Il dibattito: Collaborare o rigettare?

L’arcipelago dell’accoglienza e il “mestiere d’antropologo”

Sebastiano Ceschi

CeSPI

Davide Biffi

Università Milano Bicocca

Table of Contents

Dibattito: Sebastiano Ceschi
Sofferenti ma vivi
Un campo minato, una miniera di campi
Bibliografia
Dibattito: Davide Biffi
Bibliografia

Dibattito: Sebastiano Ceschi

Studiare ed agire “l'accoglienza”. Un compito ineludibile

Come è noto, la presenza di antropologi in diverso modo impegnati all’interno del sistema di accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo in Italia è, non solo una tendenza in crescita negli ultimi anni, ma anche un nuovo campo di esperienze e riflessioni. L’interessante e aggrovigliato incrocio di temi critici, posizionamenti e problematicità rispetto alle diverse dimensioni operative, politiche, etiche e disciplinari dell’accoglienza, di cui lo scorso numero di A. P. costituisce un buon compendio, non sembra riguardare tanto l’antropologo che si reca in tali luoghi per fare ricerca fondamentale a partire dall’accademia, quanto interpellare fortemente chi (pochi) entra nei centri con un mandato da antropologo applicato, oppure chi (i più) conduce un’azione professionale salariata all’interno di queste strutture sotto le spoglie dell’operatore. A finire sotto la lente riflessiva e problematizzante degli antropologi e sotto la scure della critica di Saitta (2017) sono soprattutto, infatti, quelle forme di antropologia applied e/o practicing (Colajanni 2013; Ceschi 2014) in cui gli strumenti e gli approcci teorici ed etico-politici dell’antropologia non analizzano autonomamente un oggetto “altro”, ma producono analisi ed azione attraverso un’esperienza diretta, non solo situata ed etnografica, ma professionalmente e formalmente iscritta nella realtà oggetto. Dubbi, ambivalenze e condanne si indirizzano, cioè, non all’antropologo dell’accoglienza quanto a quello nell’accoglienza, a colui che collabora con la gestione delle strutture e della loro utenza. Si tratta di una dimensione nella quale, si teme, l’essere committed con il dispositivo dell’accoglienza attraverso un mandato professionale interno ad essa (peraltro in genere necessario per avere accesso al campo anche in un percorso di ricerca di tipo più accademico) può compromettere il proprio essere engaged, depotenziando qualsiasi istanza critica e demistificante del dispositivo “governamentale” dell’accoglienza. Si pone cioè chiaramente il problema della complicità, per quanto sui generis, dell’operatore-antropologo[1] con un sistema capace di assorbire le istanze critiche senza perdere, anzi rigenerando, i propri obiettivi e strategie soggiacenti.

Tale dilemma, per un verso ci riporta alla dimensione applicativa e “impura” della nostra pratica disciplinare, nella quale la conoscenza è connaturata all’azione – non solo nel senso che la prima debba necessariamente portare alla seconda, ma anche che sia la seconda ad offrire un terreno adatto per la prima – e nella quale ci si immerge contraddittoriamente nelle realtà di studio attraverso esperienze diversificate per ruolo, partecipazione, margini di intervento, identità professionali, spesso con un mandato che non comprende la ricerca, quanto piuttosto la valutazione, la presenza quotidiana e l’intervento. Per l’altro verso, questa tensione aleggiante si genera e si scarica, in maniera specifica e accentuata, intorno ad esperienze di lavoro e ricerca all’interno del mondo dell’accoglienza dei richiedenti asilo, testimoniando un disagio profondo che merita, forse, un’attenzione particolare e mirata. Un simile disagio, infatti, non si esplicita, almeno non in tale misura, in altri ambiti di applicazione “salariata” dell’antropologia, come l’intervento nei sistemi sanitari e gli ospedali, le imprese e le organizzazioni, la pianificazione urbana ed i servizi, le migrazioni e lo sviluppo, pur potendo affermare che anche tutti gli ambiti citati costituiscono esempi di dispositivi, magari più soft, di governamentalità e disciplinamento degli individui e delle istanze politiche del cambiamento. Dunque, al di là delle difficoltà storiche di legittimità e statuto dell’antropologia applicata e del genericamente pericoloso e contaminante rapporto con le strutture del potere da parte dell’antropologo, l’accentuata dimensione passivizzante, disciplinante e deprivata di diritti e di senso che coinvolge i migranti per asilo inseriti nei circuiti dell’accoglienza sembra costituire il cuore del problema e scuotere il ricercatore sino alle fondamenta, mettendolo di fronte ad angosce e dilemmi che sembrano insanabili.

Sofferenti ma vivi

È proprio la cogenza e la violenza, sia manifesta che occulta, che il potere istituzionale mette in atto nell’incrocio perverso tra dimensioni assistenziali e umanitarie e dimensioni di controllo e repressione, che tanta letteratura sulla microfisica del potere, sul trattamento dell’umanità “in eccesso” e sulla logica dei campi ha evidenziato (Agamben 1995; Rahola 2003, 2005; Agier 2005; Fassin, Pandolfi 2010), a generare il cortocircuito dell’antropologia nell’accoglienza. Intendo dire che, su questo terreno «alternativamente repressivo e contenitivo delle mobilità umane promosso (…) dal raccordo tra stati, imprenditori morali, industria militare, ideologie e partiti xenofobi e nazionalisti» (Saitta 2017: 195), un forte conflitto etico, epistemologico e politico tra le diverse identità professionali e posizioni dell’antropologo, e il problema di come relazionarsi allo studio e/o alla partecipazione a questo sistema, sicuramente esiste. Questa sofferenza etica ed epistemologica così accentuata, se da una parte non fa che confermare empiricamente le analisi dei critici del potere governamentale e neo-liberista, dall’altra indica una strada che, se presenta un certo rischio di collaborazionismo acritico e appiattimento da parte dell’antropologo, contiene a mio avviso anche forti potenzialità di embeddedness nell’oggetto, di produzione di una coscienza critica e di nuovo protagonismo nello spazio pubblico. Il disagio che serpeggia tra gli chi, per scelta professionale e/o economica, assiste o partecipa a quell’incontro asimmetrico tra istanze repressive e istanze emancipatorie portate avanti dai diversi attori in gioco nei centri di accoglienza a me pare, infatti, qualcosa di prezioso, di fecondo: un risultato problematico e pieno di insidie, ma importante e precipuo, soprattutto quando implica una forte dialettica tra pratica e teoria, tra ciò che viene agito giornalmente e collettivamente nei centri (l’azione strutturante del dispositivo) e la capacità di distanziamento e di riflessione, autonoma o in interazione con altri studiosi, sulle proprie pratiche. A mio modo di vedere, gli antropologi che sono entrati nei centri di accoglienza e ci hanno lavorato ci stanno restituendo la complessità del trovare la “giusta distanza” tra la critica radicale e la “secessione” dal sistema, da una parte, e le istanze trasformative e contestatarie – o anche la momentanea “sussunzione” – agite dall’interno, dall’altra. Stanno, in sostanza, sperimentando l’esplorazione di quelle terre di confine tra voice, exit e loyalty tipica degli attori sociali attivi e dinamici, coinvolti contraddittoriamente in ciò che osservano e vivono, e proprio per questo non assoggettabili, oscillanti e continuamente riposizionati.

