Note a margine a “La creazione dei legami di adozione”

Claudia Mattalucci

Università di Milano Bicocca

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Bibliografia

La sessione intitolata “La creazione dei legami da adozione: connessioni, disconnessioni e riconfigurazioni di nuove forme di famiglia”, organizzata da Rossana Di Silvio e Carlotta Saletti Salza nell’ambito del IV Convegno Nazionale della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA) - Politiche, diritti e immaginari sociali: sfide e proposte dell’antropologia pubblica, Trento 19-21 dicembre 2016 –, ha riunito dieci presentazioni che, adottando differenti prospettive disciplinari, hanno analizzato la produzione dei legami di adozione con riferimento all’Italia. Le presentazioni hanno animato uno scambio intellettuale vivace e fecondo, di cui i quattro saggi raccolti in questo numero di Antropologia Pubblica sono il risultato. L’obiettivo di queste note a margine è mettere in evidenza alcune tematiche trasversali ai singoli contributi che mi paiono particolarmente promettenti per la ricerca futura, così come per la collaborazione e lo scambio tra antropologi, psicologi e operatori sociali in vista dell’elaborazione di saperi e pratiche transdisciplinari.

Un primo tema, già esplorato da altre etnografie dell’adozione internazionale nelle società euro-americane, è quello delle tattiche che le famiglie adottive mettono in atto per trasformare l’iniziale estraneità in relazionalità parentale (tra gli altri, Modell 2002; Howell 2006; Di Silvio 2015). Se il dispositivo adottivo, attraverso la sua pervasiva articolazione burocratica, istituisce per legge una relazione esclusiva tra genitori e figli, all’atto della sua creazione la sostanza di questa relazione resta da fare. La condivisione quotidiana di tempi e spazi in cui si consumano i pasti, si ripetono i gesti, prendono forma abitudini, rituali, affetti e si costruisce un nuovo lessico familiare, riduce la distanza linguistica, esperienziale ed emotiva che inizialmente separa genitori e figli. La sedimentazione di memorie condivise e la narrazione di una storia riscritta nel tempo, attraverso parole, immagini ma anche silenzi e omissioni, consentono di rispondere ad un bisogno di continuità e di riconoscimento sociale che le famiglie adottive transnazionali condividono con le altre. Se la filiazione adottiva in quanto legame per legge si configura come altro dalla filiazione biologica – che, nonostante la pluralizzazione contemporanea delle morfologie famigliari, continua a definire il modello normativo della relazione tra genitori e figli –, l’assunzione di pratiche socialmente riconoscibili come appropriate a tale rapporto consente di addomesticare la sua costitutiva differenza. Lo sforzo mimetico messo in atto dai genitori adottivi, tangibile nelle retoriche sull’incontro destinato così come nella ricerca di somiglianze individuate nei gesti, nei gusti, nei modi di fare o di parlare, ma anche nell’apparenza fisica, si scontra con lo sguardo degli altri che riporta in primo piano l’evidenza della differenza somatica e razziale, ed il suo potere di opacizzare la relazione (si vedano Di Silvio 2008, Concetti e Costa in questo volume). Benché lo stare e il fare insieme addensino quella reciprocità dell’essere che è la sostanza della parentela (Sahlins 2014), le famiglie adottive sembrano avere comunque bisogno di una conferma pubblica che supplisca alla sua costitutiva “mancanza” e mitighi la sua anomalia rispetto alle categorizzazioni etnico-razziali che organizzano le politiche della cittadinanza, dell’appartenenza e dell’identità (Decimo, Gribaldo 2017) – categorie che le istituzioni, in particolare scolastiche e sanitarie, così come le interazioni quotidiane riproducono (attraverso lo sguardo insistente di cui le famiglie adottive sono oggetto o le domande sulla natura delle relazioni che si sentono spesso rivolgere).

Un secondo tema che attraversa i saggi è quello della narrazione di sé che le famiglie adottive producono: dei suoi limiti e delle sue condizioni di possibilità. Restituendo le tattiche che queste famiglie mettono in atto per dare corpo ai legami di genitorialità e filiazione i saggi di Martina Concetti e Chiara Costa mostrano quanto sia importante costruire una storia che tenga insieme il passato e il presente. Il mandato di conservare le origini, sancito dalla Convenzione dell’Aja (1989), incontra un ostacolo nell’estraneità dei genitori adottivi al mondo da cui il bambino proviene, così come nell’esiguità d’informazioni sulla storia pregressa del bambino, accessibili attraverso i fascicoli consegnati al momento dell’abbinamento. In molti casi, preservare l’origine si traduce in una serie di pratiche di consumo: nello spazio domestico, oggetti, immagini e libri sul paese di provenienza dei bambini segnalano la presenza di un altrove codificato dai codici dell’immaginario turistico piuttosto che dalle estetiche locali.

