempio prendere in considerazione il Regolamento di Dublino e il collegato sistema Eurodac[11], attraverso cui i confini interni dell’UE sono stati inscritti nei corpi stessi dei migranti.

Le impronte digitali che vengono prese ai richiedenti asilo nel primo paese di arrivo, e che sono in seguito inserite nel database Eurodac, rendono infatti il loro corpo il luogo in cui l’ordine geopolitico europeo ottiene materializzazione a livello somatico. Ovunque i richiedenti si muovano, le loro impronte digitali agiscono come marcatore della sola autorità politica dalla quale le loro pratiche d’asilo possono essere valutate e, nel caso, riconosciute per mezzo di uno dei tipi di protezione. I confini interni alla UE, in teoria aperti con Schengen, tornano ad acquisire la loro cruda materialità non appena le impronte digitali dei migranti riattivano la loro funzione escludente.

Da un lato, quindi, i corpi stessi dei richiedenti divengono confini, ovvero oggetti simbolici con una capacità “innata” di identificare un’opposizione. Dall’altro lato, invece, i confini si trovano a funzionare come corpi, entità fisiche “naturali”, con una propria soggettività, che reagiscono alle azioni di altri corpi (quelli che li attraversano) come ogni soggetto dotato di coscienza, o almeno di sistema nervoso, farebbe.

Questo è solo l’esempio più esplicito per illustrare la salienza del “confine” in quanto dispositivo produttivo di un certo tipo di soggettività, all’incrocio tra dinamiche politiche, economiche e sociali che vanno situate sia territorialmente che storicamente a cavallo tra differenti entità politico-territoriali e differenti durate[12].

Il termine “confinamento” quindi, usato in questo contesto, allude proprio a questa condizione, all’atto del situare e controllare corpi che sono già di per sé confini, che nella loro “eccedenza” identificano la striatura, per dirla con Deleuze e Guattari (1980), dello spazio in cui siamo inseriti.

Nell’estate del 2016, dodici cittadini eritrei sono stati portati in un centro di accoglienza nel Centro Italia. L’operatore legale ha quindi spiegato loro la procedura d’asilo, i loro diritti, le procedure necessarie e i regolamenti della struttura. Due giorni dopo, di notte, queste stesse persone hanno abbandonato il centro lasciando un biglietto sul tavolo, che recitava: «Thank you for your help. You have been very kind, no problem with you, problem is finger»[13].

Rimanere nel centro avrebbe significato per loro essere confinati, rimanere catturati nella rete di procedure che inevitabilmente avrebbero bloccato il progetto migratorio che evidentemente avevano programmato. Da simili procedure saranno stati sicuramente catturati altrove e in seguito, ma con l’atto di allontanarsi segretamente sono riusciti a mantenere “liscio”[14], per qualche tempo ancora, lo spazio che attraversavano[15].

Questo frammento etnografico, oltre a illustrare il rapporto strutturale tra corpi in eccesso e attivazione dei confini, aiuta anche a comprendere il rapporto tra ruolo del soggetto e dispositivo istituzionale.

In questo caso, infatti, l’operatore legale, al di là degli sforzi di fornire tutte le informazioni necessarie, di agire con professionalità e correttezza, non poteva non trovarsi ad essere l’attore di una funzione specificamente “poliziesca”, di controllo amministrativo e di salvaguardia dei confini. Solo nel biglietto di commiato degli eritrei, con grande sensibilità, la persona e la sua kindness vengono separati dall’attore con il suo ruolo. Ma è proprio tale cortese separazione che allude in realtà all’inestricabilità, nella pratica, dell’individuo dalla sua maschera istituzionale (confermata dalla fuga di nascosto nella notte).

È proprio in questo senso che gli operatori, gli esperti, i consulenti etc. che lavorano nell’accoglienza non possono non essere poliziotti, amici e babysitter a seconda delle situazioni in cui si trovano ad operare.

Lavorando anche come responsabile della parte legale per alcuni enti gestori, mi sono trovato spesso a dover fare colloqui con alcuni richiedenti asilo in relazione a loro infrazioni del regolamento stabilito dalle convenzioni con la Prefettura. Per quanto si possa avere un approccio elastico all’importanza da attribuire a tali regolamenti, talvolta persino di resistenza verso di essi e di “alleanza” (o connivenza se visto dal lato della Prefettura) con i richiedenti, inevitabilmente in quei momenti non si sta facendo altro che le veci di un funzionario garante dell’ordine. È probabilmente anche la sensibilità antropologica che permette di cogliere con particolare lucidità la qualità e il contenuto delle relazioni in cui si è coinvolti e le posizioni in campo – capacità sviluppata in anni di ricerca sul campo. Tuttavia, percepita o no, tale configurazione dei ruoli è lì, presente, inaggirabile.

Se in certe situazioni i dispositivi che producono ruoli prestabiliti per i soggetti coinvolti sono più espliciti, in altre chi lavora nell’accoglienza si trova proiettato in un dato ruolo, che non pensava di star ricoprendo, dal fare degli stessi richiedenti.

