Dibattito: Collaborare o rigettare?

L’arcipelago dell’accoglienza e il “mestiere d’antropologo”

Giulia Consoli

Università di Bologna

Davide Falcone

Università di Modena e Reggio Emilia

Giulia Tabone

Antropologa free lance

Table of Contents

Dibattito: Giulia Consoli e Davide Falcone
Dubbi pre-esistenti e co-esistenti: il non isolamento dell’antropologo
Family-home o struttura all’avanguardia?
Quando manca il tempo per fare i noi stessi: meri esecutori, robot e mobiletti
Collaborare al beneficio del dubbio
Bibliografia
Dibattito: Giulia Tabone
Un’équipe di antropologhe
Rimanere in equilibrio
Bibliografia

Dibattito: Giulia Consoli e Davide Falcone

Dubbi pre-esistenti e co-esistenti: il non isolamento dell’antropologo

Inserendoci a dibattito ampiamente avviato e sviluppato nelle sue dimensioni e direzioni teoriche e ideologiche, ci piace l’idea di contribuire con un tentativo di riflessione sulle pratiche che ci hanno visti coinvolti in un cosiddetto CAS, tra giugno e settembre 2017, con i cui membri tutti (più o meno residenti[1]) siamo tutt’oggi in contatto e, a volte, collaborazione.

Non eravamo presenti al Convegno di Trento, che ha il merito di aver dato inizio e spazio a questo dibattito, ma abbiamo avuto la possibilità di assistere alla presentazione del volume di Altin, Mencacci, Sanò e Spada al Convegno 2017 a Catania, dove, lo stesso Saitta, ha esternato le proprie perplessità, riecheggianti con quelle espresse nel suo contributo.

Davide, al secondo anno di magistrale, ha iniziato a lavorare nel CAS in questione in giugno 2017, pochi giorni dopo la sua apertura. Recatosi, con una vaga intenzione di ricerca per tesi, ad un flash-mob di Forza Nuova fuori dall’edificio, incontrò due operatori e responsabili della struttura, scambiandoli per agenti della Digos. Chiariti i malintesi e apertasi una finestra di dialogo manifestò la sua idea di voler approfondire la questione per la tesi magistrale. Davide, infatti, abitante del quartiere dove è sorto il centro, aveva già fatto ricerca, in sede triennale, proprio su quel luogo, allora adibito ad altre attività di tipo sociale. In concomitanza con le sue iniziali riflessioni riguardo la tesi magistrale alla fine del primo anno di corso, tra le quali l’interessamento a cosa ne fosse poi stato del luogo di ricerca precedente, fu aperto, in modo improvviso, il CAS. Si era dunque recato sul luogo senza consultare particolari professori e senza una piena e precisa idea, interpellato sia in quanto studente/ricercatore sia in quanto abitante. Manifestata la sua curiosità di ricerca al responsabile della struttura, che evidentemente lo aveva osservato mentre interagiva con gli ambienti e i residenti, fu subito preso in contropiede: «Te la cavi bene con loro. E parli bene l’inglese! Saresti disponibile ad essere assunto come operatore?» (Luca, giugno 2017).

Giulia, ora dottoranda, al tempo neolaureata magistrale in attesa per le graduatorie dottorali, ha iniziato a lavorare nel progetto[2] alcune settimane più tardi. L’équipe aveva infatti bisogno di nuovi operatori sulla città in modo piuttosto rapido e a Davide fu richiesto se per caso avesse nomi da indicare. Grazie ad una vaga conoscenza per la comune frequentazione di un gruppo artistico cittadino e, forse nella speranza di avere un supporto e una condivisione di tipo antropologico, tanto nel lavoro quanto per dubbi di ricerca, fu indicata Giulia. Lei, con qualche titubanza, poiché a conoscenza della letteratura etnografica che descriveva centri del genere, e con marcato scetticismo (e snobismo), decise tuttavia di accettare in considerazione di diversi fattori: la curiosità, e la sfida forse, di sperimentare in prima persona il lavoro in queste realtà, i dubbi legati al proprio futuro post laurea, il contratto iniziale di soli due mesi e, soprattutto, la presenza di un viso, seppur vagamente, noto e la condivisione, per quanto diversificata, di un certo qual approccio.

Per queste considerazioni non ci sentivamo di «espletare il mestiere d’antropologo» come evocato da Saitta (2017: 195): Davide non aveva ancora acquisito un corpus teorico di conoscenze ed esperienze sufficiente per definirsi tale e Giulia non era retribuita né interpellata in quanto antropologa[3]. Allo stesso tempo non eravamo “operatori di mestiere”, perché mancanti di un know how in questo tipo di servizi e in quanto non condividevamo in toto con altri l’urgenza del «bisogna campare» evocata da Biffi (2017: 11), che sembra comunque essere una esperienza comune di tanti operatori sociali, antropologi e non. Ci muovevamo quindi anche noi su quei «confini sfumati» (Cutolo 2017: 201) che non sembrano dividere così nettamente il mondo dell’accoglienza da quello dell’antropologia.

Cammelli fa notare, in uno dei saggi del numero di Antropologia Pubblica in questione, come ci siano almeno due aspetti che li accomunano: «in entrambi i contesti si parla di relazione e di persone» (2017: 118). È forse questo il confine sfumato su cui ci siamo mossi: siamo stati assunti perché identificati come persone interessanti dal responsabile della struttura e, essendoci ritrovati non imbrigliati nelle catene di un ruolo predeterminato ma in uno spazio fluido, abbiamo potuto agire come persone interessate a restituire relazionalità a luoghi e rapporti, scoprendo così che questo tipo di sensibilità non era affatto una peculiarità, e una preoccupazione, solo nostra: «può anche darsi che noi, come cooperativa, dovremo prendere atto del fatto che non c’è più spazio per il nostro modo di agire, in quest’area» si chiese a gennaio il responsabile del progetto, riflettendo sul cambio di scenario politico che stava emergendo, con una prefettura che si ricollocava sul controllo dopo la fase dell’“accogliete”, vedendo restringersi lo spazio per muoversi con creatività (Luca, gennaio 2018).

