Figli che crescono i genitori

Uno sguardo antropologico dalla prospettiva del “minore”

Rossana Di Silvio

Università di Milano Bicocca

Table of Contents

Introduzione
La matrice di tutti i paradigmi: l’infanzia innocente e vulnerabile
Dalla patria potestà alla responsabilità genitoriale: la contesa del “bambino - bene sociale”
Il “superiore interesse” di chi? Bambini “a rischio”, bambini “rischiosi”
L’incongruenza della nozione di “minore” nella lente dell’adozione
Negoziazione e contro-condotte resistenti: l’agency dei figli adottivi
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. The representation according to which there is no family without a child is collectively shared and rooted in Italian society such as in many Western countries: it has intensely fed a today widespread social phenomenon that goes under the name of “adoption”, even transnational. In this framework, the child, as a subject/object of the desire of “doing family”, is at the core of attention and concern of international conventions, legal rules and local professional practices called to supervise the inalienable right and the protection of his “best interest”. By using the lens of contemporary adoptive kenning in Italy, my contribution discusses how a specific idea of childhood, historically and culturally determined, and its representation of the child as a minor, opened the way to the legal-professional institution of the child as abandoned and/or adoptable. I illustrate how, through this paradoxical exercise of power, which is markedly adult-centered, the child's subjective agency, her self-determination capacity and her “generative” abilities in the negotiating process of creating specific relational family choreographies are blurred. Finally, I will describe how adopted children reconfigure in an original way the parents’ subjectivity and the new family ties by making dialogue what is take for granted and what is being created as new.

Keywords: adoption; agency; childhood; minor; generative abilities.

Introduzione

Venti anni or sono, in pieno boom infantolatrico, David Miller pubblicò uno studio dal titolo How Infants Grow Mothers in North London (1997). A prima vista il suo contributo poteva apparire del tutto conforme al sentire del momento. Non a caso, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, la Convenzione ONU dei Diritti del Fanciullo (1989) aveva sancito, urbi et orbi, una nuova visione dell’infanzia che in Italia (ma non solo) avrebbe ispirato numerose normative di promozione e protezione di una nuova categoria di cittadini, i “minori”, specificatamente tutelata (tra cui le leggi 451/97; 285/97; 269/98; 476/98; 148/2000).

Tuttavia, osservando più da vicino, era possibile riscontrare uno scarto tra l’analisi di Miller e l’idea sottesa dalle normative di tutela del bambino. Infatti, se queste tendevano a sostenere un particolare tipo di responsabilità genitoriale promossa da una specifica idea di infanzia e da una univoca ideologia dell’allevamento e dell’educazione dei figli, l’antropologo, dal canto suo, tracciava uno scenario molto più articolato chiamando in campo la capacità del bambino, persino del neonato, ad esercitare una propria agency sulle pratiche di allevamento e sulla costruzione delle soggettività paterna e materna dei genitori.

Diversamente (ma neppure tanto) dalla scontata genitorialità “tradizionale”, anche il laboratorio a cielo aperto della parentela adottiva mostra allo sguardo etnografico un quadro molto più complesso dello scenario proposto dalla visione normativo-professionale della relazione genitori-figli (Di Silvio 2015). Vale a dire che lo sforzo quotidiano di un apparentamento non scontato, ancorché transnazionale e/o transrazziale, rivela come i figli partecipino intensamente alla “crescita” dei genitori, problematizzando la prospettiva comunemente attesa che assegna ai genitori una specifica posizione predominante nella dinamica di chi genera chi. L’indagine etnografica condotta nello spazio di vita quotidiana delle famiglie adottive mostra, infatti, come i genitori devono necessariamente fare i conti con l’azione soggettiva esercitata dal bambino a partire da una sua specifica biografia e “caratterialità”[1] e svela anche come il bambino si presenti sulla scena relazionale come un outsider capace di mediare attivamente tra confini simbolici diversi, mostrando nei fatti la circolarità del potere “generativo”. Nelle nuove relazioni familiari come in quelle sociali.

A partire dal materiale raccolto nel corso di una prolungata etnografia della parentela adottiva contemporanea (2004-2016) condotta in diverse regioni italiane[2] e utilizzando gli strumenti analitico-riflessivi forniti dall’antropologia, cercherò di illustrare e argomentare, anche da una prospettiva interdisciplinare, le intense connessioni tra rappresentazione dell’infanzia, normative di protezione del bambino, pratiche di allontanamento dalla famiglia di origine e ricollocamento adottivo e i loro effetti sulle “nuove forme di famiglia” e sui loro membri.

La matrice[3] di tutti i paradigmi: l’infanzia innocente e vulnerabile

Innanzitutto, cosa si può intendere concretamente parlando di scarto tra la visione della norma e le analisi antropologiche sopra accennate? L’aspetto che richiama maggiormente l’attenzione per la sua elevata densità di significazione riguarda la riconfigurazione, sul piano legale/professionale prima e della comune vulgata poi, del bambino in “minore”. Questa traslitterazione semantica, per cui il “bambino” migra da un sistema di senso ad un altro trasformandosi in “minore”, trova il suo slancio in una nuova rappresentazione dell’infanzia, innocente e vulnerabile, originata nella seconda metà dell’800. Se il Settecento guardava ancora ai bambini come piccoli adulti in miniatura, il Romanticismo ottocentesco identifica nell’innocenza la qualità più importate che distingue i bambini dagli adulti. Questa visione registrò un successo tale da fondere le idee di infanzia e innocenza in un tutt’uno, tanto che, da allora, l’innocenza si è incarnata nell’infanzia euro-americana[4]. L’intenso lavorìo della nuova idea lungo tutto il Novecento ne favorisce il radicamento “scientifico”, con il concorso fondante dei paradigmi disciplinari della pedagogia moderna e della psicologia infantile che sono andati velocemente consolidandosi nel medesimo periodo storico. In questo modo un aggettivo, “minor”, direttamente importato dal diritto privato romano[5] e che per molti secoli aveva conservato il suo originario valore semantico, è diventato un sostantivo, o meglio ancora uno status, che trae ragione della sua portata comparativa. Nel caso del bambino, si può immaginare, comparativo rispetto all’adulto.

