Andare oltre

Per un’antropologia pubblica dell’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale

Elisa Mencacci

Operatrice legale accoglienza

Stefania Spada

Scuola di Giurisprudenza, Università di Bologna

Table of Contents

Introduzione
Connessioni, scarti e possibilità
Ricerca vs lavoro: dall’incompatibilità alla necessaria complementarietà
Re-Azioni
Conclusioni
Bibliografia

Introduzione

In questo contributo[1] conclusivo al presente numero di Antropologia Pubblica, si intendono perseguire diversi obiettivi: in primo luogo, tracciare un sentiero in grado di tenere insieme le diverse sollecitazioni emerse nei vari saggi qui pubblicati, quali elaborazioni degli interventi presentati al IV Convegno SIAA all’interno dei due panels, “Accoglienza dei richiedenti asilo e sapere antropologico: tra necessità e legittimazione”[2] e “Richiedenti asilo e comunità locali: tra emergenza e consapevolezza”. Successivamente, si cercherà di far dialogare queste stesse sollecitazioni con riflessioni tese ad aprire future e possibili traiettorie, sviluppabili nel dibattito relativo ad una “Antropologia pubblica sul tema dell’accoglienza”, per poi concludere con un’analisi critica relativa ai più recenti aggiornamenti normativi rispetto al tema della protezione internazionale.

Nel tracciare un sentiero tra i diversi saggi si metterà in luce come gli autori abbiano inteso e declinato in forme diverse, nei rispettivi interventi, la possibilità di un’Antropologia pubblica sulla questione dell’accoglienza dei richiedenti e titolari di protezione internazionale. Già di per sé, l’Antropologia pubblica prende forma in Italia come contenitore ampio, in grado di racchiudere quei “segmenti” distinti della disciplina sviluppatisi in seno all’antropologia statunitense – applied, action and practitioner anthropology — come ha evidenziato Ivan Severi nel saggio di apertura al volume di recente pubblicazione curato con Nicoletta Landi: “Going Public: percorsi di antropologia pubblica in Italia” (2016).

Per questo motivo non è possibile tradurre letteralmente “Public Anthropology” con “antropologia pubblica”: in Italia abbiamo l’opportunità di riempire di significati diversi questi termini, ricontestualizzarli e risemantizzarli perché rappresentino l’unione delle istanze e non la loro separazione. L’antropologia pubblica italiana può, quindi, costituire l’ambito in cui si confrontino antropologi accademici e professionali e, assieme, costruiscano teorie e pratiche nuove che sappiano portare la disciplina nella società (Severi 2016: 36).

Nello stesso volume Bruno Riccio ha inoltre evidenziato la necessità, vista l’urgenza con cui l’antropologia è chiamata sempre più di frequente a pronunciarsi e a misurarsi con tematiche dense quali le politiche migratorie e, più nello specifico, con le pratiche e politiche dell’accoglienza di richiedenti e titolari di protezione internazionale, di muoversi in questo campo guidati da una «sensibilità olistica» (Riccio 2016: 210). Tale sensibilità deve essere in grado di tenere insieme la complessità dell’agire istituzionale e i vissuti esperienziali di migranti e professionisti, entrambi soggetti costantemente in relazione con gli effetti di questo stesso agire. Ed è proprio una «riflessività professionale sistematica» che può aprire «una via di ricerca che definisca con maggiore accuratezza le potenzialità della prospettiva antropologica in questo campo di azione» (Riccio 2016: 204).

In linea con quest’ultima prospettiva i due panel del Convegno SIAA hanno offerto la possibilità di presentare all’interno di una cornice pubblica i prodotti “scientifico-esperienziali” di questo tipo di “riflessività”, frutto dell’esperienza lavorativa diretta di antropologi e scienziati sociali che, a vario titolo, si sono interfacciati con le complesse e svariate realtà che compongono l’accoglienza dei richiedenti asilo nella veste di operatori, coordinatori, consulenti o più delineati ricercatori.

Connessioni, scarti e possibilità

Il diverso grado d’implicazione degli autori alla realtà in oggetto può essere individuato come “connettore” tramite cui restituire senso alle specificità di questi contributi e al loro prendere parte con posizioni distinte al discorso relativo a un’Antropologia pubblica sul tema dell’accoglienza.

Negli interventi di Ferretti e di Membretti-Galera è rintracciabile un posizionamento che vede gli autori nel ruolo di ricercatori scevri da particolari e ulteriori livelli di coinvolgimento con il contesto preso in esame. Entrambi i contributi affrontano la questione dell’impatto che i progetti di accoglienza hanno avuto su specifici contesti locali e tessuti urbani. Daniele Ferretti, usando la “percezione della sicurezza” come “termometro analitico” attraverso cui rintracciare le risposte di quattro differenti realtà urbane rispetto all’apertura di progetti di accoglienza di diversa conformazione, ha evidenziato alcuni tra i fattori che potrebbero in qualche modo essere tenuti in considerazione nella progettazione delle policies urbane nelle fasi di analisi preliminari all’apertura delle strutture. Le diverse tipologie sia dei luoghi che delle modalità di accoglienza (appartamento, medio/grande centro o in famiglia) sommate alla capacità di queste ultime di armonizzarsi con il tessuto locale — con le sue caratteristiche e fasi specifiche, anche attraverso la costruzione di network in grado di attivare una conoscenza reciproca tra le realtà dell’accoglienza e gli attori locali, sono elementi individuabili come prodromi di buoni incontri.

Anche nell’intervento di Andrea Membretti e Giulia Galera emerge l’importanza del tessere reti tra le accoglienze e il tessuto comunitario, in quanto funzionale alla creazione di buone prassi e ad un esito soddisfacente dei percorsi di vita dei richiedenti asilo collocati “forzatamente” in un contesto particolare come quello montano dell’arco alpino. Gli autori hanno messo in luce come, dal punto di vista di queste specifiche realtà — caratterizzate da fasi di crisi demografiche, identitarie ed in parte anche economiche — la presenza di progetti di accoglienza possa portare allo sviluppo di possibili strategie di “resilienza collettiva”. La presenza di migranti, trovatisi a vivere la condizione di “montanari per forza”, può quindi facilitare processi di ri-significazione delle identità locali; processi attraverso i quali le comunità potrebbero ridefinirsi in relazione alla presenza di “altri” secondo modalità creative ed includenti.

Gli altri contributi che compongono il volume sono caratterizzati da un posizionamento degli autori decisamente più engaged nei diversi segmenti istituzionali che compongono il contenitore “accoglienza”. Implicati in questi contesti con ruoli distinti o talvolta sovrapposti: volontaria-ricercatrice, coordinatrice, psicologa, attivista-mediatrice-ricercatrice, mediatore-consulente tali contributi risultano intrecciati gli uni con gli altri in quanto retrospettive del quotidiano professionale degli stessi autori, il cui vissuto e il cui mondo lavorativo sono stati letti ed analizzati attraverso lo sguardo antropologico. Ed è proprio questa prospettiva, in quanto lente interpretativa, ad aver permesso operazioni sia di de-naturalizzazione di relazioni istituzionali che di decostruzione di mandati lavorativi, ad aver innescato cortocircuiti di sistema e processi di ri-significazione di crisi professionali, oltre ad essere stata terreno fertile per la promozione di atti creativi all’interno del sistema stesso. «Piuttosto, gli studi etnografici di organizzazioni e istituzioni assumono tali spazi come contesti porosi in cui differenti categorie di soggetti recepiscono e filtrano indicazioni, procedure e normative nazionali e trans-nazionali, e dove le relazioni sociali formali e informali ridefiniscono e reinterpretano dall’interno dei ruoli, compiti e obiettivi» (Sorgoni 2011b: 26).

Il contributo di Daniela Benemei, Francesca Scarselli e Virginia Signorini si presenta come un racconto corale, a tre voci, attraverso cui le autrici tentano di “ri-cucire” l’esperienza frammentata, da un punto di vista temporale, geografico ed istituzionale, di una complessa e fallimentare presa in carico di un giovane richiedente asilo. Sono pagine in cui è rintracciabile un canale diretto con il vissuto emozionale delle tre professioniste che analizzano quest’esperienza estrapolata dal proprio quotidiano lavorativo attraverso un dialogo con le cornici disciplinari di afferenza: psicologica e socio-antropologica. Quest’operazione scientifico-rielaborativa mostra gli effetti di una messa in scacco istituzionale in cui il giovane richiedente, protagonista silente della vicenda, re-esiste, sottraendosi alla pressione del linguaggio e delle categorie: «un atto di presenza attraverso l’assenza, contro una burocrazia che è diventata improvvisamente troppo difficile da comprendere ed incorporare nella propria quotidianità». Richiedente asilo, adulto, vulnerabile, minore non accompagnato: il processo di categorizzazione dei soggetti è spesso legato ad azioni istituzionali che comportano la lacerazione di legami, la frattura di percorsi di vita e dei faticosi processi di costruzione di senso nella migrazione. Tali lacerazioni sono spesso frutto delle imposizioni di rigidi percorsi socio-assistenziali in cui i soggetti vengono spostati più o meno passivamente da un progetto all’altro senza considerarne gli effetti sui soggetti stessi. «Il disincanto rappresenta la cruda consapevolezza di trovarci all’interno di un sistema che non solo non è stato in grado di prendersi cura di lui, ma che lo ha espulso perché non si è incasellato come doveva» (Benemei, Scarselli e Signorini nel presente volume).