Il piccolo paradosso che sembra emergere è che il nostro contributo, non essendo inquadrato come antropologico, ha forse potuto muoversi più antropologicamente, se con questo si intende una pratica di riflessione sui dispositivi e di riflessività sulle proprie azioni e interazioni. Inoltre, forse perché meno ideologicamente orientato, ha potuto trovare insperati alleati. Se per Davide quella che avrebbe potuto essere vissuta come una “tradizionale” esperienza di campo è presto scivolata in una più complessa esperienza nel campo e per il campo, per Giulia quella che poteva essere vissuta come esperienza lavorativa è presto scivolata in «esperienza-e-basta» (Piasere 2009: 65). In tutto ciò, il presunto “isolamento dell’antropologo” è invece stato una condivisione, con tutti, degli spazi, dei tempi e dei dubbi quotidiani: passando anche per le questioni più veniali, e banali, di (stra)ordinaria convivenza.

Family-home o struttura all’avanguardia?

Pochi giorni dopo l’apertura del CAS i giornali locali parlavano di «asilo abbandonato» e di «un nuovo mini-hub» e, con queste lenti, la struttura poteva certo essere catalogata tra uno dei tanti «camps», «nonluoghi» (Augé 1993), dispositivi che catturano i richiedenti asilo – e chi ci lavora dentro – durante il loro percorso (Sbriccoli 2017)[4]. Tuttavia, nell’espressione “via Merano”, quella più frequentemente utilizzata da operatori e abitanti per riferirsi al temporaneo luogo di vita e lavoro, era presente una nota di famigliarità, di affetto per gli ambienti che avevano acquisito, giorno dopo giorno, una loro identità. Questa si manifestava talvolta nell’uso di maison o di family-home da parte di chi frequentava di più il centro. Durante i giorni concitati della chiusura della struttura, per decisione prefettizia, Mohamed, il custode, disse a Davide: «mi manca via Merano, mi manca … vieni, facciamo un caffè?» e poi proseguì, ridendo malinconicamente mentre si avviavano verso la cucina: «i ragazzi dicono: no, noi non spostiamo. E tu devi rimanere qua con noi» (gennaio 2018).

A rafforzare il senso di comunità e di appartenenza al luogo contribuì forse la nostra proposta, due mesi dopo l’apertura, di sperimentare “riunioni generali” molto simili a quelle che descrive Cammelli (2017) nel suo saggio. L’idea fu quella di organizzare un momento comune di confronto «per parlare, per avere uno spazio sia per noi che per loro per dialogare», spiegò Giulia nell’incontro settimanale d’équipe (agosto 2017). Questa proposta fu accolta positivamente dagli abitanti della struttura, alcuni dei quali confermarono che uno spazio di quel tipo poteva permettere di avere collaborazione, e dal responsabile politico che, lasciatosi stimolare, ci suggerì di «fare di tutto per difendere quello spazio lì» o «ancora meglio si può, se c’è tempo, partire a chiedere loro come lo vedono questo spazio […] magari emergono già da loro le cose che noi diciamo» (Luca, agosto 2017).

Tutti i precedenti momenti di comunicazioni generali si erano infatti svolti nella sala da pranzo, con gli abitanti del centro seduti ai tavoli e i responsabili, gli operatori e gli eventuali mediatori in piedi di fronte a loro. Posizioni che separavano in modo netto i ruoli e sembravano le più funzionali per «far passare il nostro messaggio», come suggerì una volta la responsabile tecnica (Barbara, luglio 2017). Questo tipo di gestione delle comunicazioni ci aveva sempre lasciati perplessi per la reciproca esclusività e asimmetria. Quello che ci proponevamo era invece, per quanto possibile, di «fare e disfare i gruppi» (Bourdieu 1988: 121) con un fare insieme che potesse dissolvere l’io in un noi[5], puntando sulla condivisione non solo di momenti di convivialità – come partite di calcio o pranzi, momenti ai quali era prassi comune per noi e altri operatori partecipare – ma anche di momenti più strettamente lavorativi come, ad esempio, progettare una riorganizzazione del giardino della struttura, organizzare pulizie o possibilità di trasferimento in appartamenti, scambiarsi reciprocamente informazioni su luoghi, eventi e servizi presenti in città. Il confronto ha significato a volte anche ri-prendersi la responsabilità di ruoli che invece si volevano evitare: nell’organizzazione dei turni di pulizie per esempio nessuno di noi due aveva intenzione di reiterare modalità organizzative preesistenti come quella di scrivere, da parte degli operatori, turni e giorni a cui gli abitanti della struttura avrebbero dovuto attenersi. Sollevata tuttavia, da parte di alcuni abitanti del centro e dei responsabili, la necessità di una maggiore pulizia ed ordine degli ambienti, la questione fu condivisa nella riunione generale settimanale[6]. Se entrambi suggerimmo che, per questa necessità, ci si sarebbe potuti autonomamente organizzare in turni, alcuni degli abitanti furono fortemente contrari. Ritenendo che l’organizzazione sarebbe divenuta causa di conflittualità e insoddisfazione, visto il loro numero (una cinquantina di persone), le diverse lingue e abitudini, ci chiesero il favore che fossimo noi, Giulia e Davide, in quanto persone con le quali avevano una relazione, a proporre dei turni e delle modalità organizzative: «You people you should do this. Cause if we do that, there would be arguments. If you can do it, it’s better» (Idowu, luglio 2017). Questi gruppi servirono dunque anche a ri-riempire i nostri ruoli e ad insegnarci che una stessa pratica poteva assumere molteplici significati a seconda di come ci si posizionava per osservarla e valutarla perché, come ricorda Cornwall, «il dominio, come la sottomissione, dipende comunque dalle situazioni: differentemente compreso e continuamente ri-valutato e messo in discussione» (2007: 171).

Le nostre azioni quotidiane e il luogo in cui lavoravamo, posizionati all’intersezione di interessi di più attori, hanno certo assunto spesso un carattere contradditorio o forse, più semplicemente, multi-dimensionale. Se con questo tipo di pratiche ci sembrava infatti di promuovere dal basso lo svilupparsi di sensibilità relazionali attente a diversi posizionamenti e modalità di dialogo, erano proprio queste stesse pratiche che, rafforzando la comunicazione interna, le interazioni con il territorio circostante e abbassando spesso il livello di conflittualità, potevano essere lette e interpretate positivamente dall’organo di governo, trasformando “via Merano” in una “struttura all’avanguardia”. Fu la responsabile tecnica che lo annunciò a Davide con una chiamata telefonica pochi giorni dopo la fine del suo contratto:

stamattina Luca era in prefettura per la riunione in cui si riuniscono prefettura, enti gestori e comune e la prefetta ha detto pubblicamente che via Merano è una struttura all’avanguardia mentre gli altri hub dovrebbero chiudere domani. Purtroppo dovrà chiudere perché non ha la destinazione d’uso ma hanno avuto solo riscontri positivi dal territorio (Barbara, agosto 2017).