La trasformazione del bambino in minore e la visione che ne stava a fondamento non sono sfuggite all’interesse di uno storico come Philippe Ariés il quale, nel suo noto saggio Padri e figli nell’Europa medievale e moderna (1999), pubblicato proprio nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso, aveva chiaramente argomentato come l’infanzia quale età della vita degna di nota fosse un’invenzione ottocentesca forgiata dall’azione concomitante di particolari congiunture storiche. Il consolidamento degli Stati-nazione, la necessità di fabbricarne i cittadini e l’avvento brutale dell’industrializzazione avevano, infatti, stimolato programmi sociali inediti che spingevano alla promozione di una maggiore attenzione pubblica alla mente (istruzione obbligatoria) e al corpo (salute pubblica) dei futuri cittadini. Va da sé che la tensione verso la creazione di un uomo nuovo non poteva certo consentire che l’infanzia restasse in quello spazio dell’invisibilità sociale in cui era stata lungamente confinata dalle morti precoci o dalla diretta immissione nel mondo adulto e a questo contribuirono largamente, come abbiamo ricordato, le nascenti discipline della moderna pedagogia e della psicologia.

Il secolo successivo ha raccolto l’eredità di ciò che l’Ottocento aveva entusiasticamente abbozzato cosicché la particolare concezione dell’infanzia scaturita all’interno delle società occidentali industrializzate ha portato con sé una dimensione morale e normativa del tutto nuova, che vede come appropriato, sano e “normale” istituire i bambini come diversi dagli adulti. In breve, l’infanzia è stata velocemente spinta in primo piano nell’agenda delle Convenzioni internazionali e delle normative nazionali mediante l’uso di un minuzioso reticolo discorsivo e una diffusa copertura globale.

Nessuna produzione discorsiva è mai stata tanto ridondante di retorica, anche spicciola, quanto le argomentazioni ideologiche sull’infanzia, sui suoi diritti e sulla sua tutela. Profondamente impregnati del culto della fanciullezza, tali discorsi hanno potentemente istituito il bambino come raffigurazione (morale) dell’innocenza e, in quanto tale, continuamente esposto e vulnerabile ai numerosi rischi del mondo (e della crescita). E questo ha reso necessario uno stretto controllo sul suo “superiore interesse”, le sue azioni, ma anche sulla sua auto-determinazione, conferendogli per l’appunto uno statuto di “minore” (Di Silvio 2015). Dunque, il secolo scorso ha assistito ad un curioso scivolamento della rappresentazione del bambino sul piano storico-discorsivo: a una dottrina della “corruzione morale del neonato” che lo individuava peccatore e sessualizzato già alla nascita (De Loache, Gottlieb 2000) si contrappose nella coscienza popolare una visione emergente, di stampo romantico, che lo raffigurava senza peccato, privo di sentimenti sessuali e ignaro delle preoccupazioni del mondo. Dalla seconda metà del ‘900 l’idea del bambino come intrinsecamente corrotto appare completamente scalzata dalla sua riconfigurazione attraverso i valori morali dell’innocenza, della vulnerabilità e dei diritti, istituendolo in termini esclusivamente emozionali e morali e rivestendolo di un profondo carattere sacrale (Gauchet 2010)[6]. Il peccato originale è stato rimpiazzato dall’innocenza originale.

Nell’ultimo scorcio del Novecento, il lavorìo prodotto dall’intreccio tra il carattere morale del discorso dell’innocenza e lo statuto sacrale del bambino ha incontrato sulla sua strada la nozione di “rischio” ed è stato amore a prima vista. Non che questa nozione fosse nuova all’analisi socio-politica, che la individua come una forma moralistica socialmente utile per incrementare la solidarietà collettiva (Douglas 1992). Tuttavia, l’orientamento verso un linguaggio delle probabilità oggettive di “rischio”, importato dal campo medico, è sintomo di un cambiamento culturale che produce una nuova articolazione di idee. In particolare, il rimaneggiamento del precedente concetto di rischio nella più recente nozione di “a rischio” mostra tutta la sua singolare efficacia nel momento in cui, laddove la nozione di “a rischio” viene opportunamente (vale a dire “scientificamente”) connessa a specifiche categorie di persone, essa agisce come un marcatore di senso, orientando l’ansia collettiva e attivando, nel caso, meccanismi di “protezione” sociale (Di Silvio 2015). E dal momento che i bambini vengono istituiti come specie tutelata e l’infanzia come statuto protetto, tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo entrambi diventano nodi centrali dell’ansia da rischio (Jackson, Scott 1999). In questa cornice di senso l’infanzia è soggetta al rischio non solo da parte di coloro che vorrebbero snaturarne l’intrinseca innocenza, ma anche da parte di quei bambini che rifiutano di essere dei “veri” bambini. E questo sembra un aspetto ideologico particolarmente interessante.

Dalla patria potestà alla responsabilità genitoriale: la contesa del “bambino - bene sociale”

La tensione alla tutela del bambino sul piano normativo e sociale, che ha catturato il legislatore europeo a cavallo tra il XIX e il XX secolo – la stessa che ha prodotto l’istruzione obbligatoria –, ha rapidamente superato i confini pubblici per penetrare nel segmento più intimo della sfera domestica, quello della relazione educativa tra genitori e figli, uno spazio lungamente riconosciuto di esclusiva pertinenza della cosiddetta patria potestà. Infatti, lo statuto sacrale assegnato all’infanzia, con il suo inestimabile valore emozionale e psicologico, porta in primo piano la nozione di bambino come “bene sociale”. La sua protezione viene costituita come un imperativo morale che trascende i compiti storicamente assegnati alla famiglia, ma chiama in causa la collettività, nella veste primaria dello Stato e delle sue agenzie autorizzate. La tutela del bambino diventa dunque un inderogabile dovere collettivo, cosicché la sola potestà dei genitori risulta «fuori questione» (Gauchet 2010: 61).

Sacralizzare il bambino, riconfigurandolo in termini esclusivamente emozionali e morali attraverso i discorsi dell’innocenza/vulnerabilità e dei diritti, ha dunque esautorato i genitori della loro fondamentale funzione di riproduttori sociali, richiamandoli contestualmente a una responsabilità sociale esclusiva che si è progressivamente trasformata nella domanda di una genitorialità “intensiva”[7] sempre più esigente, secondo uno specifico modello forgiato e diffuso con successo dalle discipline psico-pedagogiche e continuamente riprodotto attraverso le pratiche professionali dei servizi alla famiglia (Saletti Salza 2014; Di Silvio 2015). Di fatto, i genitori contemporanei sono istituiti e si percepiscono sempre più come una categoria sotto controllo, “responsabili” ma a “responsabilità limitata” (Furedi 2008). In altre parole, sacralizzazione dell’infanzia e genitorialità intensiva rappresentano le attuali coordinate valoriali (o idee normative) che intersecano in modo performativo il processo di fabbricazione delle relazioni tra genitori e figli, il loro consolidamento e la loro legittimazione sociale.

