Saperi condivisi, saperi in conflitto

Etnografia dell’apicoltura in Sardegna

Greca N. Meloni

Università di Vienna, Doc Fellowship Österreichische Akademie der Wissenschaften (ÖAW)

Table of Contents

Introduzione
Il campo dell’apicoltura in Sardegna
Saperi a confronto: costruire il rapporto con gli apicoltori
Forme di co-produzione tra antropologia e apicoltura
Per una etnografia del co-management
Bibliografia

Abstract. The paper analyzes the outcomes of the processes of sharing and integration between anthropological knowledge and expertise in the field of beekeeping in Sardinia. The research inserts as a part of the ongoing debate that sees a large part of the community of Sardinian beekeepers opposed to the regional government agencies accused of formulating plans for environmental and landscape management that do not consider the forage potential of the territory, compromising the beekeeping sector. The research offers the opportunity of investigating the processes of negotiation and construction of identity activated by the use of a camcorder within the ethnographic research. Through the analysis of some practical cases, the article intends of showing how the anthropological skills and knowledge lead the researcher to take on the role of “cultural mediator” between the rights claimed by the beekeepers’ community and the reasons of the institutions, the former partially articulated in informal local knowledge based on direct contact with the “natural world”, the latter developed in the field of technical-scientific knowledge. Furthermore, the research questions the possible applications of the anthropological research outside the academic field activity exploring the disclosure activity taken on by the anthropologist through the blog Abieris e Abis. Finally, the paper introduces the concept of co-management of natural resources, investigating possible forms of interdisciplinary collaboration and modalities of mutual recognition of formal and informal knowledge.

Keywords: Beekeeping; Sardinia; Local knowledge; Visual ethnography; Co-management.

Introduzione

Nell’ultimo decennio, la massiccia moria delle api denunciata dapprima dagli apicoltori di alcune regioni degli Stati Uniti, e successivamente anche in tutta Europa, ha suscitato una crescita di attenzione da parte di scienziati, giornalisti, scrittori, filmmakers e media, animati dall’interesse a scoprire le cause di questo apparentemente inspiegabile fenomeno che si teme possa portare alla scomparsa dell’insetto (Fenske 2015)[1]. A partire dal 2007, quando gli scienziati coniarono per la prima volta il termine Colony Collapse Disorder (CCD - Sindrome da spopolamento dell’alveare) si è assistito al proliferare di iniziative volte a promuovere nell’opinione pubblica un approccio più rispettoso nei confronti delle api. Da parte loro, gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno avviato (e continuano a finanziare) programmi di ricerca sulle cause possibili del fenomeno del CCD e sulle possibili soluzioni da mettere in campo per “salvare le api” dall’estinzione e di conseguenza salvare il regime alimentare ad esse collegato attraverso il sistema di impollinazione (Laschewski 2015).

In Sardegna, la moria delle api è più spesso collegata a questioni climatiche o a virus e acariosi noti da decenni, mentre non sembra essersi ancora manifestata nelle modalità disastrose e massive tipiche della CCD. Nonostante ciò, i discorsi sull’importanza delle api e la nuova sensibilità e percezione che la cultura popolare riserva a questi insetti si intrecciano con elementi più specifici che caratterizzano il campo dell’apicoltura in Sardegna e più in generale il dibattito che riguarda la gestione del territorio e la tutela della biodiversità dell’isola (Meloni 2018).

In questo articolo cercherò di analizzare il campo dell’apicoltura in Sardegna concentrando l’attenzione sulle dinamiche di costruzione delle relazioni e delle forme di negoziazione del sapere tra apicoltori e antropologa, prendendo in considerazione anche il ruolo assunto dalle altre figure professionali che agiscono nel campo dell’apicoltura.

Il caso studio qui presentato fa parte di un più ampio progetto di ricerca[2] che analizza i processi di costruzione dell’identità che si producono all’interno delle tensioni che emergono tra le diverse associazioni apistiche, e i conflitti che vedono la comunità[3] di apicoltori sardi contrapporsi alle istituzioni regionali sia sul piano delle politiche di gestione dell’ambiente, sia su quello della valorizzazione dei prodotti locali derivati.