Senza essere stati captati e mutuati in sorveglianti (Saitta e Cutolo nel dibattito) stavamo comunque operando anche nell’interesse dell’organo di governo.

Quando, per ragioni di ricerca, Davide si recò in prefettura chiese allora cosa significasse l’espressione “struttura all’avanguardia”:

vengono pensati vari “range” di accoglienza e il livello più basso è quello che garantisce vitto, alloggio e beni di prima necessità. La prefettura ha stipulato con tutte le cooperative delle convenzioni in cui è precisato quali siano i servizi che vengono richiesti. Via Merano è stata una struttura che ha garantito qualcosa di ulteriore rispetto al range più basso ed è per questo che è stata una struttura elogiata dalla prefetta. Per servizi ulteriori vengono intesi tutto ciò che riguarda una relazionalità con i beneficiari volta a spiegare loro gli usi del luogo in cui sono arrivati, una spiegazione di contesto, la scuola di italiano – fondamentale per integrarsi successivamente nel tessuto sociale – e l’organizzazione di attività di volontariato. Ad esempio per via Merano si era pensato con Luca, visto che c’è un parco lì vicino, che si potesse sfruttarlo per fare un’opera di manutenzione. Perché questi sono progetti che hanno una grande efficacia, perché rendono simpatico il richiedente asilo alla popolazione (gennaio 2018).

Da “non-luogo” questi spazi erano diventati, etnograficamente, allo stesso tempo tanti luoghi: posto di lavoro, posto di vita, family-home, struttura all’avanguardia, ecc.

Questa possibilità manipolatoria non ci stupì e non deve sicuramente essere ignorata. La relazionalità cui faceva riferimento il funzionario prefettizio era molto diversa da quella che avevamo agito: nell’assenza di informazioni precise di quello che era stato il vissuto di quei mesi, le nostre pratiche erano state ri-collocate in “progetti che rendono simpatico il richiedente asilo” e i nostri ruoli ri-riempiti, con un significato e con azioni ben lontane rispetto a quelle effettivamente messe in campo (l’opera di manutenzione del parco, per esempio, era stata fortemente “rigettata”). Gruppi e rappresentazioni, da questa prospettiva distante, con le loro pre-assegnate e asimmetriche posizioni, sembravano non essere stati scalfiti dal nostro agire, e nemmeno l’apparentemente unica pensabile “successiva integrazione”. Sia nello sguardo della prefettura, sia nella lettura di Saitta (2017: 195), questo sembrava uno dei luoghi che «anche nelle forme “morbide” vanno intesi come parte di quel complesso alternativamente repressivo e contenitivo». Questa prospettiva di lettura, pur essendo valida ed importante, non è tuttavia l’unica, né vediamo come, rendendola teoricamente forte o egemonica, potrebbe contribuire in modo costruttivo – o distruttivo – in queste complesse realtà. La reazione potrebbe forse passare invece attraverso un tentativo, altrettanto efficace, di argomentazione del perché anche così non va bene, del perché quella può anche non essere considerata una “struttura all’avanguardia”. Piuttosto che un rifiuto aprioristico a esserne anche minimamente parte, col rischio di finire comunque, gioco forza, per esserne in qualche modo partecipi, è forse pensabile uno spazio per un collaborare, come forse suggeriva Biffi (2018), con il coraggio di spingere in continuazione il tutto al rigetto.

Quando manca il tempo per fare i noi stessi: meri esecutori, robot e mobiletti

A differenza di quanto sembra sostenere Sbriccoli, che nell’accoglienza l’operatore si ritrova ad agire necessariamente «come un poliziotto, un amico o un baby-sitter» (2017, 151), nel nostro caso l’equazione personale da risolvere era quella che vedeva da un lato la possibilità di “fare i noi stessi” che si scontrava però con il vincolo di un’apparente e costante mancanza di tempo e di energie per mettere in campo al meglio le proprie capacità. In una recente supervisione antropologica (uno degli esiti inattesi del nostro collaborare) Giulia ricordava:

ho notato come il mio lavoro sia cambiato nel corso dei mesi: il fatto che nessuno mi abbia spiegato come e cosa fare mi ha dato la possibilità di fare quello che pensavo di fare. Tuttavia pur con un background antropologico mi sono resa conto che le mie 25 ore settimanali finivano il mercoledì. […] Dopo un mesetto che ero lì ho notato come la retorica essenzialista stava agendo su di me (maggio 2018).

Spesso vivevamo infatti un’empasse data da un lato dal sentire di voler restituire relazionalità a luoghi e persone, spendendo più tempo possibile in comunicazione con le persone con cui lavoravamo – fossero abitanti della struttura, colleghe/i e, quando possibile, altri abitanti del quartiere – e, dall’altro, dal fare i conti con giornate di lavoro che si dilatavano costantemente per la mancanza di procedure e per la quantità di richieste di azione/spiegazione. Questo provocava in noi, come – e lo sottolineiamo – in molti altri operatori, una sensazione di disagio perché spesso si tendeva a scegliere quasi automaticamente, o come diceva Alice "inconsciamente", la soluzione più semplice. Questa passava per una rimozione della relazione con l’altro, prendendo le decisioni “al posto di”, evitando i momenti di relazionalità:

Mi sento un robot al quale vengono affidati solo incarichi meccanici e non c'è mai un riconoscimento quindi ti scende la catena. Io ero contentissima quando sono stata assunta, pensavo sarebbe stata una grandissima occasione per me, di crescita. Invece ora mi rendo conto che non è questa la vita che voglio fare. E qui mi sento inutile, non servo. […] Non riesco a capire cosa ho fatto. Sono contenta vedendo che le cose effettivamente funzionano meglio ma non riesco ad attribuirmi alcun merito. La mia autostima è zero e quindi questo so che si riflette negli ambienti in cui mi muovo perché non mi viene riconosciuto niente. Non è che voglia riconoscimento però non vengo mai cagata, sono ignorata e questo alla fine ti fa scendere la catena. Quindi da qualche parte è umano che devi togliere e inconsciamente togli dalla relazione con i ragazzi. Quindi se stai facendo un accompagnamento preferisci rimanere quella mezz'ora in silenzio in macchina e se sei in ufficio e non hai niente da fare eviti di uscire (Alice, settembre 2017).