E poi, non fa in fondo parte del mestiere di antropologo e del suo percorso di immersione sul campo anche il dimenticarsi a volte della propria estraneità, il compartecipare delle realtà osservate e l’identificarsi a tal punto con ciò che si vive da perdere la propria equidistanza e freddezza “scientifica”, per poi magari riacquisire, in un gioco di va e vieni, un maggiore distanziamento critico? Non è proprio grazie all’empatia e alla condivisione dell’usuale, del routinario, che arrivano improvvisamente rivelazioni e squarci visuali inaspettati; non è proprio quel continuo entrare e uscire dal proprio campo di studio, quell’alternanza e interazione continua tra visioni in soggettiva e immagini in campo lungo che ha costruito il sapere degli antropologi di terreno e che a me pare uno dei movimenti epistemologici più interessanti dell’essere antropologo? Si tratta di un approccio conoscitivo che oggi, come antropologi del presente, possiamo praticare con ancora più coscienza e autorifessività di chi ci ha preceduto, grazie alla nostra condizione di post(eri). Proverò, a partire dalla mia esperienza, a fornire alcune ragioni che reputo importanti, sul piano conoscitivo come più propriamente politico, per continuare a studiare ed agire l’accoglienza, in quanto oggetto di analisi e snodo di militanza ineludibile.

Un campo minato, una miniera di campi

Tutto ciò che si muove intorno alla dimensione delle migrazioni per asilo e delle politiche di contrasto e poi di contenimento delle mobilità contemporanee è un aspetto di fondamentale importanza per osservare, interpretare e disvelare il presente, per cogliere il gioco ininterrotto di forze e di rifrazioni che attraversano oggi le relazioni interumane ai più diversi livelli. Consente di vivere dal di dentro le poste in gioco e le distopie del presente, forse sul terreno più sensibile, quello dello scontro tra le istanze e aspettative di libertà e mobilità delle nuove generazioni postcoloniali (Cutolo 2017) e la tentacolare e crudele governance globale e locale degli istituti di potere politico ed economico ancora egemoni. Attraverso il prisma dell’accoglienza, lo sguardo dell’antropologo potrà osservare l’azione della burocrazia e delle policy e le sue mille frammentazioni sul territorio, andando ad arricchire le teorie del potere e della dipendenza. Oppure proseguire a immergersi nell’interminabile dialettica tra struttura e agency e riappassionarsi all’idea del migrante come soggetto politico potenzialmente dirompente con le sue sottrazioni agli oppressivi ordini politici. Potrà posizionarsi al centro dei flussi del razzismo, delle questioni di diaspora e multiculturalismo, della proliferazione delle frontiere interne ed esterne; o piuttosto, empatizzare con le storie orali e di vita e le sofferenze delle vittime e dedicarsi ad una antropologia della marginalità e dell’intervento umanitario[2].

Nella mia personale, seppur breve e non contrattualizzata, esperienza di frequentazione dei centri di accoglienza[3], entrare in questi spazi e parlare con le persone ha realmente innescato un processo interno di comunicazione e riflessività che altrimenti mi sarebbe stato difficile sviluppare. Oltre a farmi condividere molte delle osservazioni riportate nel numero, tale processo mi ha permesso di espandere la mia coscienza critica e circostanziata rispetto, ad esempio, a concetti ed etichette come quelli comunemente adottate dalle policy, ma anche da molta scienza sociale, di “migrazioni forzate” e “flussi misti”, rompendo dal di dentro le linee di demarcazione e le regole definitorie di tali categorie.

Dalle storie di molti degli ospiti dei centri di accoglienza (in particolare dei subsahariani), si evince come le condizioni di vita prima della partenza fossero segnate da costanti difficoltà lavorative e finanziarie, da equilibri famigliari precari, dalla mancanza di uno stato di diritto che lascia indifesi contro ogni tipo di sopruso, da violenze intertribali, terroristiche, militari e criminali che possono colpire in qualsiasi momento, da minacce spirituali e materiali sempre in agguato. Si ha l’impressione parlando con loro che le loro (seppur brevi) esistenze trascorressero perennemente in bilico su possibili strapiombi, esposte e inermi nei confronti di episodi scatenanti più o meno gravi che, in soggetti già cosi fortemente precarizzati e insofferenti al proprio ambiente, innescano una lacerazione brutale e irreparabile con la vita vissuta fino ad un attimo prima. Sarebbe di grande interesse soffermarsi a riflettere meglio su questa sensazione che resta, ascoltando le loro storie, di fragilità esistenziale e di esposizione costante al rischio di arrivare al punto di rottura con il proprio ambiente di vita: improvvisamente il domestico diventa nemico, la relazione affettiva diventa oppressiva, i pericoli lontani diventano vicini, le soluzioni e gli accomodamenti passati si sgretolano completamente. Come per i contadini del meridione di demartiniana memoria, si scatena una “crisi della presenza” che sembra determinata anche dall’”affacciarsi sull’abisso del marasma culturale” (Signorelli 2015: 68), dall’irruzione irrelata del caos che rende impossibile continuare ad esserci e agire (D’Aloisio, Ghezzi 2016). Molti dei richiedenti che ho conosciuto erano in rotta col proprio universo culturale, con quella matrice di rapporti famigliari e sociali che li aveva, spesso più malignamente che benignamente, fatti crescere. In tal senso, le migrazioni sono sempre un po’ «forzate», ed i flussi sono «misti» non perché sullo stesso barcone ci siano migranti volontari e migranti forzati su cui bisognerà fare il necessario triage, ma perché molto spesso miste sono le motivazioni della partenza in ciascuno di loro[4]. Cercare necessariamente il trigger, esterno ed oggettivo, della migrazione per valutarne la veridicità e il grado di minaccia (ai fini dell’ottenimento dell’asilo), cercando di discernere tra fattori economici o di persecuzione, è perciò un esercizio (spesso perverso) delle policy[5], sul quale non possiamo colludere. All’antropologo spetta invece di addentrarsi nelle contraddittorie storie dei richiedenti asilo - in cui la partenza ed il viaggio rimbalzano tra coercizione e scelta, tra necessità ed opportunità, tra impossibilità e desiderio, tra fuga precipitosa e ambizione sedimentata, oppure più semplicemente traspirano improvvisazione - restituendo la irriducibilità delle persone a numeri e tipologie e la dimensione unica ed al tempo stesso collettiva delle loro storie.