Particolare rilevanza è data all’analisi delle pratiche e dei saperi locali necessari agli apicoltori per costruire il proprio rapporto con l’“organismo alveare” (Seeley 2010: 10) e con il territorio in cui operano.

La ricerca sul campo, iniziata nel gennaio 2016 e condotta con l’ausilio di una videocamera, ha alternato momenti di indagine sulle diverse attività che scandiscono la conduzione degli alveari, a interviste dirette agli apicoltori che in qualche misura assumono il ruolo di “portavoce” dei problemi dell’apicoltura sarda davanti alle istituzioni regionali. Infine l’indagine etnografica è integrata da colloqui con i vari attori sociali e politici che a diverso titolo sono coinvolti in questo campo. Il lavoro di terreno ha fatto emergere negli apicoltori sardi diversi modi di approcciarsi all’apicoltura e ha evidenziato le differenti posizioni riguardo la percezione dell’ambiente e la gestione delle risorse naturali, spesso connesse a un forte senso di appartenenza al territorio in cui si opera. L’analisi dei dati etnografici finora raccolti ha messo in luce che gli apicoltori in Sardegna operano generalmente in un territorio ben definito che sentono di “conoscere bene”. In questo senso, “conoscere” il territorio significa, per loro, essere in grado di leggere e interpretare la rete di azioni umane e non umane che agiscono in un dato spazio e sentire di prenderne parte attraverso il proprio fare. Come si evince dalla lettura di un qualsiasi manuale di apicoltura, qualunque apicoltore, per poter operare, deve necessariamente possedere nozioni avanzate di biologia dell’ape e conoscere il funzionamento dell’organismo alveare, e possedere un buon livello di conoscenza del territorio in cui egli posiziona il suo apiario. Tuttavia, nel caso di molti degli apicoltori sardi conoscere il territorio significa condividere con esso una forte intimità, conoscerne la storia dei luoghi, la memoria di chi lo ha abitato e modificato con il proprio lavoro e prenderne parte con il proprio fare. Attraverso questo “conoscere il mondo e agire su di esso”, gli apicoltori sembrano sviluppare una sorta di “capitale culturale” (Bourdieu 1984) che consente loro di elaborare una certa visione di sé stessi, dell’apicoltura e della Sardegna in qualche misura contrastante con la visione promossa dagli enti regionali e nazionali (Meloni 2018).

In questo articolo cercherò di mostrare le tensioni che si generano nel confronto tra diverse forme di expertise che operano nel campo dell’apicoltura sarda. Mi soffermerò ad analizzare come il provenire da una famiglia di apicoltori abbia facilitato il mio accesso al campo definendo il mio posizionamento. Particolare rilevanza verrà data al ruolo di “mediatore culturale” assunto dall’antropologa nel contesto del dibattito sulla gestione delle risorse naturali utili all’apicoltura.

Infine, mostrerò come l’utilizzo della videocamera per condurre la ricerca sul campo, promuovendo forme di rappresentazione del sé tra gli apicoltori e gli altri attori sociali, abbia favorito l’emergere di processi di negoziazione e forme di co-produzione tra l’antropologa e gli informatori.

Il campo dell’apicoltura in Sardegna

L’apicoltura, in generale e in Sardegna in particolare, può essere riconnessa al più ampio campo dell’agricoltura dalla quale, però, per la sua natura a metà tra zootecnia e silvicoltura, mantiene un certo livello di autonomia e separazione. All’interno del campo dell’apicoltura le differenti forme di expertise legate a figure professionali molto diverse si confrontano su tematiche che riguardano la gestione dell’ambiente e delle risorse naturali del territorio, la tutela del paesaggio, la salvaguardia della biodiversità dell’isola, la gestione del mercato di importazione delle varie specie di Apis mellifera, il monitoraggio di specie dannose introdotte nell’isola accidentalmente, il cambiamento climatico e la globalizzazione. Si aggiunge a questi temi il dibattito sulla promozione e tutela dei prodotti tipici locali come il miele, l’abbamele[4], il torrone, e la storia e la tradizione apistica della Sardegna. Queste tematiche si inseriscono in ambiti più generali che riguardano la nozione di autoctonia e le questioni legate all’identità dei sardi e della Sardegna (Angioni et al. 2007; Meloni 2018).