La richiesta continua di presa in carico medica, il conflitto scatenato su questioni riguardanti le regole nel campo, o l’invito a fermarsi a pranzo non sono derive assistenzialiste, o cieche rivendicazioni, o pratiche di “corruzione” o piaggeria: esse sono pratiche coerenti con la forma stessa del “dispositivo accoglienza” (e con la traduzione che i soggetti inseriti ne fanno) e che per ciò stesso mettono a nudo il ruolo che l’operatore sta effettivamente ricoprendo, al di là del fatto che ne sia o meno consapevole. Molti dei fraintendimenti tra operatori e richiedenti, e soprattutto i pregiudizi dei primi riguardo al fare dei secondi, nascono proprio dalla mancata comprensione di queste dinamiche. Esse mostrano il contenuto di relazioni che si vogliono neutralmente professionali, ma che si strutturano invece sia lungo le linee dettate dai dispositivi attivi nel campo istituzionale stesso dell’accoglienza, sia secondo interpretazioni e concezioni differenti della relazione in gioco ai due estremi della stessa.

Se nel primo caso, come già discusso, si è in presenza di fasci di relazioni e di meccanismi di potere prodotti dal funzionamento stesso dell’istituzione, cui è molto difficile sfuggire e che mettono in atto processi di soggettivazione tanto dal lato dell’operatore, quanto da quello del “beneficiario”, il secondo caso richiede un chiarimento, per il quale mi rivolgerò ad un esempio etnografico.

Parlando urdu sono in contatto con molti pakistani ospitati in vari centri toscani.

Un giorno sono stato invitato a pranzo da un gruppo di loro. Dopo aver mangiato, al momento di andare via, i miei ospiti mi hanno abbracciato a turno e uno di loro mi ha domandato: «Possiamo considerarci amici ora?». Alla mia risposta affermativa, ha subito aggiunto: «Allora d’ora in poi ci potrai aiutare per prepararci alla Commissione Territoriale»[16].

Un pranzo assieme agli “ospiti” di un progetto è, già di per sé, pratica sconsigliata da molti enti gestori, soprattutto per gli operatori legali. Essi dovrebbero infatti mantenere un distacco professionale verso i loro “assistiti” e rifuggire da situazioni di eccessiva intimità che potrebbero compromettere l’efficacia del percorso di raccolta della storia di vita e preparazione dell’intervista in Commissione Territoriale.

L’etnografia riportata, tuttavia, mette in mostra una ben differente qualità del tipo di relazione che un operatore legale potrebbe dover stabilire, e questo proprio in vista di una maggior efficacia del suo compito. Il concetto di amicizia, per come esso si delinea nella scena descritta, funziona ben diversamente da come esso viene immaginato e concettualizzato nell’orizzonte culturale-semantico locale. Esso non viene convocato per descrivere una relazione volontaria e paritaria, ma piuttosto come un marcatore dello stabilirsi di un rapporto tra persone non precedentemente relate[17] e che proprio a seguito di ciò, da quel momento in poi, possono coinvolgersi in un rapporto di fiducia reciproco. L’amicizia, in questo caso, funziona quindi come garanzia che tra le due parti si possa attivare una relazione “professionale” e per far sì che un certo tipo di sostegno “tecnico” possa divenire oggetto di transazione. In mancanza di strumenti antropologici per interpretare tale situazione, si potrebbe pensare, come accennato, a una forma di corruzione, o almeno di piaggeria. In realtà è soprattutto per mezzo di relazioni di questo tipo (di amicizia, parentela, parentela rituale etc.) che in Sud Asia viene mediato l’accesso ad un professionista, sia esso un medico, un avvocato o un funzionario pubblico. L’amicizia è anche, spesso, il canale attraverso cui si definiscono, producono e mantengono relazioni clientelari[18].

Il caso descritto mostra quindi come una relazione possa avere un senso e un contenuto assai differenti per coloro che vi sono coinvolti. In mancanza di un piano comune di traducibilità, il rischio di fraintendimenti e anche del tradimento stesso del principio di professionalità, cui pure ci si vorrebbe ispirare, è altissimo. Qui è l’imperativo “non essere amici” che viene messo in discussione nei suoi fondamenti, indicando come in alcuni casi non si possa prescindere dallo stabilire un rapporto di amicizia (per quanto con contenuti in parte differenti da ciò che usualmente si ritiene essere l’amicizia) affinché si instauri un rapporto “professionale” efficace.

L’ambiguità del ruolo dell’antropologia nell’accoglienza italiana.

Come mostra l’ultimo esempio etnografico, l‘antropologia, con il suo sguardo, i suoi strumenti analitici, la sua capacità di problematizzazione, ha sicuramente in questo ambito un forte potenziale di azione. Tale potenziale, tuttavia, si svolge lungo una duplice direttrice, che segna inevitabilmente l’ambiguità del ruolo che essa ricopre.

Tale doppio binario è quello già indicato in precedenza.

Da un lato l’antropologo occupa spesso ruoli su cui ha un controllo molto limitato. I dispositivi in azione nell’istituzione in cui lavora automaticamente costruiscono il suo posizionamento secondo determinate modalità. Una maggiore sensibilità interculturale non può evitare che, durante un colloquio con un ospite di un centro riguardo al regolamento, non si assuma il ruolo del “poliziotto”. Al di là dell’atteggiamento, e indifferentemente dal contenuto del proprio discorso, il contesto stesso proietta in potenza ciò che comunque rimane il possibile esito estremo della situazione: l’allontanamento dell’ospite dal centro (un allontanamento che, paradossalmente, nell’interrompere un confinamento, invece che liberare, costringe usualmente in uno spazio di agibilità ancora più angusto la persona).

