Editoriale

Antonino Colajanni

Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

Una nuova rivista va giudicata, naturalmente, nel corso dei suoi numeri, nel tempo. E tuttavia, fin dal primo numero i lettori hanno tutto il diritto di chiedere conto delle ragioni, delle intenzioni, dei programmi e delle ispirazioni che l’hanno generata. Normalmente, dietro una rivista c’è un gruppo di fondatori, che aspirano – attraverso di essa – a trasmettere messaggi specifici ai lettori, a provare cammini nuovi e diversi d’indagine, a stimolare riflessioni e correzioni di rotta sui temi e problemi normalmente trattati da altri e a identificarne di nuovi.

Antropologia Pubblica intenderebbe fare proprio tutto questo. Affrontare con piglio innovativo un “modo” di fare antropologia, un metodo, una scelta di oggetti di studio, caratterizzati da una propensione verso il rapporto stretto tra il sapere e il fare, tra la conoscenza antropologica e la sua possibile efficacia all’interno di piani di azione sociale. Tutto ciò, naturalmente, nasce da una certa fiducia, da un inguaribile ottimismo, che si possa in qualche modo – sulla base di una appropriata competenza, con fermezza, forza argomentativa e capacità di comunicazione – esercitare influenza sulle decisioni, sulle politiche, che riguardano il sociale. La rivista nasce dalla “Società Italiana di Antropologia Applicata” (SIAA), recentemente fondata, che riunisce studiosi del campo antropologico interessati a tentare un rapporto proficuo, critico ma collaborativo, con le istituzioni e i gruppi responsabili delle decisioni e dei cambiamenti programmati nella vita sociale e culturale. I settori della possibile applicazione del sapere antropologico (che ovviamente non può essere intesa in modo banale e semplicemente strumentale) sono quelli noti e consueti della “contemporaneità”: le iniziative dello sviluppo e della cooperazione internazionale, la gestione del complesso problema delle migrazioni internazionali, le difficoltà della programmazione e pianificazione urbana, il rinnovamento della formazione scolare, la riforma della salute pubblica attraverso un’analisi critica del mondo della medicina e un nuovo rapporto con i malati, e così via. È chiaro che tutto si gioca, in termini di qualità, sulla capacità di mantenere intenso, rigoroso e qualificato il sapere prodotto. Non abbiamo nessuna perplessità ad usare un’espressione che spesso è stata messa in severa discussione, come quella di Antropologia Applicata, che per molti ha echi coloniali e di banale “ingegneria sociale”, e che si può invece senza difficoltà modificare nei contenuti, nell’ispirazione teorica e metodologica, nelle capacità critiche. Abbiamo anche intenzione di tener nel massimo conto alcune esperienze storiche che hanno costituito in parte un autorevole “precedente” dei nostri orientamenti attuali. Si tratta di quell’uso sociale dell’antropologia che ha caratterizzato molte iniziative nel nostro paese, a partire dai lontani anni Sessanta del secolo passato, e che ha costituito l’impegno costante dell’Istituto perugino diretto da Tullio Seppilli.

Ma l’aggettivo scelto per questa antropologia particolare merita qualche riflessione supplementare. Antropologia Pubblica vuol prendere sul serio i diritti, la partecipazione e le risposte del “grande pubblico” alle questioni e ai temi come quelli appena accennati; e vuole al tempo stesso sottolineare l’impegno, le obbligazioni, verso gli interessi “generali” del paese, verso quelle questioni – e verso il modo di trattarle – che riguardano la totalità dei cittadini, non un gruppo ristretto e più o meno “settoriale” di ricercatori. L’aggettivo “pubblica” quindi, non si oppone di per sé al suo consueto reciproco (“privata”), ma enfatizza un impegno verso la collettività e una selezione attenta dei temi e problemi trattati. Ma va anche detto che questo termine allude a un rilevante “allargamento” degli orizzonti e dei punti di riferimento dell’antropologia, al di fuori dello stretto – e secondo alcuni autori angusto – ambito esclusivo dell’Accademia. Si parte, dunque dalle Università, ma si estende di molto il proprio interesse al di fuori del “campus” universitario. Questo tipo di orientamento è rafforzato, ed enfatizzato, anche dal fatto che una gran parte dei soci della SIAA sono esperti di antropologia, forniti sì di titoli accademici, ma che si trovano adesso al di fuori dell’Università e svolgono le loro attività lavorative in contesti diversi.