Le analisi proposte da Guida, Cammelli, Castellano e Mugnaini prendono forma dall’esperienza comune di aver attraversato l’accoglienza per un periodo circoscritto in qualità di operatrici. Le autrici mettono in luce contraddizioni e criticità che possono contraddistinguere l’organizzazione in questo tipo di luoghi, svelandone altresì i conflitti etico-politici che insorgono intimamente quando l’agire lavorativo risulta fortemente mediato da questioni etero-imposte. Regolamenti di struttura, rapporti inter-istituzionali, linee guida di progetto, immaginari dell’altro, prospettive degli enti gestori e micro-culture di sistema, sono tutti elementi che, se da una parte agiscono i tratti potenzialmente costrittivi del lavoro operativo nell’accoglienza, dall’altra ne mostrano i margini in cui è possibile intervenire in un’ottica migliorativa, anche attraverso le analisi prodotte. Il tentativo di far coabitare lo sguardo antropologico con l’azione lavorativa ha innescato in tutte le autrici frizioni emotive ed etico politiche, in quanto aspetti vissuti nell’immediato come confliggenti. Gli stessi interrogativi sono rintracciabili in una recente pubblicazione dove Lorenzo Vianelli riflette sulla sua esperienza come operatore dell’accoglienza rappresentandola attraverso il binomio “frustrazione/potenzialità”. L’autore descrive la fatica iniziale provata nel far coabitare uno sguardo critico, teso a mettere in luce la complessità con la rigidità della burocrazia che contraddistingue questo tipo di progetti, volta a una standardizzazione e a una riproduzione delle pratiche in forma acritica e semplificata: «devo ammettere che non è stato facile convivere con questi interrogativi e non arrendersi ad una comoda messa in disparte di tutto un sapere ed un approccio tanto fonte di ricchezza quanto motivo di frustrazione se non addirittura di intralcio nelle attività quotidiane» (Vianelli 2014: 350).

«La domanda che spesso mi ponevo era quanto dovevo osservare e quanto e come dovevo partecipare» si chiede Guida nel suo articolo, esplicitando un interrogativo con importanti ricadute, operative ed etiche: quando agire in base alle logiche istituzionali e quando far parlare il sentire antropologico? In un’etnografia condotta all’interno di un’accoglienza gestita secondo una logica fortemente emergenziale da un’organizzazione cattolica, dove il paternalismo e l’approccio donativo sono divenuti leve in una spirale di pressioni più o meno implicite, l’autrice sottolinea come per gli ospiti di questa struttura “diventare rifugiati” abbia significato non solo attraversare gli snodi di un iter istituzionale, ma altresì plasmare un’identità conforme ed aderente al registro valoriale dello stesso ente gestore. Come mettono in luce Altin e Sanò nell’introduzione, questo saggio mostra come sia complesso parlare attualmente in Italia di un unico sistema di accoglienza caratterizzato da pratiche omogenee e da un’unica cultura istituzionale. Nei fatti sarebbe forse più corretto parlare nei termini di un insieme di sistemi di accoglienza mossi dalle micro-culture che contraddistinguono i diversi enti-gestori e i diversi territori. Nella parte finale del suo contributo anche Cecilia Guida intravede degli spazi di azione in cui l’antropologia, in quanto sapere critico, può contribuire: non esclusivamente mettendo in luce le contraddizioni di queste strutture, ma assumendo al loro interno un ruolo più attivo, come esplicitato nello stralcio di intervista in cui la realtà degli ospiti, con le loro posizioni o rivendicazioni, viene connessa e posta in dialogo, con la realtà degli operatori, contraddistinta da mandati e regole di progetto. Un’operazione di traduzione tra i due mondi che può contribuire a disinnescare quelle asimmetrie relazionali che al momento vengono descritte come strutturali all’interno dell’accoglienza «Qui non è casa nostra, io non lo so. Tu puoi capire meglio come loro pensano e come noi pensiamo, e puoi aiutarci a non fare dei brutti casini. Ma dobbiamo parlare noi quando qualcosa non va».

Anche nel saggio di Maddalena Cammelli è delineabile un dialogo continuo tra analisi critica del sistema e spinta propositiva che vede coinvolta un’antropologia descritta come focus oriented, tesa non tanto a cambiare la realtà in oggetto, quanto a promuovere consapevolezza tra gli attori che ne fanno parte o che ne sono in qualche misura coinvolti. L’autrice mette in luce come il cambio di prospettiva da «osservazione partecipante» a «partecipazione nell’osservazione», potrebbe contribuire ad immaginare un diverso modo di lavorare[3], valorizzando e potenziando il concetto di gruppo e di micro-comunità. Trasformare le riunioni di équipe degli operatori in momenti formativi, in cui sia possibile sviluppare un pensiero critico teso a rendere questi attori sempre più consapevoli del loro agire, come promuovere pratiche in grado di superare i confini delle strutture di accoglienza, coinvolgendo realtà anche associative con l’obiettivo di sviluppare una conoscenza reciproca con il contesto locale, si delineano come possibili margini d’intervento per un’antropologia che sappia lavorare «non solo nelle comunità ma con le comunità».

L’analisi di Viola Castellano prende forma da un’operazione di stampo critico-comparativo, in cui l’autrice mette in relazione nelle pagine centrali del contributo due sistemi da lei analizzati attraverso due esperienze di diversa matrice: il sistema d’asilo con cui è entrata in contatto tramite il lavoro come operatrice in un CAS del Centro Italia e i servizi sociali per minori a New York interpretati attraverso un’esperienza di ricerca. Queste due realtà, nelle reciproche nette differenze, vengono ricondotte alla prospettiva care, cure and control: entrambe infatti richiedono, agli utenti che le attraversano, un’adesione alle logiche istituzionali che passa attraverso un plasmarsi a determinati orizzonti morali e a determinate rappresentazioni che richiamano la sofferenza e la vittimizzazione. Il sistema d’asilo viene descritto da Castellano nelle sue disfunzioni strutturali e nel suo riprodurre disuguaglianze, attraverso il binomio relazionale “utente-operatore”. Tale relazione emerge come fondante il sistema stesso, ma altresì come cassa di risonanza di un clima di “sospetto” che tinge e permea i rapporti tra funzionari e richiedenti da entrambe le parti. I richiedenti riproducono e riversano il sospetto da loro subito, dentro e fuori le istituzioni, sugli operatori – non solo in quanto rappresentanti di questa che possiamo definire come “realtà nella realtà”, dunque il sistema di accoglienza con le sue regole e i suoi valori — ma anche come le uniche figure che relazionandosi con i richiedenti stessi li rendono parte di un discorso, quindi soggetti che acquistano una visibilità ai loro occhi rispetto ad una realtà esterna al sistema che nega loro una presenza legittimata. L’autrice s’interroga circa un’eventuale e dubbia compatibilità tra la prospettiva antropologica e la sua declinazione operativa all’interno di questo contesto così fortemente asimmetrico, richiamando i suoi tentativi soffocati di rompere, anche nel suo caso come per Cammelli, tale asimmetria attraverso un orizzontale circolazione delle informazioni, tentativo soffocato visto che, come afferma Castellano nel suo articolo, «ho avvertito quanto tale postura volta al dialogo e alla trasparenza fosse poco auspicata dalle figure istituzionali di riferimento, per le quali rompere il legame fra potere e incertezza (Whyte 2011), poteva tradursi in una serie di difficoltà gestionali e amministrative».

Le pagine scritte da Martina Mugnaini sono focalizzate principalmente sulla questione delle svariate professionalità che compongono il sistema di accoglienza; un settore che, vista la sua complessità, necessiterebbe di figure dotate di competenze trasversali, dunque relazionali, comunicative e di contesto, oltre a quelle legate allo specifico settore di afferenza. L’organizzazione di tale realtà, spesso improntata su una logica emergenziale giocata su prestazioni lavorative a basso costo, comporta sia la sovrapposizione di ruoli e di mandati, racchiusi in un’unica figura, sia la presenza di molteplici professionalità che operano distintamente, ma in modo frammentato e scollegato rispetto a un’idea coesa d’intervento. Come emerge dall’esperienza dell’autrice, che si è trovata quasi simultaneamente a dover intervenire come mediatrice-operatrice-ricercatrice, tale sovrapposizione di ruoli può generare un paradossale blocco nell’azione, causato da conflitti intimi legati al dover rispondere a diversi registri deontologici, «una crisi valoriale tra paradigmi del sapere e dell'agire» suggerendo in conclusione la necessità di preservare i confini tra i vari sguardi professionali.