In Italia, l’investitura sull’esclusiva responsabilità genitoriale (che ha sostituito l’espressione “potestà genitoriale” solo nel 2013 e che a sua volta aveva sostituito la nozione di “patria potestà” nel 1975[8]) acquista un suo specifico significato nel processo di legittimazione/delegittimazione della “buona” genitorialità operato dai professionisti della famiglia e dai giudici minorili in riferimento ad uno specifico modello di genitorialità che, come abbiamo detto, richiama non solo gli obblighi tradizionalmente intesi ma un impegno quotidiano “professionalizzato” (Nicola 2017). Di conseguenza, nel caso in cui la famiglia sia ritenuta difforme dai modelli attesi di cura genitoriale e dalle consolidate teorie riguardo l’infanzia e l’allevamento dei figli, la sanzione sociale e giuridica è (pubblicamente) esercitata dall’intervento dello Stato e dei suoi servizi ai quali la legge consente di intervenire, per rimediare una presunta incapacità genitoriale, allontanando il “minore”, istituito alla bisogna “in stato di abbandono” (Saletti Salza 2010).

Infatti la norma recita che, quando il minore si trova in condizioni di pregiudizio per (presunta) incapacità dei genitori, la situazione deve essere segnalata (dalla scuola, dai vicini, dai servizi territoriali, da chiunque ne sia a conoscenza) al Pubblico Ministero presso il Tribunale per i Minorenni che può chiedere allo stesso Tribunale i più opportuni provvedimenti nell’interesse del minore, anche limitativi o di decadenza dalla potestà nei confronti di genitori (art. 330, 333, 336 Cod. Civ.). Inoltre, quando un minore si trova in (accertate) condizioni di abbandono morale o materiale da parte dei genitori o dei parenti entro il 4° grado di parentela, il Tribunale per i Minorenni, su ricorso del Pubblico Ministero Minorile, può dichiarare lo stato di adottabilità (L. 184/1983 modificata da L.149/2001)[9].

Il “superiore interesse” di chi? Bambini “a rischio”, bambini “rischiosi”

Tra i paesi occidentali, l’Italia vanta una delle normative più attente e rigorose riguardo la tutela dell’infanzia. Naturalmente questo è un grande merito. Tuttavia, allo sguardo penetrante dell’antropologo la trama discorsiva dell’innocenza svela in controluce la presenza e l’azione di un persistente esercizio adultocratico il quale, nell’istituire il bambino come vulnerabile, contemporaneamente ne sancisce l’inclusione o l’esclusione dalla categoria degli innocenti/vulnerabili attraverso la nominazione e classificazione dei comportamenti che egli dimostra nel preservare e confermare le immagini socialmente attese di innocenza e vulnerabilità. In altre parole, il discorso dell’innocenza porta con sé un’intrinseca qualità morale che emerge in modo evidente laddove l’innocenza viene vista minacciata, non solo dal mondo esterno, ma anche dal mondo interno del bambino stesso, come accade, ad esempio, nelle situazioni in cui la gente lamenta “l’inappropriatezza” del comportamento di alcuni bambini, valutato come non conforme alle attese di innocenza e vulnerabilità proprie dell’infanzia. Infatti, se la connessione tra infanzia e innocenza è storicamente posizionata, la “naturalizzazione” dell’idea di “infanzia innocente” si è velocemente trasformata in un formidabile strumento di classificazione dei “veri/falsi” bambini dalle implicazioni complesse e spesso dirompenti.

Robin Bernstein (2011) sottolinea come molte persone “vedano” i bambini neri più grandi di quello che sono in realtà, aumentando la falsa percezione che questi “minori” siano meno infantili, meno innocenti dei bambini bianchi, dal momento che, nella visione romantico/sentimentale dell’infanzia ereditata dai secoli precedenti, crescere coincide con la perdita dell’innocenza (e della vulnerabilità). Anche le bambine nere vanno incontro alle stesse credenze: sono viste come meno bisognose di cura, sostegno e protezione delle coetanee bianche perché, nell’immaginario collettivo bianco, sono bambine che «sanno più di sesso e di altri argomenti da adulti» (pos. 173)[10].

Va da sé che i sentimenti sull’inappropriatezza di alcune categorie di bambini hanno favorito la costruzione di una particolare idea dell’infanzia e della conservazione dei suoi confini, dal momento che i rischi specifici dai quali i bambini devono essere protetti vanno a definire le caratteristiche dell’infanzia e la “natura” dei bambini stessi (Di Silvio 2015). Queste considerazioni svelano sul piano sociale una mai sopita ambivalenza da parte degli adulti nei confronti del bambino che, se da un lato viene celebrato come bene di inestimabile valore, dall’altro è fatto oggetto di profonda diffidenza proprio perché percepito come “naturale”, spontaneo, istintivo, e dunque incontrollabilmente “pre-sociale” (Meyer 2007). E i bambini che mostrano di disattendere le attese sociali innocentiste, non potendo essere palesemente “scartati”, vengono individuati, scientificamente nominati e classificati e se necessario “rimessi in ordine” mediante appropriate procedure di medicalizzazione e ricollocazione, una distinzione che contribuisce fortemente a riprodurre l’idea dominante di infanzia e preservarne i confini (pre)stabiliti[11].

Henrietta Moore (2004) sostiene che il modo con cui pensiamo e alleviamo i bambini e i ragazzi sia alla base della nostra visione e teoria della società le quali, come l’antropologia ha evidenziato, rappresentano solo una delle possibili variazioni culturali. Allo stesso tempo, molti sono i modi in cui la società viene considerata non solo rischiosa per i bambini, ma a rischio a causa di questi. Si tratta di situazioni la cui «forma simbolica richiama prepotentemente la rottura dei valori familiari [e comunitari] come nel caso dei bambini il cui problema è che sanno troppo» (Moore 2004: 739), nel senso che appaiono pericolosamente troppo simili agli adulti, come i bambini soldato o i bambini che hanno sperimentato una precoce esperienza sessuale o che hanno manifestato capacità e comportamenti inappropriati rispetto a ciò che è culturalmente atteso[12]. Di fronte alla domanda se questi bambini possano ancora essere considerati bambini, spesso prevale nei loro confronti il timore collettivo che non si possano più ricollocare con sicurezza nella società (Di Silvio 2018).

Gran parte dei cosiddetti “orfani sociali”, detti anche “bambini abbandonati”, ovvero bambini posti sotto la tutela dello Stato benché genitori e familiari siano ancora in vita, e resi giuridicamente “adottabili” o “affidabili”, sono comunemente attesi come bambini “a rischio”, e sempre più spesso anche come bambini “rischiosi”[13].