D’altronde, come porsi rispetto alle storie dei richiedenti asilo e le loro “testimonianze”, non solo come operatori-antropologi ma come antropologi tout court, vale a dire da un punto di vista più propriamente epistemologico e di ricerca, anche quella svincolata da ruoli operativi? Mentre quasi tutti i contributi del numero si sono soffermati sulla difficile postura pratica dell’antropologo che deve mediare tra migrante e apparato rispetto alla raccolta della storia da cui dipenderà l’esito della domanda di asilo - e dunque deve costruire una co-conoscenza della singola vicenda cercando di trovare una collocazione terza ed utile tra richieste formali delle istituzioni e l’affermazione di istanze umaniste e inclusive - mi pare che non si sia sottolineato abbastanza un altro punto. La conoscenza antropologica intercetta persone la cui autorappresentazione è già fortemente intrisa di almeno due dimensioni, oltre che di quella riferibile al precedente contesto di vita: quella del viaggio, con i suoi eventi traumatici, la sua interazione con il sé e il suo carattere di “prova”, di soglia, di passaggio nello spazio-tempo; e quella già indotta e influenzata dal contesto di accoglienza e dalla cultura istituzionale del paese ricevente, con le sue richieste di uniformarsi a regole, codici e rappresentazioni di sé consone ad un “richiedente asilo”. Ci si confronta spesso, infatti, con storie stratificate, “contaminate” e ricostruite attraverso il percorso della migrazione e dell’accoglienza. Per l’antropologia delle migrazioni, abituata a “prendere sul serio i migranti” (Brettel 2008; Riccio 2014) ai fini della conoscenza dell’intero arco delle tematiche legate alla mobilità contemporanea, si tratta di comprendere come relazionarsi a testimonianze ed atteggiamenti in cui la posta in gioco dell’asilo – più in generale direi la condizione di migrante richiedente - è così alta e rilevante da far parte ormai dell’amalgama che compone la presentazione del sé (Goffman 1997). Dobbiamo cioè essere consapevoli che si tratta di frutti altamente impuri e difficilmente maneggiabili all’interno di un regime di “autenticità” e di “verità”. Per la nostra sensibilità cosi premurosa e attenta alla costruzione di saperi ed interpretazioni emico-etiche che tengano in conto le verità soggettive degli attori sociali ai fini della costruzione del quadro di insieme, si tratta di un bel rompicapo: come co-costruire con i propri soggetti di dialogo una interpretazione che superi o assuma adeguatamente il grande bias della procedura di riconoscimento della protezione e faccia i conti con la percezione che i richiedenti hanno di noi e del nostro (almeno potenziale) collegamento con gli attori dell’accoglienza e dell’asilo?

Rispetto alla dimensione che invece pertiene all’azione, cosa ci può offrire la presenza etnografica ed operativa all’interno del sistema dell’accoglienza?

Innanzitutto, come dimostrano le riflessioni di molti degli autori, la possibilità di giocare le proprie carte critiche e riflessive su un doppio livello: da una parte far fruttare il bagaglio teorico-empirico delle scienze sociali per demistificare le logiche istituzionali e sociali che reggono il sistema dell’accoglienza e più in generale la gestione della mobilità umana, per svelare le “istruzioni segrete” del sistema e i loro effetti concreti sull’ambiente circostante (ospiti, operatori e responsabili, istituzioni, territorio, società ed opinione pubblica); dall’altra, per analizzare come tali logiche politiche ed organizzative si incarnino e si frammentino poi in un caleidoscopio di situazioni contingenti, locali, nelle quali sono le persone a reinterpretare costantemente le proprie pratiche, non unicamente sotto il mantello invisibile e oppressivo della governamentalità che ne fa automaticamente pedine complici del potere. Anche se sotto il peso del luogo di “reclusione diluita”[6] in cui avviene l’incontro, è qui che la gran parte dei nuovi arrivati confluiscono, è qui che precipitano e si coagulano prevalentemente le interazioni sociali tra migranti per asilo e società italiana, e chi opera nei centri ha forse anche qualche margine di manovra per rendere questa permanenza un’opportunità[7]. Affrontando, a mio parere, due compiti politici di fondamentale importanza, che dovrebbero costituire gli obiettivi primari di una “buona accoglienza”. Il primo è aiutare i richiedenti, ma anche gli operatori, a prendere coscienza dei loro posizionamenti intrisi di condizionamenti esterni e delle loro relazioni sbilanciate, a prendere le distanze da certi automatismi e a socializzare e condividere i loro sentimenti discordanti e ambivalenti. Allo scopo di identificare la violenza simbolica e materiale del dispositivo istituzionale e, dove possibile, disinnescare il meccanismo passivizzante e vittimizzante, provocando invece percorsi di soggettivazione tra i migranti come tra gli operatori, nell’ottica di concorrere alla costituzione di “un soggetto sociale e politico capace di azioni e traiettorie di vita” (Pinelli 2017: 33).

Il secondo è quello di utilizzare, anche in questo caso ove vi siano le condizioni sufficienti, il posizionamento dei migranti nelle strutture per ampliare i loro livelli di partecipazione alle relazioni circostanti, per aprire il centro al contatto e all’interazione con il contesto limitrofo, attivando collaborazioni con strutture pubbliche e della società civile, promovendo relazioni di prossimità con il vicinato, impegnando i richiedenti in lavori socialmente utili anche minimamente retribuiti che possano allargare il consenso alla loro presenza nel quartiere e nel territorio. Gli ospiti possono andare e venire dai centri, possono visitare scuole, municipi, luoghi di lavoro per incontrare altre persone (anzi molti di loro lo desiderano), possono far sentire la loro voce nei circoli dei partiti, nelle strutture sociali e nei servizi, nei luoghi di aggregazione. Un centro ben posizionato sul territorio e gestito da persone consapevoli può agire proficuamente, anche all’interno del perimetro del capitolato prefettizio, per perseguire un proprio scopo, per operare controcorrente e, attraverso la permanenza nei centri, ricreare dal basso legami sociali di comunità, al fine di ripartire con un progetto alternativo di coesione sociale che usi i centri come luoghi di irradiamento e proiezione esterna, invece che di confino e abbandono.

In conclusione, l’antropologia pubblica e impegnata deve secondo me continuare a presidiare il sistema dell’accoglienza, certamente consapevole che in alcuni casi si potrà partecipare ad esperienze di grande valore, in altri si potrà scomparire (momentaneamente, si spera) nella mediocrità del contingente, in altri ancora ci toccherà fare un’”antropologia nei disastri” (Benadusi 2015). Si tratterà senza dubbio di un compito eticamente “impuro” e compromissorio ma applicativamente e epistemologicamente fecondo, anche se politicamente incerto e non esente da pericoli.

Ma vale la pena, a mio parere, correre questo rischio.

Bibliografia

Agamben, G. 1995. Homo sacer: il potere sovrano e la nuda vita. Torino. Einaudi.

Agier, M. 2005. Ordine e disordini dell’umanitario. Dalla vittima al soggetto politico. Antropologia, 5: 49-65.

Benadusi, M. 2015. Antropologia dei disastri. Ricerca, Attivismo, Applicazione. Un’introduzione. Antropologia Pubblica, 1:33-60.

Brettel, C. B. 2008. «Theorizing migration in anthropology: The social construction of networks, identities, coomunities and globalscapes», in Migration Theory, (eds.) C.B. Brettel, J.F. Hollifield. New York, Routledge: 97-135

Ceschi, S. 2014. «Risorse, frustrazioni e pratiche dell’antropologo nella ricerca policy oriented», in Antropologia applicata (a cura di), A. Palmisano. Lecce, Pensa Editore: 101-121

Colajanni, A. 2013. Qualche idea sul possibile futuro delle nostre antropologie. EtnoAntropologia, 1: 43-46.

Cutolo, A. 2017. Collaborare o rigettare? L’arcipelago dell’accoglienza e il “mestiere dell’antropologo”. Dibattito. Antropologia Pubblica, 3 (1): 201-207.

D’Aloisio, F., Ghezzi, S. 2016. «Lavoro, imprese ed orizzonti culturali in trasformazione. Per una prospettiva antropologica sulla crisi», in Antropologia della crisi (a cura di) F. D’Aloisio, S. Ghezzi. Torino. L’Harmattan Italia: 9-59.

Fassin, D., Pandolfi, M. 2010. (eds), Contemporary states of emergency. New York. Zone Books.

Goffman, E. 1997. La vita quotidiana come rappresentazione. Bologna. Il Mulino.

