Introduzione

Pratiche di collaborazione e co-apprendimento come setting di trasformazione e progettazione sociale

Roberta Bonetti

Università di Bologna

Table of Contents

Liminalità e interazioni invisibili
Capacità collaborativa prima degli obiettivi di lavoro
Nuove sfide e opportunità per gli antropologi applicati
Bibliografia

Commistioni e contaminazioni di saperi e linguaggi professionali rappresentano fattori rilevanti per l’antropologia applicata, sia quando si lavora alla costruzione di setting interpersonali per condurre a forme di co-apprendimento con i partecipanti all’esperienza di campo, sia, infine, nel caso di processi trasformativi promossi all’interno di contesti di azione allargati.

Differenze nei registri linguistici, nei modi di socializzazione, negli strumenti adottati possono ergere barriere che spesso limitano, se non addirittura fanno fallire, la ricerca partecipativa in gruppi di lavoro composti da membri di diverse discipline e professionalità.

Si raccolgono qui alcuni contributi del panel da me coordinato al V Convegno della SIAA[1], in cui i relatori erano invitati a riportare esempi concreti di collaborazione fra l’antropologo/a e i diversi interlocutori impegnati nello stesso campo di esperienza. Si chiedeva loro di evidenziare, con uno sguardo critico, le forme di collaborazione e gli aspetti pluridisciplinari che si definiscono tra pratica etnografica, competenze analitiche e deontologiche dell’antropologo, da un lato, e le expertise, gli approcci e i linguaggi professionali degli interlocutori dall’altro, per comprendere come il processo di collaborazione (nei suoi aspetti metodologici, applicativi e relazionali) possa incontrare specifiche difficoltà nell’attivazione di percorsi di intervento, ma possa anche facilitare processi di (co)costruzione e negoziazione di “prodotti” simbolici e materiali.

A partire da una discussione critica centrata su tali questioni, gli autori sono stati invitati a presentare le loro proposte, eventualmente anche in forma di dialogo tra antropologo e professionisti implicati nel contesto di intervento, per gettare luce sulle forme di reciprocità e pratiche di collaborazione fra approccio antropologico e altre expertise professionali.

Presentare in questo numero di Antropologia Pubblica alcuni interventi riguardanti la ricerca applicata nei mondi dell’arte, della biodiversità, del design e dell’alternanza scuola-lavoro intende non solo aprire uno spazio conoscitivo e riflessivo su ambiti di potenziale applicazione antropologica relativamente nuovi, sicuramente in Italia, ma intende anche evidenziare l’importanza crescente che l’antropologia pubblica riveste nell’ambito della Terza Missione, oggi così vitale per l’Accademia[2]. Si tratta di un ambito non trascurabile, soprattutto nella collaborazione con istituzioni pubbliche e private. Vi è infatti anche un interesse di natura pratica nell’entrare in questi mondi, soprattutto in un momento storico caratterizzato da un’evidente debolezza accademica della disciplina in Italia, se confrontata con altri ambiti disciplinari e altri contesti geografici (Bonetti 2019a: 26-27).

Questo numero intende quindi porre attenzione alle competenze richieste ai nuovi laureati in antropologia che sempre più si trovano ad interagire al fianco di altre figure professionali e non sempre in posizioni di primo piano. Devono infatti negoziare e, non di rado, inventare modi e cogliere opportunità e limiti del sapere antropologico quando si confrontano con altre figure professionali.

Come si vedrà, i saggi evidenziano proprio tale diversità nei modi in cui il sapere etno-antropologico entra in dialogo con il mondo professionale e, al contempo, le criticità che invitano l’antropologo/a a trovare con altri soluzioni creative da apportare e sperimentare nello specifico contesto di intervento.

Si è posta attenzione al quadro d’insieme e si è deciso di dare, di concerto con gli autori, una cornice il più estesa possibile dell’ambito di intervento. Focalizzandoci solo sulla interazione e sugli aspetti liminali di essa[3], si sarebbe potuto perdere il valore dei contesti di azione in ambiti così nuovi, come si diceva, in Italia.

I contenuti di questa sezione monografica sono centrati sulle questioni cui si era chiesto di rispondere: in che modo specifici linguaggi, strumenti e competenze interdisciplinari sono stati negoziati, condivisi e messi in campo per rispondere alle richieste della committenza e/o attivare processi di innovazione sociale e cambiamento? Quali modalità di intervento sono state costruite e sperimentate per facilitare processi di collaborazione e co-partecipazione tra i diversi soggetti? Quali le principali difficoltà, resistenze e ambiguità derivanti dall’esperienza collaborativa e quali le soluzioni adottate dall’antropologo per accoglierle, con-dividerle ed eventualmente risolverle in modo creativo e trasformativo?

Si è cercato, come si vedrà, di mettere a fuoco tali aspetti che hanno definito e articolato le fasi della progettazione, della conduzione della ricerca, come anche della restituzione, delle forme dialogiche e di collaborazione oltre che degli apprendimenti reciproci, rendendo al tempo stesso credibile e autorevole il sapere antropologico sul campo.

In questo senso, nel lavoro applicato, il “campo”, rappresentando non solo il luogo liminale dell’incontro, ma anche quello materiale e simbolico della pratica etnografica, diviene spazio di creazione progettuale e innovazione sociale che muove dalla costruzione di senso condiviso tra l’antropologo e gli attori che compongono il contesto di intervento.