L’incongruenza della nozione di “minore” nella lente dell’adozione

Nello specifico quadro discorsivo e ideazionale sopra tratteggiato, il figlio adottato – comunemente inteso rispetto al figlio biologico come “quasi lo stesso, ma non proprio” (Di Silvio 2008) – sembra avere tutte le caratteristiche per appartenere alla categoria dei soggetti “a rischio”. Tuttavia, in modo piuttosto ambiguo, le pratiche di esclusione sociale di cui questo bambino fa esperienza nel paese di arrivo vengono istituite (dalla scuola, dai servizi, dal tribunale) come misure necessarie per proteggerlo dal suo passato e dal suo retaggio, in altre parole da sé stesso come “proveniente da là” e in definitiva dalla sua intrinseca “inappropriatezza” del suo stare al mondo qui e ora.

Nel campo dell’adozione, lo statuto di “minore” manifesta tutta la sua ridondante retorica e soprattutto la sua profonda ambivalenza. Infatti, nonostante l’adozione implichi un completo stravolgimento della persona del bambino, intesa come luogo di relazioni, affetti, presenze e connessioni sociali, colui che è destinato ad essere figlio di genitori “estranei”, per quanto abbastanza grande da essere rifiutato alla “prima scelta” dell’adozione domestica[14] e subire un forzato allontanamento dalla sua vita attuale, non ha la possibilità di scegliere o di intervenire in alcun modo sul suo destino. Al soggetto avente diritto, per “superiore interesse”, a una famiglia e a una casa, la norma riconosce, paradossalmente, solo il diritto di esercitare un’agency ridotta[15].

La questione si complica laddove gli adottivi, proprio in ragione della loro età, sono spesso portatori, dal luogo di origine, di un patrimonio relazionale che continua a esercitare una potente azione generativa nel processo negoziale di costruzione dei nuovi legami familiari. Questa capacità pone gli adottivi sotto una luce stravagante, eccentrica: istituiti come “abbandonati” dai discorsi e dall’iconografia dell’orfano sociale, nascondono con sempre meno successo la vitalità delle «reti di interlocuzione» (Taylor 1989: 36) di provenienza che ne hanno forgiato la persona e in definitiva un segmento identitario ineludibile. Taylor sostiene, infatti, che la dimensione dialogica del sé è stata opacizzata dall’enfasi occidentale sulla libertà, l’autonomia e l’indipendenza dell’individuo. Viceversa, egli afferma, «io sono un sé solo in relazione a determinati interlocutori […]. Un sé esiste solo all’interno di ciò che chiamo ‘reti di interlocuzione’» (Taylor 1989). E una persona può cambiare la propria rete di interlocutori a favore di altre reti con le quali, ad un certo punto della vita, si trova ad essere coinvolta nella realtà o sul piano empatico e/o dell’immaginario.

Una delle specificità più interessanti del farsi parenti con l’adozione è la possibilità di indagare “a cielo aperto” le strategie generative che genitori e figli mettono in campo nel processo di fabbricazione delle nuove soggettività parentali nella particolare condizione in cui diventare genitori e figli non sono fatti scontati di natura ma obiettivi reciprocamente intenzionali. In realtà, a ben guardare, non si tratta di un processo confinato alla sola esperienza adottiva, ma riguarda tutte quelle aspirazioni di genitorialità e famiglia orientate dalla scelta e non dal caso, vale a dire tutte le nuove forme di famiglia contemporanee, non escluso il modello biologico tuttora prevalente.

Dunque, l’idea del bambino come “minore” ha opacizzato il carattere profondamente intersoggettivo[16] della costruzione del legame di parentela e delle soggettività genitoriali e filiale. Così come ha descritto Miller nell’articolo citato in apertura, e come prima ancora Marilyn Strathern (1988) aveva illustrato nel suo studio sull’area di Mount Hagen in Papua Nuova Guinea, il figlio partecipa alla “crescita” della madre (e del padre) sul piano sociale e contribuisce a modellarne una nuova auto-comprensione del sé[17]. Allo stesso modo, le testimonianze e le osservazioni partecipanti nelle case delle famiglie adottive mostrano come i legami familiari sono processualmente generati e reciprocamente riconosciuti all’interno di un serrato, quotidiano esercizio negoziale tra gli interlocutori, grandi/adulti o piccoli/minori che siano (Di Silvio 2015).

Negoziazione e contro-condotte resistenti: l’agency dei figli adottivi

Un topos dell’adozione internazionale particolarmente diffuso in letteratura restituisce l’idea di un «amore incondizionato» e di una «immediatezza del legame» che sembrano sperimentare gli aspiranti genitori e il neo-figlio nel loro primo incontro (Howell, Marre 2006: 305). Tuttavia, questa osservazione contrasta con gran parte del materiale che ho raccolto dentro le case e nella vita quotidiana delle famiglie le quali, viceversa, parlano di sforzo, tensione, negoziazione, mostrando che il legame di famiglia, e ancor più l’amore, non è affatto immediato, ma si costruisce nel tempo. Come afferma Patrizia[18], una mamma adottiva incontrata nel corso della ricerca: «non è che scatta appena ti vedi …»[19]. Dunque nelle descrizioni dei testimoni il sentimento di parentela sembra progressivamente scaturire da una intensa e prolungata negoziazione di senso tra genitori e figlio sulle condotte e sugli affetti agiti in reciprocità nel “fare” e “stare” insieme quotidiano e che vanno progressivamente a configurare l’essere parenti secondo ciò che Sahlins chiama «mutuality of being» (2011:1), ovvero un’idea di parentela basata su una comune esperienza esistenziale sedimentata nel tempo e su ciò che potremmo definire una “interpenetrazione” delle persone.

In sostanza, l’aspetto negoziale costituisce l’elemento ricorrente e fondante la co-costruzione del legame di parentela che coinvolge in modo importante anche la fabbricazione della soggettività materna e paterna dei neo-genitori. In una genitorialità individuata dall’intenzionalità e dalla scelta, la presenza stessa del bambino, quel bene valoriale inestimabile, sembra infatti imporre una costante ridefinizione e rinegoziazione del fare il genitore. Al di là di modelli di genere scontati, poiché il progressivo e quotidiano addensamento delle soggettività materna e paterna deve necessariamente fare i conti con l’azione soggettiva esercitata dal bambino a partire da una sua specifica biografia relazionale e “caratterialità”. D’altro canto, il già menzionato arrivo di bambini sempre più grandi, che portano nella memoria un’immagine ancora viva del loro passato più o meno recente, ha reso questa condizione una necessità: come sostiene Strathern (2005), è in questo modo, negoziando, che le persone vanno a creare nuovi tipi di connessioni tra le loro vite e il mondo in cui si trovano a vivere ad un certo punto della vita.