Tommaso Sbriccoli, infine, articola le sue riflessioni partendo da un doppio posizionamento — ricercatore e mediatore — inizialmente problematizzando il recente interessamento da parte del sistema di asilo verso il sapere antropologico. Tale attenzione si traduce in un aumento di assunzioni di giovani con questa formazione «nella filiera dell’accoglienza», tanto da sembrare uno sbocco lavorativo “quasi naturale”. La flessibilità relazionale e la postura non gerarchica tipica di chi opera seguendo questa prospettiva disciplinare porta, secondo l’autore, i giovani antropologi ad essere considerabili dagli enti gestori come «“positivi” per il funzionamento stesso del dispositivo». Sbriccoli dunque mette in luce le criticità sottese a questa implicazione per cui, indipendentemente dallo sguardo critico adottato, l’antropologia rischia, come in passato, di essere “utile” a precisi ordini di governo dell’Altro. Tenendo sempre in mente le eventuali derive legate al coinvolgimento in queste realtà, l’autore ne valorizza comunque gli aspetti che possono avere un significativo impatto. Come Cammelli anche Sbriccoli individua un margine d’intervento nell’attuazione di processi o spazi partecipati in cui sia possibile riflettere e analizzare il sistema anche con gli stessi richiedenti «spesso ben più coscienti di molti operatori e funzionari del dispositivo che li cattura»; secondo l’autore infatti, l’auto-riflessività e l’analisi critica possono «costringere il sistema a riconfigurarsi».

Ricerca vs lavoro: dall’incompatibilità alla necessaria complementarietà

I contributi contenuti nel volume ci mostrano quanto il lavoro e la ricerca sembrino escludersi vicendevolmente, con modalità più o meno esplicite, quasi a voler riconfermare un confine invalicabile tra due approcci, considerati aprioristicamente in conflitto. Ma è realmente così o l’antropologo/a può desiderare[4] di andare oltre? Di certo la metodologia scientifica della ricerca antropologica, anche quando applicata, è tutt’altra cosa rispetto al mandato lavorativo che può essere ricoperto all’interno del sistema di accoglienza. Martina Mugnaini ad esempio, nel contributo presente in questo volume, richiama l’urgenza di una riflessione relativa alla necessità di stabilire dei confini tra l’essere impegnati con un mandato di ricerca e con un mandato lavorativo, oltre ad un ulteriore impegno politico. Qual è il prezzo da pagare rispetto alla qualità e alla chiarezza del dato raccolto/prodotto a partire dai posizionamenti che possono essere ricoperti contemporaneamente?

Ovviamente non è casuale che molti tra gli autori abbiano scelto di non esplicitare i contesti in cui hanno preso forma le loro esperienze sia lavorative che di ricerca, anche attraverso l’invenzione di nomi di fantasia. Questa scelta apre alla necessità di una riflessione relativa a come vengono prodotti i dati e a quale registro di pressione può essere sottoposto colui che decide di rendere l’esperienza lavorativa fruibile e ri-significabile all’interno del dibattito antropologico. Quando «il frutto della ricerca si limita a scritti in riviste di settore» la forza delle riflessioni antropologiche, nella loro dimensione applicativa e pubblica, viene meno, come sottolineato da Cammelli nel suo contributo. Essendo consapevoli delle norme consuete alla base del rigore scientifico che presupporrebbero il rendere i tempi e i luoghi della ricerca nei termini di dati verificabili, abbiamo appoggiato la scelta tutelante degli autori, interpretabile come un tentativo di stare “nel mezzo”, quindi non necessariamente obbligati a dover scegliere tra aderire alle norme scientifiche e il rispetto di un patto lavorativo con il contesto in cui gli stessi dati sono stati raccolti.

Sia l’università che il mondo dell’accoglienza sono essi stessi ambiti lavorativi che impongono tempi e logiche di produzione, dettando ritmi sempre più frenetici, quasi inconciliabili per chi sceglie di far dialogare la prassi, sperimentata nel lavoro, con la teoria. È possibile prendersi il tempo da dedicare alla scrittura quando si è parte di un processo lavorativo – spesso precario? Che cosa è possibile raccontare e che cosa invece è meglio velare? Riteniamo che non possa essere chiesto un aut aut all’antropologo/a impegnato/a in contesti complessi, ma altresì che sia urgente e necessario provare a “starci” in una forma ibrida che sia in grado di sintetizzare la capacità analitica e critica di un intellettuale con una teoria della prassi attiva, e dunque, politica e trasformativa al tempo stesso.

Se dunque nel percorso costruito attraverso i contributi presentati al Convegno SIAA e in questo volume emerge una capacità critica degli autori nel declinare il sapere antropologico in qualità di strumento teso a problematizzare l’accoglienza in quanto realtà istituzionale, dove sono presenti asimmetrie relazionali e pedagogie del soggetto, risulta forse ancora sviluppabile, nel panorama nazionale, una riflessione in merito al posizionamento di antropologi/ghe che operano all’interno del sistema di accoglienza rivestendo altri ruoli[5].

Sarebbe interessante capire se in tale contesto l’antropologo/a può mantenere la sua vocazione disciplinare, indipendentemente dal mandato, riuscendo ad includere anche il proprio sé all’interno dell’analisi, e comprendere così che cosa comporta divenire, volente o nolente, un’interfaccia dello Stato. Dunque un processo auto-riflessivo giocato su un doppio binario cognitivo: quello dell’osservazione del contesto e quello dell’analisi dell’impatto, che il sapere antropologico può avere in pratiche lavorative e dinamiche relazionali mosse da un mandato che non comprende la ricerca.

L’antropologo/a, all’interno di uno spazio così denso e talvolta incoerente nei ruoli, spesso rimane intrappolato tanto nelle dinamiche, burocratiche ed escludenti, del lavoro quotidiano, quanto nelle rigide maglie teoriche attraverso cui interpreta i fenomeni osservati/vissuti. È possibile rintracciare un quesito sottostante i vari saggi che compongono il volume: è concesso scegliere di volta in volta, in una sorta di processo continuo, come abitare queste realtà oppure sembra delinearsi un aut aut che prefigura un unico e netto posizionamento, annullando la funzione implicitamente politica dell’antropologia? I diversificati ruoli di ricercatore, operatore, consulente, volontario/attivista, possono coesistere in un unico sguardo e in un’unica dimensione etica, permettendo una ciclicità che dalla relazione e dal mandato lavorativo possa riflettere sulle lacune di un impianto teorico e viceversa?

In questo contributo conclusivo abbiamo cercato di riflettere intorno a questi interrogativi consapevoli che per l’antropologo/a è impossibile essere neutrale e contemporaneamente pensare di non essere investito dalle stesse logiche di potere che cerca di comprendere quando si trova ad operare all’interno di un sistema come quello dell’accoglienza. Ciò che cosa comporta?

L’esperienza lavorativa, permettendo di entrare nelle logiche, negli spazi e nei tempi della gestione del quotidiano di questa realtà, consentirebbe di sviluppare una profondità di conoscenza che, a sua volta, può condurre a un’analisi sensibile di ciò che viene agito e con quali modalità, mettendo in luce anche la necessità di un aggiornamento continuo rispetto alle “tematiche” maneggiate durante il lavoro. Questo processo esperienziale e conoscitivo dell’antropologo/a può portare ad acquisire, giorno dopo giorno, nuove competenze, permettendogli/le così di agire nelle dinamiche reali con maggiore consapevolezza, in una sorta di expertise fluida e dinamica, una sensibilità antropologica in fieri.

Tale sensibilità può comportare l’acquisizione di una certa capacità di so-stare, di sapere stare e di fermarsi, all’interno dello spazio, del tempo e del linguaggio, intesi non come categorie ontologiche, ma come ambiti concreti in cui poter agire. Categorie performative dotate di un proprio senso e una propria plasticità. «Lavorare con lentezza» (Vianelli 2014: 364), prendere tempo attraverso un uso diverso dello stesso, creando spazi di confronto e di ripensamento creativo con le diverse soggettività presenti all’interno di questo contesto, dando forma ad una traduzione di significati, aspettative e immaginari spesso contrastanti. In questo senso crediamo che l’antropologo/a possa essere in grado di mettere in campo una capacità negoziale finalizzata all’attivazione di processi di soggettivazione e significazione co-costruiti (Gadow 1980; Quaranta 2012), mettendo a frutto un uso diverso dei margini discrezionali. Da diverse voci all’interno del volume viene confermata la necessità di ripensare e rinegoziare i tempi dell’operare all’interno di questi contesti, affinché si possa andare oltre alle ristrettezze di un fare emergenziale che produce disorganizzazione. Il tempo dell’urgenza, il tempo che manca, il tempo sospeso, i tempi dilatati e i tempi morti spesso si intrecciano impattando sia sulla vita degli “ospiti”, sia su quella degli operatori, benché con risvolti ed intensità differenti[6]. Quando il tempo corre e poi si blocca repentinamente è possibile agire un ripensamento dello stesso? Dalle nostre esperienze di lavoro e ricerca-azione emerge chiaramente come il tempo, al di là della sua contingenza reale, divenga spesso una retorica[7], agita e significata dai diversi soggetti con modalità e intensità differenti. Mettere in comunicazioni questi diversi ritmi fa parte del lavoro antropologico che, attraverso la riflessività, la risonanza etica ed il proprio engagement — differentemente performato nei diversi ruoli e funzioni ricoperte — è in grado di pensare creativamente alle criticità, partendo dall’analisi dei bisogni dei diversi attori coinvolti nel processo e delle sovra-strutture in cui prende vita: benché il tempo sia imposto e controllato, è un tempo esistente e per questo può essere ripensato nel suo svolgimento.

