Rapporto sul Progetto di Assistenza Disoccupati (PAD) nella città di Bologna

Valerio Romitelli

Università degli studi di Bologna

Luca Jourdan

Università degli studi di Bologna

Table of Contents

La ricerca antropologica all'interno del Progetto Assistenza Disoccupazione (PAD)
Orientamenti epistemologici
La centralità della disoccupazione
Il caso italiano
Il caso bolognese
Lo svolgimento della ricerca
La perdita del lavoro
Sindacati e sostegni istituzionali
Le difficoltà nella ricerca del lavoro
Stato e politiche del lavoro
Una nuova finestra
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. As a consequence of global labor market reorganization, unemployment has become the unavoidable fate affecting a large number of workers. At the same time, the unemployed have to be considered the first experts on unemployment. These are the starting hypotheses for a recent ethnographic research conducted by a group of students and professors of Anthropology of the University of Bologna from May 2016 to November 2017. The sample of unemployed people chosen for the study is small in number, but analyzed in depth. It originated in a group which had already been involved in a project called PAD (Programma Assistenza Disoccupazione, a project created in Bologna by a pool of psychologists in collaboration with three Unions, i.e. CGIL, AUSER and NIDIL, for assisting the unemployed). Anthropologists, psychologists and unionists all shared a common goal: to investigate the circumstances and the effects of the phenomenon of unemployment in Bologna, a town which used to be untouched by such a social issue. This report presents the results of our anthropological research: it shows how much institutional policies (indeed, very inadequate so far) do not take the personal stories and experiences of theunemployed into account. To advise policy makers, an anthropological approach therefore turns out to be especially useful when studying those social problems that no longer can be considered emergencies but structural issues.

Keywords: antropologia, disoccupazione, lavoro, politiche sociali, assistenza psicologica.

«Dovete rompere le palle ai politici tanto! Tanto! Perché loro non provano... loro, la realtà la vedono da una poltrona, non la provano: perciò come fanno a decidere? Nelle situazioni bisogna esserci!». L’energica voce di Gigliola è così rimbalzata sulle pareti della spoglia stanzetta del locale AUSER in cui eravamo accalcati[1]. Prima dell’inizio del colloquio le avevamo detto che la nostra ricerca puntava a fornire consigli ai decisori delle politiche sociali, ma l’entusiasmo e la convinzione con i quali lei ci stava incoraggiando in tale intento ci confermava più che mai che la nostra indagine non stava girando a vuoto. Questo è stato uno dei primi commenti che abbiamo fatto a intervista finita, dopo aver congedato Gigliola, ricavandone la netta sensazione che fosse davvero possibile vincere la scommessa cruciale di tutta la nostra indagine, cioè che fosse possibile trovare tra le parole dei disoccupati riflessioni e spunti di analisi, riguardo la loro stessa condizione, altrimenti introvabili. Detto altrimenti: i primi esperti della disoccupazione sono gli stessi disoccupati. Questo è quanto il rapporto qui presentato cercherà di illustrare, argomentando quindi anche l’idea che senza inchieste etnografiche simili a quella che abbiamo condotto nessuna politica sulla disoccupazione può assolvere al meglio la sua missione.

La ricerca antropologica all'interno del Progetto Assistenza Disoccupazione (PAD)

All'origine della nostra indagine[2] sta un progetto di ricerca/azione, volontario e autogestito: il PAD (Progetto Assistenza Disoccupazione). Esso ha preso avvio tra la primavera e l’estate del 2016, soprattutto grazie all’impegno di un ristretto gruppo di psicologi e psicoterapeuti accomunati da un interesse scientifico riguardo la problematica della disoccupazione in generale e più specificamente nell’area metropolitana di Bologna[3]. A seguito di intensi dibattiti sulla loro esperienza professionale erano giunti a due ordini di constatazioni, delle quali ci hanno resi partecipi nel corso dei colloqui avuti agli esordi della nostra collaborazione con loro: da un lato, che anche in nell’area bolognese la disoccupazione non fosse più solo un fenomeno economico secondario e transitorio, ma sempre più una realtà incombente e pervasiva; dall’altro, che l’assistenza psicologica rivolta ai soggetti sofferenti per questo fenomeno in buona parte nuovo non ricevesse la dovuta attenzione da parte delle istituzioni locali. È stato dunque per provare a far fronte a questa situazione che il gruppo di psicologici ha deciso di muoversi in proprio, volontariamente e gratuitamente, per offrire assistenza ad un certo numero di disoccupati, per dimostrare la necessità di questa assistenza e quindi sollecitare le istituzioni locali ad attivarsi per sostenerla e diffonderla.

Il passo successivo al costituirsi di questo gruppo informale è stata la presa di contatto con le strutture sindacali NIDIL[4], AUSER e CGIL, alle quali è stata chiesta e ottenuta una collaborazione, tesa tra l’altro alla individuazione di possibili utenti dell’assistenza psicologica[5]. Ulteriore passo è stato l'incontro con noi e quindi l’avvio della collaborazione con il Corso di Laurea di Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali del Dipartimento di Storia, Culture, Civiltà dell’Università di Bologna al fine di includere nel progetto una ricerca antropologica. Fin dai primi accordi è stato convenuto che essa sarebbe stata condotta anche grazie alla partecipazione di studenti e che avrebbe avuto come focus un campione di disoccupati fruitori dell’assistenza psicologica.

A tal scopo, per parte nostra, si è proceduto anzitutto ad un seminario (12 ore) di formazione rivolto alla decina di studenti inizialmente coinvolti nel progetto. L’obiettivo essenziale era fornire alcuni orientamenti di base per analizzare: a) in che modo una popolazione in condizione di sofferenza sociale, come appunto la condizione di disoccupati, parla e riflette su questa sua stessa condizione; b) se tra queste parole e riflessioni siano reperibili suggerimenti utili a migliorare le politiche sociali rivolte a tale condizione[6]. Sono state quindi illustrate e discusse in dettaglio le diverse fasi previste per la ricerca: dalla selezione del campione alla formulazione di un questionario, dalle modalità di somministrazione dello stesso alla registrazione delle risposte, dall’analisi del contenuto alla redazione e alla diffusione del rapporto conclusivo. Durante questo seminario sono stati affrontati anche i vari problemi di metodo e di contenuto che abbiamo qui sintetizzato nei prossimi quattro paragrafi.

Orientamenti epistemologici

La sofferenza sociale è un tema ampiamente trattato dagli antropologi (Kleinman et al. 1997; Quaranta 2006). Molti autori hanno esplorato il nesso fra violenza strutturale e sofferenza sociale; tuttavia il nostro intento è stato in parte un altro: anziché indagare la relazione fra sofferenza e contesto politico-economico, abbiamo puntato a considerarla come una specifica fonte di conoscenza antropologica ossia una condizione in grado di produrre, in chi la prova, riflessioni e pensieri altrimenti impossibili. I disoccupati, dunque, sono qui intesi come soggetti in grado di offrire spunti originali per rinnovare la conoscenza sulla questione della disoccupazione oggi. A tal scopo sono state necessarie anche alcune puntualizzazioni di portata più ampia, per così dire epistemologica. Un riferimento importante a questo proposito ci è venuto da quanto sostenuto da Didier Fassin (2006) nell’articolo Un ethos compassionevole. La sofferenza come linguaggio, l’ascolto come politica. Discutendone, un punto ci è parso particolarmente rilevante per capire la nuova dimensione problematica entro la quale si pongono attualmente fenomeni della sofferenza sociale, quali appunto la disoccupazione. In poche parole, siamo giunti alla convinzione che se la visione in termini di classi sociali (sia tra i sostenitori del capitalismo, sia tra i suoi critici) è stata in passato egemone, dagli anni ‘90 a tener banco anche all’interno delle scienze sociali è stato ed è tutt’ora piuttosto un approccio di derivazione psicologica. Mentre nel primo caso i soggetti erano supposti essere sempre e comunque fondamentalmente impersonali, collettivi, mossi da interessi socio-economici gravitanti attorno all’irriducibile opposizione tra capitale e lavoro, nel secondo caso protagoniste di tutto sarebbero le persone e le relazioni interpersonali – così come prescrivono per altro le dottrine del neoliberalismo. Ebbene, pur mantenendo aperto il confronto con entrambi questi orientamenti, il nostro approccio ha tentato una sorta di “terza via”.