La storia delle origini – la “verità narrabile” – che i genitori compongono con il supporto degli operatori psico-sociali e attraverso il confronto con altre famiglie adottive, ha il compito di creare connessioni. È una storia che prende avvio da una doppia mancanza: quella di un figlio per i genitori e quella di una famiglia per il bambino. Il racconto è lo spazio in cui le informazioni contenute nei fascicoli sono restituite attraverso una selezione e un linguaggio che tengono conto dell’età dei figli. Soprattutto qualora siano adottati nella primissima infanzia, si suppone infatti che i bambini non abbiano memoria del passato e che debbano quindi essere i genitori a costruire un resoconto accettabile servendosi delle tracce che hanno a disposizione. Ma la tessitura di questo racconto si avvale di una materia già trasformata. Come osserva Rossana Di Silvio, negli istituti congolesi accade che i nomi propri dei bambini vengano francesizzati o europeizzati, un atto che li spoglia della loro identità originaria, addomesticandola in vista dell’adozione. Le inchieste sociali effettuate in Burkina Faso analizzate da Martina Concetti, d’altra parte, riducono le cause dell’abbandono a un numero ristretto di casistiche: la violazione del tabù dell’incesto; la malattia mentale della madre – spesso non diagnosticata, ma descritta attraverso categorie psichiatriche considerate comprensibili per i destinatari dei fascicoli –; o il ritrovamento in un luogo affollato. Queste informazioni, prodotte per legittimare l’adottabilità e al tempo stesso per non scoraggiare l’adozione, necessitano di una traduzione perché i genitori adottivi possano accoglierle, liberandosi dai fantasmi di possibili tare ereditarie derivanti dai rapporti tra consanguinei o da psicosi croniche riconducibili alla genetica e/o a fattori ambientali precoci. In questo lavoro, l’antropologia può giocare un ruolo importante non tanto (o non soltanto) in quanto disciplina che ha accumulato nel tempo un patrimonio di conoscenze sulle differenze culturali – tra sistemi di discendenza e alleanza, declinazioni del tabù dell’incesto e articolazioni della parentela – ma in quanto sapere capace di leggere i rapporti di potere e di senso da cui hanno origine classificazioni, interventi disciplinari e procedure burocratiche, e di interpretarne gli effetti sulle soggettività e sulle relazioni.

La fotografia gioca un ruolo importante nella produzione della storia delle famiglie adottive. Le immagini esposte in casa o raccolte in album fotografici sono uno dei mezzi attraverso cui le famiglie si rappresentano, mostrando continuità e cambiamenti. Il saggio di Chiara Costa sottolinea la funzione poietica della fotografia, che può diventare il supporto per il racconto di una storia condivisa, capace di riempire i vuoti conoscitivi, così come di rispettare i silenzi. Le fotografie degli eventi e delle attività svolte insieme fermano gli istanti, consentendo ai familiari di rivedersi, di ricordare e di mostrarsi agli altri. Come altri studi sull’adozione internazionale (per es. Howell 2006), il saggio di Costa mette in evidenza come i rituali fotografici siano modellati dalle idee di famiglia, d’infanzia e di domesticità proprie al contesto di adozione. Tra le collezioni delle famiglie adottive, infatti, oltre alle fotografie ricevute al momento dell’abbinamento e a quelle del viaggio e dell’arrivo a casa, vi sono immagini scattate in occasione di feste, anniversari, vacanze, eventi sportivi o con il primo animale domestico. Se le prime documentano l’iniziale alterità del bambino e la fragilità del legame tra genitori e figli, le seconde testimoniano la sua integrazione all’interno di relazioni affettive che progressivamente si addensano e il suo ingresso in un universo simbolico e pratico che definisce la vita familiare, assegnando ai figli una specifica posizione.