Dall’altro lato, l’antropologo può in alcuni casi provocare vere e proprie “esplosioni” del sistema in cui è inserito, metterne in discussione gli assunti, provocarne crisi – sebbene locali e temporanee – e determinarne una riconfigurazione. Parlerò della prima dinamica ora, lasciando al prossimo paragrafo la trattazione della seconda.

Negli ultimi anni un altissimo numero di antropologi e antropologhe, a differenti livelli del loro percorso accademico e di vita, hanno iniziato a lavorare nell’ambito dell’accoglienza. Operatori, insegnanti d’italiano, responsabili legali, interpreti, consulenti, gli antropologi ricoprono ruoli in tutta la filiera lavorativa di centri SPRAR e CAS. Se è vero in generale che per molti giovani l’ambito dell’accoglienza – dove si sta concentrando una crescente e significativa parte degli investimenti economici dello Stato nel sociale – è divenuto un importante sbocco lavorativo, la percentuale di antropologi ivi coinvolti ha raggiunto livelli che, seppure in mancanza di dati sistematici, fanno ritenere di essere di fronte ad un fenomeno degno di nota.

Dal punto di vista degli antropologi stessi, l’accoglienza appare talvolta come uno sbocco quasi naturale. Valentina Mannu (2016), nel suo lavoro di indagine sul coinvolgimento degli antropologi in questo campo, ha intervistato dieci persone, che ricoprono o hanno ricoperto differenti ruoli con vari enti gestori. Sebbene tra di loro ci sia chi si è avvicinato a questo ambito lavorativo in modo quasi fortuito, quello che emerge è un quadro in cui gli antropologi sentono che le proprie competenze possano essere messe a frutto in tale contesto ed in cui, sebbene il lavoro che fanno non è mai esplicitamente quello dell’antropologo, in qualche modo possano riuscire almeno ad “esserlo” (Mannu 2016: 50). I campi per rifugiati, del resto, sono già stati “catturati” all’interno della nostra disciplina come oggetti di ricerca. Come sostiene Kilani,

questi nuovi luoghi sono stati assimilati dagli antropologi al “villaggio” – lo spazio tradizionalmente riservato a lavoro sul campo –, mentre i loro ospiti forzati, i rifugiati, hanno rappresentato una nuova figura dell’“alterità”, tradizionale oggetto della disciplina” (Kilani 2011: 385-386)[19].

L’accoglienza esercita dunque sugli studenti e sui laureati in antropologia un particolare potere di attrazione, come se ciò che studiano e li interessa di colpo fosse giunto nel “cortile di casa” e li stesse interrogando e spingendo a confrontarcisi. Alcuni arrivano a lavorarci dopo percorsi di cooperazione internazionale, spesso all’estero, e alle competenze antropologiche aggiungono competenze più specifiche mettendole a disposizione in progetti che hanno somiglianze con quelli in cui erano coinvolti in Africa, Asia o Sud America.

Sembrano insomma esserci particolari affinità tra una formazione e una “sensibilità” antropologiche e questo ambito lavorativo.

In effetti, il sapere antropologico, proprio nel suo essere incorporato in modalità di gestione “aperta” della relazione, in atteggiamenti, posture, gesti, modalità discorsive che permettono di costruire il senso di una relazione intersoggettiva in collaborazione con, e non “sopra”, l’altro, sembra funzionare particolarmente bene nel campo dell’accoglienza.

Tali affinità ed efficacia trovano conferma anche nel fatto che sempre più gli enti gestori sembrano riconoscere un valore a persone con competenze antropologiche. Improvvisamente, dal trovarsi a dover spiegare cosa significhi “essere antropologi” in molti contesti della propria vita, gli antropologi sono riconosciuti e addirittura ricercati in questo ambito. Ciò dice molto sul fatto che il sapere antropologico, che è anche un saper fare, abbia degli effetti reali nel funzionamento dei centri, e a vari livelli. Da quello base dell’operatore – che permette un abbassamento del livello di conflitto e un passaggio di informazioni più efficace – a quello dell’operatore legale – che permette una traduzione in termini normativi locali di logiche altre spesso difficilmente trasportabili linearmente nelle logiche giuridiche dell’asilo – sempre più il ruolo degli antropologi sembra iscriversi strutturalmente nel dispositivo accoglienza.

Da questo punto di vista, sembra di poter identificare, sebbene secondo modalità differenti, una complicità ingenua alle logiche di controllo e di gestione dell’Altro. Complicità che in parte rimanda all’alleanza storica da parte della nostra disciplina con il colonialismo (Lewis 1973; Stocking 1991).

È da sottolineare, tuttavia, quanto la forma di tale collaborazione abbia caratteristiche differenti da quella storica con il potere coloniale. Prima e più importante di queste, essa sta avvenendo dal basso, spesso con il coinvolgimento di antropologi giovani in cerca del primo lavoro, o comunque mediata da cooperative, avvocati, psicologi, etc. e non per mezzo di alleanze formali prese ai livelli alti della filiera governativa (sebbene i dipartimenti di antropologia siano sempre più spesso coinvolti in progetti, più o meno formalizzati, con le istituzioni e gli enti gestori in relazione all’accoglienza di richiedenti asilo)[20].