Dalla visione in termini di classe abbiamo ripreso il tema del potere, cercando sempre di distinguere in ogni situazione sociale i gruppi di popolazione che lo detengono da quelli che per lo più ne subiscono le conseguenze. Di questa stessa visione, però, abbiamo cercato di evitare la prospettiva storica necessariamente conflittuale, ammettendo invece che chi subisce il potere non sempre è spinto ad opporvisi. Escludere l’idea che esista un qualsivoglia destino storico ci è parsa infatti condizione obbligatoria per poter cogliere tutta la varietà e la profondità di ciò che i sofferenti, se opportunamente interpellati, hanno da dire.

Per contro, abbiamo provato anche a discostarci dal paradigma attualmente egemone, quello di matrice psicologica, che privilegia una dimensione individuale. Se l’approccio psicologico tende a ridurre tutto a fatto relazionale e personale, il nostro invece ha puntato a scoprire come la sofferenza particolare provata da una popolazione (quella dei disoccupati), in rapporto ad un dato reale del tutto anonimo e impersonale (la disoccupazione), possa dar luogo ad un campo di riflessioni, ad un pensiero che caratterizza in modo singolare tale popolazione. Ecco perché il nostro obiettivo cruciale è consistito nel promuovere i disoccupati a primi esperti della disoccupazione.

La centralità della disoccupazione

Entrando nel merito di cosa si intende oggi con le parole “disoccupato” e “disoccupazione”, e quindi anche “sottoccupazione” e “inoccupazione”, di grande importanza per noi è stata la lettura del volume curato da Jong Bum Kwon e Carrie M. Lane, Anthropologies of Unemployment. New Perspectives on Work and Its Absence (2016). La prospettiva da esso aperta lo rende infatti di grande interesse anche per il nostro paese, dove per altro non mancano notevoli contributi antropologici sulla crisi e sulle trasformazioni del lavoro (D’Aloisio 2014; D’Aloisio, Ghezzi 2015; India 2017). Tre sono gli spunti maggiori che abbiamo tratto dal libro curato da Kwon e Lane.

1. Il primo viene da una tesi più volte ribadita in questa raccolta di saggi: a partire dalla crisi del 2008 la disoccupazione cronica è divenuta praticamente un “nuovo fenomeno” a livello globale (Kwon, Lane 2016: 4). Constatazione a partire dalla quale si traggono una serie di conseguenze metodologiche e problematiche di portata considerevole. Al punto che tutto l’insieme di concetti connessi con quelli dell’occupazione, della sottoccupazione e del lavoro si rivela passibile dei ripensamenti più radicali. E ciò – precisano Kwon e Lane nell’Introduzione – anche tenendo conto della realtà statunitense dove la disoccupazione, dopo avere raggiunto nell’ottobre 2009 il 10 percento, nel 2015 è tornata al 5 percento, livello considerato di “pieno impiego”.

2. Il perché di questo paradosso è spiegato da un’altra tesi argomentata in questo libro: la “centralità dalla disoccupazione”. Una formula questa che ben illustra un dato difficilmente contestabile: che in un mondo dominato dall’insicurezza prodotta dalle politiche neoliberali i confini tra occupazione e disoccupazione tendono sempre più a sfocarsi, con tutte le conseguenze del caso. Così si spiega come mai anche in paesi quali gli Stati Uniti, dove la disoccupazione sembra statisticamente in grande parte rientrata, in realtà non lo sia affatto, essendosi invece solo nascosta tra le maglie di una precarizzazione generalizzata dei rapporti di lavoro. Ma questo libro non si occupa solo di Stati Uniti. Tra i rapporti di inchiesta contenuti in esso alcuni riguardano anche Francia, Argentina, Etiopia e Nicaragua, offrendo così un’ampia panoramica di fenomeni in altri tempi impensabili. Ad esempio, il fatto che ciò che in Italia chiamiamo “lavoro nero” sta divenendo un fatto normale in molti paesi dove tradizionalmente era per lo più assente. Oppure il fatto che il “posto fisso” è divenuto un’eventualità così remota che oramai negli Stati Uniti non c’è più carriera lavorativa che non venga concepita come “proteiforme” o “peripatetica” (Lane 2016: 24-27). Di qui anche il fitto proliferare tra gli undici milioni disoccupati statunitensi di comunità di “cercatori di lavoro” (job seekers) organizzatisi attorno al presupposto che la ricerca del lavoro è essa stessa un lavoro, per di più non retribuito (Lane 2016: 27-29). Quanto mai vasto è dunque il ventaglio delle novità epocali che la tesi della “centralità della disoccupazione” può chiarire. E tra di esse sopratutto la realtà dell’inedita e oramai sempre più inestricabile compenetrazione tra la condizione del lavoratore e quella del disoccupato, in un ininterrotto via vai dall’una all’altra che segna il destino esistenziale di crescenti popolazioni.

3. Infine, spunto ulteriore che abbiamo tratto da questo libro è venuto dal saggio ivi contenuto di David Karjanen (2016), dal titolo The Limits to Quantitative Thinking: Engaging Economics of the Unemployed. Suo punto di partenza è la contestazione del presupposto secondo il quale la disoccupazione rappresenti semplicemente il contrario dell’occupazione e sia quindi riducibile all’assenza del lavoro. Karjanen stigmatizza questo presupposto come frutto di uno dei tanti riduzionismi inevitabili per ogni approccio statistico o economico, interessato ai grandi numeri a partire da una prospettiva dall’alto. Ciò che viene criticato di questi approcci è il fatto che essi riducono la disoccupazione a un insieme di grafici e dati quantitativi, senza curarsi di ciò che realmente è in quanto processo sociale, complesso e mutevole, differenziato a seconda dei contesti e dei soggetti che lo vivono. Da questo punto di vista, sono quindi smontate, nella loro legittimità scientifica, due delle maggiori teorie alle quali si rifanno le descrizioni statistiche ed economiche della disoccupazione: la “teoria della ricerca del lavoro” e quella del “capitale umano”. Il loro principale difetto secondo Karjanen è presupporre che l’esperienza di ogni disoccupato possa essere analizzata e valutata in base al calcolo costi/benefici, senza tenere conto della infinita molteplicità di fattori che in realtà differenziano ogni esperienza di questo tipo. A sostegno di questa critica vengono riportati numerosi esempi nei quali sia l’offerta sia la ricerca di lavoro sono condizionate da molteplici altre ragioni – ad esempio di discriminazione razziale o culturale o di scelte esistenziali occasionali – rispetto a quelle puramente economiche e quindi statisticamente rilevabili.

Novità epocale della disoccupazione, centralità sociale e irriducibilità del fenomeno a semplice dato statistico ed economico: questi, dunque, i tre spunti fondamentali che abbiamo tratto da Anthropologies of Unemployment. New Perspectives on Work and Its Absence.

Il caso italiano

Senza discutere oltre i numerosi stimoli che offre questo volume, abbiamo riflettuto su come e quanto le sue riflessioni problematiche potessero valere per il caso italiano. In effetti, abbiamo ritenuto che la sua portata polemica sia del tutto pertinente anche “da noi”. Difficile, infatti, trovare nel nostro paese ricerche scientifiche o discussioni politiche sulla disoccupazione che non la considerino e la censiscano quantitativamente come semplice assenza di lavoro[7]. Come dice giustamente il sociologo Ambrosini (2014: 9): «Se anche oggi si parla molto più di disoccupazione, si sa ben poco di disoccupati».

In un simile panorama si distingue certamente il recente libro di Domenico De Masi (2017), Lavorare gratis, lavorare tutti, in cui l’autore sembra quasi vedere nei disoccupati una nuova classe sociale erede del proletariato nell’annunciare un nuovo avvenire per tutta l’umanità. Sua convinzione è, infatti, che anche laddove ci fosse una ripresa economica degna di questo nome, con ogni probabilità essa avverrebbe grazie all’adozione di nuove tecnologie che non garantirebbero affatto una ripresa anche dell’occupazione. Di qui la previsione di De Masi secondo la quale i disoccupati avranno un costante avvenire nella nostra società (Perché il futuro è dei disoccupati, recita il sottotitolo del suo libro) e di qui anche la proposta di un vero e proprio “programma politico-sociale” volto a rendere tale futuro portatore “per tutti” di forme di liberazione dal lavoro come coercizione. La centralità della disoccupazione è qui ben messa in luce, ma resta il fatto che De Masi, lungi dall’approfondire la conoscenza diretta della condizione dei disoccupati nel nostro paese, insiste nel considerarli da un’angolatura economica e statistica, ovvero come pure entità quantitative. Di qui anche la debole credibilità del suo programma che viene astrattamente dedotto da opinabili ragionamenti intorno a tali entità.