In merito invece agli spazi, sarebbe interessante riflettere sulle differenziazioni esistenti (luoghi di accoglienza collettivi, di grandi e medie dimensioni o appartamenti) e su come queste inter-agiscono sul contesto locale in cui vengono collocate — o viceversa, come la configurazione territoriale e la tipologia degli enti gestori plasmano la geografia degli spazi dell’accoglienza. Quali gli atteggiamenti diffusidei diversi attori, più o meno istituzionalizzati, e come vanno a reificare traiettorie esistenziali differenziali? Qual è, ad esempio, l’effetto che hanno le narrazioni di senso comune sul fenomeno o quello degli immaginari mediatici o di un certo tipo di letture/strumentalizzazioni politiche sul quotidiano di questi luoghi e sulle relazioni che intercorrono tra i soggetti che li abitano? Dal contributo di Castellano e dalle osservazioni di Sanò emerge chiaramente come un attentato terroristico o un omicidio a sfondo xenofobo possano impattare nella “normalità normalizzata” creando diffrazioni. Per analizzare gli scarti, le criticità e parimenti le potenzialità, è necessario comprendere le dinamiche reali in atto, consapevoli delle inevitabili ingerenze di ciò che accade al di fuori di questi luoghi e di come queste ricadano sul lavoro e sulle relazioni quotidiane. La relazione tra interno ed esterno dei luoghi fisici dell’accoglienza rappresenta infatti una specifica variabile che impedisce di raccontarne in modo generalizzato e superficiale. Ogni luogo, a partire dalle proprie dinamiche sociali e politiche, svilupperà infatti delle modalità proprie di relazione e proprie prassi quotidiane, a loro volta informate — spesso intossicate — da ciò che accade sia a livello nazionale sia nel “mondo globale”. Come mostrato dai diversi contributi il livello micro e quello macro sono connessi con legami laschi[8], generando intersezioni e conseguentemente un ampio margine di discrezionalità; quest’ultima può essere agita sia in senso negativo, cioè nella mancanza di riconoscimento dell’Altro-da-sé e quindi in un approccio escludente, sia in senso positivo, creativamente, per aggirare e colmare le lacune del sistema. Se esistono quindi interstizi in cui poter agire, ci sembra opportuno tentare di creare spazi, tempi e nuove modalità relazionali che passino attraverso un continuo processo di riflessività e relativismo metodologico (Biscaldi 2009) come parte dello stesso agire. Attraverso tale consapevolezza di discrezionalità, l’antropologo/a impegnato/a in questi contesti è come se, a partire già dalla propria presenza consapevolmente engagèe, mettesse in discussione gli aut aut, i confini e le categorizzazioni che apparentemente configurano i contesti (accoglienza e accademia) in modo rigido, istituzionalizzato e quindi immutabile[9].

Ci chiediamo anche se sia giunto forse il tempo per andare oltre ripartendo da una riconfigurazione del linguaggio attraverso cui diamo forma alle esperienze. Il linguaggio è sicuramente uno tra i più franchi strumenti di contatto e di scambio di informazioni che ci introduce all’interno di un “imperialismo narrativo”, andando spesso a descrivere e significare il mondo attraverso le stesse categorie che vogliamo criticare. Esso assume quindi una posizione centrale nelle nostre riflessioni, come sottolineato da Giuda in questo volume, in merito al “verbale segreto”, sia perché le parole hanno un peso (Faso 2008: 7; Zanfrini 2015) e rappresentano lo specchio della società (Bourdieu 1982: 155), sia perché l’adozione di un registro piuttosto che un altro svela l’intenzione, anche politica[10], di chi lo utilizza da un lato e di chi, dall’altro, lo reinterpreta, lo nega, lo risignifica. Ci appare quindi urgente avviare un processo di risignificazione di un certo tipo di linguaggio per lavorare a livello delle pre-comprensioni reciproche che spesso impediscono un dialogo autentico, generando fraintendimenti, misconoscimenti e fratture comunicative e relazionali.

Se da un lato il mandato lavorativo non permette all’antropologo/a di astrarsi dalle logiche percepite come ingiuste, dall’altro la risonanza etica, facendo spesso emergere/crescere frustrazioni e sensi di colpa, può essere utilizzata positivamente. La presenza in questi luoghi con mandati di ricerca, di lavoro o entrambi presuppone una presenza dell’antropologia che comunque è attiva e che dovrebbe forse comportare primariamente un’analisi del sé e del vissuto[11], riconfigurando gli echi del malessere e attribuendo un senso alle dissonanze dei/tra i vari ruoli ricoperti. Per questa ragione è errato pensare ai tanti antropologi che lavorano nel variegato mondo delle migrazioni, o del margine in generale, esclusivamente come a coloro in cerca di un’alternativa alla chiusura del mondo accademico.

Mentre l’antropologo accademico che si trova ad avere a che fare con la pratica può decidere di tornare ad essere un accademico in qualsiasi momento, l’antropologo professionale è costretto a fare i conti con la dimensione della prestazione di un servizio e con i rischi molto maggiori connessi all’esercizio di una qualsiasi professione che ha a che fare con il mercato (Severi 2014: 58).

La scelta non dovrebbe essere interpretata esclusivamente in senso negativo — non ci sono posti in università quindi antropologi/ghe si “buttano” nel mondo del lavoro — ma ci appare necessario rivendicare la volontà di operare attivamente in contesti complessi. L’impegno in questi settori, qualificando l’antropologia come una professione «in senso forte»[12] (Cosi in Pellegrini 2013: 54), in cui l’indignazione morale diviene sempre più spesso fattore non secondario nella scelta del proprio campo di lavoro e/o di studio (Fassin 2008: 337-338), per essere efficace e non meramente connivente (Scheper-Hughes 2005) o funzionale, evocando spettri coloniali (Sbriccoli in questo numero), e contemporaneamente riuscire — quanto meno in parte — ad evitare lo schiacciamento emotivo, dev’essere scelto e non può essere subìto.

The choice to engage is a moral act […] engagement is not simply about the nobility of our discipline; it is also about deeply held core values and feelings about our individual identities and our roles as ethnographers and as real persons (Davies 2010: 185).

Impegnato nel quotidiano operativamente e continuamente alla ricerca di suggestioni teoriche con cui poter fare fronte alle innumerevoli criticità incontrate, l’antropologo/a, oltre a valicare i confini disciplinari, inizierà a ripensare gli stessi paradigmi di riferimento, le cornici teoriche, nonché la sostenibilità delle proprie metodologie, non in un “delirio di onnipotenza” in cui è vietato/impossibile sbagliare, ma banalmente avendo la consapevolezza che in sistemi disfunzionali “l’errore” è sempre dietro l’angolo. L’antropologo/a

si trova, infatti, a raccogliere i propri dati muovendosi tra malintesi, contrasti e silenzi che a volte si generano tra operatori e utenti, a soffermarsi, ritornare, percorrere i linguaggi e universi simbolici che si incontrano, respingono, attraggono nella soglia dei servizi, così come ad attraversare quei confini simbolici che vengono tracciati e riprodotti nelle specifiche arene locali e nella più ampia società italiana (Tarabusi 2014: 95).

Crediamo quindi sia il tempo di avviare una riflessione nel senso della teoria della prassi (Baba, Hill 2006), unica modalità che appare appropriata ad un contesto così complesso ed in continua evoluzione come quello della mobilità umana, con l’umile intenzione di stimolare nuovi spunti di riflessione, soprattutto negli ambiti dove spesso vengono percepiti dei vuoti teorici: vedasi gli aspetti etici e deontologici del fare antropologia applicata at home, in contesti così istituzionalizzati e su dinamiche «storicamente profonde e geograficamente ampie» (Farmer 2006: 25), oltre alle direttrici indicate da Altin e Sanò nell’introduzione.

Emerge quindi un forte potenziale di azione per il sapere ed il sapere fare antropologico, tesi a problematizzare per comprendere e sciogliere i nodi, in primis l’ambiguità sottostante il ricoprire un ruolo attivo all’interno del sistema. In un contesto in cui spesso “tutti fanno tutto, possibilmente in fretta”, riteniamo sia imprescindibile un alto grado di consapevolezza, indispensabile per un’azione che si voglia responsabile.