Al netto delle discontinuità, il significativo coinvolgimento della disciplina indica comunque che il sapere antropologico in questo campo dimostra una sua efficacia e, a braccetto con altri saperi (medico, giuridico, della mediazione, etc.), produce risultati “positivi” per il funzionamento stesso del dispositivo. Per quanto si possa essere critici sul contesto in cui si è inseriti, una volta assunto un ruolo ufficiale è molto difficile non solo avere controllo sugli effetti del proprio agire, ma anche evitare di subire a propria volta gli effetti di soggettivazione che il proprio posizionamento nell’istituzione attiva.

Tale “imbricamento” è quindi funzionale al progetto disciplinare e, sebbene si possa affrontarlo con idee e atteggiamenti molto differenti, anche “dissidenti” o “resistenziali”, esso tuttavia permane un dispositivo che agisce secondo le sue direttrici e produce comunque i suoi effetti, più o meno linearmente. Presi nella rete, nel fascino dell’efficacia, che solitamente, da studiosi, siamo abituati ad analizzare nei suoi meccanismi sociali e simbolici, non sempre riusciamo a renderci conto, nel praticarla, di quanto essa obbedisca per lo più ai dispositivi che la preparano e apparecchiano, piuttosto che alle scelte del singolo, per quanto attente e ponderate.

Detto questo, non tutto è perduto ed esistono a mio avviso spazi di autonomia, di “sabotaggio” e di riconfigurazione del sistema, che mi accingo a discutere. Rimane soprattutto centrale la necessità di attivare e mantenere una riflessione costante su queste questioni aprendo spazi, momenti, persino ritagli di discussione riguardo alle logiche (disciplinari, umanitarie, securitarie, escludenti, etc.) del sistema. Questo per poter produrre almeno una parziale consapevolezza, nei soggetti coinvolti, del loro posizionamento, del loro ruolo e della necessità di analizzare continuamente le loro azioni e considerazioni proprio in relazione alla cornice generale in cui si è inseriti.

Questo va fatto sia dal lato dell’accademia e della ricerca “pura”, sia nel lavoro quotidiano degli antropologi nelle strutture di accoglienza e quindi con i loro colleghi, o nelle questure, negli ospedali, nelle ASL, negli uffici comunali, nei circoli rionali, persino nei centri per l’impiego e nelle biglietterie centrali dei trasporti locali: tutti i luoghi che un operatore frequenta quotidianamente e in cui si incontra/scontra continuamente con pratiche e considerazioni di ogni tipo. In questo senso il ruolo dell’antropologo in questi contesti deve anche essere – a mio avviso forse soprattutto – quello di rendere evidenti le dinamiche e le contraddizioni che sono strutturali all’interno del sistema di accoglienza.

Come scrivevo alcuni anni fa recensendo il bel libro di Andrea Ravenda (2011) sui CIE in Puglia (in cui l’autore affrontava anche la problematica del rapporto tra sapere antropologico e lavoro di ricerca nei centri di identificazione ed espulsione):

considerando il “campo” come la rete di relazioni che lo produce, e non solo come un dispositivo di controllo e assoggettamento, è possibile trovare vie di fuga verso l’identificazione di pratiche di resistenza possibili, negoziazioni multiple dei vari posizionamenti, rotture nel tessuto discorsivo che lo produce (Sbriccoli 2012).

Questo tipo di attività andrebbe svolto anche in collaborazione con i richiedenti asilo e i titolari di protezione, spesso ben più coscienti di molti operatori e funzionari del dispositivo che li cattura, ma privi di spazi di messa in discussione e in condivisione del proprio punto di vista sull’accoglienza.

L’autoriflessività dovrebbe funzionare come operatore di critica (anche del proprio lavoro naturalmente) non solo a posteriori o nei momenti del confronto accademico, ma quotidianamente, nel mettere in discussione e fare presenti i problemi etici, politici e deontologici che riguardano il nostro agire (e quello degli altri intorno a noi) all’interno di queste istituzioni. Anche per potersi rendere conto, nel momento in cui il fare pratico che ci fosse richiesto in tali contesti arrivasse a collidere esplicitamente e totalmente con il nostro fare epistemico e con i presupposti critici ed etici della nostra disciplina, che è giunto il momento di smarcarsi e di abbandonare il “campo”.

Esistono tuttavia altre potenzialità che l’antropologia è in grado di sviluppare e che possono avere l’effetto, destabilizzante, di costringere il sistema a riconfigurarsi.

Eventi esplosivi: convocare jiin all’ASL

Nel corso del 2016 ho seguito come mediatore linguistico e culturale il percorso di assistenza psicologica ad un richiedente asilo proveniente dal Pakistan presso un dipartimento di salute mentale dell’Asl. Il richiedente – che chiamerò M. per tutelare la sua privacy – a seguito di una serie di eventi drammatici avvenuti nel suo paese dimostrava sintomi di disagio fisico e psichico. Fin dall’inizio del percorso con la psicologa ho avuto molta difficoltà a mediare come interprete tra universi simbolici e valoriali differenti. Mi sono trovato spesso a dover tradurre concetti complessi (quali l’idea stessa di “trauma” e di sua elaborazione), inseriti come sono in sistemi di comprensione della realtà e del sé con una loro specifica storicità e diffusione, in un codice altro, in cui l’orizzonte di senso è molto differente, senza che la difficoltà e importanza di tale attività fosse riconosciuta e, a sua volta, mediata nel contesto. Per quanto tali idee possano, infatti, apparire scontate a soggetti cresciuti nel “nostro” sistema interpretativo del rapporto tra sé e mondo, esse non lo sono affatto per chi proviene da altri contesti socio-culturali.