Pinelli, B. 2017. «Politiche, persone, immagini» in Dopo l’approdo. Un racconto per immagini e parole sui richiedenti asilo in Italia (a cura di) B. Pinelli, L. Ciabarri. Edit. Firenze: 25-90.

Rahola, F. 2003. Zone definitivamente temporanee: i luoghi dell’umanità in eccesso. Verona. Ombre Corte.

Rahola, F. 2005. Rappresentare gli “spazi del fuori”. Note per un’etnografia dei campi profughi. Antropologia, 5: 67-84.

Riccio, B. 2014. «Antropologia e migrazioni: un’introduzione», in Antropologia e migrazioni ( a cura di) B. Riccio. Roma. Cisu:11-20.

Saitta, P. 2017. Collaborare o rigettare? L’arcipelago dell’accoglienza e il “mestiere dell’antropologo”. Dibattito. Antropologia Pubblica, 3 (1): 195-201.

Scotto, L. 2017. «Le politiche di accoglienza e integrazione: un lungo percorso e una sfida necessaria», in Accoglienza e integrazione: il ruolo delle piccole e medie città (a cura di) M.E. Cadeddu, S. Nasso. Conferenza nazionale NCP EMN Italia, CNR edizioni, scaricabile all’indirizzo: www.dsu.cnr.it/wp-content/uploads/2014/09/Conferenza-EMN-atti-digitale-light.pdf

Signorelli, A. 2015. Ernesto de Martino. Teoria antropologica e metodologia. Roma. L’asino d’oro.

Sorgoni, B. 2011. Pratiche ordinarie per presenze straordinarie. Accoglienza, controllo e soggettività nei centri per richiedenti asilo in Europa. Lares Quadrimestrale di Studi Demoetnoantropologici, LXXVII (1):15-33.

Dibattito: Davide Biffi

L’operatore-antropologo nel sistema d’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati: tra conservazione e rivoluzione.

La domanda attorno a cui ruota il dibattito tra Saitta e Cutolo sull’ultimo numero di Antropologia Pubblica (2017) rimanda alla “solita” domanda: riformare il sistema dall’interno o distruggerlo? Collaborare o rigettare, appunto, come recita il titolo dell’articolo che ha dato il via al dibattito?

In questo articolo con cui mi propongo di entrare nel dibattito, parto da alcuni dati strutturali che mi sembrano necessari per inquadrare al meglio la questione e per tratteggiare e abbozzare un contributo. Tema a cui sto dedicando gran parte del mio lavoro e della mia ricerca di tesi prima nel 2011, e di dottorato ora.

La mia analisi parte dalla convinzione che la funzione del sistema d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati (sia esso Cas o Sprar) sia la gestione e il controllo di una parte dei flussi migratori. Sistema creato al fine di limitare i movimenti di una parte della popolazione mondiale attraverso varie forme di contenimento e disciplinamento dei corpi.

Tesi ampiamente sostenuta e descritta da una vasta e ormai datata letteratura di settore composta da moltissimi lavori di taglio antropologico, sociologico, filosofico. Su questo Saitta non solo è inattaccabile, ma è in ottima compagnia.

Una scienza onesta e, direi, anche un’opinione pubblica onesta, dovrebbero riconoscerlo senza ombra di dubbio e togliere il velo dell’ipocrisia del politically correct, ammettendo che «sì, il sistema socio-economico in cui viviamo limita la mobilità delle persone che provengono da ciò che chiamiamo sud del mondo e una parte della popolazione mondiale riduce le possibilità di autodeterminazione del resto del mondo attraverso dispositivi legislativi e disciplinari di varia natura al fine di evitare i loro spostamenti.»

Il sistema straordinario di gestione e accoglienza di richiedenti asilo (composto dai famosi Cas) e rifugiati è stato creato nel 2011 dall’allora ministro dell’Interno Maroni. Tale sistema emergenziale continua a esistere oggi a fianco del sistema ordinario (lo Sprar) e non sembra per nulla in declino[8]; anzi, i posti messi a disposizione nei Cas superano di gran lunga quelli del sistema SPRAR.

Tale modello di gestione delle migrazioni forzate è da analizzare nel solco delle politiche che da trent’anni a questa parte sono implementate in tutta Europa, caratterizzate appunto dalla chiusura delle frontiere, dalla limitazione alla circolazione dei cittadini extra europei e da una loro selezione all’ingresso. Il sistema d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati è quindi parte di un più ampio sistema che coinvolge operatori di polizia, umanitari e di altro genere nella gestione della popolazione migrante.

In questo lavoro di decostruzione e di restituzione di valore e forza alle parole, al non detto, ai loro significati, l’apporto dell’antropologia e dell’etnografia è fondamentale e tratto caratteristico irrinunciabile della nostra disciplina. Decostruzione e disvelamento sono azioni necessarie e fondamentali dell’approccio antropologico, alle quali l’antropologo non può sottrarsi.

Questo dunque per sommi capi è il contesto in cui nascono e vengono implementati i dispositivi di contenimento, controllo e gestione dei migranti. Questo lo scenario macro in cui ci situiamo; ovviamente l’analisi dovrebbe essere molto più complessa e sfaccettata, in questa sede mi si consentirà la semplificazione.

Farei un passo avanti aggiungendo un ulteriore elemento di contesto che va a sovrapporsi e intrecciarsi con il fenomeno oggetto di questo dibattito. In una fase storica contrassegnata dalla recessione economica (la crisi che viviamo ormai da quasi dieci anni) e da tagli e privatizzazioni del sistema pubblico e dello stato sociale (precedente alla crisi economica), uno dei pochi settori in espansione, in enorme espansione, è stato dal 2011 in poi tutto ciò che riguarda i servizi connessi a “richiedenti asilo e rifugiati”.

Le singole Prefetture e il Servizio Centrale (quindi, di fatto, il Ministero dell’Interno) erogano fondi per la gestione di servizi a favore di richiedenti asilo e rifugiati agli enti del terzo settore che realizzano i servizi di prima e seconda accoglienza a favore dei richiedenti asilo e rifugiati che si trovano sul territorio dello Stato.

Questi fondi sono i tanto citati e criticati “trentacinque euro”[9] che vengono riconosciuti agli enti che gestiscono progetti di accoglienza come contributo giornaliero per le spese vive. Di questi trentacinque euro ai migranti arrivano direttamente due euro e cinquanta centesimi al giorno, come pocket money. Il resto del denaro è – o dovrebbe essere - gestito dall’ente che ha in carico i soggetti al fine di garantire loro varie prestazioni. Servizi che sono elencati con una certa chiarezza e precisione nelle convenzioni che le Prefetture e il Servizio Centrale firmano con gli enti attuatori dell’accoglienza, che vanno dal vitto e alloggio, all’assistenza legale, medica, psicologica, alla formazione professionale, all’acquisto di abbigliamento, spese di trasporto, ecc; tutto ciò di cui una persona può avere bisogno.

Dal 2011 in poi è stato un fiorire e un moltiplicarsi di servizi sia di prima accoglienza che collaterali a favore di richiedenti asilo e rifugiati, proprio utilizzando quei fondi messi a disposizione dal Ministero degli Interni (e da altri fondi europei o fondazioni private). Quell’afflusso di capitali nel settore dell’accoglienza ha dato il via alla nascita e progettazione di numerosi servizi e interventi rivolti a questa popolazione target dell’intervento socio-assistenziale.