Liminalità e interazioni invisibili

Partendo dal concetto di liminalità nei processi di incontro come un “periodo di mediazione” (Bonetti 2018), si è cercato di aprire uno spazio di indagine e di riflessione sulle interazioni, solitamente “invisibili” che, all’interno di dinamiche disciplinari, professionali e interpersonali, emergono nello sviluppo di un progetto e che sono fondamentali ai fini dell’innovazione e trasformazione sociale. Se i membri della relazione non sono in grado (o non intendono) intraprendere quella che può essere una curva di apprendimento significativa, allora gli ostacoli a un’efficace condivisione all’interno di tali gruppi possono far fallire propositi e obiettivi del progetto. Poiché le persone portano le loro differenze culturali (e disciplinari) nel linguaggio, negli strumenti, nelle pratiche di lavoro, nelle epistemologie, nei paradigmi e negli obiettivi relativi al progetto, c’è bisogno di capire in profondità i processi coinvolti nella formazione dei gruppi di lavoro e stabilire una condivisione e comprensione della missione e degli obiettivi dell'intervento dell’antropologo. In sostanza, c’è del lavoro da fare prima, durante e dopo l’esperienza di relazione per rendere possibile la transizione da un gruppo che rappresenta singole discipline a un team che trascende confini e prospettive disciplinari individuali.

Ho ritenuto utile riferirmi all’approccio “pluridisciplinare” (multiple disciplinary approach) come inteso da Bernard Choi e Anita Pak (2006: 351) per iniziare a riflettere su tale passaggio. Ciò evita di confonderlo con quello “multidisciplinare”, e permette di volgere uno sguardo più focalizzato sugli aspetti liminali dell’interazione professionale e interpersonale che avviene sul campo.

Per i due studiosi, con pluridisciplinare ci si riferisce ad un approccio comprensivo di tre forme (o stadi di sviluppo) nel lavoro di gruppo: multi, inter e transdisciplinare. Proprio per evitare l’uso ambiguo e intercambiabile dei tre termini, essi sottolineano le differenze sostanziali e qualitative tra le modalità di interazione (Choi, Pak 2006: 352). Mentre la multidisciplinarità attinge dalla conoscenza di diverse discipline mantenendo chiari i rispettivi confini, l’interdisciplinarità richiama la collaborazione tra ricercatori di discipline diverse finalizzate a una sintesi e integrazione della conoscenza, laddove la transdisciplinarità integra e trascende i loro confini tradizionali. La transdisciplinarità rifiuta, oggi, la separazione e distribuzione di argomenti e approcci accademici in “silos” disciplinari (Choi, Pak 2006). Caratterizzata da una vocazione impegnata e responsabile, essa pone attenzione a problemi complessi e alla ricerca di soluzioni creative attraverso il coinvolgimento degli stakeholder. La comprensione della portata e della profondità di questi problemi richiede uno sguardo che permetta di vederli simultaneamente da molteplici prospettive e per creare qualcosa di nuovo che sia irriducibile alle componenti disciplinari inizialmente poste in atto (Bernstein 2015: 1). Una caratteristica della transdisciplinarità è la tendenza a pensare in modo laterale, immaginativo e creativo non solo riguardo alle soluzioni ai problemi, ma anche alla combinazione dei molteplici fattori che devono essere considerati. Gli input dalle arti e dagli studi umanistici, ad esempio, possono trasformare la ricerca e l’educazione alla sostenibilità o altri argomenti tradizionalmente considerati scientifici in un tipo di prodotto completamente nuovo (Clark, ​​Button 2011). L’impulso a ricombinare gli elementi disciplinari in modo creativo è implicito in ciò che Julie Thompson Klein chiama il “discorso della trasgressione” che è alla base di ricerche molto recenti nelle scienze umane e sociali e in cui i ricercatori incontrano frequentemente paradossi che difficilmente possono essere risolti e che chiedono agli antropologi la capacità di pensare in modo complesso e interconnesso e di riconoscere la frustrazione derivata dall’abbandono della propria comfort zone intellettuale per impegnarsi in nuovi modi di pensare e agire (Klein 2015: 14).

Marylin Strathern (2007: 124) evidenzia che se l’interdisciplinarità, in senso stretto, indica una struttura condivisa tra le discipline a cui ciascuna dà il suo contributo, la transdisciplinarità implica un contributo maggiore, riunendo discipline in contesti in cui emergono nuovi approcci dalla loro interazione, e richiede una «reciproca interpenetrazione delle epistemologie disciplinari» che può non rispettare né i confini disciplinari, né tantomeno quelli istituzionali. In tal senso la transdisciplinarità diviene essa stessa un fattore di produzione della conoscenza.

Per Christine Miller (2018: xviii; 2) l’approccio transdisciplinare ha a che fare con una riflessione teorico pratica su come processi di incontro tra modi di pensare e di fare tra diverse discipline (in tal caso tra antropologia e design) impattino sulla loro stessa evoluzione, permettendo di rispondere alle circostanze in costante cambiamento della vita individuale e collettiva delle persone.