Se da un lato la psicologa compiva pochi sforzi per comprendere che chi aveva davanti non poteva essere considerato un “italiano” che parlava un'altra lingua, dall’altro lato anche il paziente non riusciva a entrare all’interno della relazione terapeutica e sembrava che il suo principale interesse fosse quello di ottenere al termine del percorso un certificato da poter esibire in tribunale, piuttosto che un aiuto per affrontare il suo disagio. A metà tra questi due poli, mi rendevo conto che il contesto clinico in cui ero inserito si svolgeva lungo due vettori che correvano paralleli, in cui le tecniche messe in atto da una parte non avevano alcuna presa, e le istanze sollevate dall’altro (esclusa quella strumentale, assolutamente legittima, della necessità di ottenere una qualche forma di certificazione) non trovavano alcun effettivo ascolto. Proprio nel mezzo di una procedura EMDR[21], in cui percepivo chiaramente quanto i miei sforzi traduttivi, da un lato e dall’altro, si stessero rivelando inutili, ho deciso di esplicitare alla psicologa tutte le difficoltà che stavo affrontando nel passare da un codice linguistico-culturale all’altro in presenza di concetti complessi quali quelli che stava maneggiando e la mia sensazione che la procedura stesse girando a vuoto. Incuriosita per la prima volta dalle mie obiezioni, la psicologa ha provato allora a rimetaforizzare per il paziente ciò che stava cercando di fare, con termini che riteneva fossero maggiormente traducibili. Riporto la conversazione avvenuta, per come l’ho ricostruita subito dopo la seduta.

Psicologa (al paziente): «Immagina che la tua testa sia una casa, piena di stanze. All’interno di una di queste si trova un mostro. Questo mostro, per quanto tu possa cercare di ignorarlo, prima o poi ti si presenta davanti. Anche se pensi di averlo chiuso a chiave, all’improvviso si può ripresentare. Tu devi elaborare quello che ti è successo affinché il mostro non possa più tornare».

Interprete (al paziente, in urdu): «La dottoressa dice di immaginare che la tua testa sia una casa con molte stanze. In una di queste si trova un jiin. Questo jiin, se non vuoi che continui a darti fastidio [lagaana, lett. “attaccarsi”, “fare presa”] non puoi fare finta di niente. Va allontanato [utaarna, lett. “far scendere”, “disarcionare”] definitivamente».

Paziente (all’interprete, in urdu): «Ma quindi la dottoressa è una dottoressa dei jiin? Può risolvere il mio problema? Può riuscire a farmi stare meglio?».

Interprete (alla psicologa): «Dottoressa, nel tradurre quello che lei ha detto mi sono preso delle libertà. Affinché M potesse meglio comprendere quello che stiamo facendo qui, ho tradotto “mostro” con jiin, esseri sovrannaturali che possono causare problemi alle persone, e il verbo “elaborare” con quello che in Pakistan e India si usa solitamente per descrivere, nelle pratiche di esorcismo, l’atto con cui tali presenze vengono allontanate. Ora M sembra aver meglio compreso il contesto terapeutico, però la devo avvertire che d’ora in poi, oltre a compiere una EMDR, qui noi staremo anche facendo un esorcismo»[22].

Se dal punto di vista della deontologia e pratica di un interprete tale mio intervento potrebbe suscitare critiche, la mia scelta di agire in quel modo, ragionata sebbene immediata, è nata dalla frustrazione di non riuscire a far comunicare i soggetti tra cui mediavo, e dalla volontà di trovare un modo per rompere quella situazione di totale stallo e stabilire un orizzonte di inter-comprensibilità possibile.

Dalla seduta successiva, la psicologa ha deciso di abbandonare l’EMDR, che ha compreso essere una pratica terapeutica non idonea al caso (parole sue). Ha inoltre cambiato profondamente il suo atteggiamento nei miei confronti e in quelli di M, interrogandomi spesso sul contesto generale di provenienza di M. e sul possibile significato di alcune sue risposte, e prestando molta più attenzione alla “voce” di M.[23] – ovvero alla sua particolare modalità di costruirsi nel discorso – piuttosto che al mero contenuto delle sue risposte. Anche M., sebbene l’esorcismo non si sia poi svolto, ha partecipato con maggiore coinvolgimento alle sedute e ha ottenuto almeno la possibilità di poter sviluppare un racconto di sé e dei suoi problemi nei termini che riteneva più appropriati[24].

Ho scelto di riportare questo episodio proprio per mostrare come il sapere antropologico possa funzionare producendo ciò che Lotman definisce “esplosioni”[25], ovvero messe in discussione profonde delle modalità di costruzione del senso e di interpretazione della realtà. Tali eventi esplosivi implicano spesso violente reazioni di riconfigurazione dei sistemi di pertinenza semantica all’interno dei quali avvengono. Essi ristrutturano sia la sua memoria culturale, sia il significato delle sue pratiche correnti e spingono il sistema verso riorganizzazioni future imprevedibili.