Yuri è stato adottato in Ucraina all’età di dieci anni. Ha raccontato a sua madre che durante il suo soggiorno in istituto è stato mandato in vacanza con altri bambini in Germania, ospiti presso famiglie locali:

Lui ha detto che è stato tre mesi, ma io non credo così tanto a lungo, e gli è piaciuto moltissimo questa cosa: il posto, la fattoria, la coppia … E infatti, non lo so com’è, – dice sorridendo la madre – quando ti piace una persona, probabilmente ti ricordi di qualcun altro che gli assomiglia … Così è avvenuto con noi e con la famiglia tedesca. Ad esempio, no, perché secondo lui io assomiglio a questa signora tedesca che ha conosciuto, e mio marito senza capelli come quel signore là tedesco …[20]

Si potrebbe pensare che solo le precedenti relazioni di parentela del bambino posseggano la capacità di “lavorare” sulla costituzione degli attuali legami di famiglia o sulla co-costruzione delle soggettività materna e paterna dei suoi nuovi genitori. In realtà lo scenario appare molto più articolato. Vale a dire che anche la connessione prodotta dalla fugace rassomiglianza tra la coppia tedesca e i suoi nuovi genitori può facilitare l’azione costitutiva dell’attuale legame se “ancorata” ad un contesto polifonico di memorie del sé attraverso cui Yuri informa gli altri su come lui si vede. Infatti Patrizia racconta l’esperienza del figlio nel villaggio rurale tedesco mentre sta descrivendo il piacere mostrato dal bambino quando lo hanno accompagnato a «cavare latte dalle betulle» nelle zone della cintura prealpina, dove il nonno materno possiede un terreno boschivo e dove il bambino «ha insegnato» ai suoi nuovi parenti «come si fa» (cfr. Ahmed 2004). D’altro canto, aggiunge la madre, Yuri «ha conosciuto il bene di una famiglia» perché ha trascorso la sua infanzia in un piccolo villaggio di campagna, con la madre biologica che «andava e veniva», il fratellino più piccolo (andato in adozione a una coppia locale), uno zio e la «babushka», la nonna, che lui aiutava in numerose attività di sussistenza domestica, come «cavare il latte dalle betulle: a primavera andavano insieme a intagliare la corteccia dell’albero, raccoglievano la linfa e la vendevano al mercato, o la usavano in casa, come alimento sostitutivo del latte materno o come medicamento»[21].

Attraverso queste azioni culturali integrate che propone e sottopone alla sua nuova “rete di interlocuzione” parentale, Yuri sembra rimarcare che egli non è una tabula rasa che l’adozione deve riempire, ma esiste già nella relazione con numerose reti di interlocuzione familiare, affettiva e genetica. È un outsider di un variegato sistema relazionale che appare estremamente vitale proprio per l’abilità del bambino stesso di mediare tra confini simbolici (Douglas 1985: 121-23) e quale punto di origine di una interazione diffusa, reale e immaginata, che lo rende un agente significativo nel processo negoziale di creazione della nuova soggettività dell’interlocutore. E infatti prosegue Patrizia:

Anche della sua mamma mi ha raccontato. Voleva che mi facessi i capelli rossi, ad esempio, perché la sua mamma l’aveva vista con i capelli rossi. E poi mi dice: “Mettiti il rossetto, mamma, perché così piaci di più agli uomini”. Gli ho risposto: “Ma a me non interessa piacere agli altri, m’interessa piacere a tuo padre”. “Papà, la mamma si è messa il rossetto, dille che sta bene” – e mentre rievoca la scena Patrizia ride di gusto[22].

Molti adottivi hanno un accesso immaginativo a un mondo parallelo a quello in cui stanno vivendo nel presente: non si tratta di banali fantasie, ma di una conoscenza ancorata da immagini reali del sé che il bambino richiama nel qui e ora per resistere contro il fatto di essere semplicemente identificato (e di identificarsi) con lo scarso valore che gli è stato assegnato attraverso l’atto dell’abbandono e il conseguente statuto di “orfano sociale”.

Di fatto, l’azione soggettiva del bambino nel processo di costruzione della sua storia familiare, e più precisamente la sua capacità di esercitare il potere della memoria e la selezione di ricordi tatticamente appropriati a un suo (vantaggioso) riposizionamento nella trama relazionale presente, è un elemento spesso assente dal dibattito pubblico sull’adozione, sia esso accademico, professionale o normativo.

Va detto che negli ultimi tempi la carenza di informazioni, personali e sanitarie, fornite all’origine è uno dei nodi cruciali delle frequenti pessime relazioni tra paesi di accoglienza e paesi di provenienza dei bambini. Il caso più recente riguarda le adozioni dalla Repubblica Democratica del Congo da cui provengono adottivi spesso grandicelli, soprattutto maschi. Dalle testimonianze di operatori e famiglie raccolte nel corso di una “coda” dell’indagine etnografica[23] (Di Silvio 2018), sembra sia costume degli istituti di provenienza “francesizzare” o europeizzare il nome proprio del bambino che viene così presentato agli aspiranti genitori già in parte destorificato della sua identità originaria attraverso una rinominazione (Piña-Cabral 2010). Inoltre, le informazioni riguardo la storia del bambino, perlopiù scarse e verosimilmente rimaneggiate, tendono ad omettere diversi aspetti e vicende della sua precedente vita di relazione in modo da non scoraggiare l’adozione da parte delle coppie europee. Infatti, il quadro generale che viene solitamente fornito ricalca tutta la retorica salvifica sull’infanzia innocente e sull’orfano (vero o presunto) vulnerabile in Africa secondo un copione ben noto tanto nei paesi di accoglienza che nei paesi di origine. Tuttavia, una volta arrivati nella nuova casa, questi bambini spesso mettono in campo azioni resistenti e contro-condotte che stravolgono la prospettiva innocentista e la rappresentazione di vittima passiva data per scontata da neo-genitori e professionisti dell’adozione, i quali appaiono assolutamente impreparati di fronte alla sfida che molte adozioni dall’Africa sub-sahariana sembrano presentare. Con una storia pregressa, benché sconosciuta all’accoglienza, di «attori sociali [..] con un ruolo e una presenza marcata nel cuore stesso del contesto sociale [di appartenenza] e pienamente responsabili delle proprie azioni» (De Boeck 2009: 141), questi “minori” «non sono soltanto vittime vulnerabili e passive, assoggettati al contesto in cui vivono, ma sono anche soggetti attivi di quella realtà» (De Boeck 2009: 140). Certamente subiscono violenze da parte degli adulti ma, allo stesso tempo e proprio per le esperienze di vita che hanno sperimentato, mostrano di essere soggetti in grado di esercitare un’agency significativa nella relazione con gli stessi adulti. Dunque, sono bambini “a rischio” in quanto vittime che affrontano molte forme di violenza, ma possono essere visti anche come elementi “di rischio” per le società e le famiglie a cui appartengono poiché «sanno troppo» e sono diventati accorti e particolarmente abili nell’agire nel mondo in cui vivono, compresi i contesti sociali e le esperienze di vita più complessi (De Boeck 2009). In definitiva, questi “minori” reclamano un’autodeterminazione che la normativa di “tutela” del paese di accoglienza non prevede.