Applicare il concetto di liminalità permette di esplorare gli “stati” tra gruppi professionali e interpersonali, consentendo di esaminare le loro differenze qualitative nei livelli di collaborazione e coinvolgimento e nella natura delle loro missioni e obiettivi (Choi, Pak 2006). Se, secondo Choi e Pak, lo “stato” multidisciplinare richiede il minimo investimento, ogni membro porta la sua base di conoscenza individuale e può rimanere fermo allo stadio cognitivo, senza investire tempo ed energia nel cambiare la sua prospettiva (in tal caso l’obiettivo del lavoro nell’apprendimento tende ad essere prioritario rispetto a quanto accade nel gruppo di lavoro), l’interdisciplinarità richiede un investimento più significativo di tempo ed energia a causa della necessità di negoziazioni più ampie per raggiungere intese condivise, che consentano l’analisi e la sintesi tra i confini disciplinari. Nel caso della transdisciplinarità, il requisito della negoziazione è molto alto: tutti i membri devono essere disposti a subordinare le proprie prospettive disciplinari individuali per ottenere una visione comune che comprenda le dimensioni e le dinamiche di un intero sistema. In tal caso, le fasi liminali possono essere caratterizzate da una maggiore comunicazione, livelli di stress intensificati, incomprensioni, conflitti.

Se la sfida di gruppi di lavoro pluridisciplinari è quella di fornire soluzioni innovative superando barriere incorporate nelle prospettive proprie di ogni singola disciplina, essa consiste in un lavoro intrinsecamente scomodo in quanto richiede capacità di apertura, di accoglienza e di mediazione, capacità di riconoscere i diversi registri linguistici, domini di conoscenza e modi di lavorare che possono entrare in conflitto con le proprie ipotesi, l’orientamento disciplinare e le pratiche di lavoro. Permettono anche di cogliere gli effetti “scomodi” che l’azione dell’antropologo produce nell’interazione con altri e, al contempo, quella che gli altri provocano in quest’ultimo.

Capacità collaborativa prima degli obiettivi di lavoro

Se il valore di azioni collaborative che coinvolgono partecipanti di diverse discipline per un obiettivo comune è ampiamente riconosciuto, minore attenzione è stata dedicata al lavoro che precede, quello cioè richiesto per integrare prospettive e competenze diverse e consentire la collaborazione. I processi sociali coinvolti nel raggiungere uno stato in cui i partecipanti non solo cooperano, ma collaborano, possono essere descritti come “lavoro invisibile” (Forsythe 1999). Se oggi molte organizzazioni impiegano antropologi che prendono parte al processo di ricerca, è altresì interessante come, al contempo, un numero crescente di non-antropologi ha preso in prestito le tecniche etnografiche. I risultati di questa appropriazione sono in qualche misura paradossali: se l’etnografia può sembrare semplice e immediata, di fatto, il lavoro di etnografi inesperti tende a trascurare cose che gli antropologi considerano parti importanti del processo di indagine e che sono invisibili a un occhio non allenato. Pertanto, il lavoro quasi-etnografico basato su una serie di equivoci, con molta probabilità, risulterà superficiale e inaffidabile (Forsythe 1999: 127). Imparare a “fare etnografia” implica saper vedere le situazioni sociali in un modo che problematizza certi fenomeni. Per diventare un ricercatore competente sul campo c’è bisogno di formazione e pratica; saper effettuare un’attenta raccolta e analisi dei dati per produrre risultati affidabili non è cosa semplice o banale (Forsythe 1999: 129). Il discorso non è per nulla scontato quando ambiti disciplinari diversi si incontrano. Come vedremo, proprio il saggio di Isabel Farina su antropologia e design richiama gli stessi rischi che si sono corsi nei primi incontri tra le due discipline nell’“adattamento” dell’etnografia da parte dei designers. L’articolo di Christina Wasson, Ethnography in the Field of Design (2000), fornisce un’ampia panoramica dell’antropologia applicata al design, delineando come l’etnografia sia stata non di rado adottata e adattata dalle aziende di design. Da una prospettiva critica, Wasson solleva preoccupazioni sulla possibile mancanza di profondità nell’antropologia del design. Ciò non è affatto ovvio: una pratica etnografica ricontestualizzata nel design non è commisurata all’etnografia in senso antropologico, soprattutto perché, non di rado, il significato dell’etnografia non è lo stesso per entrambe le discipline (Ingold 2014). Per tale ragione Tim Ingold mette in guardia dal confondere il Design Anthropology con il Design Ethnography o Ethnographic Design, ambiti, questi ultimi, che si focalizzano sull’interazione tra etnografi (che possono anche non essere antropologi) e designer (2014: 383).

Laddove il mancato riconoscimento delle differenze disciplinari e culturali che si manifestano in epistemologie, strumenti, linguaggi e pratiche di lavoro mette a rischio collaborazioni e progetti, la prospettiva di arrivare a una comprensione condivisa della missione e degli obiettivi, delle norme di comunicazione e degli accordi su come sarà svolto un progetto di ricerca, diminuirà di conseguenza. Per Jeff Conklin (2006: 15) comprensione condivisa non significa necessariamente essere d’accordo su un problema, ma significa che gli stakeholder capiscono la reciproca posizione a un punto tale da poter avere un dialogo costruttivo e da esercitare l’intelligenza collettiva su come risolverlo.

Nel discutere la natura dei flussi di comunicazione attraverso reti interpersonali, Everett Rogers (2003: 306) nota che «reti eterogenee, pur avendo maggiori difficoltà a comunicare a causa della dissonanza cognitiva derivante dalle differenze di competenza tecnica, lingua e strumenti, hanno il maggior potenziale quando si tratta di diffondere innovazione». Inoltre, come scrive Luke Eric Lassiter, l’etnografia collaborativa è «an approach to ethnography that deliberately and explicitly emphasizes collaboration at every point in the ethnographic process, without veiling it – from project conceptualization, to fieldwork, through the writing process» (2005: xx). In questo processo di lavoro assieme, altri partecipanti possono comprendere le questioni etiche insite nella ricerca e si possono trovare soluzioni, anche se può volerci tempo. Inoltre per gli antropologi è importante creare un solido rapporto di fiducia tra tutti i membri del gruppo di ricerca e i partecipanti ad essa (Gluesing 2014: 89).