Nel caso in esame, due serie di concetti appartenenti a sistemi di pertinenza differenti vengono opposte l’una all’altra articolandone opposizioni e continuità in modo da produrre uno spazio terzo in cui le soggettività in gioco possano ridefinirsi lungo il nuovo orizzonte di traducibilità attivato. Il sistema di pertinenza “dominante” – in questo caso la visione “occidentale” del trauma, del rapporto tra corpo e psiche, dei processi necessari al ristabilimento di una condizione di “benessere”, etc. – viene improvvisamente messo in discussione per mezzo di un’intrusione esplosiva da parte di una “lingua” (per usare la terminologia di Lotman) che gli è esteriore, ma che riesce, trovando un’apertura, o una presa, nel dispositivo stesso, a farsi strada. Il sistema vacilla, per un attimo perde i riferimenti che ne strutturavano la linearità e ne sancivano la naturalezza. È a questo punto che il sistema, nel ristrutturarsi, si apre a “possibilità imprevedibili”. Sebbene la resilienza dei dispositivi disciplinari sia significativa, l’efficacia di tali eventi esplosivi e di queste intrusioni epistemiche lascia sempre una traccia, una memoria di sé, tra le loro reti. E permette riconfigurazioni, sebbene spesso localizzate e temporanee, del sistema. Come ha fatto la convocazione di un jiin nel corso di una terapia psicologica all’ASL.

Tali traduzioni complesse sono il pane quotidiano dell’antropologia, che lavora proprio all’incrocio tra differenti sistemi simbolici, politici e sociali e a cavallo di almeno due, se non più, epistemologie[26].

In questo caso, tuttavia, tali traduzioni complesse vengono per così dire giocate sul tavolo della realtà (mi si permetta, per semplificare, questo riduzionismo epistemico), se ne testa, o attiva, l’efficacia empirica, il potenziale esplosivo, l’effetto destabilizzante sui dispositivi istituzionali in cui si lavora[27].

Così inteso e praticato, il sapere antropologico, all’interno del campo (o dei “campi”) dell’accoglienza, mantiene una sua valenza critica, destrutturante (e ristrutturante), persino eversiva. Per attivarla servono una certa dose di esperienza e anche di creatività, ma essa è lì, disponibile, come una risorsa discorsiva in grado di sfruttare le aperture dei dispositivi per fargli assumere curvature inattese, per metterli in discussione, forse persino per invertirne il senso.

Tale lavorio ai fianchi è condotto quotidianamente anche da molti altri esperti coinvolti a diverso titolo nell’impegno con richiedenti asilo e rifugiati. Alcuni tra gli psicologi, i linguisti, i medici, gli educatori, i giuristi, gli avvocati, e molte altre figure, professionali e non, provano, ciascuno nel proprio lavoro, a mettere in discussione i dispositivi, le ideologie, i pregiudizi, i protocolli che informano il sistema di accoglienza. A questo sforzo, che si pone allo stesso tempo dentro e fuori dei dispositivi istituzionali di disciplinamento, o meglio su quel margine da cui essi possono essere almeno parzialmente decifrati e messi in crisi, l’antropologia può, e a mio avviso deve, offrire gli strumenti che possiede e il saper fare che la caratterizza, che rappresentano il suo aspetto potenzialmente più sovversivo, in quanto pratica di frontiera a cavallo tra sistemi epistemici situati al di qua e al di là di quel “confine coloniale infranto” di cui parla Rahola (2007) e che fonda l’essere in eccesso di una certa umanità in viaggio.

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[1] Come ogni prodotto culturale, anche questo articolo è nato dal confronto quotidiano e dalla riflessione condivisa con molte persone cui mi sento debitore. Tra i molti con cui condivido il lavoro nell’ambito dell’accoglienza e con i quali la discussione su questi temi è sempre presente e appassionante, vorrei in particolare ringraziare Jacopo Braghini, Irene Caverni, Maria Nella Lippi, Bianca Nardin, Sara Palli, Cassandra Rofi, Franca Ruolo e Chiara Trevisani. Vorrei inoltre ringraziare per i preziosi consigli e commenti sul testo o su versioni precedenti di esso Filippo Alderighi, Maddalena Gretel Cammelli, Armando Cutolo, Federica Molossi, Bruno Riccio, Pietro Saitta, Sergio Zorzetto e i due revisori anonimi di Antropologia Pubblica. Infine, un ringraziamento particolare va alle curatrici di questo numero speciale per tutto il lavoro svolto e ad Andrea Ravenda per gli utilissimi commenti sul testo e il supporto. Naturalmente, la responsabilità del contenuto di questo articolo rimane esclusivamente mia.

[2] Per studi antropologici sul sistema di accoglienza italiano si può vedere, tra gli altri, Sbriccoli e Perugini (2012), Sorgoni (2011a) e Van Aken (2008). Per il coinvolgimento lavorativo degli antropologi nell’accoglienza rimando ad una recente tesi di laurea, redatta da Valentina Mannu (2016). Per l’utilizzo dell’ “expertise antropologico” nei casi di richiesta di asilo nei tribunali vedere Sbriccoli e Jacoviello (2011) per l’Italia, il quale è contenuto in Holden (2011) assieme a vari contributi che trattano della stessa tematica per altri paesi europei e gli Stati Uniti.