Il dettato normativo – che pure sancisce un diritto a preservare le origini – e le procedure dell’adozione di fatto recidono i rapporti dei bambini con i parenti di nascita così come con le altre figure di accudimento (e con i pari) nel paese di origine; come ho scritto più in alto, limitano, inoltre, l’accesso dei genitori adottivi e degli stessi minori alle informazioni sulla loro storia personale e sulle relazioni precedenti all’adozione. Molti bambini, tuttavia, in particolare i più grandi, portano con sé vissuti, ricordi, relazioni e bisogni che sono modellati dai contesti sociali e culturali d’origine, così come dalle loro biografie. Quale spazio è possibile assegnare a queste relazioni nelle narrazioni delle famiglie adottive? Il saggio di Patrizia Chiodini mostra la produttività del dialogo tra saperi psico-sociali e antropologia in vista dell’elaborazione di modelli finalizzati a riconnettere passato e presente. Le adozioni meglio riuscite, scrive Chiodini, sono quelle che riescono a ricomporre la frattura tra le esperienze nel paese di origine – o in altri luoghi di cui il bambino ha conoscenza – e in Italia, aprendo uno spazio in cui queste esperienze e relazioni possano essere nominate. Il modello descritto in questo saggio è la rappresentazione grafica di un albero di mangrovia che integra la verticalità, privilegiata delle rappresentazioni euro-americane della genealogia, con lo sviluppo orizzontale e rizomatico delle radici, consentendo agli adottivi – ma potenzialmente anche ad altri bambini (per esempio a quelli che circolano tra diversi gruppi domestici originati dalle famiglie ricomposte) – di rappresentare le relazioni plurali di cui hanno esperienza. Grafici, disegni e fotografie sono strumenti attraverso cui è possibile favorire la verbalizzazione e il riconoscimento dei legami, delle appartenenze e dei significati che abitano il mondo interno del bambino – un mondo che, dal punto di vista dell’antropologia, non è psichico ma contemporaneamente sociale e individuale. Questo, infatti, racchiude le risorse cognitive ed emotive attraverso cui gli adottivi partecipano alla co-costruzione delle loro esperienze e relazioni in Italia, mettendo in campo azioni resilienti, negoziazioni o resistenze.

Un ultimo tema che questa raccolta fa emergere è quello dello scarto tra la rappresentazione omogenea dei bambini in stato di abbandono come vittime e le soggettività multiposizionate degli adottivi, che hanno una storia, esercitano un’agency, hanno aspirazioni e inquietudini rispetto all’adozione. Il saggio di Rossana Di Silvio sottolinea la centralità dell’agency – misconosciuta dal dispositivo adottivo – che i bambini esercitano nel plasmare le relazioni e le soggettività dei genitori. La visione normativa e professionale del legame tra genitori e figli è orientata da una rappresentazione dell’infanzia come innocente e vulnerabile e dei bambini in stato di abbandono come vittime da salvare. Di Silvio ricostruisce la storia di questa rappresentazione dell’infanzia che ha portato a istituire i bambini non soltanto come diversi dagli adulti, ma come minori dipendenti e bisognosi di protezione, una protezione che nei casi più gravi può portare all’allontanamento dalle famiglie d’origine, qualora esse stesse, per incapacità, inadempienza o per l’assunzione modelli di accudimento difformi da quelli individuati come appropriati dalle discipline psico-pedagogiche e dai servizi alla famiglia, costituiscano un fattore di rischio per i propri bambini (Saletti Salza 2010, 2014; Taliani 2012, 2014, 2015).

La rappresentazione del bambino abbandonato come vittima opacizza le gerarchie di razza, genere, classe e nazionalità che determinano la produzione degli “orfani globali” (Briggs, Marre 2009) – figli che hanno genitori, ma che sono nati da gravidanze indesiderate, da violenze o da altre circostanze pregiudizievoli per la relazione genitoriale; oppure figli di madri e padri esposti agli effetti di violenze strutturali e quotidiane perché poveri, marginali, privi di reti e di protezione sociale. Opacizza, inoltre, le biografie dei bambini, il loro passato e l’azione che esso esercita sul presente. I bambini che, di fronte alle aspettative che genitori, operatori psico-sociali e insegnanti proiettano su di loro in ragione della loro età, mettono in atto azioni resistenti e contro-condotte che sovvertono la rappresentazione innocentista dell’infanzia sono spesso medicalizzati: la loro differenza viene ricondotta a categorie diagnostiche che classificano le difficoltà di relazione, i disturbi comportamentali o i ritardi nell’apprendimento. La patologizzazione dei soggetti e delle condotte, argomenta Di Silvio, salva la visione sacralizzata dell’infanzia, escludendo dall’età dell’innocenza i bambini che “sanno troppo”. Molti adottivi, infatti, hanno attraversato territori inadatti all’infanzia: hanno esperienze di guerra, di abusi, di miseria e per questo, sottolinea l’autrice, non sono soltanto soggetti a rischio ma forieri di rischi. La loro ammissibilità al corpo sociale richiede che siano destorificati.