Per la sua natura interdisciplinare, l’approccio con il campo ha da subito evidenziato delle criticità per quanto riguarda la difficoltà a instaurare un rapporto con le diverse figure professionali coinvolte e soprattutto a trovare un punto d’incontro comune che permettesse di costruire la relazione con gli apicoltori. La comunità di apicoltori sardi è estremamente dinamica e caratterizzata da una gamma vastissima di operatori più o meno specializzati che praticano l’apicoltura come attività agricola principale o come attività di integrazione del reddito[5]. Il primo gruppo è composto da aziende per cui l’apicoltura rappresenta l’unica fonte di guadagno a sostegno della famiglia. Questi apicoltori generalmente gestiscono dai 150 a circa 2000 alveari, che possono arrivare fino a 3000 nelle forme associate[6]. Al secondo gruppo appartengono gli apicoltori la cui attività principale si colloca in settori che possono essere diversi e quindi non esclusivamente legati al mondo agro-pastorale, per i quali l’apicoltura si configura come attività in grado di produrre una fonte integrativa al reddito principale. A queste figure professionali si affianca il gran numero di apicoltori amatoriali, i cosiddetti “hobbisti”, che praticano questa attività per piacere personale producendo miele per autoconsumo, e che dovrebbe (secondo le normative) gestire un numero di alveari inferiore alle 10 unità[7]. Esistono poi alcune associazioni che si occupano di rappresentare e tutelare i diritti degli apicoltori davanti alle forze politiche e alla commissione apistica regionale (Legge Regionale 24 luglio 2015, art.11): l’organizzazione di produttori apistici sardi (O.p.a.s.) Terrantiga, fondata nel 2010, l’associazione Apiaresos, attiva dal 1987 (Manias 2017: 51) e infine l’associazione Api.Pro.Sardegna costituitasi a dicembre del 2017 con lo scopo di «tutelare il lavoro e valorizzare il prodotto degli apicoltori della Sardegna che svolgono la propria attività a livello professionale, dunque a fini imprenditoriali ed economici»[8].

Gli apicoltori mantengono rapporti stretti con le diverse figure professionali che in varia misura si occupano di apicoltura: veterinari, tecnici apistici, ricercatori, responsabili delle agenzie regionali, politici, biologi, entomologi, chimici, esperti nazionali dei mieli, carabinieri del nucleo antisofisticazione, guardia di finanza e altri. Il rapporto che gli apicoltori instaurano con queste figure, ciascuna delle quali rappresenta una expertise professionale, in qualche modo influenza la possibilità di accedere al campo e di costruire il mio rapporto con gli apicoltori in qualità di antropologa.