Luc è stato adottato nel 2015 nella regione del Kivu, RDC, all’età di dieci anni. Arrivati in Italia, nella nuova casa, il ragazzo è entrato subito in aperta contestazione con la sua nuova condizione di “minore” mettendo in campo numerose tattiche resistenti “estreme”, dal rifiuto del cibo cucinato dalla madre adottiva all’accusa di stregoneria nei suoi confronti («che lo aveva sottratto alla sua vera madre»). «Un giorno», riferisce il padre al Centro Adozioni dove la famiglia è seguita, «finalmente ha detto spontaneamente alla madre di voler raccontare di sé»[24]. Questa notizia, che genitori e operatori dell’adozione accolgono con grande eccitazione ed entusiasmo, è stata interpretata come la breccia (o la capitolazione) che tutti attendevano per poter avviare l’atteso processo di creazione del legame di parentela, svelando, a uno sguardo analitico, il potere esercitato dal bambino nella relazione nel momento in cui si appropria del ruolo di depositario e gestore delle “vere”, agognate, informazioni, indispensabili per fabbricare una “vera” storia di famiglia, coerente tra passato e presente (Di Silvio 2015).

Infatti, come illustra una delle operatrici del servizio adozioni, dove si sta cercando di sbrogliare questa intricata esperienza di apparentamento adottivo:

Luc, come lo hanno chiamato in istituto, ha raccontato alla madre alcuni fatti che lo riguardano, ad esempio che ha vissuto per diverso tempo in strada e che è entrato in istituto solo l’anno prima di essere adottato, che comunque è un tempo troppo breve per andare in adozione … Allora, ha raccontato queste cose ma in cambio delle informazioni ha preteso alcune cose da lei. Ha detto a sua madre: “Io ti racconto delle cose di me se tu fai questo per me”. L’ha bendata e l’ha fatta sdraiare sul letto, e le ha detto che non doveva raccontarlo a nessuno, facendole intendere che era qualcosa, un segreto, tra loro due. Alle rimostranze della madre, che queste cose con la mamma non si fanno, Luc le ha risposto: “Ma tu non sei mia madre”[25].

Questo fatto, riferito al servizio dai genitori adottivi, in particolare dal padre, ha provocato un grande sconcerto, disorientando completamente gli operatori. La coordinatrice, allarmata, afferma: «anche se in realtà [stavolta] non è successo niente, possiamo farci tante idee su quello che è successo … la dinamica fa venire in mente quasi lo stupro di guerra»[26]. Ma quel che maggiormente ha fatto infuriare i professionisti è stato l’atteggiamento dei neo-genitori, i quali, di fronte al pericolo di una possibile «sessualizzazione del legame di filiazione»:

Lei è andata completamente in “palla”! Non voleva assolutamente raccontare l’accaduto, e comunque non aveva fatto niente per sottrarsi a quella situazione … E anche il padre, non ha preso nessuna posizione! É pure stato via per un breve viaggio di lavoro, come se niente fosse, anzi entrambi i genitori hanno cercato in ogni modo di minimizzare quel che era successo[27].

Difficile pensare che Luc provenga da un sistema sociale che non conosce e pratica il tabu dell’incesto, Levi-Strauss avrebbe qualcosa da obiettare. Ma lo scenario di una intollerabile trasgressione che si è presentato agli occhi degli operatori pubblici, opacizzando altre possibili prospettive interpretative, la dice lunga sugli effetti pervasivi del paradigma dell’infanzia innocente e vulnerabile e sull’habitus cognitivo ed emozionale che è riuscito a forgiare nei professionisti dell’adozione (e della famiglia). E il “minore” eccentrico, che non si attiene ai canoni “scientifici” dello sviluppo psico-fisico del bambino sanciti dalla medicina occidentale contemporanea (e intesi come universali), quel “minore” che, come illustra l’assistente sociale del servizio, «ha avuto uno sviluppo puberale veloce e inaspettato, ha solo dieci anni ma è molto sviluppato fisicamente per la sua età, è anche molto forte, si allena tutti i giorni»[28] (non sembra un po’ troppo adulto?), se si ritrova, verosimilmente suo malgrado, in una nuova casa, una nuova nazione, con un nuovo statuto, un nuovo padre e una nuova madre, completamente disconnesso dalle “reti di interlocuzione” e di significazione precedenti[29], può decidere di negoziare i confini della sua attuale esistenza relazionale esplorando e sperimentando tipologie di connessione possibili anche camminando sul filo del rasoio delle sanzioni localmente individuate (ma forse a lui non del tutto chiare).

In altre parole, gran parte dei bambini sono attori virtuosi, esperti in sceneggiature della cultura infantile del mondo sociale che abitano perché capiscono con precisione quali sono i comportamenti previsti dal copione delle “cose da bambini”. Esiste tuttavia la possibilità di un adattamento alienato per l’assenza di una chiara connessione tra l’attore/bambino e una particolare (richiesta di) messa in scena dell’infanzia. Spesso, di fronte a questa circostanza, anche transitoria, prevale negli adulti lo sconcerto davanti all’abilità dei bambini di surrogare l’adultità. La dinamica è cristallina nelle parole della psicologa del Centro a proposito della “cornice” di senso in cui è stata collocata la persona di Luc:

Stiamo pensando se non sia il caso di mandarli a consultare qualcuno, magari che gli dia qualcosa per rallentare questo sviluppo. É già stato fatto per altri casi simili, dove magari c’era qualche preoccupazione che il legame di filiazione potesse sessualizzarsi. Abbiamo anche il precedente di un bambino brasiliano di dieci anni adottato con il fratellino: ha aggredito sessualmente la madre durante un’assenza del padre per lavoro. Sono stati espulsi tutti e due dai genitori e nessun istituto li voleva [accogliere][30].