Quanto poi alla realtà della occupazione e della disoccupazione nel nostro paese, gli spunti ricavati da Anthropologies of Unemployment si rivelano pertinenti anche per una lettura delle ultime rilevazioni statistiche dell’Istat (Luglio 2017), dalle quali risulta che i contratti a tempo determinato sono in progressiva salita, avendo superato il 15 percento del totale[8]. Dato che conferma come anche “da noi” l’ombra della disoccupazione oramai affianchi ogni andamento, anche se positivo, dell’occupazione, mentre nei discorsi politici, specie di quelli a favore del governo[9], questo affiancamento viene ammesso solo in quanto contingenza superabile o addirittura negato, come pure è negato il primato italiano nella disoccupazione rispetto al resto d’Europa[10].

Se quello che gli antropologi americani chiamano la “centralità della disoccupazione” è ancora lungi dall’essere ammessa e discussa come tale a livello dei dibattiti scientifici e politici in ogni parte del globo, a maggior ragione lo è in Italia. Nel nostro paese vi sono infatti forti resistenze, forse più che altrove, ad ammettere che la disoccupazione da fenomeno marginale si sia trasformata in «un’esperienza (vissuta o prefigurata) non solo diffusa, ma anche trasversale alle categorie e ai ceti sociali» (Ambrosini 2014: 31). La novità di questo fenomeno non ottiene un rilievo adeguato a livello di opinione forse anche in ragione della “nostra” tradizionale tolleranza di quel “lavoro nero” nel quale hanno sempre finito per essere occultate quote consistenti di disoccupazione. A questo proposito stupisce che le percentuali italiane siano negli ultimi anni rientrate nelle medie europee, ma va notato come ciò sia avvenuto non tanto per meriti nostri, quanto per demeriti altrui[11]. Sembra dunque che il vecchio continente copi il bel paese in ciò che ha di peggio, mentre quest’ultimo si sforza di fare del suo meglio per recuperare i suoi ritardi politici per quanto concerne ad esempio la povertà estrema, parente stretta della crescente disoccupazione. Ma pare proprio che tale adeguamento a standard europei non stia dando risultati apprezzabili[12]. La crisi del modello del welfare familiare[13], ossia dell’assistenza e del supporto forniti da parenti anziché da istituzioni pubbliche, che solitamente ha contribuito allo sviluppo del nostro paese non pare dunque avere davanti a sé alternative credibili, a meno di non attendersi nuove performance eccezionali da parte dell’altro grande argine ai disagi sociali più estremi: le istituzioni cattoliche caritatevoli alle quali lo Stato italiano ha tradizionalmente delegato la cura delle situazioni sociali più problematiche.

Il caso bolognese

A proposito dell’area metropolitana di Bologna, dove la nostra ricerca si è svolta, si è già fatto cenno alle carenze istituzionali in fatto di disoccupazione, le quali hanno spinto gli psicologi promotori del PAD ad attivarsi autonomamente. Avendo l’obiettivo di ottenere una qualche forma di riconoscimento e sostegno da parte delle amministrazioni locali, è chiaro che le trattative per il conseguimento di questo scopo sono da considerarsi parte integrante della stessa ricerca/azione. A questo livello i segnali positivi non sono mancati, da noi stessi registrati in parecchi incontri pubblici in consiglio comunale, in sedi sindacali e con vari amministratori regionali e della giunta Merola. Le principali occasioni sono state tra il luglio 2016 e il novembre 2017, in diverse sedi: due presso la Camera del lavoro, due presso il Consiglio comunale, una presso la Cineteca (in concomitanze con la proiezione e i commenti del film di Ken Loach I, Daniel Blake) e infine quella conclusiva presso il Dipartimento di Storia, Culture e Civiltà, tutte nella città di Bologna e tutte caratterizzate da una significativa partecipazione anche di non addetti ai lavori.

Malgrado le decise manifestazioni di interesse di cui è stato oggetto il nostro progetto, bisogna riconoscere che nei suoi confronti è prevalsa l’inerzia dei politici locali, inclini a vantarsi dei tassi più elevati dell’occupazione a Bologna rispetto al resto d’Italia[14], piuttosto che inquietarsi per gli effetti dell’aumento della disoccupazione[15]. Certo è che nei discorsi di questi governanti niente è più estraneo del tema della “centralità della disoccupazione”, la quale è considerata come un problema localmente marginale se non addirittura, riecheggiando alcuni discutibili discorsi prevalenti negli USA e in Gran Bretagna[16], ristretto a persone psicologicamente labili. Questa visione evasiva non è del tutto incomprensibile. A motivarla in una città come Bologna c’è sempre il ricordo delle tradizionali eccellenze di questa città, che a partire dal dopoguerra è stato un modello, sul piano nazionale, di stabilità sociale, piena occupazione e prosperità economica, il tutto garantito da istituzioni locali (Partiti, Sindacati, Cooperative, ma anche parrocchie e Caritas) vigili e tra loro integrate[17], oltre che inserite in un contesto regionale altrettanto positivo[18]. Tuttavia si tratta di un ricordo oramai sbiadito da altri drammatici e complessi eventi, ivi compresi di corruzione, risalenti a tempi più recenti. Così il persistente orgoglio per questa tradizione di eccellenza democratica e sociale finisce oggi persino per ostacolare i tanto urgenti sforzi di rinnovamento. In fatto di disoccupazione sorprende ad esempio quanto le evidenti disfunzionalità dei centri per l’impiego (che come vedremo sono radicalmente denunciate da tutti i nostri intervistati) passino a livello di governo della città come un dato trascurabile o già in via di superamento. Mentre vengono vantati aggiustamenti normativi locali (RES)[19], come se fossero sufficienti a rimediare ai paradossi eclatanti della nuova legislazione nazionale sulla povertà.

Lo svolgimento della ricerca

Una volta elaborate tutte le riflessioni sopra esposte, il nostro gruppo di ricerca, inizialmente composto da una dozzina di persone tra docenti e studenti di antropologia, si è impegnato in una serie di interviste condotte fra settembre 2016 e marzo 2017. Il campione intervistato è stato selezionato in collaborazione con le organizzazioni sindacali (NIDIL, AUSER e CGIL); alcuni loro utenti dopo avere incontrato più volte gli psicologi del PAD hanno accettato di sottoporsi alle nostre interviste. In totale le persone intervistate sono state quindici, nove maschi e sei femmine, di età compresa tra i trentasei e i sessanta anni; tutti, tranne uno, nati in Italia e senza alcuna pregressa conoscenza reciproca.

Ogni intervista individuale, svoltasi nella forma del colloquio col supporto di un registratore e dopo avere ottenuto il consenso dell’intervistato, ha avuto come sede una saletta fornitaci da AUSER situata nel quartiere Bolognina. La durata è stata mediamente di un’ora e mezza. Una traccia comune a tutti colloqui è stata fissata da un unico questionario di 21 domande riguardanti passato, presente e futuro dell’intervistato, ossia le sue riflessioni sulle esperienze compiute, su come e quando si è ritrovato senza lavoro, sull’attuale condizione, ma anche i suoi giudizi sui servizi, le politiche e le varie proposte circolanti attorno alla disoccupazione. In conclusione, il materiale ricavato dalla trascrizione delle registrazioni è risultato di più di duecento pagine ed è stato sottoposto a un’accurata analisi del contenuto, i cui risultati saranno presentati a partire dal prossimo paragrafo.

Quanto ai tratti biografici salienti dei nostri intervistati – tenendo conto che i loro nomi anagrafici sono qui sostituiti da altri inventati per tutela della privacy – risalta anzitutto il fatto che la maggioranza di essi (due esclusi) racconta di un passato lavorativo assai vario, nel quale si sono adattati a passare da un’attività ad un’altra o, mantenendo la stessa attività, a cambiare sede e datore di lavoro. Niente rimpianto, dunque, per un “posto stabile e sicuro”, che quasi nessuno aveva mai avuto per lungo tempo.