Aprendosi una nuova nicchia chiunque ha potuto inserirsi nel mercato, come molte ricerche hanno dimostrato (cito, solo a titolo esemplificativo, le due ricerche del Naga sull’accoglienza a Milano e provincia pubblicate nel 2016 e nel 2017). Si sono quindi cimentati nella progettazione e realizzazione non solamente enti con una preparazione e una tradizione nel lavoro con stranieri e rifugiati, ma anche enti del terzo settore che provenivano da ambiti di intervento totalmente altri (si pensi per es. ai gestori di residenze per anziani, centri di aggregazione giovanile, servizi per l’infanzia, centri per disabili, ecc.). Oltre a questi soggetti soliti alla progettazione sociale sono intervenuti sul mercato anche soggetti di altra natura, che avendo a disposizione immobili “fermi” sul mercato immobiliare o dell’ospitalità alberghiera hanno deciso di investire nell’accoglienza: è il caso di molti immobiliaristi e privati (ristoratori, albergatori, ecc.) che hanno messo a disposizione delle Prefetture i loro spazi.

Come ben sa chi lavora nell’ambito, non è sufficiente mettere a disposizione vitto e alloggio per garantire buone condizioni di accoglienza e non ci si può improvvisare enti gestori di un progetto d’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati.

Aprendosi questa fetta di mercato ampiamente sovvenzionata con soldi pubblici, c’è quindi stata una decisa virata del terzo settore verso l’attivazione di progetti dedicati a questo target. In questo modo i decisori politici hanno scelto di spostare risorse ad altre fasce di popolazione facendo arrivare stanziamenti sul settore rifugiati e richiedenti asilo. Si è alimentata così la falsa credenza che “non ci sono soldi per tutti” e che dare ai richiedenti asilo e rifugiati significa togliere a un’altra categoria di bisogno. Possiamo affermare invece che le priorità delle politiche pubbliche socio-sanitarie sono mutate ed è stato scelto deliberatamente di spostare risorse da un settore a un altro. Contemporaneamente sono state trasferite e delegate al terzo settore alcune funzioni di gestione e controllo dei flussi migratori in ingresso, attraverso l’implementazione di tale sistema di accoglienza e questa è forse la cosa più grave e taciuta.

L’antropologia – insieme alle altre scienze sociali - potrebbe offrire maggior risonanza e strumenti d’analisi al dibattito pubblico decostruendo la retorica che contrappone italiani e stranieri nella lotta all’accesso alle risorse del welfare statale, cercando di spiegare le diseguaglianze del sistema socio-economico in cui viviamo in termini strutturali e non etnici. Mostrare che il conflitto può essere letto in altre chiavi e non solamente in chiave etnica. Lo slogan sovranista “prima agli italiani” può essere tranquillamente fatto a pezzetti dagli antropologi per esempio raccontando che l’Italia spende ogni anno per le forze armate oltre 23 miliardi di euro (64 milioni di euro al giorno), di cui oltre 5 miliardi e mezzo (15 milioni al giorno) in armamenti. Una spesa militare in costante aumento (+21% nelle ultime tre legislature), che rappresenta l’1,4% del Pil nazionale mentre per l’accoglienza nel 2017 sono stati spesi circa 3 miliardi di euro[10].

Ecco quindi, nuovamente, un esempio del ruolo pubblico che può assumere l’antropologia e gli antropologi e l’importanza della funzione di decostruzione e narrazione della società in cui viviamo. Gli antropologi potrebbero dire molte cose e sviluppare riflessioni e dibattito pubblico sullo scivolamento dell’intervento del terzo settore, trasformatosi per certi versi in soggetto che implementa politiche di controllo e cura di richiedenti asilo e rifugiati.

I rifugiati sono diventati così il core businnes di tanti enti privati e pubblici; numerose carriere individuali (compresa quella di chi scrive) si sono potute sviluppare sulla base dell’esperienza maturata in questo settore di lavoro e ricerca.

D’altra parte – e qui inserisco un tema molto terreno e spesso taciuto, quasi un tabù – in qualche modo “bisogna campare. E gli antropologi[11] esauriti gli spazi accademici e di ricerca “classica” all'Università o in istituti di ricerca privati[12], hanno trovato uno dei pochi sbocchi lavorativi nel settore dell’accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo, spesso con grandi frustrazioni e difficoltà come diverse ricerche dimostrano (si veda, ancora, l’intero numero di Antropologia Pubblica del dicembre 2017, che offre una panoramica interessante di cosa significhi lavorare all’interno del sistema d’accoglienza per un giovane antropologo).

Si faccia attenzione: non era – e non è – inevitabile per i laureati nelle discipline antropologiche l’impiego nell’accoglienza ma era – ed è – tra le offerte di lavoro disponibili più coerenti con il percorso di studio e la formazione scelta[13].

Sto quindi affermando che la necessità di un reddito e di una collocazione lavorativa degli antropologi legittimi la partecipazione al sistema di cura e controllo dei richiedenti asilo e rifugiati (al banchetto, se pur accontentandosi di qualche briciola) che la letteratura socio-antropologica ha brillantemente decostruito e criticato? Quella letteratura affascinante fatta di “cattivi maestri”, che con grande ammirazione applaudiamo, ma nello stesso tempo critichiamo dicendo “eh, però...tu da lì puoi fare l’analisi... hai tempo, hai le spalle coperte”, delegando quindi la capacità e il bisogno di critica e la speranza di una riforma (se non di una rivoluzione, di un rivoltamento) a chi può permetterselo?

Per un certo verso sì. È forse banale e ingiusto evocare l’imborghesimento di chi, una volta avuto accesso ad una posizione salariale e professionale sicura, “scende dalla barricata” e punta a “sistemarsi”, ma non è possibile tacere anche questo elemento di contesto. Proprio perché sappiamo che la realtà è complessa, sappiamo anche che, a differenza di chi spesso dagli operatori dell’accoglienza è percepito “distante”, come può essere ciò che per semplicità definiamo “accademia” (alle prese con le relative contraddizioni del lavoro intellettuale), esistono degli spazi e sprazzi di manovra delle prassi quotidiane nel lavoro dell’accoglienza.

Sappiamo che lo spettro dell’imborghesimento, dell’adattamento e accettazione del sistema tout court non è inevitabile (che poi imborghesimento con lavori da mille euro scarsi al mese è tutto dire.). Sappiamo che gli antropologi (e non solo loro) all’interno del sistema d’accoglienza vivono e assumono quotidianamente su di sé la responsabilità delle contraddizioni del sistema in cui sono inseriti, cercando di attuare dei piccoli cambiamenti, forse non rivoluzionari, nelle micro prassi quotidiane di lavoro e interazione con i richiedenti asilo e i rifugiati.

Cutolo in questo passaggio che riporto rispondendo a Saitta chiarisce molto bene quanto precedentemente ho scritto: «è emersa un’attitudine ambigua, largamente condivisa, che intende il lavoro nei centri al contempo come una sfida, come una forma di impegno e come un modo di percepire un reddito. Un’attitudine in cui la dimensione politica si traduce in prassi individuali concrete, che si pongono in tensione con quelle previste dalle regole di gestione» (Cutolo 2017: 205).

Non si tratta quindi di essere dei medio progressisti o dei riformisti, ma di analizzare lucidamente dove e come la propria traiettoria biografica si inserisca nel contesto generale in cui ci si muove, si lavora, si fa politica: si vive.