Ciò che gli adulti sembrano ignorare è che il corpo infantile, in costante crescita, è un’effige instabile e perciò perennemente inadeguata a mettere in scena l’infanzia innocente. E nelle esperienze adottive contemporanee, con filiazioni anche di bambini grandicelli, questo scarto appare evidente in tutto il suo portato di sofferenza. Tale inadeguatezza, tuttavia, non impedisce al bambino (e ai neo-genitori) la messa in campo di reiterati sforzi alla «repetition with a difference» Bernstein 2011: 564), resi necessari da ogni inesattezza della “duplicazione” con l’originale immaginato. Vale a dire che ogni adattamento andato male spinge il bambino ad un’altra messa in scena dell’infanzia secondo la visione del mondo che si è trovato ad abitare. Come evidenzia la complessa negoziazione dell’essere figlio in adozione.

Conclusioni

Dunque, se il concetto di “minore” possiede un potere semantico indiscutibile nel processo di individuazione e istituzione del cosiddetto bambino “abbandonato” e, come tale, ricollocabile al di fuori della sua famiglia, nella realtà della vita delle persone quello stesso “minore” non può essere assunto, tantomeno universalmente, come un soggetto passivo. In altre parole, laddove la norma istituisce il bambino come assoggettato alle misure di protezione e tutela in ragione della natura di innocente e vulnerabile che gli è stata assegnata, il “minore” marca la sua azione soggettiva sul campo della creazione dei nuovi legami di parentela attraverso una intensa negoziazione con gli interlocutori adulti, sperimentando in modi diversi concertazione/armonizzazione e resistenza a ciò che la norma sancisce, ovvero l’imperativo di riscrivere una storia familiare coerente. E la sua partecipazione diventa significativa e determinante nel momento in cui egli si costituisce come detentore e dispensatore privilegiato di memorie, ovvero di segmenti di storia personale e familiare. Le condotte dei “minori” adottivi raccontano, dunque, la loro abilità di partecipare attivamente al processo di fabbricazione del legame di filiazione e alla “crescita” delle soggettività parentali, ad esempio mettendo in campo contro-condotte e azioni resistenti e provocando così negli adulti “responsabili” (genitori, professionisti) un senso di sconfitta che mette a nudo il divario tra idealizzazione del bambino e diventare/essere genitori di quel figlio. E per quanto il tema del comportamento “antagonista” dei figli adottivi sia stato ampiamente teorizzato dalle discipline socio-psicologiche, gli è stato comunque negato qualunque statuto agentivo, in conformità con la rappresentazione dell’incapacità di autodeterminazione del “minore”. In altre parole, se è vero che nell’adozione contemporanea un numero crescente di neo-genitori sembra più disponibile che in passato ad accogliere il “materiale” della vita pregressa dei figli nel tentativo (o nella speranza) di produrre un’armonizzazione tra il loro passato e il presente, i professionisti dell’adozione appaiono viceversa in affanno. La performatività del paradigma dell’infanzia innocente e vulnerabile, storicamente e culturalmente istituito e radicato, posiziona il loro sguardo in una prospettiva riduzionista che essenzializza il bambino nella visione eurocentrica del “minore” (bianco), dove il punto di vista giuridico dei diritti, originato da una specifica categorizzazione psicologica, ne richiama l’assoggettamento tutelante all’adulto. In definitiva, anche nelle società infantolatriche odierne, il valore inestimabile del bambino continua a essere misurato attraverso la sua (presunta) incapacità o (per meglio dire) impossibilità di auto-determinazione.

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[1] Il termine “carattere” o “caratterialità” proviene dal linguaggio psicologico, ormai popolarizzato, che lo utilizza per descrivere sia i tratti della personalità dell’individuo che le inclinazioni del suo “temperamento”, richiamando aspetti marcatamente interni e/o “costituzionali” del sé. Benché queste nozioni possano apparire difficili da maneggiare sul piano dell’analisi critica antropologica, tuttavia penso che possano risultare stimolanti laddove vanno ad indicare una specifica espressione emozionale del sé nell’atto di manifestarsi al mondo. E non solo come attributo disposizionale (tantomeno genetico), quanto piuttosto come esercizio di un’agency corporea che racchiude e utilizza aspetti somatici e comunicativi per essere e agire nel mondo relazionale e che, così facendo, produce implicazioni nel modo in cui le persone, insieme, creano quotidianamente stili discreti di relazione e un piano comune e/o una coerenza di propositi all’interno di uno specifico e condiviso contesto socio-relazionale.

[2] L’indagine etnografica, condotta a più riprese tra la primavera del 2004 e la fine del 2016, ha interessato diversi siti e numerosi attori del variegato campo adottivo: dalle associazioni di famiglie, ai servizi pubblici e privati che ne gestiscono i numerosi segmenti procedurali, alle scuole dove vengono inseriti i bambini dopo il loro arrivo, fino a esplorare, dentro nelle case, la quotidianità della relazione domestica. Osservazione partecipante e conversazioni approfondite e reiterate con i ‘testimoni’ sono stati gli strumenti d’elezione che mi hanno consentito di accedere, di volta in volta, alle rappresentazioni, ai discorsi, alle pratiche e agli affetti che ruotano attorno all’apparentamento adottivo e alla sua, più o meno riuscita, fabbricazione.

[3] Dal latino matrix, madre, utero, restituito anche in lingua inglese; nella definizione del Cambridge Dictionary: «the set of conditions that provides a system in which something grows or develops».

[4] La precisazione è d’obbligo, poiché, come vedremo, l’innocenza infantile è soprattutto “bianca”.

[5] L’espressione “minore” compare per la prima volta nel diritto privato romano in relazione alla curatela delle persone inferiori a 25 anni, ovvero persone puberi (dai 14 anni per i maschi e 12 per le femmine), che avrebbero potuto incorrere in raggiri patrimoniali a causa dell’inesperienza. Tuttavia, nel diritto romano i “minori” sono persone sui iuris, vale a dire persone riconosciute pienamente capaci di agire, benché facili alla circonvenzione. Il curatore tutelare veniva scelto per lo più tra i parenti e aveva il compito di consigliare e non d’imporre o sostituirsi al minore (Petrucci 2015: 62-63).