Se per certi versi la comunità degli apicoltori sardi si mostra relativamente aperta a forme di dialogo e collaborazione con le realtà apistiche nazionali e internazionali, i singoli apicoltori manifestano una certa diffidenza, in modo particolare i professionisti che praticano apicoltura da lungo tempo. Una delle motivazioni di questa chiusura è da ricercarsi nel rapporto di natura conflittuale che gli apicoltori spesso intrattengono con le altre figure professionali, particolarmente con i tecnici apistici delle agenzie regionali e con i veterinari, i quali rappresentano l’organo esecutivo delle amministrazioni e sono dunque formalmente responsabili di valutare la salute degli alveari e intervenire, in maniera anche drastica, secondo le normative. Spesso gli apicoltori ritengono che queste figure professionali possiedano una lacunosa conoscenza delle specificità dell’apicoltura, dei tempi e delle pratiche legate alla conduzione degli alveari, delle caratteristiche microclimatiche e pedologiche del territorio e dei numerosi fattori che possono interagire con l’organismo alveare e comprometterne le capacità produttive. Una conoscenza frammentaria delle dinamiche che caratterizzano la conduzione degli alveari nel corso dell’anno può portare a conseguenze disastrose, non solo in termini di produttività ma soprattutto di sopravvivenza delle colonie d’api. Come tutti gli operatori del settore zootecnico, anche gli apicoltori sono soggetti a precise norme igienico-sanitarie volte a contrastare la diffusione tramite contagio di infestazioni e virosi. In questo senso, ad esempio nel caso in cui un alveare – o un apiario – sia positivo a batteriosi come la peste americana o la peste europea (Wilson Rich 2014: 42-43) e, recentemente, l’Aethina tumida [9], la legge prevede che si bruci l’intero apiario, incluse le arnie, e che si controllino, ed eventualmente distruggano, gli apiari vicini[10].

Diffusa tra gli apicoltori è la sensazione che i diversi operatori incaricati della gestione del comparto apistico, invece di collaborare per promuovere soluzioni che tengano conto delle loro esigenze assumano in realtà un atteggiamento “repressivo” nei loro confronti, particolarmente nei confronti degli apicoltori professionisti. Esemplificative in questo senso sono le parole usate da F. Caboni, rappresentante della Op. Terrantiga, che commenta così l’incontro tra associazioni apistiche e il servizio veterinario incaricato di formulare il nuovo piano regionale anti varroa[11]:

Ieri durante l'incontro con il servizio veterinario si è discusso del nuovo piano antivarroa, presenti oltre delegazione organizzatrice anche Luigi Manias e Alessandro Lampis. Credo che la visione degli apicoltori sia stata abbastanza comune convenendo sulla sostanziale inutilità del metodo visto che non si capisce che è di fatto inutile fare un piano di controllo se prima non si fa un piano di ricerca di tutte le postazioni non censite dell'anagrafe apistica. In ultima analisi tra le varie discussioni ho avuto l'impressione che alcuni esponenti del servizio sanitario continuino a valutare il loro operato come “repressivo” e non di sostegno. È grave che chi parla non capisca la differenza tra una prescrizione senza ricetta e un farmaco ma soprattutto non sia capace di fare una distinzione tra un animale e un insetto. Vedo ancora troppa sufficienza da parte di chi dovrebbe invece essere un supporto al settore e in alcuni momenti la discussione ha raggiunto apici di irragionevolezza che ci fanno capire quanto sia importante che la commissione apistica venga insediata il prima possibile, esorto tutti i rappresentanti delle associazioni apistiche ad aumentare il pressing nei confronti dell'assessorato all'agricoltura PS unica nota positiva è che si parla di 60.000 alveari quindi la prossima 1308 dovrebbe essere raddoppiata nei fondi messi a disposizione per il settore[12].

Senza dover scendere nei dettagli degli aspetti tecnici delle procedure sanitarie in apicoltura, è utile però riflettere su come la percezione di non essere tutelati (Welz 2015) sia generata dal confronto tra il sapere degli apicoltori e l’expertise degli operatori regionali che si occupano di apicoltura, i primi parzialmente articolati in saperi non-algoritmizzati originati dal contatto diretto con la “natura”, i secondi basati sul sapere tecnico-scientifico generato nel campo delle scienze dure. In altre parole, il sapere informale locale degli apicoltori è relegato a una posizione subalterna perché considerato inferiore rispetto al sapere scientifico tradizionale (Escobar 1998). Questa “gerarchia” dei saperi produce negli apicoltori la sensazione di esporre la propria azienda al rischio di danneggiare l’attività e influisce sulla possibilità di ottenere non solo un generico consenso a collaborare alla ricerca antropologica, ma più specificamente ad essere filmati con una videocamera.