Allora si vedrà che quegli “interstizi” che ritornano costantemente nel numero di Antropologia Pubblica ampiamente citato (Altin, Sanò 2017) li ritroviamo quotidianamente nel nostro lavoro con rifugiati e richiedenti asilo e offrono l’opportunità di cambiare non tanto il sistema (che quasi per nulla verrà scalfito dal lavoro del singolo antropologo-operatore), ma di agire concretamente sul piano micro e individuale delle singole nostre vite e di quelle biografie migranti che incontriamo nella quotidianità e che incrociamo sulla nostra traiettoria all’interno dei servizi presso cui siamo impiegati a qualunque titolo.

Nella prassi quotidiana di lavoro all’interno del sistema d’accoglienza rileviamo quindi lo iato esistente tra le norme e la loro applicazione. Questa distanza dalle norme è ampliata dalle pratiche quotidiane di lavoro, che prendono forma nell’interazione con i rifugiati e richiedenti asilo che incrociamo nei servizi in cui siamo impiegati. Quotidianamente osserviamo che le pratiche dei migranti eccedono gli spazi e il vocabolario della governamentalità a cui gran parte dell’analisi antropologica fa riferimento nel tentativo di spiegare e analizzare il funzionamento dei dispositivi di controllo e gestione dei migranti forzati. Lo sguardo antropologico, fatto di attente e precise analisi etnografiche, frutto di una presenza sul campo assidua e costante all’interno dei centri di accoglienza e dei servizi (l’osservazione partecipante tipica dell’antropologia) ci aiuta a chiarire questo passaggio.

Grazie alla presenza sul campo e nel campo, l’antropologo-operatore misura con mano come l’interazione tra operatori e accolti superi le analisi che vedono i richiedenti asilo come vittime costrette nel sistema-campo alla mercé dei poteri disciplinari che si applicano su di loro.

Il confine tra libertà e dipendenza, tra controllo e autonomia all’interno dei centri di accoglienza è labile e spesso messo in discussione dalle prassi quotidiane dei richiedenti asilo, degli operatori e degli altri attori coinvolti sul campo.

I richiedenti asilo vivono nella propria quotidianità e sulla propria pelle l’effetto di una serie di logiche e azioni frutto di una situazione atta a sorvegliare la loro soggettività e nello stesso tempo a prendersi cura di loro, attraverso il dispiegamento di un apparato umanitario fatto di svariate tecniche, pratiche e saperi.

Nonostante ciò, vivere in questo contesto per i richiedenti asilo può portare anche a essere protagonisti di alcuni atti di rivendicazione e non essere soltanto vittime passive del sistema.

Gli operatori si trovano spesso a colludere con gli ospiti nel trasgredire sia le regole che gli stessi centri di accoglienza si danno, che quelle previste dai livelli decisionali e politici che gestiscono il sistema d’accoglienza.

Gli esempi di micro-dinamiche che un attento sguardo etnografico può cogliere sottolineano dunque la parzialità delle analisi basate esclusivamente sulla passività e vittimizzazione dei richiedenti asilo. Analisi che risultano essere sbilanciate sullo studio del fattore repressivo e di controllo del fenomeno migratorio che perdono di vista l’azione del migrante che r-esiste quotidianamente e l’interazione con gli altri attori che si muovono nello scenario dell’accoglienza.

Il potere governamentale trova quindi un limite in questa malleabilità del sistema di accoglienza e nella discrezionalità degli attori coinvolti. Su questa soglia, si generano degli spazi di azione nei quali il migrante e gli operatori possono costruire delle possibilità teoricamente precluse ed impreviste (Biffi 2017) dai regolamenti.

I richiedenti asilo, negoziando bisogni e desideri con i vari attori dell’accoglienza, agiscono quotidianamente su quei poteri che hanno il fine di governare i fenomeni migratori sia a livello macro di sistema che micro nella loro quotidianità all’interno di centri d’accoglienza e nei servizi.

Dal 2011 in poi si è strutturato sul territorio nazionale un sistema d’accoglienza a macchia di leopardo che ad alti livelli di qualità e professionalità offerti da parte di numerosi enti e operatori, affiancava (e affianca) situazioni vergognose ed indegne di assenza di risposte e servizi adeguati, abbandonando al loro destino migliaia di persone che ancora oggi si trovano a pagare le conseguenze di questa condizione subita.

In questa situazione così frammentata proliferano dunque gli sprazzi di azione, i famosi interstizi attraverso cui, de facto, superare l’apparato di gestione e controllo dei migranti.

Tutti abbiamo in mente volti, nomi, storie di persone con cui abbiamo interagito all’interno del sistema, valicando i limiti di un apparato di gestione e contenimento dei migranti che definire poroso è dir poco.

Citando ancora il dibattito nel recente numero di antropologia pubblica Cutolo scrive:

Mi è venuta in mente, pensando a queste figure, la nozione di “profanazione” dei dispositivi elaborata da Giorgio Agamben (2006, 2008) (...) Quella che mi è sembrato di potere intravedere (o immaginare) nei resoconti dei laureati operatori, è una profanazione che si attua nel contatto con le vite dei richiedenti, restituendole a spazi di relazione e non di eccezione, di riconoscimento e non di controllo. Poiché, proseguendo l’argomentazione di Agamben, laddove non si riesca ad agire direttamente sul dispositivo per scardinarlo (e senza rinunciare ad operare, in ambito politico perché ciò avvenga), si può intervenire al suo interno per far deragliare le soggettivazioni che vi hanno luogo, con l’obiettivo di “portare alla luce quell’Ingovernabile, che è l’inizio e, insieme, il punto di fuga di ogni politica” (Agamben 2006: 35). In questo caso, l’autonomia dei migranti (Cutolo in Saitta-Cutolo 2017: 205-206)

Allora Saitta ha torto? Certo che no. Anzi, sarebbe auspicabile che le parole d’ordine fossero l’abolizione del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo e il superamento totale del sistema Cas e Sprar facendosi carico in termini programmatici di queste parole d’ordine.

Concordo con Cutolo però su un passaggio: il rischio della posizione di Saitta è quello di rendere impensabile ogni pratica militante dell’antropologia in questo contesto.

Contrastare attraverso il lavoro nei servizi: è un ossimoro? È l’eterna utopia dell’abbattimento del sistema da dentro?

La domanda che con forza chi lavora nell’ambito dovrebbe porsi, porre ai colleghi, ai committenti e agli “utenti” è se ai richiedenti asilo e rifugiati serve davvero questo sistema di accoglienza. Il problema, non secondario, è dove e a chi fare questa domanda, con chi ragionare su ciò e quando. In primis chiederlo agli accolti, certo, ma è necessario trovare anche un livello di condivisione e interlocuzione politico-decisionale, coinvolgendo gli operatori e poi i decisori. Sarebbe necessario farlo attraverso l’organizzazione di forum, campagne, stati generali dell’accoglienza, convegni, incontri in cui riflettere, dialogare e confrontarsi a voce alta. Creare occasioni di progettazione e di ripensamento del sistema d’accoglienza a partire dall’esperienza di chi lo vive quotidianamente: richiedenti asilo e rifugiati accolti e operatori.

Invece l’atteggiamento che mi sembra prevalere, anche tra chi è impiegato all’interno dei servizi per richiedenti asilo e rifugiati, è connotato da una logica emergenziale. Gli operatori sono spesso costretti a lavorare sempre e solo sulla quotidianità, facendo fatica a pensare al domani, schiacciati all’interno dei servizi pensando alle urgenze (o presunte tali) degli utenti e alla sostenibilità economica dei progetti. Figuriamoci il coinvolgimento dei richiedenti asilo!