Nuove sfide e opportunità per gli antropologi applicati

Nuove forme di leadership vengono chieste dagli stessi membri delle organizzazioni, che consentano a queste ultime di adattarsi a condizioni in rapido e costante mutamento. Si tratta di un’esigenza che nasce dalla consapevolezza che le figure leader interne trovano difficoltà nel cogliere impliciti, nell’osservare e interpretare i processi sociali e nell’interagire con i membri del team in modi che li aiutino a costruire consenso, a risolvere conflitti e a raggiungere la chiarezza, essendo essi parte costantemente implicata nel processo. In sostanza, manca la necessaria implicazione e al contempo una distanza analitica tipica degli antropologi. Sempre più storie di successo di gruppi pluridisciplinari sono rappresentate da antropologi che assumono ruoli di coreografi o partecipanti all’etnografia collaborativa con e dentro diverse organizzazioni (McCabe 2016: 1). Gli antropologi, vivendo nello “spazio liminale”, hanno una diversa tolleranza all’ambiguità e all’incertezza (Bonetti 2018: 9) in situazioni che richiedono “convergenza cognitiva” (uno stato di comprensione condivisa che deve essere raggiunto affinché i membri del gruppi di ricerca comunichino efficacemente attraverso i confini disciplinari e funzionali), richiedendo che leggano e traducano altre prospettive, «spostandosi avanti e indietro tra partecipazione e osservazione» (Favret-Saada in McCabe 2016: 3).

Con l’aumento della domanda di antropologia applicata, gli antropologi sono passati a ruoli sempre più attivamente coinvolti come membri di diverse organizzazioni. Nel campo emergente dell’antropologia del design, ad esempio, gli antropologi sono sempre più impegnati in pratiche trasformative e nella creazione di nuovi oggetti e strumenti (Bonetti 2019b). Come spiega Maryann McCabe (2016: 1-5), si tratta di ruoli impegnativi perché intersecano diverse fonti di conoscenza e richiedono abilità e competenze considerate soft skills, come umorismo, empatia, intelligenza emotiva e capacità costruttiva.

Gli antropologi possono dare un sostanziale contributo alla comprensione del lavoro nell’ottica della complessità. Sta, infatti, nella “natura” professionale dell’antropologo, allenato a vivere e a lavorare simultaneamente in contesti multipli e a praticare la liminalità ovvero a stare sulla soglia, al margine tra più parti (anche quando egli lavora a “casa”), la possibilità di facilitare l’innovazione e i processi di apprendimento in mondi pluridisciplinari e pluriprofessionali (Bonetti 2018: 9). Facilitare team pluridisciplinari che creino il potenziale per l’innovazione è sempre più necessario (Rogers 2003) e anche altamente problematico (Gunn, Clausen 2013), in quanto generare e applicare la conoscenza utilizzabile a trascendere i confini disciplinari dipende non solo dal contesto particolare ma anche dall’esperienza e capacità delle persone che sono coinvolte.

Lo scopo di questa sezione monografica è quindi anche riflettere e considerare come la liminalità richieda una formazione dell’antropologo (a partire anche dall’aula), che possa essere utilizzata per concettualizzare le fasi transitorie nello sviluppo di gruppi pluridisciplinari e pluriprofessionali e che gli permetta di svolgere un ruolo chiave nel supportare e facilitare i soggetti implicati nella ricerca (Bonetti 2019a: 32; Cozzi 2012: 108).

La liminalità, la capacità di “stare tra” dell’antropologo (Bonetti 2018: 13), permette di esplorare le fasi e l’efficacia del lavoro di squadra considerando che gli individui entrano nella fase liminale solo una volta che il progetto è in corso. Come si legge già dalle sintesi dei saggi, il tema del passaggio è costantemente evocato dagli autori e affinché ciò si verifichi, è necessario che i partecipanti siano disposti a impegnarsi in un intenso processo di apprendimento sociale e di mediazione. Se questo stato può essere caratterizzato da confusione, caos, paradossi, ambiguità, il ruolo del facilitatore antropologo è di assistere i membri del gruppo nella negoziazione del processo, nella risoluzione dei conflitti e nel superare le barriere per ottenere un prodotto finale coeso e gli obiettivi desiderati.

Il saggio di Cristiana Natali racconta, attraverso il suo coinvolgimento in qualità di consulente antropologa della danza, l’ideazione e realizzazione del progetto artistico Lotus, promosso nell’ambito del bando MigrArti-spettacolo del MiBAC e del Turismo. Il bando invitava a realizzare progetti di carattere propedeutico e laboratoriale in cui venissero condivise «forme di lavoro artistico» con giovani immigrati di seconda generazione, al fine di promuovere il dialogo interculturale.

Il laboratorio ha visto la partecipazione di 16 bambine e ragazze tamil dello Sri Lanka che sotto la guida della coreografa della danza contemporanea Simona Bertozzi e dell’insegnante tamil di danza indiana bharata natyam, Sharmini Kavithasan, hanno realizzato una composizione coreografica che intrecciava i due stili coreutici. La danza è stata in seguito presentata attraverso dimostrazioni pubbliche in forma di spettacolo al quale hanno partecipato, oltre al pubblico, le due insegnanti, i rappresentanti delle associazioni coinvolte e l’antropologa.