La rimozione della relazionalità, agevolata da meccanismi essenzializzanti, poteva essere notata soprattutto nella gestione dei trasferimenti, che comportavano la costruzione di un “gruppo appartamento”. Se nei primi mesi era stata da noi affrontata condividendo in toto le effettive disponibilità di appartamenti, gestendo e decidendo insieme agli abitanti della struttura i gruppi di futuri conviventi e i progressivi spostamenti, dopo il nostro licenziamento, vuoi per mancanza di tempo, capacità di gestione o non condivisione della prospettiva, i trasferimenti tornarono spesso a essere organizzati in modo arbitrario da parte dell’equipe operatori, provocando scontento e tensione tra abitanti della struttura nonché tra alcuni degli operatori stessi.

Quando la struttura di via Merano venne chiusa e il luogo di vita e lavoro si trasferì in modo repentino in un hotel della città, fu la chiusura di molti canali comunicativi a creare forti disagi. Idowu urlava così con i nuovi operatori: «Seriamente sono infastidito! Tutte le volte che c’è un trasferimento dite prafattura, prafattura! Chi è prafattura? Sono umani? Chi è prafattura? Wumabi? È uno spirito?» e poco dopo, parlando con Davide, Simon spiegava che il suo essere alterato era dovuto al modo con cui era stata comunicata loro la decisione prefettizia di svuotare l’edificio: «Qui siamo rimasti sette nigeriani e voi [Giulia e Davide] eravate soliti parlarci e risolvere i problemi insieme. Invece quello che è successo oggi è stato che ne hanno semplicemente presi tre e portati via. Di noi rimaniamo in quattro, nello stesso luogo, e possiamo solo andare su e giù dalle scale». Anche Idowu manifestò il disagio di non avere più una relazione con gli operatori: «da quando siete andati via tu e Giulia, con i nuovi operatori se dico che ho dei problemi loro mi dicono sisisi, it’s ok, it’s ok» (gennaio 2018). Alice, in un colloquio con Davide avvenuto giorni prima, sembrava già rispondergli: «Ma il problema è che non li conoscono! Samantha è appena arrivata e Barbara non ha mai passato del tempo con loro. Però crede che le sue soluzioni siano appropriate perché è sociologa mentre io…» (gennaio 2018). Quello che faceva emergere Alice è che in assenza di uno spazio di costruzione condivisa e collettiva dei gruppi appartamento – o di altro – le decisioni venivano prese dagli operatori immedesimandosi nell’altro, pensando a chi potesse avere “un profilo appropriato”; aveva così più voce in capitolo chi poteva spendere una risorsa quantificabile nelle discussioni organizzative, come un titolo di laurea, e non una generica e indefinita “conoscenza”, cioè una certa qual sensibilità relazionale, con le persone con cui si lavorava. Questo era ribadito anche da Jeanne:

Questo lavoro è delicato perché non si tratta di bambini ma di adulti, di persone con sentimenti, di persone che ragionano. Non è che dobbiamo decidere tutto noi. […] Però il problema è che non conoscono bene i ragazzi, Samantha non li conosce bene. Hai visto la lista che hanno stilato l’altro giorno? Quando scartavamo i ragazzi io ho sentito delle cose che sono rimasta di merda. […]Io non riesco a esprimermi perché non conosco i ragazzi, se non di viso. […] Vedevo che scartavano le persone dicendo questo è pazzo, questo no, sai cosa ha fatto questo l’altro giorno? E ogni tanto Barbara mi chiedeva cosa ne pensassi ma io dicevo che non conoscendo i ragazzi non mi esprimevo (gennaio 2018).

Questa poteva quindi diventare un’altra delle occasioni in cui le nostre colleghe sentivano il disagio di vivere la contraddizione tra persone che dovrebbero operare qualche cosa – ma non si capisce mai bene cosa – e la sensazione di essere “robot” o “mobiletti”:

Qua io sono arrivata in una situazione in cui non ho voluto intromettermi perché sono abituata a lavorare in appartamento e qua non c’è squadra. Poi con questa storia di preferenze non siamo imparziali. […] È una situazione in cui non ci si ragiona. Io sono qua, così … hai visto? Io sono un mobiletto perché non riesco a lavorare. Non riesco a ragionare. Quelle liste sono state cambiate e ricambiate. Sono esausta e mi sento scoppiare (Jeanne, gennaio 2018).

Il disagio che provava Luca nel sentirsi talvolta un “mero esecutore” rispetto agli ordini della prefettura o di Alice e Jeanne rispetto alle decisioni prese in équipe, non era così lontano da quello che provavamo noi quando non potevamo fare “i noi stessi”. L’antropologo non è un eroe né è immune dai rischi di assoggettamento che questo sistema inutile e perverso comporta, tuttavia può avere tendenzialmente sviluppato una sensibilità riflessiva nel suo agire che gli può rendere più facile riconoscere, e in questo modo forse esorcizzare e reagire a, meccanismi e logiche essenzialiste che, per diverse ragioni, hanno in questi luoghi – ma non solo in essi – forte presa. Allo stesso tempo, può esserci qui un terreno fertile per farli emergere in modo più denso, promuovendo la pensabilità di diversi modi di fare, e di diverse modalità di approccio alla relazionalità: non è forse in fondo da scartare una certa capacità dell’antropologo di cogliere e condividere le dimensioni asimmetriche delle relazioni in cui è imbrigliato assieme ai propri interlocutori e collegare «il micro-cosmo, composto di azioni, scelte e comportamenti individuali, al macro-cosmo, costituito da rapporti e processi tra individui, gruppi e istituzioni» (Pitzalis 2016: 10).

Collaborare al beneficio del dubbio

Le contraddizioni possono non portare immediatamente alla, forse troppo semplice, soluzione di rigettare: la dicotomia che sembra emergere da alcuni interventi precedenti, e soprattutto da quello che ha posto il dibattito in essere, è quella di un sistema monolitico che informerebbe senza possibilità di uscita – o con interstizi ad esso funzionali – con una forza che arriva fin all’operatore contro il quale l’eventuale antropologo-eroe dovrebbe scontrarsi; questa dicotomia sembra tuttavia essere un costrutto teorico che non sempre trova riscontro e che, soprattutto, non dice nulla della complessità dello spazio in cui ci si immerge, fatto di azioni ambigue e contradditorie a seconda di da chi e come vengono lette.