Re-Azioni

I contributi contenuti nel volume si muovono in questa direzione. Attraverso etnografie dei loro diversi e spesso confliggenti posizionamenti e ruoli, gli autori e le autrici hanno problematizzato il loro stare, e parimenti operare, nel sistema accoglienza, così come venutosi a configurare nei differenti contesti geografici raccontati. L’analisi della propria esperienza, in qualità di operatore, mediatore, consulente, ricercatore, attivista permette di comprendere le forze in campo nel contesto abitato, svelarne le contraddizioni, le disfunzioni e le aporie. Attraverso questo processo di “coscientizzazione” (Freire 1972) gli autori mostrano come l’antropologo/a può sperimentare, attraverso il proprio sé, il potenziale trasformativo della propria disciplina: «lo scienziato sociale è così chiamato a crearsi una propria stanza degli specchi, dove l’altro, ogni nostro interlocutore, diviene una superficie riflettente che ci segnala nuove chiavi di lettura, ma a prezzo della restituzione di qualche frammento dei nostri pre-concetti» (Cruzzolin 2014: 90). Molti autori parlano infatti di “maglie larghe”, “spazi di azione e sabotaggio”, cortocircuiti riconfigurabili che permettono all’antropologo/a di agire, ridelineando le eventuali conflittualità e trasformando i dilemmi in opportunità. Un engagement profondo che non va confuso con la mera militanza politica. Crediamo dunque che sia possibile un coinvolgimento in questi contesti, applicando un sapere e un sapere fare antropologico consapevole e riflettente, e quindi in «un’antropologia politica articolata attraverso il lavoro dell’accoglienza» (Cammelli in questo numero), in grado di affinare, in una relazione di reciprocità, capacità differenti: critico-analitica, descrittiva e di traduzione (Marabello 2016: 106).

Il rischio dell’antropologo militante è che parli al posto dei soggetti studiati, e agisca mosso da coinvolgimenti empatici diretti, non rielaborati dall’auto riflessività. L’antropologo deve permettere che siano essi a parlare, e attraverso l’etnografia condurre le loro voci ad un pubblico più ampio; ponendosi non solo come osservatore, ma agendo nella pratica quotidiana senza mai rinunciare alla profondità teorica e ad una postura auto – riflessiva (Guida in questo numero).

Se è vero che l’operatore, in quanto unico interlocutore, diviene un vero e proprio «margine dello stato» (Das, Poole 2004; Sorgoni 2011), strumento e performatore di quel regime del sospetto (Vacchiano 2011) che si riproduce attraverso una «circolarità ermeneutica» (Castellano in questo numero) posizionata (dell’operatore quanto del “beneficiario”), ed una burocratizzazione[13] delle relazioni che appare impedire un autentico riconoscimento dell’umanità dell’Altro, è necessario riflettere a partire dal nostro essere antropologi con un mandato lavorativo negli spazi, chiusi, porosi e frammentati dall’accoglienza. Se inoltre «l’operatore, a seconda dei casi e delle situazioni, non può non essere, e trovarsi ad essere, un poliziotto, un baby-sitter o un amico (e volendo anche altre cose)» (Sbriccoli in questo numero) è lecito chiedersi ad esempio quali siano gli “impliciti culturali” di tali relazioni, nonché le conseguenze di una distribuzione asimmetrica di potere, anche quando si pensa di essere “solo” dei «carcerieri gentili» (Castellano in questo numero). Non è infatti la formazione antropologica tout court e le riflessioni contenute in una letteratura critica a generare qualcosa, ma l’unione di queste al processo riflessivo continuo elaborato dall’antropologo/a a partire dall’esperienza lavorativa vissuta e praticata, «per caso o per scelta» (Cammelli in questo numero), come un “perenne dilettante”[14]. Esperienze lavorative precedenti, altre ricerche etnografiche condotte in contesti o su tematiche affini o contigue a ciò che si sta facendo saranno le casse di risonanza per cercare di comprendere come-si-fa-cosa. È necessario in questi frangenti ripensare la cornice metodologica affinché il dibattito scientifico si possa arricchire di nuovi punti di vista: attraverso la rilettura critica della propria esperienza professionale è possibile infatti iniziare un lavoro, tanto teorico quanto pragmatico. La auto-ethnography utilizzata da Castellano e la sensibilità riflessiva utilizzata in modo sistemico da Sbriccoli, suggeriscono quanto sia necessario interrogare il proprio sé, spaccato e contraddittorio (Haraway 1995: 116) per andare oltre ad una fotografia dell’esistente, con tutte le sue peculiarità e debolezze, al fine di elaborare strategie di cambiamento in grado di considerare i diversi bisogni e punti di vista che abitano lo spazio dell’accoglienza e, più in generale, delle relazioni che lo contraddistinguono. Anche il “semplice” lavoro di analisi dell’esistente, soprattutto di ciò che appare banale e scontato, può rappresentare un processo co-costruito in cui ci si riconosce e si pratica una risignificazione condivisa. In questo senso, il dialogo instaurato con le linee guida per gli operatori nel lavoro di supervisione di équipe raccontato da Cammelli è esplicativo.

La plasmazione delle soggettività degli operatori, e quindi anche degli antropologi, appare il primo livello di consapevolezza necessario ad attivare una riflessività e a sviluppare un’adeguata sensibilità antropologica, per evitare di rimanere intrappolati nelle disfunzioni tipiche della “professionalizzazione del burocrate” voluta dal sistema che trasforma spesso gli operatori in “agenti amorali”, come raccontato da Sbriccoli in questo volume.

Acquisendo attraverso l’esperienza la consapevolezza delle ambiguità che contraddistinguono l’agire in tali spazi, ancor più quando si riveste il doppio ruolo di operatore/ricercatore, unitamente all’attitudine a porsi molte domande — alcune formulate in queste pagine — l’antropologo/a acquisisce la capacità di riconoscere le innumerevoli possibilità (Carrithers 2005) insite nell’essere un operatore, in quanto l’accoglienza «è un campo in cui è l’operatore stesso che costruisce le prassi, non le ha già» (Sorgoni 2011: 24). Nell’odierno sistema composito e multilivello dell’accoglienza, caratterizzato da frammentazione, opacità ed indeterminatezza, appare possibile trovare “micce” per un’azione che sia trasformativa proprio nelle maglie, più o meno larghe, più o meno rigide e flessibili (Castellano e Sanò in questo numero) rintracciabili nell’agire dei mandati istituzionali. L’istituzione accoglienza in quanto emanazione di un mandato statale gioca il suo equilibrio su rigidità e ampie zone di ambiguità (Castellano in questo numero), ma se, come sostengono Das e Poole (2004), l’ambiguità è uno strumento che permette alla Stato di mantenersi in equilibrio, la stessa ambiguità può essere utilizzata in senso operativo dall’antropologo/a per cercare di riequilibrare i diversi interessi in gioco: lungo i confini del potere è possibile essere creativi. Spiegare ciò che è dato per scontato, la banalità del quotidiano fatta da momenti euristici[15]: l’antropologo/a in questo senso può divenire un facilitatore in quanto interprete delle dinamiche in essere, una semplificazione che si pone in netto contrasto rispetto a quella indicata dalla nuova giurisprudenza. La traduzione di logiche, aspettative, imposizioni contrastanti può permettere di evitare blocchi temporali ed impasse relazionali, agevolando la convivenza e la collaborazione tra i diversi soggetti che co-abitano gli stessi spazi e con-dividono lo scorrere del tempo.

Le diverse culture che prendono forma nei luoghi dell’accoglienza presentano inoltre mandati, finalità e approcci differenti, rendendo questo stesso sistema una realtà non pensabile come omogenea ma come composta a sua volta da micro-sistemi. Al livello micro — sovra-strutturato a livello macro dalle normative nazionali, europee ed internazionali e dalle conseguenti politiche attuative — le istituzioni e le prassi quotidiane, agite da tutti i soggetti differentemente posizionati, vanno a performare “prese in carico” peculiari, situate e socialmente connotate. Le incongruenze e le aporie normative nei diversi livelli, la strumentalizzazione politica dei discorsi e la questione delle risorse economiche, immaginari devianti ed atteggiamenti escludenti, come parimenti le contro-narrazioni in favore della tutela dei diritti umani fondamentali, creano così interstizi e legittimano legami informali che lasciano spazio, creano e permettono di agire discrezionalmente. Se questa spesso comporta disfunzioni, come sottolineato da Altin e Sanò nell’introduzione, è altrettanto possibile immaginare tale spazio di azione in senso creativo e positivo, come suggerito da Sbriccoli quando parla degli “eventi esplosivi” e da Cammelli quando spiega cosa intende per “etnografia sperimentale”:

quel processo creativo e propositivo attraverso il quale l’antropologo promuove sensibilità, contenuti e progettualità legate allo sguardo del sapere antropologico, nella concretezza dell’esperienza quotidiana dei centri di accoglienza. Se l’etnografia è “un esperimento di esperienza” (Piasere 2002: 27), la differenza tra una “pura” etnografia e quella esperita dall’antropologo all’interno del mondo dell’accoglienza, è la sua variabile sperimentale […] che viene esercitata nel momento in cui all’esperienza si affianca una progettualità potenzialmente trasformativa – non della singola persona richiedente asilo, ma della realtà coinvolta e dei suoi vari attori.