Gli ambiti professionali sono i più disparati. Eccone una breve lista, con indicazioni riguardo l’età e il nucleo familiare: c’è una maestra di scuola materna (Francesca, 47 anni, vive coi genitori); un tornitore (Antonio, 50 anni, vive con la madre); un ragioniere (Federico, 37 anni, vive con la compagna), per quasi tre anni studente alla Bocconi di Milano, ma che ha lavorato principalmente come magazziniere tra il Sud e il Nord Italia, saltuariamente facendo anche l’autista, il fattorino, imbianchino; un geometra (Arrigo, 60 anni, vive con suo figlio) divenuto arredatore e poi commerciante; un attore e regista per gran parte della sua vita che negli ultimi tempi ha provato invano a convertirsi in edicolante (Giacomo, 58 anni, vive da solo); un metalmeccanico (Alessandro, 43 anni, vive con la compagna e un figlio) trasformatosi in esperto informatico; Gigliola (45 anni, vive coi genitori), che ha iniziato da giovanissima a lavorare come barista, poi in fabbrica, infine in un autogrill; una segretaria di azienda “di lungo corso” (Vittoria, 55 anni, vive da sola) ora saltuariamente colf “in nero”; un laureato in Scienze Politiche (Jon, 36 anni, vive con la compagna e il fratello), peruviano, che ha lavorato in bar, ristoranti, discoteche e da ultimo in una ditta di commercio con l’estero, ma impegnato anche in un’associazione di beneficenza; un esperto informatico della prima ora (Mario, 60 anni, vive con la moglie), che in seguito ha gestito una cartoleria per cinque anni, quindi ha lavorato in un grande parcheggio, infine ha coordinato un gruppo di operatori del Centro Identificazione ed Espulsione di immigrati a Bologna; un operaio di fabbrica (Rino, 54 anni, vive solo) passato poi a lavorare in aeroporto, quindi in un grande centro commerciale, ma impegnato anche per anni come volontario di pace nella guerra dell’ex-Jugoslavia; un’operaia (Giovanna, 50 anni, vive sola) divenuta a suo tempo capo reparto, ma poi adattatasi a fare la colf; Luisa (57 anni, vive sola), laureata in filosofia, che tenta sempre di ottenere supplenze in scuole secondarie, ma che si è adattata anche a svolgere mansioni più o meno saltuarie come badante e telefonista di call center; Ornella (44 anni, vive col compagno), barista, cameriera, laureata in statistica, programmatrice, responsabile di biglietteria per i teatri, infine per dieci anni promotrice marketing di una grande orchestra di fama mondiale; infine, Pino (50 anni, vive solo) muratore per 17 anni.

Per la maggior parte la condizione di disoccupato (che si aggira tra uno e due anni) si è cronicizzata inaspettatamente, dimostrandosi di difficile superamento. Chi più, chi meno, quasi tutti ammettono di ricorrere a saltuarie occupazioni “in nero”. Oltre a questa risorsa, i più dicono di cavarsela con risparmi personali o aiuti di famigliari. Nessuno dichiara di avere contratto debiti con banche o altro. Ultimo dato degno di nota: in tre, dopo l’intervista, hanno trovato lavoro a tempo determinato anche grazie ad informazioni circolate durante gli incontri avvenuti nel contesto del PAD.

La perdita del lavoro

I motivi e le circostanze che hanno portato alla perdita del lavoro del nostro gruppo di disoccupati sono molteplici. Tuttavia a far da sfondo alle loro vicende vi è una situazione generale in cui il lavoro è diventato scarso e saltuario, e al contempo la disoccupazione è sempre più pervasiva e inevitabile data la precarietà diffusa. Il problema, quindi, non è semplicemente l’assenza di lavoro, ma il logoramento dei diritti dei lavoratori che si traduce, nel concreto, in turni massacranti, paghe basse e maltrattamenti. È evidente che tali condizioni non sono una novità di questi anni; tuttavia sembrano divenute più frequenti e soprattutto, qualora il posto di lavoro si riveli insoddisfacente e fonte di sofferenza, è estremamente difficile trovare un’alternativa. La riduzione drastica delle possibilità di scelta e l’impossibilità di trovare un’alternativa a un lavoro insoddisfacente che non sia la disoccupazione caratterizzano l’esperienza di gran parte del gruppo da noi intervistato. A questo si aggiunge una burocrazia spesso ostile: in particolare, l’informatizzazione di molte pratiche produce, in alcuni casi, l’esclusione di coloro (non pochi!) che hanno poca familiarità con internet. È pur vero che qualsiasi siano le modalità burocratiche (uffici, moduli, cartacei, siti internet, ecc.), esse producono sempre un certo grado di esclusione. In ogni caso è evidente che vi è una discrasia fra la retorica sui presunti meriti dell’informatizzazione e la realtà dei fatti: per quanto internet possa snellire e velocizzare le procedure, tutto questo non pare incrementare le possibilità di successo di coloro che cercano lavoro. Emerge qui con chiarezza un paradosso dei nostri tempi, ovvero l’idea diffusa che la comunicazione possa essere la panacea dei problemi sociali, come se quest’ultimi potessero essere risolti aumentandola e favorendo l’accesso a essa. In realtà, spesso, il risultato è la produzione disfunzionale di un eccesso di comunicazione: inviare un migliaio di curriculum con un click, infatti, non sembra essere di grande giovamento ai disoccupati. Al contrario, nel caso da noi analizzato, come vedremo meglio più avanti, il passa parola sembra avere una maggiore efficacia.

Per dare maggiore concretezza al nostro discorso è opportuno soffermarci su alcune parti significative dei racconti dei nostri intervistati su come hanno perso il lavoro[20].

Francesca ci ha spiegato che dopo anni da precaria (mai più di un mese nella stessa scuola o asilo), aveva ottenuto un incarico continuativo di tre anni. Si era così sentita sollevata da quello che più l’affliggeva: lavorare solo come sostituta nell’«assenza degli altri». Il problema è però sorto al momento del rinnovo triennale delle graduatorie che lei ha mancato. Questo perché le graduatorie sono ora notificate tramite internet, cosicché viene richiesta un’attenzione alla posta elettronica molto maggiore che in precedenza. Il suo racconto dell’episodio ha oscillato molto spesso tra espressioni dure e dubbiose come «sono stati bastardi… sì lo sono stati» e ammissioni rattristate come «con il computer non sono precisissima».

In altri casi viene sottolineata la durezza dell’ambiente di lavoro, dove non mancano situazioni di mobbing e umiliazioni da parte dei colleghi e dei dirigenti. Ma una volta lasciato il posto, di propria volontà o perché licenziati, vi è un rischio elevato di precipitare nella disoccupazione cronica. Per esempio Antonio, dopo vent’anni di lavoro come tornitore nella stessa ditta, al cambio di gestione, ci ha raccontato di avere ricevuto tante «umiliazioni» da essere condotto «allo strèmo, a livello nervoso», di essere stato «isolato dai colleghi». Il tutto fino al momento conclusivo in cui si è trovato bloccato nell’ufficio della direzione per cinque ore, al termine delle quali ha ceduto accettando di firmare le dimissioni, senza sapere che così stava rinunciando all’indennità di disoccupazione. «Dopo sono andato dal sindacato – ci ha detto sconsolato – ma non è facile». Una situazione analoga è quella di Gigliola che ci ha raccontato di avere lasciato volontariamente il suo ultimo lavoro, presso un autogrill. Lo trovava un lavoro massacrante: «Secondo me non è neanche umano lavorare lì dentro ... siamo stati anche maltrattati». In particolare ha tenuto a riferirci di essere stata «offesa in pubblico solo per aver bevuto un Crodino».

Alcuni nostri intervistati ci hanno narrato di aver lasciato il lavoro a causa di un momento di difficoltà psicologica. Arrigo, per esempio, dopo avere aperto e avviato un ampio negozio per animali (370 mq ci ha precisato), ha dovuto chiudere l’attività a seguito della morte di una persona a lui molto cara e ciò ha comportato anche la perdita del lavoro. Giacomo, invece, ci ha parlato di «eccesso di responsabilità» all’origine della sua disoccupazione. Attore, regista e drammaturgo di livello europeo per trentacinque anni, ha dato vita ad una compagnia che tutt’ora esiste ma alla quale, per problemi personali, non può più partecipare. Così dopo aver continuato a lavorare in teatro come freelance, in un «momento di follia» – come lo definisce lui stesso, ha aperto un’edicola, con l’idea di potere garantire un avvenire più sicuro a sua figlia. Poi invece il fallimento: «Avrei fatto meglio ad essere irresponsabile», ci ha confessato amaramente.

Molto più semplici sono i motivi addotti da Vittoria per spiegare la sua condizione di disoccupata: «Semplicemente», ci ha detto, «l’azienda (dove era segretaria a tempo indeterminato) era in cattive acque finanziarie, era piena di debiti. I titolari, un pochino anziani, non erano abituati ad affrontare un'economia differente da quella che avevano conosciuto». L’azienda ha finito per chiudere.

Infine, quella del nostro intervistato più giovane, Jon, è una storia più particolare. Lui stesso decise di licenziarsi dal suo ultimo lavoro part-time, con un contratto a tempo indeterminato in una ditta di import-export, pur avendo buoni rapporti con la direzione. Tanto buoni che questa ha accettato di condividere i costi del licenziamento al fine di garantirgli i sussidi di disoccupazione. Più scarse del previsto, però, sono state per lui le occasioni di trovare un nuovo lavoro, nonostante la sua laurea in scienze politiche, le sue competenze plurilinguistiche e da mediatore culturale dovute anche alle sue origini peruviane. «È tutto saturo – ha osservato – perché ci sono migliaia di giovani che cercano lavoro ... insomma, tutto un insieme tale che poi alla fine anche i giovani, anche le persone vengono demotivate».