Il saggio che, come scrive Natali, sarebbe stato passibile di un’analisi su vari livelli, coglie l’invito da me rivolto a concentrarsi su due aspetti del lavoro: da un lato sulle modalità di collaborazione tra committenza e consulente, dall’altro sulle ricadute del progetto nei termini di antropologia pubblica.

Sul primo punto, considerato l’incontro in uno spazio liminale di forte specificità e professionalità, è l’aver maturato un’esperienza diretta nel campo della danza (come praticante e insegnante), unitamente alla conoscenza della cultura tamil srilankese, ad essersi rivelata per l’antropologa un fattore determinante nel costruire un rapporto di collaborazione con gli altri soggetti. La sua competenza professionale non solo è la ragione per cui è stata chiamata in quanto consulente ma è anche ciò che ha reso sostenibile il suo intervento nel campo come antropologa. Natali ha funto da figura ponte, sia nell’individuare associazioni di migranti già coinvolte nelle attività di danza, sia nel far conoscere una danza contemporanea a bambine e ragazze tamil che non l’avevano mai studiata prima né lo aveva fatto l’insegnante Kavithasan; così come Bertozzi non aveva mai lavorato con allieve formatesi su questa tecnica.

Nel mentre documenta l’intero progetto, l’antropologa si muove tra molteplici ruoli, quelli che l’hanno vista partecipe di lezioni di danza, di laboratori e anche di momenti di mediazione tra i diversi attori nel corso del progetto. Tutto ciò rivela l’esercizio dell’antropologa a stare nell’ambiguità. Ma soprattutto è rilevante il tema del registro linguistico, da trasformare per essere reso comprensibile ad adulti e a giovani apprendenti che non conoscevano il lessico della danza contemporanea.

Sulle ricadute del ruolo della consulenza antropologica, il riscontro di Natali, seppur con i limiti che lei rileva di essere l’unica intervistatrice e ricercatrice, è comunque significativo di quanto resta in termini di apprendimento, dell’azione dell’antropologo dalla prospettiva degli altri professionisti e attori sociali nel corso e alla fine del processo di incontro/ricerca. Come ha affermato Bertozzi, non sarebbe stato possibile realizzare un progetto in un tempo tanto breve e con un gruppo così eterogeneo senza la capacità di traduzione dei saperi, di coordinamento e di dialogo (sia verbale che fisico) dell’antropologa, «facendo sì che ognuno porti all’altro ciò che permette di rivoluzionare il vocabolario, di andare all’osso della questione, di toccare l’essenziale». Un apprendimento reciproco tra insegnanti e giovani tamil si è così reso possibile attraverso un rapporto di collaborazione e di dialogo paritetico e ciò ha reso la consulenza antropologica sempre più centrale nel coinvolgimento di tutti i soggetti sia per riflettere sull’avanzamento del lavoro che per sciogliere i dilemmi emersi sul campo. Gli incontri hanno innescato riflessioni sulla centralità di pratiche comuni all’attività coreutica e a quella antropologica, quali l’ascolto, l’immersione, la partecipazione/osservazione, la scrittura (etnografica e coreografica), l’apprendistato, l’incorporazione, la risonanza.

Infine, in termini di antropologia pubblica, considerato che l’antropologia della danza, fin dalla sua nascita, ha avuto in molti casi proprio questa vocazione, anche Lotus, lungi dall’essere stata un’esperienza confinata a discussioni tra addetti ai lavori, ha permesso di far conoscere ad un pubblico più esteso una pratica coreutica, il bharata natyam, che i migranti tamil considerano, insieme alla lingua, rappresentativa della loro cultura. Ha realizzato, inoltre, un’esperienza di incontro tra diverse pratiche coreutiche nei termini di un arricchimento reciproco su un piano di parità: dai rilievi offerti dal saggio, la visione dello spettacolo innesca riflessioni sulla ricchezza del patrimonio artistico dei migranti e sulla sua permeabilità, combattendo quindi lo stereotipo della fissità delle forme coreutiche altre e mostrandone il dinamismo. Natali aggiunge che la pratica ha condotto a una sorta di “giro lungo della danza”, a un arricchimento derivante anche dalla consapevolezza che diverse concezioni del corpo e dello spazio portano a un ripensamento delle proprie categorie.

Tra le conseguenze impreviste di Lotus vi è stato lo stabilirsi di relazioni tra ragazze e donne tamil di città diverse e l’opportunità di condividere spazi di socialità con altri tamil e italiani. La ricaduta più rilevante e imprevista del progetto è stato però il progressivo erodersi, da parte delle partecipanti, della percezione della differenza tra il bharata natyam e la danza contemporanea. Scelti proprio in ragione della loro profonda diversità, i due stili coreutici, a una conoscenza ravvicinata, si sono rivelati molto più simili di quanto fosse stato immaginato, realizzando quel terreno di dialogo interculturale fervido richiesto dal bando.