Non essere semplicemente un osservatore, ma divenire un testimone (Scheper Hughes 1995) innesca inevitabilmente «cortocircuiti etici ed epistemologici» (Castellano in questo numero), tanto più quando l’antropologo/a si trova ad operare attivamente ricoprendo un ruolo, in un certo senso spingendolo parallelamente a condurre, in modo più o meno ufficiale/ lecito/ consapevole, un’etnografia dell’ingiustizia (Verdirame, Harrel-Bond 2005) e, conseguentemente, una «backyard anthropology» in grado di unire «problem focused approach» e «public service oriented» (Johnston 2010: 235-238, cit. in Cammelli in questo numero). L’accento sulla funzione dell’antropologo/a come colui che è interessato alla trasformazione della realtà, nei suoi molteplici aspetti, e non meramente alla tutela dei soggetti oppressi, ci appare una modalità appropriata al fine di non cadere nella trappola “dell’essere di parte a prescindere” che rischia di inficiare un lavoro professionale, orientato alla tutela, al rispetto e alla “comprensione delle conflittualità in essere”.

Come suggerito da Sbriccoli, appare quindi necessario ripensare e riattualizzare il legame tra antropologia e confini. L’antropologia, in quanto disciplina “di frontiera”, appare vocata alla comprensione della salienza dei confini — fisici e simbolici — in qualità di dispositivi che configurano sia determinate soggettività che relazioni, traiettorie di vita e condizioni materiali di esistenza. «Intesa come sapere di frontiera l’antropologia si presenta come una riflessione “ai margini” della tradizione di pensiero euro-occidentale. Tradotto in termini filosofici, questo essere “di frontiera” dell’antropologia significa che essa coincide (anche se con accentuazioni differenti) con una postura intellettuale decisamente “relativista”» (Fabietti 2005: 177). Tale postura ci impone uno sguardo attento alle relazioni di potere incarnate negli attuali confini statali — si pensi anche ai confini esterni dell’Unione Europea — e alle operazioni di sorveglianza finalizzate al contrasto della cosiddetta “immigrazione clandestina”: le frontiere moderne sono state infatti create «dagli uomini sulla base dei loro […] rapporti di potere» (Cuttitta 2005: 25) e oggi vengono iscritte nei corpi dei migranti che osano oltrepassarle (Sbriccoli in questo numero). Se si considera inoltre, sia il diritto migratorio che quello più specifico relativo all’asilo come strumenti di controllo a distanza della mobilità umana (Guild, Bigo 2005), si comprende quanto profonda debba essere la consapevolezza, e conseguentemente la competenza, per agire in tale contesto.

La complessità e le contraddizioni incorporate dal migrante ci impongono uno sguardo differente, in grado di donare un nuovo significato alla prossimità, intesa come «nesso di implicazione» (Ricca 2014: 747), e di farci «ripensare il concetto di frontiera per cercare di comprendere le contraddizioni che colpiscono la storia contemporanea» (Augé 2010: 16). Dovrebbe così nascere un nuovo sguardo rispetto al moltiplicarsi dei confini (Mezzadra 2013): non potendo impedire l’incontro (Bastide 1990: 167), i confini non dovranno più essere intesi come «un limite, ma [piuttosto come] un transito e una soglia» (Escobar 1997: 15).

In ultimo, e riprendendo quanto sostenuto nel contributo, è necessario non cadere nella trappola dei confini che si riproducono in maniera più o meno consapevole. Se è vero infatti che il confine diviene concetto/spazio principe per la riflessione antropologica, è necessario mantenersi vigili rispetto alle differenziazioni che andiamo a riprodurre: tra chi lavora e chi fa ricerca, tra gli accademici e i non accademici. Il rischio è infatti quello di andare a reificare il binomio ricerca-lavoro esclusivamente in termini oppositivi, andando così a riprodurre “confini” all’interno di logiche lavorative e creando diffrazioni per appartenenze piuttosto che registri di continuità.

Conclusioni

Il ragionamento qui proposto ci appare necessario ed urgente: la recentissima approvazione del D.L 13/2017[16], oltre a togliere un grado di giudizio, introdurre la videoregistrazione dell’audizione in Commissione e istituire sezioni speciali nei Tribunali, prevede che la figura del responsabile della struttura di accoglienza venga investito del ruolo di “pubblico ufficiale”[17]. La ratio è infatti quella di velocizzare le procedure, a partire dal — saccente — presupposto di poter discernere i veri richiedenti asilo dagli imbroglioni, oggi i migranti economici[18].

È interessante sottolineare come, oltre ai rappresentanti delle reti di tutela, ASGI ad esempio, che in particolare ha accusato la nuova legge di minare la funzione sociale dell’avvocato[19], siano gli stessi operatori ad aver avviato una protesta che richiama alla memoria quella effettuata dai medici nel 2009 in seguito all’approvazione del c.d. “pacchetto sicurezza”[20]; quest’ultima prevedeva, in prima facie, l’obbligo di segnalazione dei migranti sprovvisti di regolare titolo di soggiorno da parte del personale sanitario. L’8 aprile 2017 si è infatti costituita a Roma la “Rete degli Operatori e Operatrici sociali contro i decreti Minniti-Orlando”, in seguito ad una assemblea autoconvocata che ha visto riunirsi operatori provenienti dai diversi contesti nazionali. #IoDiserto è divenuto lo slogan della campagna avviata da operatori e operatrici che non vogliono trasformarsi in “sceriffi” ma intendono opporsi attivamente al nuovo dettato normativo[21]: il richiamo alla postura del personale sanitario con la campagna #IoNonDenuncio del 2009 appare molto forte. Nel testo di legge viene infatti esplicitato uno spostamento di funzioni, dalla questura ai responsabili dei luoghi dell’accoglienza[22], fino a pochi giorni fa esercitanti un mandato differente: uno deputato alla comunicazione delle procedure di riconoscimento e al rilascio dei documenti, l’altro alla dimensione quotidiana di presa in carico del soggetto, svelando probabilmente una contiguità[23] tra la dimensione securitaria[24] (Lynn Doty 1998; Guild 2009; Van Munster 2009; Campesi 2011) e quella umanitaria (Fassin 2012). «Mettere i rifugiati nelle mani degli “operatori umanitari” […] sembra il modo ideale di conciliare l’inconciliabile: il desiderio irresistibile di disfarsi dei rifiuti umani nocivi e, al tempo stesso, di gratificare il proprio cocente desiderio di rettitudine morale» (Bauman 2005: 96).

Se è vero quindi che l’opposizione tra processi di securitizzazione e un’accoglienza intesa come cantiere di processi d’inclusione produrrà margini di azione sempre più “risicati”, facendo probabilmente aumentare quel “circolo del sospetto” di cui parla Castellano, ci appare ancora più urgente aprire un confronto a partire dalle criticità e dalle potenzialità innovatrici emerse nei diversi contributi del volume.

Questo movimento di rivendicazione per un ruolo differente da quanto previsto dalla novella giurisprudenziale può essere quindi inteso come quella capacità di “re-esistenza” dal basso, da parte di chi subisce le logiche perverse del diritto e della politica poste in essere negli ultimi decenni da parte dello Stato: in questo caso gli operatori, che attraverso questa mobilitazione nazionale, si trasformano in attori politici[25] andando a smontare le retoriche che li vedono come conniventi, sfruttatori, “poliziotti, baby-sitter o amici”. E nello stesso modo andrebbero intese le azioni individuali, creative e sperimentali poste in essere dai singoli soggetti all’interno del sistema, antropologi/ghe e non: dalle prassi resilienti esercitate dai richiedenti asilo — nella fuga per impedire il rilascio delle impronte digitali e non rimanere così intrappolati in Italia[26] , alle proteste condotte nei centri di accoglienza per le condizioni di vita — oltre alle azioni di salvataggio esercitate dalle ONG, soprattutto con mandato sanitario, ad oggi accusate di favorire l’“immigrazione clandestina” ed il traffico[27] di uomini. La ratio mostrata dalla nuova legge rappresenta infatti il culmine di un processo iniziato almeno a partire dal 1989, anno in cui il nostro paese iniziò, volente o nolente[28], a “prendere sul serio” la questione migratoria. La messa in opera della “Fortezza Europa” (Sassen 1999) è infatti un processo di lungo periodo, legato alle norme emanate e alle politiche attuate — a livello nazionale ed europeo — di management, controllo e sorveglianzadei flussi migratori (Mezzadra 2007; Ambrosini 2014; Fiddian-Qasmiyeh, Loescher, Long, Sigona 2014; Amirante, Pascali 2015), interpretate da De Genova (2002) come delle vere e proprie prassi di deportazione generanti un diffuso “illegalismo”. L’attuale configurazione dei flussi è difatti inserita in molteplici “logiche intersezionali”: cognitive nel pensare e, conseguentemente, nel reificare l’Altro, economico-globali dello sfruttamento e della precarizzazione dei diritti lavorativi — tra il lecito, l’illecito ed il criminale — e le conseguenti contraddizioni della cittadinanza come strumento per allocare diritti universali[29].