Guardando questa realtà a distanza, per la prefettura essa era “struttura all’avanguardia”, per i giornali “nuovo mini-hub” inizialmente – e nulla successivamente – per un certo mondo intellettuale “tassello di un continuum detentivo”; quello che un lavoro dall’interno ha forse consentito di fare è restituire specificità ai micro-percorsi. Se luoghi simili sono da tempo, e giustamente, descritti anche come non-luoghi, e le persone che si trovano ad abitarvi – o a lavorarvi – come non-persone (Dal Lago 1999), è forse altrettanto lampante come queste realtà intersechino una moltitudine di altri luoghi ed altre persone – del territorio e non – con una dimensione forse non immaginabile precedentemente o in altre realtà. Lavorare dunque in esse può permettere, perché no, di agire contemporaneamente su diversi temi, sensibilità, luoghi e persone. È un lavoro certamente difficile, e sicuramente rischioso, come qualsiasi tipo di collaborazione e condivisione, ma che, ci sembra, debba tentare di essere in qualche modo affrontato.

Dunque, se al dubbio “collaborare o rigettare?” che ha dato origine al dibattito viene dato spazio etnografico, ricollocandosi in un singolo e particolare percorso, questa domanda di fondo sembra pre-esistere, o comunque esistere-con, la nostra riflessione antropologica, nella realtà in cui abbiamo fatto esperienza. Lavorare o rigettare, e come lavorare o come rigettare, sono interrogativi che abbiamo percepito spesso tra alcuni colleghi, che ritornavano negli sfoghi degli incontri settimanali e a volte serpeggiavano anche tra i richiedenti asilo, magari indecisi se restare o andare. La sola risposta che ci sembrava e che ci sembra di poter dare, e che le altre persone intorno a noi sembravano spesso trasmetterci, era il dubbio e la continua valutazione sulla contingenza situazionale. Se i dubbi fanno già parte del contesto, collaborare potrebbe essere riformulato in entrare per condividere, alimentando il beneficio – o, per dirla alla Remotti, «il respiro» (2013: 151) - del dubbio.

Da questo punto di vista allora, non solo ci sarebbe bisogno di sensibilità antropologica in questi contesti, ma di antropologi ben formati ed abituati a confrontarsi con fortissimi discorsi e pratiche essenzialiste e semplificatorie per farle emergere non solo in articoli e riviste, ma anche all’interno stesso degli spazi che “l’arcipelago dell’accoglienza”, nel suo farsi, attraversa. Concordiamo dunque anche noi che, sebbene sia un lavoro difficile – e lungi dall’essere “una vocazione” (Saitta 2017: 200) – non ci sia da esimersene ma, piuttosto, da moltiplicare e mettere in rete le forze, anche, e soprattutto, quelle critiche.

Per le ragioni citate inizialmente non ci sentiremmo di dire di aver in toto collaborato a qualcosa. Certamente però abbiamo sentito di condividere, ben coscienti di spartirne anche le responsabilità di certe qual dosi di violenza strutturale, asimmetrie e mutevoli rapporti di potere. Abbiamo però tentato di condividere anche i dubbi e i pericoli, ben espressi da Saitta, in modo forse più efficace proprio per il fare e agire insieme ai soggetti di volta in volta coinvolti. Né collaborare, né rigettare: condividere, ci sembra dunque essere la nostra temporanea conclusione. Abbiamo infatti l’impressione che neolaureati, dottorandi, addottorati, professori, cultori di approcci, sensibilità e metodologie antropologiche continueranno ugualmente a lavorare e transitare in questi spazi. La domanda potrebbe dunque essere provocatoriamente girata: vogliamo tentare di condividere riflessioni e pratiche per cercare di farlo sempre attenti ai rischi emersi in questa discussione o vogliamo negare aprioristicamente possibilità di esistenza a queste situazioni già in atto, alimentando probabilmente in questo modo solo ulteriore frustrazione e chiusura di spazi di problematizzazione e dialogo, con conseguente probabile aumento dei rischi evocati?

Bibliografia

Augé, M. 1993. Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità. Milano. Elèuthera.

Biffi, D. 2017. Collaborare o rigettare? L’arcipelago dell’accoglienza e il “mestiere d’antropologo”. Antropologia Pubblica, 4: 8-17.

Bourdieu, P. 1988. La parola e il potere. Napoli. Guida.

Cammelli, G. M. 2017. Per un’etnografia sperimentale. Riflessioni a partire dall’esperienza di un’antropologa nell’accoglienza. Antropologia Pubblica, 3: 117-127.

Cornwall, A. 2007. «Identità e ambiguità di genere fra travestis a Salvador, Brasile», in Altri generi. Inversioni e variazioni di genere tra culture, Bisogno F. e F. Ronzon (a cura di). Milano. Il dito e la luna.

Cutolo, A. 2017. Collaborare o rigettare? L’arcipelago dell’accoglienza e il “mestiere d’antropologo”. Antropologia Pubblica, 3: 201-207.

Dal Lago, A. 1999. Non-persone: l’esclusione dei migranti in una società globale. Milano. Feltrinelli.

Piasere, L. 2009. «L’etnografia come esperienza», in Vivere l’etnografia, Cappelletto F. (a cura di). Firenze. SEID: 65-95.

Pitzalis, S. 2016. Politiche del disastro. Poteri e contropoteri nel terremoto emiliano. Verona. Ombrecorte.

Remotti, F. 2013. Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi. Roma, Bari. Laterza.

Saitta, P. 2017. Collaborare o rigettare? L’arcipelago dell’accoglienza e il “mestiere d’antropologo”. Antropologia Pubblica, 3: 195-201.

Sbriccoli, T. 2017. Discipline al lavoro. Sull’ambiguità del ruolo dell’antropologo nell’accoglienza italiana. Antropologia Pubblica , 3: 149-167.

Dibattito: Giulia Tabone

Un’équipe di antropologhe

Per scrivere la mia tesi magistrale di antropologia culturale, nel corso di alcuni mesi del 2016 e 2017 ho svolto un periodo di ricerca finalizzato ad avvicinarmi alle pratiche dell’accoglienza di un neo-nato progetto. Adottando inizialmente uno sguardo esterno e quindi svolgendo la mia ricerca come mera osservatrice, ho rapidamente capito che in quel particolare contesto non potevo trovare così facilmente adeguati spazi di accesso per condurre una ricerca etnografica. Per una serie di motivazioni e anche semplici casualità ho successivamente lavorato in un progetto di micro-accoglienza diffusa, scegliendo dunque uno “sguardo dall’interno”.