I discorsi sull’importanza delle api e la nuova sensibilità e percezione che la cultura popolare riserva a questi insetti si intrecciano con elementi più specifici che caratterizzano il campo dell’apicoltura in Sardegna e più in generale il dibattito sulla gestione del territorio e sulla tutela della biodiversità dell’isola. Greca Natasha Meloni, nel suo saggio, analizza il campo dell’apicoltura concentrando l’attenzione sulle dinamiche di co-costruzione delle relazioni e delle forme di negoziazione del sapere tra apicoltori, antropologa e figure professionali. Per il nostro fuoco tematico, interessante è l’approccio con il campo, per sua natura interdisciplinare, che ha da subito evidenziato delle criticità per quanto riguarda la difficoltà a instaurare un rapporto con le figure professionali coinvolte e soprattutto a trovare un punto d’incontro comune che permettesse di costruire la relazione con gli apicoltori.

Gli apicoltori, una comunità che in Sardegna è caratterizzata da una vasta gamma di operatori, mantengono rapporti stretti e, per certi versi, ambivalenti sia con le associazioni che si occupano di rappresentare e tutelare i loro diritti davanti alle forze politiche e alla commissione apistica regionale sia con le diverse figure professionali che in varia misura si occupano di apicoltura. La diffidenza manifestata con alcune di queste figure professionali deriva dall’idea che alcune di loro possiedano una lacunosa conoscenza delle specificità dell’apicoltura. Meloni riflette su come la percezione di diffidenza e di “non essere tutelati” influisca sulla possibilità di ottenere anche solo un generico consenso a collaborare alla ricerca antropologica. Per costruire il rapporto con gli apicoltori e collaborare è dunque indispensabile negoziare un linguaggio comune e costruire una safety zone nel chiarire gli scopi della presenza antropologica finalizzata a indagare il mondo degli apicoltori e i modi in cui questi ultimi costruiscono il rapporto con le api e il territorio.

Come nel saggio di Natali, anche nel saggio di Meloni è l’aver maturato un’esperienza diretta nel campo di intervento (in tal caso dell’apicoltura) ad essersi rivelato per l’antropologa un fattore determinante nel costruire un rapporto di collaborazione con gli apicoltori. In secondo luogo, emerge il ruolo di “mediatore culturale” assunto dall’antropologa nel contesto dell’acceso dibattito tra i diversi attori sociali, non di rado basato su una sorta di “gerarchia del sapere”, ovvero sulla contrapposizione del “sapere scientifico” e le forme del sapere apistico possedute dagli apicoltori, in un combinato di conoscenze tecnico-scientifiche e di carattere empirico. Se, come sottolinea l’autrice, il far parte di una famiglia assai nota nel contesto di apicoltori sardi ha agevolato la ricerca in quanto membro della comunità, tuttavia, il fattore di genere, in una realtà a prevalenza maschile, ha reso indispensabile dimostrare, con ancor più vigore, di possedere le competenze minime e il linguaggio tecnico proprio dell’apicoltura. In altre parole, “sapere praticamente” è necessario in un contesto in cui, nelle relazioni tra gli apicoltori e le altre figure professionali, l’expertise funziona come marcatore identitario, inteso come bagaglio di conoscenze funzionale a delineare una chiara linea di demarcazione tra il “noi” della comunità e gli “altri”, che sono quelli che non sanno e non conoscono. In tutto ciò, il sapere incorporato dell’antropologa, l’aver appreso a muoversi con disinvoltura e con i sensi in un apiario, derivato dall’essere cresciuta in una famiglia di apicoltori, ha agevolato la ricerca, permettendo di indagare in modo ancor più approfondito i saperi pratici necessari a rapportarsi con quel mondo e per costruire un rapporto in cui antropologo e apicoltore possono imparare rispettivamente l’uno dall’altro.

Come si legge nel saggio di Natali (e analogamente anche nel saggio di Farina) il “modo” per significare le pratiche è “farlo praticamente”, tramite l’implicazione sensoriale, pratica e sociale, mediata dall’interazione con gli altri nei contesti quotidiani dell’azione. Si mette così in atto l’imparare facendo, dove la dimensione pratica è interagentiva e calata in quella che Etienne Wenger definisce «comunità di pratica», ovvero il contesto sociale di riferimento dell’apprendista, che si trova a muoversi in una sorta di impresa condivisa, continuamente modificata dai suoi membri e basata su un repertorio di risorse comuni (Wenger 2007). Si apprende, quindi, anche per diventare parte di una comunità, per diventarne un membro attivo e competente, per costruirsi, allo stesso tempo, un senso di appartenenza, una nuova identità. In accordo con Ingold, potremmo anche dire che la variabilità culturale consiste allora, di fatto, in una differenza di abilità (2000: 5) dove il ricercatore (come avviene nel caso di Meloni e Farina) dovrà approcciarsi allo studio di queste abilità in modo ecologico, praticandole a sua volta.

Per gli esiti della ricerca etnografica è stato determinante anche l’uso di due strumenti digitali: la videocamera e il blog “Abieris e Abis”. L’uso della videocamera ha facilitato l’accesso al linguaggio non verbale che caratterizza l’attività dell’apicoltore nel cogliere gli aspetti sensoriali, i ritmi e gesti tipici della sua pratica. Inoltre, essendo sempre l’apicoltore a decidere luoghi, tempi e contenuti delle interviste, il momento delle riprese è divenuto occasione per attivare dei processi di collaborazione e negoziazione tra antropologo e apicoltore nella creazione del “prodotto” finale. Infine, l’utilizzo che gli apicoltori fanno del materiale etnografico reso disponibile online attraverso il blog permette sia di divulgare il sapere e le potenzialità applicative dell’antropologia al di fuori del mondo accademico sia di promuovere un dibattito costruttivo sui temi che riguardano il settore dell’apicoltura. Proprio attraverso il materiale contenuto nel blog, si è modificata la percezione che della ricercatrice avevano gli apicoltori cambiando di conseguenza anche le sue modalità di accesso al campo. Tutto ciò ha favorito, inoltre, nel tempo forme di collaborazione interdisciplinare e di gestione condivisa delle risorse naturali e del territorio.