[3] I CAS, Centri di Accoglienza Straordinari, sono selezionati direttamente dalle varie Prefetture per mezzo di bandi e convenzioni i cui criteri sono molto più elastici e immediati di quelli invece adottati per la selezione dei progetti SPRAR (nei primi, ad esempio, è quasi totalmente assente la necessità di una rendicontazione dei fondi erogati, gli effetti della qual cosa possono essere facilmente immaginati).

[4] Per una descrizione del sistema di accoglienza italiano vedere Marchetti (2014) e Sbriccoli (2016) per una piccola genealogia del sistema straordinario.

[5] Tali informazioni provengono sia dalla tesi di laurea della Mannu (2016), sia dalla mia oramai pluriennale esperienza in questo campo e dalla mia collaborazione con molti CAS e SPRAR sparsi sul territorio nazionale. La quantità di panel e interventi sul tema della richiesta d’asilo all’ultimo Convegno SIAA a Trento, in cui è anche stata presentata una prima versione di questo articolo, mostra a sua volta quanto l’antropologia sia ormai profondamente e massicciamente coinvolta in questo ambito.

[6] Si può rimandare per analisi approfondite di tali dinamiche ai lavori di Barbara Harrell-Bond (1986, 1999) di Didier Fassin (2012) e di Vacchiano (2012), tra i molti che ne trattano.

[7] I casi più eclatanti di “mala-accoglienza” non vengono presi in considerazione nella presente analisi, sebbene siano anch’essi assolutamente strutturali, vale a dire non “eccezionali”, al sistema di accoglienza per come esso è pensato e sviluppato. Tuttavia anche in essi, a mio avviso, il concetto di professionalità agisce come operatore ideologico di mediazione tra le differenti istanze, sebbene con un utilizzo in una direzione marcatamente securitaria, “espulsiva”, e di violenza strutturale, anche ai fini di una ottimizzazione del profitto economico. È inoltre interessante notare che ormai anche le strutture caritative, che gestiscono una fetta significativa dell’accoglienza in Italia, stanno abbandonando, almeno parzialmente, il lessico della pietas, della carità, della misericordia, per entrare in quello del rapporto professionale, degli strumenti di gestione, delle competenze, dei protocolli. Ciò non evita il prodursi di dinamiche di infantilizzazione, sospetto, stereotipizzazione, etc., nel rapporto tra enti gestori e “ospiti”, ma funge da cornice generale di azione, talvolta nascondendo o oscurando quelle stesse dinamiche per mezzo di un lessico altro. Per la descrizione invece di processi di gestione dell’accoglienza secondo principi ispirati al “management”, che assimilano la figura del “profugo” a quella di un particolare tipo di “cliente” (paradigma tuttora esistente nel sistema di accoglienza), rifacendosi ugualmente a modelli “professionali”, sebbene di altro tipo, si può vedere Sbriccoli e Perugini (2012).

[8] Sul potere disciplinare i riferimenti principali sono a Foucault (1976; 2004) e Butler (2005), è fondamentale per poter pensare i processi di soggettivazione e assoggettamento come produttivi di particolari configurazioni psichiche. Fabio Dei (2013) è interessante per l’acuta analisi dei principali concetti di derivazione foucaultiana (soprattutto nel successivo lavoro di Agamben) per come essi sono applicati al campo delle migrazioni, a suo avviso spesso in modo poco pertinente ed efficace.

[9] Vedere Sbriccoli e Jacoviello (2011) per un’analisi del gioco delle differenti istanze epistemiche nel percorso legale di un richiedente asilo del Bangladesh.

[10] Nel corso della discussione sviluppatasi a seguito della presentazione dell’intervento (al Convegno SIAA a Trento) alla base di questo articolo sono emersi interessanti spunti etnografici su questa questione. Una partecipante ha raccontato di un richiedente asilo con cui aveva lavorato che, uscito dal progetto di accoglienza, ma continuando a dormire “illegalmente” e di nascosto nella medesima struttura, aveva abbandonato la definizione di camp per iniziare a chiamare il luogo in cui risiedeva home.

[11] Eurodac, acronimo di “European Dactyloscopie” (Dattiloscopia Europea) è il database europeo che raccoglie le impronte digitali di coloro che fanno richiesta d’asilo sul territorio dell’Unione Europea.

[12] Rahola, nell’articolo già citato (2007), ricostruisce una genealogia della forma campo a partire dalla sua matrice coloniale e attribuisce la condizione di umanità in eccesso di migranti, rifugiati e richiedenti che provengono dal “Sud del mondo” alla continuità infranta del confine che separava le metropoli dalle colonie. Un’altra prospettiva molto utile alla comprensione del rapporto tra migrazione e produzione dei confini a livello infra- e sovra-statale è quella di Zorzetto (2017). Anche Ravenda (2011) discute tali questioni in relazione ai CIE.

[13] Informazione confidenziale da parte di un operatore di un centro di accoglienza, agosto 2016.

[14] Per i concetti di “spazio liscio” e spazio striato” vedere Deleuze e Guattari (1980).

[15] È interessante segnalare come la cornice normativo-amministrativa stabilita con Dublino III viene talvolta utilizzata/aggirata in modo strategico dai governi stessi. È il caso dell’Italia, che è stata accusata da vari paesi europei, soprattutto Francia e Germania, di non inserire volontariamente le impronte digitali di alcuni migranti nel sistema Eurodac per favorire il loro spostamento verso paesi terzi. Esemplare la crisi tra Francia e Italia nell’estate del 2015 che ha portato all’attuale situazione a Ventimiglia.