Il dispositivo adottivo recide le appartenenze, occulta le esperienze e interrompe le relazioni pericolose, riconducendo gli adottivi entro l’orizzonte sacralizzato dell’infanzia da salvare. Come i saggi qui raccolti complessivamente mostrano, tuttavia, la memoria incarnata e la soggettività dei bambini resistono a questo lavoro di spoliazione e si manifestano in modi di volta in volta diversi nelle interazioni. Se nei casi più problematici gli scarti tra le attese dei genitori e quelle dei figli possono arrivare a mettere a rischio la relazione, determinando il fallimento dell’apparentamento adottivo, più spesso le esperienze pregresse diventano risorse. Offrire alle soggettività uno spazio di azione e di espressione, rispettando i tempi, i modi, i silenzi e i passi falsi che sono espressione del tentativo di riarticolare le biografie, i ricordi e le fantasie entro i legami istituiti dai dispositivi normativi e dalle prassi psico-sociali che fanno l’adozione, è la sfida che le famiglie adottive sono chiamate a raccogliere. I saggi qui presentati suggeriscono che i saperi disciplinari che si occupano di adozione abbiano molto da imparare dall’osservazione degli sforzi che genitori e figli adottivi mettono in campo per creare legami. Analizzare criticamente il processo storico che, nelle società euro-americane, ha prodotto una specifica costruzione dell’infanzia e dispositivi preposti alla sua tutela e osservare ciò che le famiglie – e in particolare i “minori” – fanno e dicono, cercando di cogliere la loro visione delle dinamiche parentali, sono gli strumenti per provare a creare di uno spazio non normativo entro cui le aspettative reciproche possano essere negoziate e in cui possano trovare posto coreografie complesse e significati inediti della relazione tra genitori e figli. Un fine in vista del quale, come è accaduto nel corso del dibattito evocato in apertura di queste note, diversi saperi disciplinari dovrebbero continuare a confrontarsi e collaborare.

Bibliografia

Briggs, L., Marre, M. 2009. International Adoption: Global Inequalities and the Circulation of Children. New York. New York University Pres.

Decimo, F., Gribaldo, A. 2017. Boundaries Within: Nation, Kinship and Identity among Migrants and Minorities. Imiscoe Research Series, Springer. New York-Dordrecht-London.

Di Silvio, R. 2015. Affetti da Adozione. Uno studio antropologico della famiglia post-familiare in Italia. Roma. Alpes.

Di Silvio, R. 2008. Parentele di confine. La pratica adottiva tra desiderio locale e mondo globale. Verona. Ombre Corte.

Howell, S. 2006. The Kinning of Foreigners: Transnational Adoption in a Global Perspective. Oxford. Berghahn Books.

Modell, J. S. 2002. A sealed and secret kinship: The culture of policies and practices in American adoption. New York. Berghahn Books.

Sahlins, M. 2014 [2013]. La parentela. Che cos’è e cosa non è. Milano. Elèuthera.

Saletti Salza, C. 2014. Famiglie amputate. Le adozioni dei minori dal punto di vista dei rom. Roma. CISU.

Saletti Salza, C. 2010. Dalla tutela al genocidio? Le adozioni dei minori rom (1985-2005). Roma. CISU.

Taliani, S. 2012. “I prodotti dell’Italia. Figli nigeriani tra tutela, diritto e amore materno (molesto?)”. minorigiustizia, 2: 39­52.

Taliani, S. 2014. Non esistono culture innocenti. Gli antropologi, le famiglie spossessate e i bambini adottabili. L'Uomo, 2: 45­66.

Taliani, S. 2015. Antropologia dell’infanzia e delle famiglie immigrate. AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica, 39­40: 17­70.