Il design anthropology, essendo un campo ancora molto giovane, non ha ancora ricevuto piena attenzione, persino negli Stati Uniti, come distinct style of knowing e apprendimento (Otto, Smith 2013: 10-11). Esso è frutto della ricerca antropologica integrata alle pratiche di design e della collaborazione transdisciplinare tra designer e antropologi per affrontare una gamma sempre più ampia di problemi a livello di sistemi complessi che affliggono società, istituzioni e organizzazioni contemporanee. L’antropologia del design si estende oltre i confini dell’antropologia e del design per includere studiosi professionisti di una vasta gamma di discipline che operano sempre più in una cornice partecipativa ed etica, all'interno di contesti commerciali, organizzativi, educativi, sanitari, accademici, con approcci teorici e metodologici comuni e pratiche di lavoro condivise (Miller 2018: 8).

Isabel Farina descrive un progetto laboratoriale di alfabetizzazione nei campi del design digitale (Robo & Bobo) nel reparto di oncoematologia dell’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino. Il lavoro, che consiste di laboratori in cui si creano artefatti interattivi, ha visto la collaborazione interdisciplinare tra design, pedagogia, psicologia e antropologia, con un focus importante sul contesto di intervento dei concetti di malattia finalizzata a promuovere l’umanizzazione in ambienti di cura.

Nel saggio, l’autrice ha inteso non solo mostrare le possibili modalità di restituzione della ricerca etnografica attraverso diverse forme di fare antropologia applicata, ma anche rendere conto dei cambiamenti che avvengono nelle diverse discipline nel momento in cui si incontrano, dialogano e lavorano insieme. Caroline Gatt e Tim Ingold (2013: 51) invitano a ripensare il design e l’antropologia come “corrispondenza”. Essi vedono l’antropologia del design - anthropology by means of design - come una pratica di «active engagement with the world», un passaggio dalla ricerca all’azione, che cerca di corrispondere (piuttosto che descrivere) alle vite delle persone che essa segue.

La figura dell’antropologa, entrando in reparto, passa ad una sempre maggiore conoscenza non solo del contesto ospedaliero oncologico pediatrico, ma anche della dimensione applicata del design, indagando le interazioni tra soggetti umani ed oggetti tecnologici finalizzate a una migliore comprensione del soggetto pediatrico definito “paziente”. Da un punto di vista operativo, la ricerca etnografica e l’analisi antropologica hanno trovato una loro declinazione prevalentemente in tre funzioni: restituire la narrazione etnografica di quanto avvenuto durante il progetto, anche in termini di divulgazione mediatica; individuare un metodo in grado di valutare il primo anno di operatività su richiesta dei principali finanziatori per permettere la continuità. Infine, realizzare un toolkit per rendere il progetto ripetibile e scalabile.

Il processo di collaborazione tra antropologa e designer si è declinato in un’antropologia applicata in cui la restituzione del lavoro dell’antropologo, più che nella traduzione di un report scritto, traspare dal lavoro di progettazione del designer, in sostanza nel prodotto finale. Se l’antropologa volge la sua attenzione alla persona e all’interazione con l’artefatto, anche nei suoi aspetti di significato e simbolici, il designer pone attenzione al metodo progettuale per giungere alla realizzazione dell’artefatto. In tal senso, il design diviene partecipativo e i soggetti-pazienti divengono attori nel trasformare il proprio vissuto di concerto con gli altri soggetti.

L’impatto trasformativo di tale collaborazione si evidenzia nell’evoluzione del concetto di “paziente” da individuo isolato e oggettivato a “persona” che si relaziona e realizza con gli altri. Tale “passaggio” avviene attraverso il cambiamento della rete delle interazioni degli attori in campo aprendo a nuove dinamiche in un processo di continuo cambiamento. Se inizialmente il paziente veniva identificato con la sua malattia e su tale concezione ruotavano le relazioni intorno a lui, nella seconda fase la malattia da elemento identificativo diviene sfondo/contesto, mentre il paziente diventa il bambino o l’adolescente attivo in cui, ad esempio, anche il rapporto col genitore non è più simbiotico, lasciando spazio di autonomia al figlio per relazionarsi con l’operatore. Questo mutamento nella rete, ci permette di porre a fuoco, anche in tal caso, il ruolo di mediatrice dell’antropologa che, nel condurre a una maggiore conoscenza del contesto, apre spazio a nuove dinamiche relazionali, partecipative e comunicative tra i diversi soggetti, permettendo di riorganizzare i tempi e gli spazi della cura. La maggior conoscenza del contesto giunge a modificare anche l’interazione con gli oggetti, accrescendo il loro potenziale di incidere sul benessere degli utenti nel loro ambiente di vita. Grazie alla maggiore profondità conoscitiva permessa dall’analisi antropologica si rendono possibili, nella pratica, una maggiore autonomia del paziente-soggetto e una focalizzazione dei laboratori sui reali bisogni dei soggetti per un’esperienza ospedaliera più umanizzata.