Questo nome, questa espressione, non è nuova nel campo delle discipline antropologiche. L’ha proposta per primo l’antropologo americano Robert Borofsky, della Hawaii Pacific University, che ha lungamente scritto sull’argomento ed oggi dirige una collana di pubblicazioni sul tema, presso la University of California Press. Ha anche fondato un “Centro Internazionale di Antropologia Pubblica” che è per noi un importante punto di riferimento, anche se non seguiamo pedissequamente il cammino del collega statunitense. In particolare, non condividiamo la polemica costante di Borofsky nei confronti della “Antropologia applicata”, alla quale egli non riconosce quell’interesse teorico e concettuale, e quei rapporti di stimolo e di reciproca influenza con l’antropologia generale, che invece per noi sono importanti. In Italia la locuzione ha cominciato da qualche tempo a circolare, sia pure limitatamente. Una esauriente nota informativa sull’argomento è apparsa da poco in un articolo pubblicato da Davide Stocchero nel sito web “Antrocom Onlus Veneto”[1], dal titolo: Antropologia pubblica: una “nuova” possibilità?, nel quale si fa ampio riferimento al dibattito internazionale sull’argomento. Ma anche Fabio Dei ha pubblicato, in anni non recenti, un interessante articolo sul tema dal titolo: Sull’uso pubblico delle scienze sociali, dal punto di vista dell’antropologia (nella rivista Sociologica, 2, 2007). L’espressione “Antropologia pubblica” si sta dunque lentamente diffondendo nel nostro paese, e sarebbe il caso di fare un’attenta indagine in proposito nel web e anche nei “Social Networks”.

Lo stile della rivista intenderebbe essere in qualche modo diverso da quello dei normali periodici delle discipline antropologiche. Articoli relativamente brevi ma intensi, che contengano contributi chiari e facilmente comunicabili al grande pubblico (e al pubblico delle istituzioni), senza – per questo – nulla perdere del rigore e delle qualità argomentativo-documentarie; largo spazio alle discussioni e al confronto delle opinioni, come alla critica che offra anche soluzioni alternative viabili. Ci si propone un’alternanza tra numeri miscellanei, costituiti dalla accumulazione casuale di proposte liberamente pervenute alla redazione, numeri tematici organizzati appositamente, e numeri contenenti parte dei contributi presentati da soci e non soci ai periodici congressi della SIAA. Ai mezzi di comunicazione di massa che occasionalmente si occupino di temi antropologici (giornali, televisione, siti web) la rivista non mancherà di dedicare un’attenzione costante, ritenendo che la “comunicazione” verso l’esterno dell’Accademia (e la scarsa presenza qualificata di antropologi nei media) sia uno dei punti deboli dell’attuale condizione delle discipline antropologiche. Periodicamente, la rivista potrà anche rivolgersi direttamente non solo ad alcune delle più importanti istituzioni pubbliche che si ritengono tra gli interlocutori privilegiati degli interessi dei nostri soci, ma anche a certi gruppi della società civile organizzata e a rappresentanti del “terzo settore”.

In definitiva, nell’orientamento del gruppo promotore c’è la ferma idea che l’antropologia di oggi e di domani non debba trovarsi a disagio su temi di attualità, su problemi della contemporaneità, che può affrontare senza difficoltà – e alla cui soluzione contribuire – con i suoi metodi particolari di ricerca ravvicinata, anche sulla base della sua lunga storia provata e riprovata su situazioni di “alterità” geografica e storico-culturale, insomma di apparente “distanza” dal presente e dalle situazioni “centrali” dell’Occidente urbano. Senza rinunziare alla riflessione teorica e alla messa in discussione di idee, costrutti ideali, metodi e interessi della contemporaneità, si vorrebbe portare in essa la forza critica, il gusto per la ricerca partecipata e l’aspirazione a dare un contributo fattuale alla costruzione di un futuro migliore per i gruppi umani. In fondo, non ci nascondiamo una tenace ambizione: quella di favorire la progressiva costituzione di una antropologia attuale.

In questo primo numero appaiono i contributi presentati a un recente Congresso della SIAA, in un simposio dedicato alla “Antropologia dei disastri”. È questo un esempio di tema che coinvolge direttamente ricerche e studi “tradizionali” dell’antropologia, ma anche e soprattutto indagini collegate con interventi applicativi che hanno come obiettivo quello di contribuire ad attenuare i disagi delle popolazioni, studiando anche forme nuove di azioni progettuali basate su una attenta analisi delle cause, delle forme e del trattamento consueto di queste occorrenze che sono, certo, in massima parte naturali, ma non solo. E l’elemento umano che ne è parte deve essere tenuto in conto sulla base di ricerche e analisi sociali approfondite, condotte con i metodi dell’antropologia.



[1] Sito internet consultato in data 14/09/2015.