[6] La sacralità assegnata al bambino proviene anch’essa da lontano, da quella cultura romantica ottocentesca, di Wordsworthiana memoria, che individuava nel bambino una specifica capacità di redimere il mondo attraverso la sua connaturata innocenza.

[7] La nozione di “genitorialità intensiva” (intensive parenting) descrive un particolare modo di essere genitore inteso come occupazione a tempo pieno, un’occupazione che, per essere esercitata al meglio, richiede l’apprendimento di specifiche abilità e pratiche. Si tratta in definitiva di una genitorialità “professionalizzata”, un tema particolarmente saliente quando si parla di essere/fare il genitore nelle famiglie euro-americane contemporanee (Nicola 2017). Per una riflessione più articolata: online http://www.universomamma.it/mamma-papa-tempo-pieno-cose-lintensive-parenting/ (consultato in data 15/3/2017).

[8] È interessante notare come lo slittamento da “patria potestà” a “potestà genitoriale” e, infine, a “responsabilità genitoriale”, se da un lato ha inteso svecchiare il senso delle obbligazioni verso i figli, dall’altro sembra aver lasciato campo libero allo Stato il quale, nei fatti, mostra di essersi appropriato del valore semantico e operativo dell’espressione (patria potestà) dismessa dalle sue stesse norme.

[9] Online: http://www.minoriefamiglia.it/download/ceccarelli_minori_stranieri.PDF, (consultato il 10/2/2017).

[10] Secondo l’autore, la nozione di “innocenza infantile” si è rivelata fondamentale per il processo di costruzione e conservazione di una specifica supremazia culturale della whiteness, negli Stati Uniti soprattutto, ma anche in Europa: i bambini – quelli bianchi impregnati di innocenza, quelli neri esclusi da questa condizione, quelli “colorati” da cui l’innocenza è stata cancellata – sono diventati figure centrali di agende contrapposte su temi politici e sociali particolarmente densi quali schiavitù e abolizione, violenza razziale e diritti civili (Bernstein 2011: nell’ed. Kindle le pag. sono sostituite dalle pos. [nota dell’A.]).

[11] Numerosi scienziati sociali hanno rilevato come il normale comportamento infantile (disubbidire, fare i capricci o essere insolente) viene visto come una minaccia criminale quando interessa una particolare categoria di bambini (ad esempio i bambini neri, ma non solo) e questa distorsione percettiva conduce ad una maggiore emarginazione e a una minore protezione (Bernstein 2011).

[12] Per essere riconosciuta come incarnazione dell’innocenza, l’infanzia richiede la messa in scena di una “beata ignoranza”, laddove il candore infantile è inteso non tanto come inconsapevolezza ma come negazione, o meglio ancora come capacità di esercitare ricordo e dimenticanza secondo il copione prescritto dall’idea di infanzia innocente.

[13] Negli ultimi anni sono aumentati da parte dei genitori adottivi le segnalazioni ai servizi riguardo i comportamenti sessuali inappropriati mostrati dai figli all’interno delle relazioni familiari più intime. D’altro canto, vi sono studi che sembrano avvalorare “scientificamente” lo sconcerto e la preoccupazione della comunità tutta (famiglie e servizi in primo luogo) verso la natura aliena di questi figli che paiono voler infrangere divieti universali. Secondo alcune ricerche, infatti, gli adottivi transnazionali (e transrazziali) sviluppano una precocità puberale/sessuale maggiore rispetto ai coetanei dei paesi di accoglienza, un fatto che viene esplicitamente segnalato come “rischio” benché non sia chiaro per chi (Teilmann, Pedersen 2006; Brooker, Berenbaum 2012) .

[14] È utile ricordare che da tempo in Italia l’adozione è quasi del tutto transnazionale e di recente gran parte degli arrivi per adozione riguardano bambini dai cinque ai dieci anni, spesso anche più grandi, i quali, proprio in ragione della loro età sono stati spesso “rifiutati” dal circuito dell’adozione nazionale del paese di origine.

[15] Nell’adozione non sono previsti ampi margini di “scelta” per gli aspiranti genitori, ancor meno per i futuri figli. I casi in cui tale spazio viene formalmente ampliato sono piuttosto rari. Uno di questi è rappresentato dalle procedure di abbinamento operate in Ucraina che consente ad aspiranti genitori e figli “destinati” spazi, seppur limitati, di scelta reciproca.

[16] Inteso come spazio fenomenologico in cui hanno luogo le pratiche e gli affetti quotidiani che addensano e istituiscono la relazione familiare.

[17] Scrive Strathern: «mentre il padre stabilisce quell’identità [del figlio] dopo la nascita, piantando il cordone ombelicale del bambino in uno spazio recintato sulla terra del suo clan, la madre la stabilisce prima della nascita. Il bambino cresce lei, contribuendo alla “sua” di crescita prima che cresca il padre e il suo clan» (1988: 252).

[18] I nomi citati nelle testimonianze sono di fantasia.

[19] Intervista Milano, maggio 2011.

[20] Intervista Milano, maggio 2011.

[21] Intervista Milano, maggio 2011.

[22] Milano, luglio 2011.

[23] L’indagine è stata condotta nell’area del milanese nel periodo tra marzo e novembre 2016.

[24] Intervista con le operatrici del Centro Adozioni di riferimento territoriale: Milano, marzo 2016.

[25] Intervista con le operatrici del Centro Adozioni di riferimento territoriale: Milano, marzo 2016.

[26] Intervista con le operatrici del Centro Adozioni di riferimento territoriale: Milano, maggio 2016.

[27] Intervista con le operatrici del Centro Adozioni di riferimento territoriale: Milano, maggio 2016.

[28] Intervista con le operatrici del Centro Adozioni di riferimento territoriale: Milano, giugno 2016.

[29] Geograficamente disconnesso ma ancora impregnato delle trame di senso attive nel mondo sociale di origine. A questo proposito può essere illuminante la descrizione che lo storico fiammingo Van Reybronck (2016) fornisce riguardo le numerose esperienze di dislocamento forzato delle popolazioni della regione del Congo e i sentimenti ad esse connesse: «[…] in società caratterizzate dallo spirito di comunità […] “autonomia dell’individuo” non significava affatto libertà, come si proclamava in Europa […], ma solitudine e smarrimento. Tu sei chi conosci, e se non conosci nessuno non sei niente […] schiavitù non significava asservimento, bensì distacco, allontanamento da casa» (Van Reybronck 2016: pos 853-864).

[30] Nei casi di “espulsione” dalla famiglia adottiva, i bambini entrano nel circuito della normativa italiana di tutela dei minori, e dunque vengono ricollocati in comunità.