Francesco Bachis descrive un percorso di alternanza scuola-lavoro condotto in alcune classi di quarta Liceo di una cittadina del centro della Sardegna nel corso del 2017 e al quale ha partecipato in veste di tutor formativo. Il progetto, realizzato con l’ausilio di una tutor interna e in collaborazione con una collega storica contemporaneista, ha riguardato un percorso di formazione alle metodologie della ricerca storica e antropologica scegliendo di lavorare sul tema delle memorie del secondo conflitto mondiale in Sardegna. Mentre la metodologia etnografica è stata quella della raccolta audioregistrata e trascritta di alcune storie di vita, con l’intento di promuovere una concezione dell’antropologia come pratica della teoria, sin dalla fase di progettazione, si sono riscontrate non poche difficoltà nel far rientrare l’attività all’interno delle griglie previste dalla legge 107/2015, la cosiddetta “buona scuola”. Se nella letteratura del ministero in merito al progetto di alternanza scuola lavoro, sembra emergere anche un modo di concepire la formazione come legata alla “pratica” (“Imparare facendo”), Bachis, oltre a far notare come questa forma di “apprendimento nel fare” sia familiare agli orizzonti di apprendimento dell’antropologia, evidenzia come, sul terreno dello specifico progetto di alternanza scuola lavoro, si siano incontrate (e scontrate) tra gli interlocutori due concezioni dell’acquisizione “pratica” del sapere con finalità diverse se non addirittura opposte. Da un lato, il sapere etnografico inteso come sapere che si apprende (anche) tramite la pratica, per impregnazione e, dall’altro, l’idea, nell’alternanza scuola lavoro, che lo studente debba venir sottratto all’attività di studio e intellettuale proprio nella misura in cui si riconosce allo studio un carattere di “non lavoro”, slegato dal fare e dalle necessità di formazione richieste dal mercato. Il paradosso è che, nel tentare di superare tale dicotomia, l’alternanza scuola-lavoro sembra riproporre una concezione che considera lavoro solo quello manuale, producendo una rigorosa quantificazione e spazializzazione delle attività che solo l’informalità dei singoli approcci pare riuscire a separare dal paradigma fordista della divisione del lavoro e del suo meticoloso calcolo. Proprio attorno a questo nodo si sono prodotte le maggiori difficoltà nel far accettare l’attività di ricerca come un lavoro a pieno titolo, in quanto il lavoro etnografico non è del tutto riducibile a un tempo e a un luogo. La prima forma di negoziazione, la più complessa da affrontare, era legata all’idea di cosa fosse il lavoro etnografico. Esso appariva alla maggior parte degli interlocutori (insegnanti e dirigenza) come qualcosa di sfuggente e non ascrivibile a un vero e proprio “lavoro”: fatto, questo, che li aveva portati ad esprimere la necessità di quantificare e localizzare esattamente il lavoro svolto dagli studenti in termini di ore lavorate, luogo di lavoro, partnership, responsabilità legali. È stato quindi necessario che l’informalizzazione della pratica venisse in qualche misura formalizzata attraverso stratagemmi e mediazioni. Solo l’interesse degli studenti (e delle loro famiglie) per il percorso svolto, ha fatto sì che l’informalità degli obblighi assunti all’atto del progetto fosse praticata innanzitutto dagli stessi protagonisti: tutor, studenti e genitori.

Un apprendimento “nel fare” funzionale alla formazione di forza lavoro utile al mercato sembrava essersi rovesciato in un fare nell’apprendere che si configurava come forma di resistenza agli stessi paradigmi che orientavano l’idea di alternanza, in un recupero attraverso l’informalizzazione del progetto, di una capacità autonoma di gestire tempi e spazi dell’apprendimento finalizzata alla costruzione di relazioni umane. In questo quadro i saperi metodologici dell’antropologo hanno dovuto continuamente confrontarsi con altri saperi e protocolli mutuati da una concezione diversa del lavoro e di una formazione finalizzata alla risposta a specifiche esigenze di mercato e all’ottemperanza rigida ai progetti ministeriali. In un certo qual modo questa negoziazione ha rappresentato anche la sperimentazione, da parte dei soggetti coinvolti, di una forma di resistenza e per gli insegnanti, un esempio di soluzione creativa rispetto alle quantificazioni e spazializzazioni del lavoro e alla loro semplificazione normativa.

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[1] Il V Convegno Nazionale della Società Italiana di Antropologia Applicata si è tenuto dal 14 al 17 dicembre 2017 presso l’Università degli Studi di Catania sul tema “Collaborazione e mutualismo: Pratiche trasformative in tempo di crisi”. Il panel, coordinato con Federica Tarabusi, dal titolo “Reciprocità e pratiche di collaborazione fra sapere antropologico e altre expertise professionali” ebbe un numero talmente elevato di proposte e adesioni che decidemmo di dividerlo in due sessioni distinte e complementari, in modo che ciascuna potesse dedicare tempo, risorse intellettuali, stimoli e discussioni approfondite su temi più circoscritti. Il presente numero monografico sarà seguito da un analogo fascicolo curato da Federica Tarabusi, il cui contenuto, come nel Convegno di Catania, sarà complementare ai temi di questo. Anche questa occasione è gradita per ringraziare Giovanna Guerzoni, discussant a Catania nella sessione da me coordinata.

[2] La Terza Missione è l’insieme delle attività con le quali le università entrano in interazione diretta con la società e affianca le missioni tradizionali di insegnamento e di ricerca.

[3] Sull’importanza che riveste l’etnografia della e nella liminalità nelle esperienze di co-apprendimento sia consentito di riferirmi a Bonetti 2019a.