Come ricorda Pietro Saitta in questo dibattito esistono almeno due modi di operare all’interno delle strutture complesse del sistema di accoglienza: “tradizionalmente”, vale a dire facendo ricerca in modo coperto, oppure esserne coinvolti come parti dello stesso sistema. Entrambi sono modalità di conoscenza dell’articolato sistema di accoglienza e vanno a completarsi a vicenda, contribuendo a produrre una visione più ampia e complessa del panorama in esame. L’articolo sopra citato ha fatto sorgere una riflessione personale sul mio lavoro, a cui inizialmente non avevo prestato molta attenzione critica. In che modo gli antropologi sono necessari e utili al sistema di accoglienza? Dovrebbero limitarsi a avvicinarsi al contesto senza farne parte (engaged) oppure diventare soggetti salariati di progetti per richiedenti asilo di cui però non condividono dinamiche, modalità e strutture? Mi sono dunque trovata a chiedere a me stessa il perché avessi accettato di lavorare in un contesto simile e ho elaborato diverse risposte. Una di esse è che spesso gli antropologi hanno la pretesa di voler salvare e cambiare il mondo e di sentirsi in grado di farlo: quello che cerco ironicamente di enfatizzare è la facoltà degli antropologi di essere versatili e dinamici per adattarsi a svariati campi di applicazione e in essi tendere alla ricerca di soluzioni che portino a miglioramenti. Forse avevo anch'io la pretesa di poter cambiare il mondo. L’obiettivo iniziale sfuma però rapidamente quando si viene trascinati dalle ingerenze lavorative procedendo senza un’adeguata autoriflessione. Nel corso del mio lavoro come operatrice sociale ho avuto rari momenti che mi consentissero di pensare al senso di essere un’antropologa operante nel sistema di accoglienza. Qual è il mio ruolo? Come fare a convivere con il realismo dei progetti di accoglienza dei richiedenti asilo in quanto strutture detentive e con la mia convinzione di essere un soggetto che possa apportare modifiche in tale contesto? Da un lato non vi è il tempo, in quanto il più delle volte, le esigenze giornaliere non consentono di soffermarsi a valutare il proprio operato; dall’altro lato manca anche lo spazio per conferire un ruolo ben definito all’antropologo che lavora nell’accoglienza dei richiedenti asilo, non essendo quasi mai previsto dai manuali SPRAR. Partecipando però a vari convegni universitari e ad incontri organizzati da associazioni di antropologi una parte di me è rimasta ancora in contatto con il mondo accademico, avendo così una panoramica più ampia che consentisse di costruire uno spazio per elaborare un pensiero critico sul mio lavoro. Nel presente contributo porterò quindi la mia visione dall’interno della macchina dell’accoglienza, come operatrice salariata dallo stesso sistema.

Una delle prime domande che vengono poste quando viene chiesto il tipo di lavoro svolto è relativa a cosa fa l’operatore dell’accoglienza: “tutore?”, “badante?”, “volontario?”. In tre contesti differenti ho avuto modo di sentirmi etichettare con questi appellativi che poco si conciliavano con la mia professione. Si fatica quindi a comprendere in pieno il significato di tale impiego, sia per la recente emersione sulla scena dell’operatore, sia per l’ambiguità che lo stesso ruolo ha in sé. Il lavoro dell’operatore, essendo quindi relativamente recente e poco definito consente proprio per questo di avere dei vantaggi sulla costruzione del proprio ruolo. I profili richiesti per questo lavoro sono variegati e spaziano dall’educatore all’operatore socio-sanitario, dal laureato in scienze internazionali all’antropologo. Ognuno cerca di strutturare il proprio operato a seconda del background personale, ma anche e soprattutto attraverso le relazioni che si instaurano con gli ospiti del progetto. Essendo un contesto professionale e relazionale allo stesso tempo, dove il confine tra il tempo lavorativo e il tempo libero è molto fumoso, gli operatori sono incessantemente alla ricerca di un posizionamento che consenta di porre dei limiti al proprio lavoro. “Chi siamo? Amici, guardiani di un campo? Qual è la linea che separa la mia vita lavorativa dalla mia vita privata?”; domande come queste continuano a tormentare le coscienze degli operatori e a confondere anche gli stessi richiedenti asilo che fanno fatica ad attribuire un ruolo chiaro a chi lavora con loro.

Vorrei fare un esempio dell’ambiguità del ruolo dell’operatore, partendo dal caso specifico dell’équipe in cui lavoro composta da quattro persone, di cui tre antropologhe e un avvocato. Si tratta di un caso abbastanza raro e presumibilmente non previsto dalle linee guida nazionali. Perché tre antropologhe? Quali modalità di lavoro ci si aspetta? O meglio, nell’ottica dell’ente che ci ha selezionate, si avevano in mente metodologie differenti rispetto a quelle ordinarie per il lavoro nell’accoglienza? In questo contesto, essere riconosciuta dai colleghi simultaneamente come antropologa e operatrice è ovviamente più che scontato. Uno degli espedienti interessanti riguarda come adattare il proprio profilo al ruolo assegnato dal progetto, nonostante il riconoscimento avuto dai colleghi. Essere tre antropologhe ci ha concesso di trovare più facilmente strade e metodologie condivise da mettere in pratica. Farò un piccolo esempio. Recentemente un collega esterno alla nostra équipe ha proposto di scattare delle foto alle persone inserite nel progetto, stamparle e appenderle artisticamente nel nostro ufficio. Benché l’idea ci sembrasse buona e interessante, abbiamo di comune accordo deciso di fare una contro-proposta che prevedeva di appendere delle foto non di volti, ma che fossero state scattate dalle persone mettendo il nome, così da far scivolare il focus dal mero soggetto passivo rappresentato nella foto al soggetto attivo dotato di agency, di cui si può ammirare la sua visione del mondo attraverso le sue foto. Questo breve esempio solo per rendere l’idea di come in tre antropologhe sia talvolta più semplice andare nella direzione di apportare dei minimi aggiustamenti che portino a una riflessione critica del proprio lavoro. Un altro esempio è invece diametralmente opposto al primo in quanto si inserisce in una sorta di lieve fallimento dell’atteggiamento antropologico. Durante un colloquio con un ospite del progetto, una mia collega stava cercando di scoprire se la persona in questione fosse interessata a un volontariato. La mia collega ha riportato che stava cercando di arrivare lentamente al punto, chiedendo a D. cosa fosse il volontariato per lui, cosa si aspettava, quali erano i suoi obiettivi finché D. la interrompe dicendo «perché tutte queste parole? Arriva a quello che vuoi dirmi, devi essere diretta». Queste affermazioni hanno causato non poco turbamento tanto che la mia collega ha condiviso il suo pensiero con l’équipe dicendo «io stavo cercando di fare in modo che fosse lui a parlare, che arrivasse lui stesso a una conclusione, in modo da concedergli più spazio per non imporre niente». Episodi come questo ricordano che la visione che i richiedenti asilo hanno nei confronti degli operatori è spesso fatta coincidere con l’esistenza di un capo (in questo caso la mia collega che coordina l’équipe) che detta delle regole a cui si deve sottostare. L’atteggiamento proposto e messo in atto dalla nostra équipe è invece quello di trovare una strada condivisa con gli utenti per poter ragionare su decisioni, problematiche, incomprensioni.