Il lavoro quotidiano con i migranti, a prescindere dallo status giuridico loro riconosciuto, diviene quindi uno spazio di frontiera in cui poter de-strutturare immaginari e retoriche, svelare i discorsi ed i principi sottesi alle norme — sia positivizzate sia viventi — fare emergere le asimmetrie, le lacune e i paradossi, attraverso la diffusione di uno sguardo capace di posizionarsi oltre — e di decostruire — le attuali visioni neo-razziste[30]. In questo senso ci appare un ambito particolarmente interessante e ricco di sfide per l’applicazione del sapere e del sapere fare antropologico. Come auspicato da diversi autori in questo numero di Antropologia Pubblica, ci auguriamo che questo cantiere composto da idee, prassi ed interrogativi possa essere foriero di un rinnovato dibattito in seno alla disciplina, sia dal punto di vista teorico, sia da quello applicativo e pragmatico, nonché etico.

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[1] L’articolo è frutto del lavoro comune di Mencacci e Spada; la scelta di non suddividere l’autorialità in parti segmentate è stata presa nella consapevolezza che si tratta di un lavoro collaborativo costruito con costante dialogo, confronto e scambio reciproco. Come già esplicitato nell’introduzione a questo numero della rivista che è stato costruito assieme da Altin, Mencacci, Sanò e Spada, intendiamo rivendicare e sostenere un’autorialità basata sul lavoro collaborativo e in qualche modo ‘olistico’ usando un termine antropologico ad indicare che il tutto è più della somma delle parti.

[2] Il panel in questione è stato pensato e coordinato dalle due autrici e dalla collega Sanò a seguito di svariati confronti relativi alle rispettive esperienze professionali nell’ambito dei servizi rivolti a richiedenti e titolari di protezione internazionale. La call for paper ruotava principalmente intorno a due questioni: in primo luogo interrogare le esperienze che avevano preso forma in quegli spazi che all’interno del discorso dell’accoglienza avevano previsto la presenza dell’antropologia sia da un punto di vista di ricerca etnografica, sia da una prospettiva di stampo più lavorativo. Avevamo chiesto, più nello specifico, se fosse possibile articolare risposte in grado di mettere in luce i margini di possibilità all’interno dei quali è possibile agire in senso trasformativo all’interno di questo specifico contesto. Eravamo molto interessate a quest’ultimo punto, dunque alla valenza trasformativa (Quaranta 2012) intesa come frutto dell’“impatto” che la critica di stampo antropologico può avere nel sistema di accoglienza, sia nei termini di discorso in circolo, quale risultante di lavori etnografici divenuti pubblici (Sorgoni 2011a) o restituiti nei luoghi in cui le ricerche avevano preso forma, sia come risposta all’azione di antropologi/ghe impegnati a vario titolo in quest’ambito.

[3] Per una riflessione in merito alle conseguenze, operative, metodologiche ed etiche di questo cambio di prospettiva in una ricerca-azione svolta in ambito sanitario si veda Spada (2016). Nel contributo infatti l’autrice si interroga, a partire dalle modalità con cui viene immaginata e quindi sollecitata sul campo, su come poter utilizzare incomprensioni e impasse trasformandoli in spazi creativi, e sperimentando sul proprio sé - sollecitato in profondità anche sotto il profilo etico — quella “osservazione attenta” di cui parla Fassin (2006: 523) innescando processi riflessivi profondi e conseguentemente difficili da maneggiare — ma ricchi di potenzialità trasformativa.

[4] Ci si riferisce alla capacità di desiderare così come intesa da Sewell (in Ortner 2006: 152).

[5] Come emerso dai diversi contributi presenti nel volume, il sistema di accoglienza, o in più in generale l’insieme dei servizi che si occupano del tema della protezione internazionale, hanno iniziato negli ultimi anni a prevedere la “presenza” del sapere antropologico, declinato in forme diverse in base ai mandati da cui viene investito (quando riconosciuto). All’interno dell’iter per il riconoscimento del diritto di asilo l’antropologia può essere chiamata in causa in due diverse fasi: come coadiuvatore di senso nella stesura delle memorie dei richiedenti e nella forma di relazioni focalizzate sulle realtà di provenienza degli applicanti che si trovano ad attraversare la fase di ricorso, quindi a seguito di un diniego da parte della Commissione territoriale. Gli antropologi, in quest’ultima fase, vengono chiamati in causa come “esperti di contesti”, con il fine sotteso di tradurre determinate esperienze di migrazione forzata come agite da eventi non immediatamente significabili nei discorsi giuridici dominanti o nei ristretti parametri per cui la protezione internazionale è contemplabile. Nonostante in Italia la figura dell’antropologo come esperto dei paesi di provenienza dei richiedenti protezione internazionale non sia prevista dalla normativa, negli ultimi anni l’antropologia di stampo “areale” è stata sempre più chiamata in causa sotto forma di relazioni/perizie/consulenze stilate al fine di sostenere le storie nella fase di ricorso al diniego ricevuto dai richiedenti asilo in Commissione.

In questo senso, è utile sottolineare la continuità di ratio tra l’esperto di area e le COI (Country of Origin Information), divenute una vera e propria bussola per il lavoro di interpretazione e valutazione delle narrazioni. Benché sia innegabile l’utilità della conoscenza sui paesi di origine dei richiedenti, si vuole evidenziare come un uso deterministico delle COI (tanto più se unito al concetto operativo di safe country) possa tramutarsi in un dispositivo escludente, piuttosto che teso alla comprensione. Un utilizzo delle COI rispondente alla necessità di un “facile e veloce incasellamento” del soggetto, e cioè quando le informazioni divengono evidenze oggettive attraverso cui testare la credibilità/veridicità delle dichiarazioni del richiedente, può infatti generare dei veri e propri cortocircuiti e minare il riconoscimento del diritto soggettivo alla protezione. In merito al coinvolgimento di antropologi nella produzione di evidenze nella veste invece di country experts strutturati all’interno del processo di richiesta d’asilo si veda Good (2007) per il contesto britannico.

[6] Per un’articolata riflessione sul tempo vissuto, subito e risignificato da parte dei richiedenti asilo e dei migranti detenuti si veda Griffiths (2014).

[7] In merito alle retoriche del tempo in ambito sanitario si veda Pizza e Ravenda (2016).

[8] Per legame lasco si intende una connessione flessibile e non debole (Bonazzi 1995: 392).

[9] Per una interessante riflessione in merito alla consapevolezza dell’antropologo, alle frustrazioni ma al contempo alla capacità creativa che ne può derivare, si veda Vianelli (2014).

[10] Pensiamo banalmente al termine “accoglienza”: (Dal Lago 2008: 17) ad esempio preferisce parlare di società di destinazione, piuttosto che di accoglienza, in quanto priva dell’ipocrisia del pensarsi come società in grado di accogliere; lo stesso ragionamento potrebbe essere effettuato rispetto al “sistema di accoglienza”.

[11] Nel senso dell’autoanalisi proposta da Bourdieu (2005).

[12] Ci si riferisce alle professioni che si “impadroniscono” della persona, la quale si pone «al servizio del bene comune con un ruolo sociale ben preciso [e a cui] sono ascritte responsabilità ben definite» (Pellegrini 2013: 54-55).

[13] Le prassi burocratiche e gli oggetti materiali attraverso cui queste vengono poste in essere dovrebbero trovare maggiore spazio nelle etnografie. In merito alla necessità di studiare le «dimensioni “oggettuali” dei mondi burocratici» delle procedure di asilo si veda Giudici (2014: 110).

[14] Ci si riferisce alla definizione di dilettantismo fornita da Said (2014: 85): «il desiderio di agire non sulla spinta di un guadagno o di un riconoscimento, ma per amore di un disegno di più vasto respiro, che stimola un interesse inesauribile, non ultimo quello di superare confini e barriere, rifiutandosi di rimanere reclusi entro unacompetenza, e battendosi per idee e valori che trascendono i limiti di una professione».

[15] «Fieldwork is everywhere. […] Obviously, all these heuristic moments should not be excluded as sources of information in a scientific investigation» (Fassin 2006: 523).

[16] Per un’analisi critica alla nuova normativa si rimanda al documento prodotto dall’ASGI reperibile al seguente link: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2017/03/2017_3_17_ASGI_DL_13_17_analisi.pdf (ultima consultazione: 19/04/2017).

[17] Attualmente questo aspetto del decreto è stato congelato attraverso la circolare n.6300 del 10/08/2017 “Notificazione degli atti e dei provvedimenti delle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale e della Commissione Nazionale per il diritto d’asilo”, consultabile al link: https://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/decreto-minniti-notifiche/.