Quelle riportate sopra rappresentano un campione ristretto delle narrazioni dei nostri intervistati. Nella maggior parte dei casi emerge il problema di un’assenza di alternative: la disoccupazione è sempre alle porte, una minaccia costante e pervasiva. È sufficiente un momento di debolezza, o magari anche soltanto l’ambizione di migliorare la propria condizione, e si finisce per diventare disoccupati con scarse possibilità di ritrovare un impiego. Perdere il lavoro, quindi, porta spesso a una condizione di disoccupazione che tende a cronicizzarsi. Al limite si può ritrovare un lavoro precario, sottopagato e con l’incubo della disoccupazione sempre incombente. E in tutto questo, come vedremo sotto, i sindacati e i sostegni istituzionali si rivelano del tutto inadeguati e perlopiù inutili.

Sindacati e sostegni istituzionali

Dalle parole dei nostri intervistati emerge con chiarezza che i sindacati non sono stati in grado di capire, se non marginalmente, le trasformazioni del mondo del lavoro e di adeguarsi ad esse. Si potrebbe dire che la temporalità del cambiamento sociale, nello specifico del mercato del lavoro, non coincida con quella delle istituzioni sindacali. Quest’ultime non sono state al passo del primo e inevitabilmente si è creata una distanza, spesso un’avversione (alle volte reciproca), fra queste istituzioni e i disoccupati. In sostanza, la condizione attuale del disoccupato rappresenta una nuova dimensione in buona parte incognita e imprevedibile ed entrambe queste caratteristiche emergono dai rapporti che i nostri intervistati dicono di avere intrattenuto coi sindacati. Pur essendo in quattro iscritti al sindacato, soltanto uno, Mario, ha affermato di avere avuto un qualche sostegno da esso nelle travagliate vicende che comunque si sono concluse con la perdita del lavoro. Il suo giudizio finale è pertanto quello di una persona delusa: «I sindacati non mi hanno aiutato, è brutto dirlo ma è così. Sono sempre stata iscritto alla CGIL, però non mi ha aiutato». Il giudizio più positivo che ci è stato riferito sul sindacato è quello di Luisa, la quale però ha ammesso di essersi iscritta per una pura ragione tecnica: «Per iscriversi alle graduatorie, sai che se lo fa il sindacato lo fa bene». Lo stesso Jon ha riconosciuto di avere chiesto e ricevuto buoni consigli, sebbene «per amicizia, per vie traverse diciamo», per contrattare con i suoi datori di lavoro il licenziamento da lui stesso voluto. Per il resto prevale un giudizio negativo, una profonda disillusione nei confronti dei sindacati che vengono percepiti estranei e incapaci di fornire sostegno.

In breve, ciò che è emerso dall’insieme delle nostre interviste è stato un quadro che ben illustra le attuali difficoltà dei sindacati di fronte alle forme in cui oggi si manifesta la disoccupazione. Tanto più dato il contesto bolognese il quale, inutile quasi ricordarlo, è tradizionale roccaforte del sindacalismo.

Assai incerti e controversi risultano anche i rapporti che i nostri intervistati hanno avuto con i vari sostegni istituzionali, in particolare con la mobilità o la cassa integrazione. La metà di essi nega di averne mai fruito. Nell’altra metà i giudizi critici prevalgono su quelli positivi. Per esempio Vittoria, che ne ha usufruito per due anni, ha riconosciuto che «inizialmente sono di grande supporto», ma ha aggiunto: «Trovo la cosa inutile se finito il periodo di sostegno ti viene detto: “Bene, ti abbiamo dato il sostegno, ora arrangiati!”». La sua conclusione è stata assai perentoria: «Secondo me quello che non capiscono [i responsabili delle politiche di sostegno per la disoccupazione] è l’umiliazione che si prova improvvisamente quando ti ritrovi un peso per la società e vieni considerata solo un costo». Particolarmente interessante è quanto riferito da Pino che ha insistito sui tempi troppo lenti di erogazione dei contributi: «Un conto è se te li danno mese per mese ... invece no! te li danno dopo tre, quattro, cinque mesi!».

In sostanza dalle parole dei nostri intervistati è emerso con chiarezza la discrasia che vi è fra il lavoro oggi, con l’ombra immancabile della disoccupazione, e i sindacati e i sostegni istituzionali. La distanza sembra diventare rottura e questo inevitabilmente finisce con l’esacerbare la sensazione di isolamento provata da buona parte dei disoccupati.

Le difficoltà nella ricerca del lavoro

A proposito della ricerca del lavoro, nelle risposte dei nostri intervistati emergono alcuni temi ricorrenti: oltre la frustrazione per la vanità della ricerca che la rende discontinua, saltuaria o addirittura la demotiva del tutto, traspare anche una profonda sfiducia nei centri per l’impiego, fino al punto che rispetto ad essi appaiono più degni di fiducia il semplice passa parola e le conoscenze personali[21]. La maggior parte di loro ha anche manifestato la convinzione che l’età avanzata precluda ulteriormente le possibilità di ritrovare un’occupazione.

Quanto all’obbligo di servirsi di internet, i pareri sono discordi. Se alcuni dei nostri interlocutori lo riconoscono come inevitabile, altri esprimono rifiuto, critiche o ammettono il loro senso di colpa per la carenza di competenze adeguate. Tuttavia ci pare molto significativo che nessuno dei nostri intervistati ne abbia sottolineato particolari vantaggi. In molti casi affiora una profonda amarezza rispetto al fatto che nessun datore di lavoro risponde ai messaggi e-mail. Per esempio Francesca, in merito al silenzio costantemente seguito ai suoi svariati invii di curriculum via internet, ha affermato: «Per quale motivo non rispondono? Potrebbero dirti almeno dove hai sbagliato!». Il silenzio e l’impossibilità di un’interlocuzione diretta con possibili datori di lavoro sono quindi fra le principali difficoltà nella ricerca occupazionale. Come abbiamo detto sopra, il fatto che la comunicazione (nello specifico l’uso di internet) possa facilitare la ricerca del lavoro appare allo stato delle cose un’illusione. Paradossalmente, in molti casi, sono le reti informali a funzionare meglio. Per esempio Gigliola, dopo avere denunciato l’inefficienza di qualsiasi centro o agenzia per l’impiego, ha rivendicato con orgoglio che «tutto quello che ho trovato l’ho sempre trovato da sola, tramite amicizie e conoscenze, passaparola, amici, amiche». Il suo commento finale è senza dubbio significativo: «Adesso siamo arrivati a dei livelli che bisogna essere cattivi per lavorare. Sembra quasi una guerra: questa è la guerra del lavoro!».

La ricerca del lavoro è faticosa e frustrante e di fatto è essa stessa un lavoro. La frustrazione immancabilmente produce circoli viziosi come nel caso di Giacomo, che alla domanda “come cerchi lavoro?” ha risposto: «Ma chi ha detto che lo cerco? L’ho cercato, poi ... la disoccupazione spesso si accompagna a depressione... per venire qui oggi ho fatto uno sforzo, uno sforzo fisico perché non ne avevo voglia. La depressione crea questo. Dopo mesi di curriculum mandati in giro di qua e di là, ho smesso... anche se oggi però ne ho mandato uno». Inoltre, la fatica e la desolazione sono esacerbate dal senso di isolamento dovuto all’assenza di sostegni istituzionali. Al riguardo, tutti i nostri intervistati hanno sottolineato l’assoluta inutilità dei centri per l’impiego di cui spesso non si capisce nemmeno il senso. Ancora una volta emerge con chiarezza quanto grande sia grande, al limite del grottesco, la discrasia fra i disoccupati e servizi pubblici pensati per far fronte alla disoccupazione.