Rimanere in equilibrio

Continuerei l’interessante osservazione conclusiva riguardante la «valenza critica destrutturante (e ristrutturante)» di cui parla Tommaso Sbriccoli (2017) che a parer mio assume un posizionamento centrale. Gli antropologi hanno solamente la capacità di destrutturare o è possibile anche implementare meccanismi di ristrutturazione? In che modo? Molto spesso nel lavoro quotidiano ci si trova di fronte a decisioni imposte dall’alto, procedure da seguire che non sempre si conciliano con le coscienze dei singoli e spesso si conclude con un “purtroppo è così”. Altre volte si riesce a forzare o modellare il sistema e a trovare spazi di dialogo con istituzioni, enti, altri colleghi e gli stessi utenti del progetto. La vera sfida è riuscire a fare gli operatori essendo antropologi, quindi cercare quantomeno di lavorare in un dispositivo che sta inevitabilmente stretto, avendo però sempre presente che esistono possibili spazi di manovra e malleabilità all’interno dello stesso. Sebbene riconosco le solide basi e le motivazioni dell’argomentazione di Saitta riguardo al problema di venire a patti con il «continuum detentivo che prevede livelli di intensità e detenzione degli individui» (Saitta 2017), non mi trovo del tutto concorde rispetto a questa affermazione. È vero che lavorare in tali contesti presuppone un adeguamento alle regole formali e informali del sistema di accoglienza e, quindi, di controllo degli individui divenuto standardizzato a partire dal secondo dopoguerra (Malkki 1995), ma ciò non preclude possibilità di operare dall’interno di questo meccanismo cercando quotidianamente di non figurarsi come soggetto passivo, ma al contrario costruire un’immagine di sé come attivo nei confronti dell’interpretazione di linee guida e normative spesso non molto chiare e facilmente eludibili. Non lo paragonerei a un essere imprigionati all’interno delle logiche del sistema, ma piuttosto a un relazionarsi con contesti e norme che richiedono un sforzo interpretativo e una versatilità consistenti.

Sostenere che per gli antropologi sia rischioso essere impiegati nel sistema di accoglienza è un ulteriore azzardo a non considerare adeguatamente le pratiche militanti e virtuose che si possono produrre al suo interno. Ipotizzando che gli antropologi abbiano quella che viene considerata una maggiore sensibilità culturale possono offrire un posizionamento differente nei contesti definiti “di aiuto”. Una degli interrogativi che mi pongo spesso è contenuto nelle parole di Barbara Harrell-Bond quando chiede se «È possibile che i modi e i contesti dell’“aiuto” siano causa di un malessere debilitante su persone che si trovano in una posizione tale per cui l’unica alternativa possibile è quella di ricevere?» (Harrell-Bond 2005: 15). Questa affermazione tormenta le coscienze di chi lavora nei contesti dell’accoglienza; credo che uno degli obiettivi da porsi in quanto operatori sia proprio quello di non attribuire a nessun soggetto una condizione di passività, ma cercare di dotare ognuno di un’agency che consenta di essere autonomi oltre che essere riconosciuti come soggetti. Una delle problematiche che in quanto antropologa e operatrice mi trovo ad affrontare ogni giorno riguarda le complicate dinamiche che si vengono a delineare quotidianamente e che sono sempre immerse in una tensione dialettica tra il soggetto in quanto essere umano e il soggetto in quanto professionista. Coniugare umanità e professionalità è un processo tutt’altro che semplice e immediato: non sempre le logiche morali si conciliano con quelle dettate da direttive professionali. Vi è dunque un paradosso per cui da manuale viene richiesto di essere dei “poliziotti” che si attengono alle regole, ma le organizzazioni preposte tendono all’assunzione di soggetti con un passato universitario in scienze sociali o in ambito educativo e quindi, per deformazione professionale non avvezzi a comportarsi come meri esecutori di una serie di direttive imposte dall’alto.