Supervisioni e riunioni d’équipe sono spesso rare o sacrificate, relegate in tempi marginali e secondari del tempo-lavoro. Spesso mancano tempo e risorse per dialogare tra colleghi, per formarsi adeguatamente, per fare supervisioni e condividere il fardello che l’operatore porta sulle spalle. Di fronte alla sostenibilità economica del progetto si chiede agli operatori di fare équipe non pagate, magari nell’ora della pausa pranzo; si rimanda la supervisione o la si utilizza in maniera impropria o parziale, appiattendo il lavoro di supervisione a una richiesta di procedure corrette, di “cosa e come fare se...”. Si lavora spesso soli, lasciati a se stessi e alle proprie risorse, alla propria buona volontà. In questo modo qualunque idea progettuale si azzera, lo sguardo rivolto al futuro diventa un lusso e si rischia di annaspare evitando di annegare nell’eterna quotidianità dell’emergenza. Si depoliticizza completamente il lavoro cercando di riempirlo di tecniche e protocolli da seguire.

Quando lavoravo in un centro di accoglienza un accolto mi disse: «Non potreste dare in mano a me quei 35 euro al giorno che vi danno per tutto il tempo che starò qui? Sarei in grado di utilizzarli come meglio credo per i miei progetti di vita e non come voi decidete sia giusto per me».

Certo che si potrebbe, ma ciò presupporrebbe un cambio di gestione delle migrazioni prima ancora che di rivoluzione dei servizi socio-assistenziali. Ben pochi nell’Italia del 2018 hanno il coraggio di portare avanti una critica sul sistema di gestione e controllo delle migrazioni partendo da una revisione dell’attuale legge che regola la permanenza e l’ingresso dei migranti, la cosiddetta legge Bossi-Fini da cui derivano gran parte dei problemi odierni in cui ci troviamo a lavorare quotidianamente.

Fino a quando non saranno previste altre forme di ingresso legali in Italia e in Europa l’unica soluzione sarà quella di continuare ad arrivare attraverso vie illegali tentando una regolarizzazione che passa necessariamente attraverso il sistema di richiesta di protezione internazionale, quindi incontrando uno dei servizi rivolti ai richiedenti asilo e rifugiati. È innegabile che una rivisitazione delle leggi in materia di migrazione metterebbe in discussione anche un sistema economico ­ quello dell’accoglienza e dei servizi ad essa correlati - che si è consolidato dal 2011 ad oggi, mettendo a repentaglio anche molti posti di lavoro.

Mi viene alla mente, con le dovute proporzioni e differenze, il lavoro teorico e pratico fatto da Basaglia (1975) di decostruzione del sistema manicomiale e di gestione della “malattia mentale”, seguito dalla necessaria ricostruzione di un modello di gestione attraverso la sperimentazione e l’implementazione di un’alternativa, di un’utopia concreta. Basaglia rivoluzionò dall’interno quel modello di “trattamento” dei soggetti portatori di disagio e malattia mentale. Con grande fatica, scandalo e lavoro: ma lo fece, insieme a tanti altri colleghi. Basaglia e il movimento a lui legato si assunsero fino in fondo le responsabilità pubbliche e politiche di quanto stavano facendo. Qualcuno dirà “altri tempi”. Sì, altri tempi, ma ognuno è chiamato a vivere il suo di tempo e la sua scienza. L’antropologia e gli antropologi oggi hanno la possibilità di offrire pubblicamente i loro strumenti di lavoro a favore del dibattito sul fenomeno migratorio e non è possibile nascondere la testa sotto la sabbia.

Abolire questo sistema di gestione dei richiedenti asilo non vuole dire fare terra bruciata di ciò che di buono esiste ed è stato fatto (molto), ma significa costruire e pensare servizi alternativi partendo dall’analisi critica del sistema esistente, dei suoi limiti e delle buone prassi realizzate. E gli antropologi possono avere un ruolo centrale nello sviluppo di servizi rivolti non solo a richiedenti asilo e rifugiati, ma a tutti i migranti e i cittadini di qualunque nazionalità che vivono in Italia.

Questo è riformismo? È collusione con il sistema?

Fino ad ora questa operazione di analisi critica è stata fatta per lo più lavorando negli interstizi che il sistema ha offerto e offre a quanti hanno compiuto ricerche sul campo o a chi agisce come ricercatore-operatore.

Torniamo a noi, agli antropologi. Se l’antropologo impiegato nel sistema d’accoglienza si limiterà alla battaglia istituzionale per il riconoscimento della propria professionalità, se punterà all’assunzione ad un livello superiore rispetto all’educatore in quanto antropologo (“perché io ho studiato”), non farà altro che seguire un interesse corporativo abdicando al ruolo pubblico e politico che l’antropologia può avere. Sia chiaro, l’interesse corporativo ha una sua legittimità e un valore, ma non può essere l’unico orizzonte che guida le nostre pratiche e riflessioni. Oppure può esserlo, rinunciando completamente all’assunzione pubblica di responsabilità della nostra disciplina.

All’interno di un centro di accoglienza o in un servizio rivolto a rifugiati e richiedenti asilo un antropologo può fare e dire tanto. Può mettere a disposizione sia dei colleghi che degli accolti il suo sapere, la capacità di analisi e decostruzione per creare alleanze, per immaginare l’impensato, per dire il non detto, per superare il sistema d’accoglienza stesso. Questo non vale solo per l’antropologo, vale per chiunque lavori nel sistema d’accoglienza, per l’antropologo, però, ancora di più perché è portatore di un sapere specifico che gli consente di analizzare la realtà in una prospettiva critica.

In uno dei testi storici per i Refugee Studies, Imposing Aid, Harrel-Bond (1986) rimarcava la convinzione che la ricerca “sui” rifugiati debba essere utilizzata “per” i rifugiati. Aggiungo che la ricerca sul sistema d’accoglienza dovrà essere utile anche per gli operatori del settore (a tutti i livelli, da quello politico a quello operativo) intrappolati in un sistema che richiede un costante livello di riflessione teorica sulle prassi proprie e altrui.

Come coniugare le differenti esigenze degli attori che si muovono nello scenario e tradurre nella pratica quotidiana quel corpus teorico maturato nella riflessione sul proprio agire? Questa è la domanda principale che l’antropologo nel campo dell’accoglienza deve porsi, sia che stia conducendo una ricerca sia che stia facendo l’operatore dell’accoglienza.

Chiedersi costantemente quale debba essere il suo posizionamento personale e il ruolo del sapere antropologico, sia all’interno dei centri di accoglienza e dei servizi per i richiedenti asilo, ma anche quale debba essere il ruolo pubblico della disciplina di cui è rappresentante.

Cosa abbiamo da perdere? Un lavoro precario, male o discretamente pagato, che assorbe le nostre giornate, feste comprese, i nostri pensieri, le nostre forze, le nostre vite private. Certo, sempre un lavoro è, e l’appagamento dei propri bisogni e desideri in qualche modo dovrà essere garantito o rimesso in discussione. L’ignoto fa paura, così come l’assenza di salario.