Infine abbiamo chiesto ai nostri intervistati se desiderassero una nuova occupazione o se rimpiangessero quella precedente. La nostra intenzione era di valutare la predisposizione al cambiamento e ne emerso un quadro articolato. Da un lato alcuni hanno manifestato di provare nostalgia per il lavoro perso, ma questo non tanto per il lavoro in sé quanto per il fatto che esso viene associato a un passato di maggior sicurezza e dignità. In molti, però, hanno affermato di preferire una occupazione nuova, soprattutto quelli che trovavano il lavoro precedente alienante (nel caso degli operai di fabbrica) o troppo faticoso (per esempio nel campo edile). In generale possiamo affermare che vi sono poche resistenze al cambiamento e questo pone alcuni interrogativi in merito alle retoriche sulla riqualificazione dei disoccupati e all’idea diffusa che al giorno d’oggi tutti dovremmo essere flessibili ed abituarci a cambiare più volte occupazione, abbandonando l’idea del posto fisso. Il problema, infatti, non pare tanto la resistenza al cambiamento, a cui molti sono predisposti per volontà o rassegnazione, quanto il fatto che non vi è lavoro in gran parte degli ambiti occupazionali. Di fronte all’assenza generale del lavoro, quindi, i leitmotiv della flessibilità e della riqualificazione si rivelano delle mere retoriche.

Stato e politiche del lavoro

Veniamo ora a quanto è emerso dalle domande da noi poste sul ruolo dello Stato nei confronti della disoccupazione. Dato saliente è anzitutto la misura considerevole nella quale le risposte dei nostri intervistati hanno fatto ricorso al condizionale. In sostanza lo Stato è percepito come un’istituzione lontana e aliena: cosa esso potrebbe fare è una questione che si colloca per tutti in una prospettiva remota e fuori portata. Termini come “cittadinanza attiva” o “partecipazione democratica” non rientrano nel lessico dei nostri intervistati. Dobbiamo sottolineare che abbiamo sempre evitato di interpellarli come se fossero esperti di affari di Stato, interessandoci invece di indagare se e come la condizione di disoccupato contribuisca a sviluppare una specifica rappresentazione dello Stato e dei suoi rapporti con l’economia. Da questa angolatura si può allora rilevare l’estrema diversificazione degli sguardi. Molto ampia, irriducibile a qualsiasi stereotipo “di destra”, “di sinistra” o “di centro”, è risultata la varietà delle rappresentazioni che ci sono state riferite a proposito delle istituzioni pubbliche: sia di quello che dovrebbero o potrebbero fare, sia di quello che non fanno pur potendolo e dovendolo fare. In ogni caso, punto fermo sono il distacco, l’estraneità e la scarsa fiducia che tutti i nostri intervistati dimostrano nei confronti di qualsiasi questione politica.

In generale i nostri intervistati hanno tutti espresso una scarsa fiducia nella classe dirigente e alcuni, come Antonio, hanno mostrato di rimpiangere la perdita di «tutti i diritti guadagnati negli anni ‘70». Come abbiamo detto sopra, il fatto di ritrovarsi disoccupati a un’età avanzata desta una preoccupazione particolare. Se la disoccupazione in Italia, in modo più o meno intenso, ha sempre colpito in prevalenza i giovani, oggigiorno essa si è diffusa a tutte le fasce di età. Alcuni nostri intervistati, che per la maggior parte sono adulti di età superiore ai 40 anni, hanno manifestato una forte preoccupazione per questo nuovo trend. Per esempio Arrigo ha insistito sulla condizione svantaggiata e non pubblicamente supportata dei disoccupati più anziani: «L’esperienza – ci ha detto – è la carta che abbiamo, che abbiamo in mano! Che secondo me è una gran carta! Credo andrebbe sfruttata». Da cinefilo appassionato ha citato come metafora la riduzione del costo del biglietto per l’accesso degli anziani alle sale cinematografiche, ricordando il suo gradimento quando ne è venuto a conoscenza, «perché finalmente qualcuno si occupava veramente degli over».

All'opposto, alcuni hanno lamentato il fatto che la politica trascuri del tutto i giovani. Gigliola su questo punto ha affermato: «Penso che i nostri politici debbano fare qualcosa per i giovani, senza di loro non possiamo andare avanti in questo paese. Io credo che venga fatto di più per i vecchi». Sulla stessa linea è Jon, il più giovane dei nostri intervistati, che ha denunciato il fatto che in mancanza di sostegni statali in Italia debbano essere per lo più i genitori a provvedere ai figli senza lavoro: «Sicuramente – ha aggiunto – in questi momenti di crisi ciò è una cosa positiva, però questo fa addormentare i nostri giovani, li fa addormentare perché comunque la vita va avanti e anche le persone anziane poi muoiono. Di conseguenza, siamo in una transizione tale che tra poco neanche i giovani non avranno più niente». Ecco allora un’idea singolare: «Si dovrebbero creare, non dico solo uffici, ma anche centri, centri di aggregazione, workshop dove i giovani si possono incontrare, scambiarsi idee, proporre, proporre idee ... Anche se penso che sia quasi impossibile... perché mancano i punti di riferimento... Lo Stato che fa queste cose non lo trovi, non lo trovi ... Io penso che i fondi ci sono, i soldi ci sono è solo che manca una politica, appunto, giovanile in questo senso».

In sostanza le parole dei nostri intervistati rispecchiano il fatto che la disoccupazione attualmente colpisce tutte le fasce di età: si tratta in parte di una novità, dal momento che l’Italia, come abbiamo già detto, è sempre stata caratterizzata da alti tassi di disoccupazione fra le donne e i fra giovani, e da tassi minori fra i maschi adulti, mentre oggigiorno anche quest’ultima categoria inizia a essere colpita. Inoltre, tradizionalmente l’area di Bologna ha sempre conosciuto livelli elevati di occupazione e pertanto queste novità risultano particolarmente inquietanti. Viene dunque denunciata l’assenza di politiche in favore dell’occupazione giovanile, ma al contempo il peso dell’anzianità sembra rappresentare la peggiore aggravante della condizione di disoccupato.

La maggior parte degli intervistati ha denunciato l’eccesso del peso fiscale. In esso viene identificato infatti il maggior ostacolo all’avviamento di nuove attività. Al contempo, soltanto Giacomo ha fatto riferimento alla spesa pubblica come strumento per ridurre la disoccupazione: «Non sono keynesiano ... la penso in modo opposto, però, la spesa pubblica, fatta intelligentemente, può portare ottimi frutti … Quindi anche oggi sarebbe una bella cosa. Questa sarebbe proprio una gran cosa, proprio riprendendo il modello di 40 anni fa». Mentre gli effetti negativi di un aziendalismo senza freni sono stati denunciati da Mario: «Per me c’è un problema di fondo. Che anche le aziende dovrebbero essere un po’ più’ aperte, perché qua guardano tutte al profitto... che pensino un po’ anche alle persone!».

Nella varietà dei temi affrontati dai nostri intervistati a proposito delle politiche pubbliche non poteva ovviamente mancare la questione degli stranieri. A sollevarla è stato Rino. Nelle sue parole, espresse con tono polemico e radicale, l’imperativo di politiche di immigrazione meno mortifere e più intelligenti si è mescolato con la denuncia della corruzione pubblica: «Lo Stato dovrebbe capire che prima di uccidere o ospitare milioni di persone sarebbe meglio sistemare la situazione del popolo. Oppure smettono di rubare e cominciano a calarsi lo stipendio. E ad aiutare tutti. Ma dovrebbero capire che la bomba sociale sta scoppiando geograficamente. Non è più uno scappare. È un esodo biblico».

Infine, alcuni nostri intervistati hanno indicato alcune possibili politiche per limitare i danni sociali della disoccupazione, pur mostrando una forte sfiducia nei confronti della classe politica. Per Pino, per esempio, il modo pubblico per affrontare il problema della disoccupazione ci sarebbe: «Un sussidio a tutti quanti. C’è in tutta l’Europa. Da tutte le parti d’Europa, lo fanno dappertutto, basta che tu dimostri che lo stai cercando il lavoro … Basta farlo bene, non la solita cosa all’italiana!». Un sussidio universale in Italia rischierebbe infatti, secondo Pino, di offrire il destro a falsificazioni, parassitismo e corruzione. Per lui le responsabilità di questi problemi sono da imputare alla “casta” politica: «Ci mangiano un sacco di soldi – ci ha detto con foga –, sempre le stesse persone, quelle lì! da 40 anni che sono lì! Non riesco a capire perché in tutte le parti del mondo i politici non durano più di otto anni. Adesso Obama, no? Finisce e se ne va, applausi, clap! clap! Perché qui, uno che entra a 40 anni se ne va a 95? Come Napolitano, 95 anni! Quei tipi lì girano con la scorta, mentre in Italia la gente non arriva a fine mese. Ma stiamo scherzando? Senza contare quanto prende di pensione. Guarda, lascia stare. Non ci devi pensare a queste cose perché se no...».