[16] Conversazione con B., avvenuta nell’agosto del 2015 in un centro di accoglienza nel senese.

[17] Che questo avvenga dopo aver condiviso del cibo, principale medium in Sud Asia per stabilire relazioni di intimità e alleanza o, al contrario, per marcare una distanza gerarchica o la separazione tra le parti, è indicativo di quanto siano all’opera in questo caso codici culturali difficilmente comprensibili nella loro complessità da parte di persone non preparate su tali questioni. Tornerò in seguito su questo aspetto.

[18] Sull’amicizia in Sud Asia come operatore ambiguo, che funziona allo stesso tempo o a seconda dei contesti come superamento, spazio di negoziazione o strumento di riproduzione delle relazioni gerarchiche, si può vedere Osella e Osella (1998), Nisbett (2007) e Sbriccoli (2015). Per una discussione più specifica di come l’amicizia agisca come operatore nelle relazioni di clientela, si può vedere la raccolta di saggi curata da Piliavsky (2014) e soprattutto l’introduzione al volume della stessa studiosa.

[19] Naturalmente quella del “villaggio” è una metafora che semplifica e in parte mette in “caricatura” le modalità dello stabilirsi di un interesse conoscitivo dei campi di rifugiati da parte dell’antropologia. Il dibattito antropologico sul campo come spazio sociale e sulla figura del rifugiato come prodotto di molteplici pratiche discorsive, politiche e legali è ricco e approfondito e riflette la complessità dell’oggetto di analisi. Al riguardo, tra i molti testi prodotti, ci si può riferire ai lavori di Malkki (1995a; 1995b) e al dibattito su Ethnography (2002, 3/3) suscitato dalla proposta di Agier di riconoscere i campi per rifugiati del “Sud” del mondo come città (con interventi di Agier, Bauman e Malkki).

[20] Tale dinamica “dal basso” dice però molto anche di come la crisi dell’università come canale di mediazione (anche critica) tra formazione e mondo del lavoro, e lo spostamento di risorse economiche e simboliche dall’accademia ad altri ambiti privati di gestione sociale, riduca lo spazio di libertà (ma anche di consapevolezza) per chi si trova diviso tra necessità di lavorare e volontà di mantenere un posizionamento critico nei confronti della realtà.

[21] L’EMDR, Eyes Movement Desensitization and Reprocessing, è un complesso approccio terapeutico utilizzato per il trattamento del trauma e di problematiche legate allo stress.

[22] Tale conversazione è avvenuta presso il dipartimento di salute mentale dell’ASL di Poggibonsi nell’ottobre del 2016, durante una seduta clinica cui, oltre a me, partecipavano la psicologa e il suo paziente M., richiedente asilo pakistano.

[23] Per l’idea di “voce” come corrispondenza tra fare discorsivo del soggetto e sua proiezione sul piano del discorso (soggettività), vedere Sbriccoli e Jacoviello (2012; 2016).

[24] Per approfondimenti sui temi della costruzione e produzione della malattia mentale, delle cure e dell’efficacia terapeutica in contesti culturali non occidentali, e dello stabilirsi di uno spazio di inter-traducibilità possibile tra differenti sistemi, rimando alle analisi dell’etnopsichiatria critica. Si può vedere Beneduce (2007) per una presentazione generale della tematica, e Taliani e Vacchiano (2006) per una discussione più legata al campo delle migrazioni.

[25] Lotman definisce tali processi nel seguente modo: «[…] questo mondo esterno, che la cultura vede come caos, in realtà è anch’esso organizzato. La sua organizzazione si compie secondo leggi di una qualche lingua ignota alla cultura data. Nel momento in cui i testi di questa lingua esterna risultano introdotti nello spazio della cultura, avviene l’esplosione. Da questo punto di vista l’esplosione può essere interpretata come il momento dello scontro di lingue estranee l’una all’altra: dell’assimilante e dell’assimilato. Appare così uno spazio esplosivo: un insieme di possibilità imprevedibili» (1993: 168).

[26] Per Carlo Severi l’antropologia stessa può essere intesa come una “epistemologia empirica”. Questo concetto è stato discusso da Severi durante un seminario tenuto presso l’Università di Siena nel 2008. Alcuni riferimenti al processo di costituzione delle credenze e della conoscenza attraverso esperienze condivise di soggetti individuali possono essere trovati in Severi (2004).

[27] Non è la prima volta che, nei miei lavori, affronto il significato, la pratica e soprattutto l’efficacia di questo tipo di traduzioni complesse. Anzi, è forse questo il tema centrale che ha indirizzato la mia ricerca e guidato il mio lavoro con richiedenti asilo e rifugiati nel corso degli anni. Per esempi in ambito giuridico si può vedere Sbriccoli e Jacoviello (2011) e Sbriccoli e Ricca (2016). Per l’analisi di come tali processi traduttivi, in grado di riconfigurare i sistemi di pertinenza in “co-presenza”, siano messi in atto dagli stessi richiedenti asilo e rifugiati, per mezzo di un’attitudine e di una pratica che abbiamo definito “creole”, vedere Sbriccoli e Jacoviello (2012).