Un discorso che spesso ho dovuto affrontare con amici e colleghi coinvolti come me nell’ambito dell’accoglienza è stata quella del “se non lo facciamo noi”. La tesi che mi viene proposta è che sia comunque meglio essere nel sistema che starne fuori. Esserci in maniera critica e costruttiva, evitando di limitarsi ad una sterile polemica dall’esterno. Perché qualcuno farebbe comunque questo lavoro, mi viene detto, quindi tanto vale che lo faccia qualcuno che ha una formazione, un approccio critico, consapevole, onesto al problema. Spesso amici e colleghi mi dicono: “se non lavoriamo noi nell’accoglienza, noi militanti, che abbiamo studiato, che siamo onesti, che siamo dalla parte dei migranti, allora qualcun altro prenderà il nostro posto e chissà da quali ideali o interessi sarà mosso”. E concludono dicendo “È inevitabile sporcarsi le mani”.

Come uscire da questa impasse? Limitarsi alla critica “da fuori” può essere sterile, ma accettare supinamente il sistema abdicando alla funzione politica e pubblica è altrettanto discutibile. In questo senso il riferimento all’azione di Basaglia mi sembra un orizzonte, un modello a cui ispirarsi cercando di assumersi la complessità delle situazioni in cui siamo implicati.

Come attuare pratiche di accoglienza critiche e con modelli alternativi è quindi la sfida quotidiana che l’antropologia sta raccogliendo all’interno del sistema d’accoglienza. O si vince tutti insieme o perdiamo tutti. Sfida quotidiana che chi lavora a vario titolo nell’accoglienza vive già ogni giorno. Quotidianità fatta di continue negoziazioni, battute di arresto, scatti in avanti, cadute rovinose, frustrazioni, piccole e grandi soddisfazioni che contraddistinguono il lavoro sul campo.

Ritorniamo quindi da dove siamo partiti; collaborare o rigettare?

“Di lotta e di governo” può essere la proposta. La storia ci insegna però che spesso la “presa del palazzo d’inverno” non porta i frutti sperati. L’istituzionalizzazione, la digestione e la neutralizzazione delle istanze più rivoluzionarie da parte del sistema è altamente probabile; penso valga la pena correre il rischio, comunque.

Bibliografia

Altin R., Sanò G. 2017. Richiedenti asilo e sapere antropologico. Una introduzione. Antropologia Pubblica, 3: 7-34.

Arendt H. 1951, [1948]. Le origini del totalitarismo. Milano. Feltrinelli.

Basaglia F., Ongaro F (a cura di), 1975. Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione. Milano, Baldini Castoldi Dalai Editore.

Biffi D, 2017. «Fra controllo e abbandono: etnografia da un centro di accoglienza» in Confini d'Europa. Modelli di controllo e inclusioni informali (a cura di) C. Marchetti, B. Pinelli B. Milano. Raffaello Cortina Editore: 135-162.

Fana, M. 2017. Non è lavoro è sfruttamento. Bari. Laterza.

Medici Senza Frontiere, 2016. Fuoricampo. Report scaricabile all’indirizzo: http://fuoricampo.medicisenzafrontiere.it

Naga, Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti onlus, 2016. (Ben)venuti. Indagine sul sistema d'accoglienza dei richiedenti asilo a Milano e provincia. Milano. Scaricabile dal sito www.naga.it

Naga, Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti onlus, 2017. (Stra) ordinaria accoglienza. Indagine sul sistema di accoglienza dei richiedenfi asilo a Milano e provincia. Milano. Scaricabile dal sito www.naga.it

Saitta P., Cutolo A. , 2017 Collaborare o rigettare? L’arcipelago dell’accoglienza e il “mestiere d’antropologo”. Antropologia Pubblica 3: 195-207.

Ventura, R. A. 2017. Teoria della classe disagiata. Minimum Fax. Roma



[1] Intendo in realtà con questo doppio termine tutte e tre le possibili declinazioni di antropologia: quella operata “in proprio” dall’operatore di formazione antropologica, quella applicata alla risoluzione e all’intervento migliorativo, infine anche quella di tipo accademico, nella misura in cui per entrare nei centri della prima accoglienza è spesso necessario farsi assumere o comunque armonizzarsi con l’organizzazione e l’organico della struttura.

[2] E non è solo l’antropologia, naturalmente, che potrebbe trovare un forte interesse a questo tipo di applicazione.

[3] Durante una ricerca svolta per la World Bank nel periodo di febbraio-marzo 2017 ho potuto frequentare quasi quotidianamente per circa un mese e mezzo diversi centri dell’area romana per condurre alcune decine di interviste e di focus group con richiedenti asilo di provenienza africana. Ho poi avuto successivamente occasione di poter tornare a visitare delle strutture di accoglienza, seppur più episodicamente, durante altri due progetti ancora in corso.

[4] La categoria di migrazione forzata, per quanto utile analiticamente ed operativamente (Sorgoni 2011), se riferita unicamente ai motivi della partenza comporta un travisamento della complessità delle migrazioni dell’oggi. Può invece essere utilmente recuperata ed utilizzata se riferita al più complessivo regime migratorio: non unicamente al motivo della partenza, ma anche sull’induzione a cercare forme di mobilità, di viaggio e di entrata nello spazio europeo forzatamente irregolari, rischiose e degradanti operata dai meccanismi di contrasto alla migrazione legale ed illegale.

[5] Naturalmente esistono luoghi da cui si fugge a causa di conflitti dichiarati e devastanti (Siria, Afghanistan, Iraq, Sudan e Sud Sudan, la stessa Libia) o situazioni di conflittualità più o meno striscianti, repressione e autoritarismo per cosi dire quotidiani (Egitto, Eritrea, Etiopia) in cui i tratti di una migrazione non economica sono più chiaramente rinvenibili.

[6] Faccio qui riferimento alla definizione di un giovane antropologo e operatore citata da Cutolo (2017).

[7] Non si intende con ciò sostenere che tutto quel che viene fatto a livello istituzionale sia negativo. I protocolli di intesa attivati tra Ministero dell’Interno e Confindustria (per tirocini ed inserimento lavorativo), con la Conferenza dei Rettori (borse di studio per percorsi di laurea e dottorali) e con il Coni (attività sportive/integrative) costituiscono, almeno sulla carta, iniziative dagli impatti positivi sui percorsi degli ospiti. Si veda Scotto Lavina 2017.

[8] Cas, Centri di Accoglienza Straordinaria Sono i centri di accoglienza emergenziali, pensati per sopperire alla mancanza di posti negli Sprar. Sono allestiti localmente dalle Prefetture, che di norma ne affidano la gestione a cooperative e associazioni. Negli ultimi tempi, i Cas accolgono soprattutto richiedenti la cui domanda di asilo è ancora in corso di esame. Sprar, Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati È la rete pubblica dei centri di accoglienza ordinari distribuiti sul territorio. Il sistema è coordinato a livello nazionale dal Servizio Centrale (organismo che fa capo all’Anci), e localmente dai Comuni aderenti alla rete. Di norma, i Comuni delegano la gestione dei singoli centri a cooperative o associazioni

[9] La quota pro capite che ogni singola Prefettura riconosce agli enti dell’accoglienza varia in base ai bandi di ogni singola provincia, quindi trentacinque euro è una cifra media.

[10] http://sbilanciamoci.info/spese-militari-litalia-fila/

[11] In un’accezione ampia intendo tutti coloro che hanno almeno una laurea magistrale nella disciplina

[12] Sulle trasformazioni del mondo del lavoro si vedano due recenti libri generazionali: Fana 2017; Ventura 2017.

[13] Non è necessario fare l’antropologo per esserlo: l’antropologo può anche fare il netturbino, il manager, l’apicoltore: ciò che si fa non corrisponde necessariamente con ciò che si è, spero.