Maggiore attenzione ai giovani, maggiore attenzione agli anziani, meno pressione fiscale, sostegno all’avvio di nuove attività economiche, l’invadenza delle multinazionali, ma anche scetticismo, fatalismo e dure condanne: questi dunque alcuni degli spunti presenti in queste interviste sul ruolo dello Stato nei confronti della disoccupazione. Il nostro campione ha mostrato così una varietà di punti di vista che non pare differenziarsi troppo dall’insieme delle opinioni standard circolanti nel nostro paese su argomenti simili. Azzardando una generalizzazione, se ne potrebbe trarre forse un’ulteriore conferma del fatto che la condizione di disoccupato non comporta alcuna sensibilità particolare in fatto di politica e di Stato.

Una nuova finestra

Come già segnalato, il PAD è stato avviato da un gruppo di psicologi che si sono volontariamente dati l’obiettivo di incontrare una ventina di disoccupati per fornire loro un supporto psicologico e una formazione per migliorare la stesura del curriculum da presentare nella ricerca del lavoro. Scontato quindi che i nostri intervistati dimostrassero il loro favore nei confronti di questa iniziativa, ma il consenso unanime e convinto che ne è risultato dalle loro risposte a questo riguardo è stato comunque superiore alle aspettative. Molte significative a riguardo le parole di Pino, che bene illustrano come questa esperienza abbia avuto una positiva influenza sul suo umore: «Ti indirizzano in alcuni punti, così tu già dimezzi le cose che devi guardare, ti stanchi di meno, hai più voglia di cercare». E ancora: «Mi ha fatto bene parlare con loro; mi sentivo meglio quando uscivo di qua. Mi sentivo meno pesante, meno angosciato ... Finalmente ho iniziato a riposare meglio… mi sono stati d’aiuto, perché pure, almeno per me, non essendo di qua, parlando poco con la gente... Con loro mi sono molto... che ne so... sfogato». Anche per Antonio gli psicologi clinici: «ti aiutano a non perdere la fiducia». Per Arrigo «una delle cose più belle,che mi ha più colpito [nel rapporto con gli psicologi] è che qualcuno si preoccupasse e riuscisse a tirarmi fuori il più possibile tutto!». Essere oggetto di un attento interesse da parte di psicologi esperti, ricevere aiuto nel riformulare il proprio curriculum, incontrare altri disoccupati, sentirsi parte di un gruppo: questi alcuni dei temi più ricorrenti dei quali i nostri intervistati ci hanno parlato con compiacimento, insistendo tutti sull’importanza dell'esperienza condotta tramite il PAD nel riacquisire fiducia in se stessi e limitare il senso di solitudine conseguente alla prolungata assenza di lavoro. Di qui anche l’auspicio di un prolungamento e di un allargamento di iniziative simili.

Particolarmente convinti sono stati, infine, gli enunciati raccolti nel corso delle nostre interviste a proposito dell’obiettivo di trasmettere i risultati della ricerca a politici, istituzioni e parti sociali. A riguardo ricordiamo le parole di Gigliola già riportate all’inizio: «Dovete rompere le palle ai politici Tanto! Tanto! Perché loro non provano; loro, la realtà la vedono da una poltrona, non la provano: perciò come fanno a decidere? Nelle situazioni bisogna esserci. Secondo me dovrebbe decidere chi prova questa realtà, chi la vive sul campo». Conclusione perentoria: «Per aiutare le persone, bisogna provare quello che provano loro!». Di tono parimenti acceso è stato anche l’incitamento di Vittoria: «andate là e battete i pugni e dite: ragazzi svegliatevi! C’è una realtà intorno a noi, insomma!». Di qui potrebbe scaturire, secondo lei, un’altra politica: «La politica è anche questo. Dovrebbe essere questo la politica... non quello che vediamo».

Conclusioni

Nostro intento in questa ricerca è stato interpellare i nostri intervistati né come media al ribasso di più individualità (per cui l’individuo sarebbe sempre meglio del gruppo), né come espressione di identità sovra-individuali (classi, ceti, etnie, nazionalità e così via). Nel loro insieme hanno sì espresso una varietà disparata ed eterogenea di opinioni, ma non sono mancati temi ricorrenti riconducibili alla condivisa condizione di sofferenza sociale. Anziché presupporre una definizione a priori di “cos'è la disoccupazione” per verificare se e quanto i nostri intervistati ne fossero coscienti, abbiamo cercato nei loro enunciati cosa questa condizione significasse per loro. In tal modo abbiamo puntato ad andare oltre alla tendenza, da altri già criticata, di parlare “di disoccupazione, e non di disoccupati” (Ambrosini 2014) per provare a capire la “centralità”, dunque la nuova rilevanza e complessità sociale, acquisita nel nostro tempo da questa condizione (Kwon, Lane 2016).

Il nostro campione ci è sembrato adeguatamente rappresentativo di queste novità. Né la nostalgia per un oramai mitico posto stabile sicuro, né la resistenza al rinnovamento personale, niente di tutto ciò spiega perché oggi i disoccupati, quali quelli che noi abbiamo incontrato, siano a rischio di disagi, demotivazioni e depressioni irreversibili (tali da necessitare di supporti psicologici). A minare le loro capacità di resilienza risulta essere soprattutto l’amara percezione che alla disoccupazione non ci siano più alternative consistenti e rassicuranti, ma solo provvisorie e/o di ripiego come quelle rappresentate dai “lavoretti” in nero. Lungi da tutte le rappresentazioni della disoccupazione come semplice contrario, come assenza più o meno occasionale e incidentale del lavoro, come intervallo passeggero tra due situazioni occupazionali, essa si presenta dunque come un nuovo dato storico epocale (De Masi 2017), di cui nessuna statistica riesce più a dar conto adeguato lasciando percepirne la gravità solo a chi la vive direttamente (Karjanen 2016).

Ecco allora che tra i consigli che ci siamo sentiti di offrire alle istituzioni preposte ad affrontare problemi simili è prevalso quello volto alla promozione, al sostegno e alla diffusione di progetti come quelli ai quali abbiamo partecipato assieme al team di psicologi. Tra i loro scopi auspicabili ci dovrebbe essere certo il favorire gruppi di incontro, di mutuo aiuto, di passa parola, tra gli stessi disoccupati. Così infatti essi, come testimoniato dalle nostre interviste, potrebbero trovare occasioni autonome per contrastare la solitudine, la sensazione di isolamento anche all'interno degli stessi legami famigliari o lo smarrimento di fronte a tecnologie e istituzioni come internet e i centri per l’impiego che, pur destinate a sostenere la ricerca del lavoro, si rivelano di difficile fruizione se non addirittura demotivanti. Ma scopo principale degli auspicabili progetti simili al PAD dovrebbe essere soprattutto un altro: rendere possibili sistematiche relazioni tra disoccupati ed esperti di varie competenze; non solo psicologi, ma anche ricercatori di scienze sociali, quali antropologi, sociologi, economisti, giuristi e così via. È nostra convinzione che solo così, infatti, domande quali «cos'è diventata la disoccupazione?» e «come contenerne i danni?» potrebbero essere adeguatamente affrontate aprendo nuove prospettive sia alla ricerca sia alle politiche sociali.

Bibliografia

Alberti, M. 2016. Senza lavoro. La disoccupazione in Italia dall’Unità a oggi. Roma-Bari, Laterza.

Ambrosini, M. 2014. «Introduzione. Ritrovarsi senza lavoro. Una ricerca sulla perdita e la ricerca dell’occupazione» in Perdere e ritrovare il lavoro. L’esperienza della disoccupazione al tempo della crisi, (a cura di) M. Ambrosini, D. Coletto, S. Guglielmi. Bologna. Mulino: 9-31.

Ambrosini, M., Coletto, D., Giuglielmi, S. (a cura di). 2104. Perdere e ritrovare il lavoro. L’esperienza della disoccupazione al tempo della crisi. Bologna. Mulino.

Capecchi, V., Caserta, S., Tavani, A. 2015. Tra storia e futuro. Politiche per una regione smart. Una ricerca sulle trasformazioni dell’economia in Emilia-Romagna. Bologna. Il Mulino.

Coletto, D. 2014.«Questa volta è diverso: la crisi economica vista dall’interno dei Centri per l’impiego» in Perdere e ritrovare il lavoro. L’esperienza della disoccupazione al tempo della crisi, (a cura di) M. Ambrosini, D. Coletto, S. Guglielmi. Bologna. Il Mulino: 75-130.

D’Aloisio, F. 2014. Vita di fabbrica. Decollo e crisi della Fiat Sata di Melfi nel racconto di Cristina. Milano. Franco Angeli.

D’Aloisio, F., Ghezzi, S. (a cura di). 2015. Antropologia della crisi. Prospettive etnografiche sulle trasformazioni del lavoro e dell’impresa in Italia. Torino. L’Harmattan Italia.