Gli operatori virtuosi dovrebbero essere consapevoli che, volenti o nolenti, sono inseriti in un dispositivo altamente performante che riproduce in sé quelle che nella letteratura vengono chiamate pratiche di violenza invisibile, declinate poi in strutturale, simbolica e normalizzata (Bourgois 2009; Farmer 2004; Schepper-Hughes, Bourgois 2004). Soprattutto la terza forma è quella che si insinua con maggior forza nel lavoro dell’operatore: la distanza che separa l’uomo bianco europeo dall’africano nero si impone con continuità nel rapporto operatore-beneficiario, riproducendo dunque una presunta superiorità del primo rispetto al secondo. Come ricorda Clelia Bartoli «la violenza bruta e plateale non sempre è necessaria, mai è sufficiente. Occorre piuttosto un ordine, una struttura, un insieme di leggi che, senza far rumore, ma con efficacia, statuisca e legittimi il divario» (Bartoli 2016: 125, 126). Costruendo quella che l’autrice citata definisce nomenclatura dell’esclusione (Idem: 126) il sistema di asilo europeo permea e definisce le vite dei soggetti richiedenti protezione interazionale. Il compito dell’antropologo che lavora in questo contesto non coincide con la pretesa di eliminare la disparità di percezione delle parti, ma sta a lui porre attenzione a tali dinamiche e rendersi conto dell’esistenza di anche sottili meccanismi di potere che talvolta vengono perpetuati anche dagli stessi antropologi. Il coordinatore del progetto che viene chiamato “il capo”, indipendentemente che sia uomo o donna, è uno dei sintomi della violenza normalizzata di cui sopra. Il mio lavoro e quello delle mie colleghe antropologhe è teso dunque alla ricerca costante di costruire con i richiedenti asilo un linguaggio e dei comportamenti che consentano di trovare la giusta collocazione di entrambe le parti, senza però riprodurre una logica di contrapposizione e disparità, né di amicizia. Questo obiettivo si raggiunge cercando di co-costruire un rapporto di fiducia, di apertura al dialogo e conducendo gradualmente alla presa di coscienza che gli operatori non sono dei nemici. Non essere nemici non equivale però a essere degli amici: rimanere in bilico su questa sottile linea che separa i due concetti risulta essere uno dei compiti più delicati e ardui di questo lavoro. Cercare di arginare le occasioni di violenza invisibile e tradurre le istituzioni e le pratiche culturali italiane in un linguaggio comprensibile per i richiedenti asilo diventa uno degli obiettivi che un antropologo coinvolto nel sistema di accoglienza può provare a far raggiungere agli interlocutori. Non si tratta di collusione o di una soluzione per trovare un salario per chi è laureato in antropologia, ma la scelta di questo tipo di lavoro è dettata dal fatto che si ha la convinzione che ci si possa immergere nelle maglie di un sistema cercando di non riprodurre la logica del campo, ma di perpetuare un atteggiamento critico e strutturante allo stesso tempo: l’obiettivo diventa attuare quello che Foucault definisce “processo di soggettivazione” (Foucault 1984), promuovendo il passaggio da oggetto passivo a soggetto pensante. Tale processo non deve solo riguardare gli ospiti richiedenti asilo, ma anche gli stessi operatori che devono arrivare alla presa di coscienza di essere anch’essi dei soggetti e non meri esecutori di linee guida che non consentono modifiche. Questo slittamento di prospettiva si raggiunge prima attraverso una destrutturazione della persona in quanto oggetto, per poi raggiungere la presa di coscienza di essere un soggetto titolare di diritti. Gli antropologi-operatori dovrebbero quindi cercare di trovare degli spazi per la destrutturazione, riportando poi a una ristrutturazione riformulando l’esigenza primaria e dunque arrivare a quella doppia soggettivazione che coinvolge tanto gli ospiti quanto gli operatori stessi. L’antropologo inserito nell’accoglienza dovrebbe quindi sforzarsi di trovare degli interstizi dove al potere del controllo possa sostituire il dialogo; non è un obiettivo semplice e non biasimo chi decide di rimanere fuori da un modello di accoglienza di cui non condivide i fondamenti. Il rischio è infatti quello di allontanarsi dal proprio passato antropologico per essere inglobati dal sistema. È necessario però superare questa impasse ricordandosi di essere antropologi che lavorano come operatori e non operatori che hanno una laurea in antropologia. Valorizzando la propria curvatura antropologica come elemento dominante che modella e dirige il lavoro quotidiano si avranno più possibilità di orientare le proprie scelte verso azioni virtuose.

La vera sfida è dunque quella di stare all’interno di un dispositivo, ma allo stesso tempo conservare la giusta distanza critica per non rimanere soggiogati dai vincoli che esso impone. Probabilmente non ho risposto neanche lontanamente alle molteplici e giustamente provocatorie questioni sollevate da Pietro Saitta, ma vorrei lasciare uno spiraglio per chi, come me lavora come operatore dell’accoglienza, cercando di valorizzare tutte quelle piccole azioni e ragionamenti critici che gli antropologi sono in grado di attuare quotidianamente grazie al background accademico. Non si tratta di una dicotomia ferrea che contrappone la collaborazione al rigetto, ma di una via intermedia costruita da antropologi che stanno imponendo anche un po’ egoisticamente il proprio sapere nel sempre più incerto e frammentato universo dell’accoglienza dei richiedenti asilo al fine di provare ad aggirare la sua funzione di controllo degli individui.

Bibliografia

Bartoli C. 2016. Concentrare,segregare e assistere. Così il razzismo diventa sistema, Contro il razzismo. Quattro ragionamenti, Aime M. (a cura di). Torino. Einaudi: 125-157.

Bourgois P. 2009. « Recognizing Invisible Violence. A Thirty-Year Ethnographic Retrospective». In Global Health in Times of Violence. Barbara Rylko-Bauer, Linda Whiteford and Paul Farmer (eds.) 2009. Santa Fe, NM: School of Advanced Research Press, pp. 18-40.

Farmer P. 2004. An Anthropology of Structural Violence, Current Anthropology,45 (3): 305-325.

Harrell-Bond B. E. 1999. L’esperienza dei rifugiati in quanto beneficiari di aiuto, Annuario di Antropologia, 5: 15-48.

Malkki L. 1995. Refugee and Exile: From “Refugee Studies” to the National Order of Things. Annual Review of Anthropology, 24: 495-523.

Sbriccoli T. 2017. Discipline al lavoro. Sull’ambiguità del ruolo dell’antropologo nell’accoglienza italiana, Antropologia Pubblica, 3 (1):

Scheper-Hughes N., Bourgois P. 2004. «Introduction: Making Sense of Violence», in Violence in War and Peace: An Anthology, Scheper-Hughes N., Bourgois P. (eds.) Oxford: Blackwell Publishing, pp. 1-27.



[1] Vogliamo riferirci con questa formula alla moltitudine di persone, a volte separate in quanto "operatori", "richiedenti asilo", "addetto al trasporto pasti della mensa", "custodi", "abitanti del quartiere", ecc., ruotanti intorno a questi spazi.

[2] “projet” è il nome con cui molti francofoni si riferivano a questa realtà.

[3] Tutt’al più era stata individuata come persona dal percorso “interessante”, con una apprezzabile esperienza di più linguaggi comunicativi.

[4] L’uso dell’espressione camp per riferirsi alla struttura era utilizzata solo da persone di origine nigeriana.

[5] Per dirla con un efficace concetto formulato da Favole e Aria nel corso di un panel SIAA 2017 a Catania.

[6] Ad essa partecipavano, su base volontaria, abitanti della struttura, Giulia, Davide, a volte qualche altra operatrice e i due ‘custodi’.