[18] È interessante riflettere sull’inversione degli immaginari avvenuta negli ultimi anni; prima della cosiddetta “crisi dei rifugiati” era il migrante economico ad essere pensabile come integrabile in virtù della sua forza lavoro, mentre il rifugiato veniva considerato una sorta di parassita sociale, bisognoso di tutto e quindi non funzionale, un peso – soprattutto economico – per il paese di approdo. In seguito alla “crisi”, questo immaginario si è completamente capovolto: oggi sono i migranti economici ad essere interpretati come “clandestini”, in quanto non fuggirebbero da guerre come i veri rifugiati, i quali a loro volta appaiono ancora imbrigliati nello stesso immaginario del passato di “debitori” (vedasi i lavori socialmente utili, oggi variabile importante nel percorso di riconoscimento così come stabilito dal legislatore). Questa inversione sta creando dei veri e propri cortocircuiti, in primis politici e giuridici. La retorica della “necessaria e doverosa” distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo, oltre a produrre regimi del sospetto (anche al livello delle relazioni interpersonali) e trasformare spesso le interviste delle Commissioni territoriali in veri e propri interrogatori finalizzati a scovare incongruenze e smascherare bugie, riproduce quell’immaginario – e quindi prassi – compassionevoli e misconoscenti, che riproducono diseguaglianze (Fassin 2005). Tali retoriche trasversali sono andate ad impattare in un sistema di accoglienza per richiedenti asilo da sempre caratterizzato da frammentazione, logiche emergenziali e posti limitatissimi, una incapacità di lunga durata dimostrata dalle percentuali di persone entrate nel circuito SPRAR (poco più del 13%) rispetto a quelle affidate a CAS (oltre il 78% del totale). (Dati estrapolati dalle statistiche ufficiali fornite dal Ministero dell’Interno al 31 marzo 2017 e reperibili al seguente link: http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/documentazione/statistica/cruscotto-statistico-giornaliero (ultima consultazione 19/04/2017).

[19] Per approfondimenti si veda il link: http://www.asgi.it/primo-piano/attacco-avvocato-decreto-legge-orlando-minniti/ (ultima consultazione 19/04/2017).

[20] La legge 94/2009, introducendo il “reato di clandestinità”, ha avuto ripercussioni sostanziali nell’accesso ai servizi da parte degli irregolari che perdurano ancora oggi. Nonostante sia avvenuta una depenalizzazione del reato con la legge 67/2014, e che lo stesso sia stato più volte criticato anche da parte dei vertici istituzionali, la mancata volontà di abrogarlo definitivamente ha un duplice effetto: da un lato simbolico, nel dare cogenza giuridica a chi urla “l’invasione dei clandestini”, e dall’altro di complicare ed intralciare il percorso per il riconoscimento di uno status legittimo e quindi una qualche forma di protezione.

[21] Per approfondimenti si veda http://www.meltingpot.org/IoDiserto-nasce-la-Rete-degli-Operatori-e-Operatrici.html#.WPXjDYjyjIU.

[22] Spostare la responsabilità della comunicazione delle notifiche dalla questura alla struttura di accoglienza, oltre a rappresentare un ulteriore compito da gestire all’interno del management della quotidianità, rappresenta un aspetto problematico dal punto di vista degli effetti che tale ambiguità di ruolo potrebbe comportare, anche nei termini di relazione con i richiedenti asilo. Sul merito si è espresso anche il presidente dell’ASGI, l’Avv. Lorenzo Trucco in una lettera inviata al Consiglio Nazionale Forense contenente brevi osservazioni sul D.L. 13/2017, in cui solleva perplessità rispetto al «sistema delle notifiche dei provvedimenti amministrativi ad opera di coloro che gestiscono la struttura di accoglienza (con tutto ciò che ne deriva in termini di certezza e credibilità del sistema)». La lettera è consultabile al seguente link: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2017/03/2017_3_17_ASGI_osservazioni_avv_DL_13_2017.pdf (ultimo accesso 19/04/2017).

[23] Ci si riferisce ad una contiguità che presenta contraddizioni interne: «il registro discorsivo securitario si appella all’esigenza di garantire ordine e sicurezza di fronte ad ogni tipo di minaccia che possa derivare dall’immigrazione; quello umanitario richiama la necessità di garantire a ogni essere umano i diritti fondamentali» (Parmiggiani 2014: 65).

[24] «Processo attraverso il quale la comprensione di un particolare fenomeno politico e sociale è mediata da un “prisma securitario” […] una questione viene trasformata in un problema relativo alla sicurezza del tutto indipendentemente dalla sua natura obiettiva, o dalla rilevanza concreta della supposta minaccia» (Campesi 2011: 95).

[25] Ci si riferisce alla definizione di politica data da Arendt (2001: 5, 7): «La politica tratta della convivenza e comunanza dei diversi», «nasce nell’infra, e si afferma come relazione».

[26] Secondo il regolamento di Dublino III (2013/604/UE) infatti è il paese di primo approdo, e cioè quello in cui deve avvenire l’identificazione del soggetto, ad essere responsabile della disamina della richiesta di protezione internazionale. Attualmente il regolamento è in revisione al parlamento europeo (proposta Wikstrom), ma la criticità rappresentata dagli obblighi del paese di primo approdo non appare superabile.

[27] La difficoltà nello stabilire una netta differenza tra tratta e traffico così come descritte nelle norme deriva dalla complessità nel valutare il grado effettivo di consapevolezza del migrante rispetto alla tipologia del viaggio intrapreso. Le fattispecie della “tratta” e del “traffico” sono infatti distinte in base al consenso (traffico: smuggling) o meno (tratta: trafficking) del migrante ad essere trafficato; nella definizione di tratta è ricompreso lo sfruttamento — sessuale e lavorativo, e a loro volta le due definizioni sono ricomprese nella più generale espressione “traffico internazionale degli esseri umani”. Il “traffico di migranti” viene definito all’art. 3 del “Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria” (della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale siglata nel 2000 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ratificata e resa esecutiva nel nostro paese dalla L. 146/2006) come «il procurare, al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale, l’ingresso illegale di una persona in uno Stato Parte di cui la persona non è cittadina o residente permanente». La “tratta” invece è definita nell’art. 3 del “Protocollo di Palermo”​, ovvero il “Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini” come «il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi».

[28] Il 25 agosto 1989 venne ucciso nel ghetto di Villa Literno, Jerry Essan Masslo, richiedente asilo non riconosciuto dal nostro paese che, in attesa del visto per il Canada per ricongiungersi al resto della famiglia, si guadagnava da vivere come bracciante, sfruttato nei campi di raccolta del pomodoro. In seguito ai funerali di Stato fu organizzata la prima marcia antirazzista nazionale. Dopo qualche mese venne varata la prima misura organica in materia immigrazione, la c.d. Legge Martelli. Benché siano trascorsi circa trent’anni la storia di Jerry mostra inquietanti continuità con il presente, in particolare lo sfruttamento di migranti, tanto più se privi di permesso di soggiorno, ad opera di reti criminali. Per una restituzione dettagliata della storia di Jerry e degli eventi immediatamente successivi si veda Di Luzio (2006).

[29] Considerare la cittadinanza come un meccanismo per allocare diritti diviene pericoloso nel mondo contemporaneo globalizzato, in cui si assiste a quella che Morris (2003) ha definito civic stratification; come sottolineano Brysk e Shafir (2004: 3) «globalization has created a “citizenship gap” which puts noncitizens and “second-class citizens” at risk”». «Il riconoscimento giuridico internazionale dei diritti umani oggi consente, rectius obbliga, a ricostruire la cittadinanza a partire non dal potere sovrano delle istituzioni statuali-nazionali ipostatizzando nello ius necis ac vitae (la tradizionale cittadinanza top-down), ma dalla immanente dignità di chi ne è titolare in via originaria (cittadinanza bottom-up)» (Papisca 2013: 20). Chi è quindi al di fuori della logica statale della cittadinanza, come i migranti, «è soggetto inevitabilmente alla potestà assoluta [dello Stato], ad una azione repressiva che legittima il potere statuale e riduce i diritti umani ad un elemento precario» (Scalia 2005: 62), trasformando la cittadinanza stessa in un «privilegio di status» (Possenti 2012: 9), «l’ultimo fattore di esclusione e discriminazione, l’ultimo relitto premoderno delle diseguaglianze personali in contrasto con la conclamata universalità e uguaglianza dei diritti fondamentali» (Ferrajoli in Cossutta 2014: 742).

[30] Per una descrizione approfondita dei processi che danno vita alle contemporanee forme di “neorazzismo” differenzialista ed inegualitario (Pitch 1995: 191; Parolari 2013: 221; Laurano 2005: 109) si veda Taguieff (1999). Attraverso l’assolutizzazione della differenza culturale, anche attraverso l’uso strumentale di un diritto speciale (Giolo, Pifferi 2009) e la riproduzione dei pregiudizi nel discorso quotidiano (Van Dijk 1984) nel nostro paese è in azione quello che Ferrajoli (2010) ha definito «razzismo di stato»: un insieme di norme, atti, regolamenti, circolari, programmi, documenti e prassi burocratiche di stampo marcatamente escludente e misconoscente nei confronti del migrante. Per un’analisi sulle contiguità nei comportamenti discriminatori agiti nei confronti dell’Altro si veda Rivera (2010) e la sua definizione di razzismo: «un sistema di idee, discorsi, simboli, comportamenti, atti e pratiche sociali che, attribuendo a gruppi umani e agli individui che ne fanno parte differenze naturali, quasi-naturali o comunque essenziali, generalizzate, definitive, giustifica, legittima, persegue e/o realizza ai loro danni, comportamenti, norme e prassi di svalorizzazione, stigmatizzazione, discriminazione, inferiorizzazione, subordinazione, segregazione, esclusione, persecuzione o sterminio» (ivi: 20).