De Maria, C. (a cura di). 2102. Bologna futuro. Il “modello emiliano” alla sfida del XXI secolo. Bologna. Clueb.

De Masi, M. 2017. Lavorare gratis, lavorare tutti. Perché il futuro è dei disoccupati. Milano. Rizzoli.

Fassin, D. 2006. Un ethos compassionevole. La sofferenza come linguaggio, l’ascolto come politica. Antropologia, 8. http://www.ledijournals.com/ojs/index.php/antropologia/article/view/148 (Sito internet consultato il 18/04/2018).

India, T. 2017. Antropologia della deindustrializzazione. Il caso della Fiat di Termini Imerese. Firenze. Edit.

Karjanen, D. 2016. «The Limits to Quantitative Thinking: Engaging Economics of the Unemployed» in Anthropologies of Unemployment. New Perspectives on Work and Its Absence, (eds) J. B. Kwon, M. C. Lane. Ithaca and London. Cornel University Press: 34-52.

Kleinman, A., Das, V., Margaret Lock, M. (eds). 1997. Social Suffering. Berkeley. University of California Press.

Kwon, B. J., Lane, M. C. (eds). 2016. Anthropologies of Unemployment. New Perspectives on Work and Its Absence, Ithaca and London. Cornell University Press.

Lane, C. M. 2016. «The Limits of Liminality: Anthropological Approaches to Unemployment in the United States» in Anthropologies of Unemployment. New Perspectives on Work and Its Absence, (eds) J. B. Kwon, M. C. Lane. Ithaca and London. Cornell University Press: 18-33.

Quaranta, I. (a cura di). 2006. Sofferenza Sociale, Annuario di Antropologia, 8, Roma. Meltemi.

Romitelli, V. (a cura di). 2005. Etnografia del pensiero. Ipotesi e ricerche. Roma. Carocci.

Romitelli, V. (a cura di). 2009. Fuori della società della conoscenza. Ricerche di etnografia del pensiero. Roma. Infinito Edizioni.

Viazzo, P. P., Rosina, A. (2008). Oltre le mura domestiche. Famiglia e legami intergenerazionali dall'Unità d'Italia ad oggi. Udine. Forum.



[1] Associazione di volontariato per l’Autogestione dei Servizi e la solidarietà, nata nel 1991 si occupa di promuovere l’invecchiamento attivo, abbattere le barriere sociali, le disuguaglianze e la solitudine attraverso l’attività dei volontari. http://www.auserbologna.it/v16/?q=chi-siamo (Sito internet consultato in data 15/10/2017).

[2] La ricerca è il frutto di un lavoro di gruppo a cui hanno partecipato alcuni studenti del Corso di Laurea Triennale in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali (Università di Bologna): Paolo Decca, Sara Della Piana, Christian Lamanna, Diana Quadri, Elena Vaccari.

[3] Ambra Cavina, Mauro Favaloro, Michele Piattella e Anna Russo.

[4] NIDIL (Nuove Identità di Lavoro) è la struttura sindacale della CGIL che rappresenta dal 1998 i lavoratori in somministrazione (ex-interinali) ed i lavoratori atipici. http://www.nidil.cgil.it/chi-siamo (Sito internet consultato in data 15/10/2017).

[5] Assistenza consistente in una ventina di ore di colloqui tra un(a) psicologo(a) e ciascun disoccupato, volti anche a elaborare un curriculum per la ricerca del lavoro.

[6] A tale scopo si è fatto particolare riferimento ad alcune indagini etnografiche riportate in due volumi curati da Romitelli (Romitelli 2005, 2009).

[7] Per quanto riguarda la più recente situazione della regione Lombardia, ma con una visione ben altrimenti aperta e con alcune prossimità ad un approccio antropologico ed etnografico, si veda Ambrosini, Coletto, Giuglielmi (2014). Sul piano storico resta di grande interesse lo studio di Alberti (2016), dove viene illustrato un modello italiano della disoccupazione, strutturatosi a partire dal secondo dopoguerra, che si differenzia rispetto a quelli di altri paesi e di epoche precedenti, oltre a costituire una variante del modello mediterraneo. Tra le sue caratteristiche precipue vi è il fatto che siano sempre i giovani, le donne e gli abitanti del sud le popolazioni più sofferenti per la carenza di lavoro (Alberti 2016: 122-35).

[8] https://www.istat.it/it/files/2017/06/Nota-trimestrale-sulle-tendenze-delloccupazione-I-2017.pdf?title=Nota+trimestrale+sull%E2%80%99occupazione+-+27%2Fgiu%2F2017+-+Testo+integrale+e+nota+metodologica.pdf (Sito internet consultato il 15/11/2017).

[9] http://www.huffingtonpost.it/2017/08/16/il-pd-sale-sul-carro-della-ripresina_a_23078859/ (Sito internet consultato il 16/08/2017).

[10] http://goofynomics.blogspot.it/2017/08/disoccupazione-sottocupazione-e.html (Sito internet consultato il 15/09/2017).

[11] http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-12/il-lavoro-nero-europa-olanda-top-italia-media-sorprese-e-immaginario-collettivo-123252.shtml?uuid=ABJOJTAB (Sito internet consultato il 10/12/2017).

[12] https://www.alganews.it/2017/08/30/la-farsa-dello-strombazzato-assegno-inclusione/ (Sito internet consultato il 30/08/2017).

[13] http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-07-09/welfare-familiare-crisi-italiani-risparmiano-cure-e-badanti-112232.shtml?uuid=ABRy92YB; http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-11-07/il-welfare-familiare-vale-109-miliardi-65percento-pil-094250.shtml?uuid=AE4cUN5C; http://www.huffingtonpost.it/teresa-benvenuto/cosi-importante-ma-tanto-invisibile-ecco-il-welfare-familiare_a_23200156/; http://www.intermediachannel.it/il-welfare-familiare-e-in-crisi-italiani-costretti-a-rinunciare-a-prestazioni-sanitarie-e-badanti/ (Siti internet consultati il 18/04/2018). Articoli, tra i tanti, dai quali ci si può fare un'idea dei pur relativi cambiamenti intervenuti rispetto al quadro problematico presentato su argomenti simili dal Convegno della Società Italiana di Demografia Storica avvenuto a Pavia nel settembre 2006 (vedi Viazzo, Rosina 2008).

[14] http://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/politica/merola-intervista-ferragosto-1.3333805 (Sito internet consultato il 18/08/2017).

[15] http://www.repubblica.it/economia/2017/08/31/news/istat_disoccupazione_luglio-174273774/ (Sito internet consultato il 31/08/2017).

[16] Per un approccio critico vd. https://www.psicolinea.it/la-disoccupazione-e-un-disturbo-psicologico/ (Sito internet consultato il 15/12/2017).

[17] Si vedano le diverse idee espresse in proposito dai diversi saggi a raccolti in De Maria (2012).

[18] Di grande interesse a proposito della storia e delle prospettive di questa regione è il lavoro Capecchi, Caserta e Tavani (2015), dove gli autori si dimostrano così convinti dell'avvenire “smart”, “intelligente, ecosostenibile e inclusivo” realizzabile in questa parte d’Italia da vedervi persino un’alternativa alle politiche neoliberali dominanti in Europa e nel mondo.

[19] http://www.stefanocaliandro.eu/reddito-di-solidarieta-e-inclusione-sociale/ (Sito internet consultato il 08/12/2017).

[20] Gli enunciati riportati fra virgolette basse in questo come nei prossimi paragrafi sono estratti dalle interviste condotte fra settembre 2016 e marzo 2017.

[21] Un quadro molto simile è confermato da Colletto (2015), che dà conto di una ricerca sul campo condotta presso i Centri per l'impiego tra il 2009 e il 2011 della regione Lombardia. Vengono trattate, infatti, le difficoltà e il disorientamento che regnano tra gli utenti di questi centri. Malinteso centrale messo in evidenza da questa indagine: quello relativo alla funzione di questi centri, che sono per lo più visti come nuova versione degli uffici collocamento, mentre loro scopo precipuo è essenzialmente la responsabilizzazione dell'individuo alla ricerca di lavoro sul fatto che tale ricerca è affare suo. La responsabilizzazione del singolo al posto delle istituzioni pubbliche è in effetti uno dei primi imperativi neoliberali che, come ben spiegato in questo libro, imputano i problemi del lavoro all'offerta, cioè a chi lo cerca, e non alla domanda, cioè a chi detiene il capitale da investire. Evidentemente a disorientare gli utenti è anzitutto proprio questo paradosso di un’istituzione pubblica come il centro per l'impiego che non offre nulla che gli stessi utenti non abbiano già.