Mi soffermerò in seguito sui meccanismi attivati dall’utilizzo della videocamera sul campo. È però indispensabile valutare come il sentirsi esposti alle decisioni prese da altre figure professionali comporti la necessità di cercare di stabilire una sorta di “connessione sicura” che tenga conto della posizione precaria in cui si trovano gli apicoltori sardi. Per costruire il rapporto con essi è stato dunque indispensabile negoziare un linguaggio comune e costruire una safety zone all’interno della quale avviare gli eventuali processi di collaborazione (Martin 2006: 192). Questo ha significato definire gli ambiti e le prospettive in cui si muove la ricerca antropologica, ma anche negoziare i temi, valutare di volta in volta quali sono le tematiche da affrontare. È stato indispensabile trovare il modo e il linguaggio adeguati a chiarire che gli ambiti della ricerca antropologica si discostano da quelli della ricerca nel campo delle scienze naturali e che dunque l’indagine non ha lo scopo di produrre un archivio sulle diverse pratiche igienico sanitarie e forme di lotta alla varroasi o ad altri parassiti, quanto piuttosto quello di conoscere la vita e il mondo degli apicoltori, e di indagare i modi in cui costruiscono il loro rapporto con le api, con il territorio e con la società sarda. Solo in questo modo è stato possibile evitare che il confronto tra il sapere dell’antropologa, in qualche misura percepito come un sapere scientifico tradizionale perché generato nel mondo accademico, riproducesse gli stessi meccanismi di potere sopra accennati.

Almeno per quanto riguarda questa fase preliminare dell’approccio al campo, e cioè nell’ottenere i contatti diretti sia con gli entomologi dell’Università di Sassari ma soprattutto con gli apicoltori sardi, sono stata in qualche modo agevolata dal fatto di essere figlia di un apicoltore, o per meglio dire di far parte di una famiglia (in senso allargato) di apicoltori nota nel mondo apistico isolano. La mia posizione iniziale nel campo dell’apicoltura sarda era dunque mutuata dalla percezione diffusa tra gli informatori di essere un membro “legato direttamente” alla comunità. Secondo quel sistema di relazioni sociali caratteristico delle società agropastorali sarde (Angioni 1974) di cui l’apicoltura fa parte, accettare di parlare con me significava in qualche misura mantenere un buon rapporto con la famiglia di cui faccio parte. In altre parole, partecipare alla ricerca svolta da una persona legata a un membro della comunità di apicoltori talvolta rappresentava un segno di rispetto nei confronti della famiglia stessa e si configurava come una opportunità di mantenere – o eventualmente costruirne ex novo – un sistema di rete sociale funzionale a far parte del campo dell’apicoltura in Sardegna.

Vedremo nel prossimo paragrafo come in realtà non tanto il far parte della comunità in senso lato quanto piuttosto l’aver maturato un’esperienza diretta nel campo dell’apicoltura si sia rivelato per me un fattore determinante nel costruire un legame con gli apicoltori. Superata questa fase preliminare e una volta definiti i confini ideali entro cui costruire la relazione di collaborazione, è infatti emersa la necessità, da parte mia, di dimostrare ai miei interlocutori di possedere un bagaglio di conoscenze, anche pratiche, sufficiente a instaurare un rapporto basato sulla condivisione del sapere stesso.

Saperi a confronto: costruire il rapporto con gli apicoltori

Come ho anticipato nel precedente paragrafo, nelle relazioni tra gli apicoltori e le altre figure professionali, il sapere tecnico, l’expertise, inteso come bagaglio di conoscenze, rappresenta una questione determinante per gli apicoltori, funzionale a delineare una chiara linea di demarcazione tra il “noi” membri della comunità e gli “altri”, che sono quelli che non sanno o che non conoscono (Angioni 2003: 243). L’apicoltura è una pratica estremamente complessa che necessita di un sapere tecnico altamente specializzato per poter essere esercitata. Dall’indagine etnografica è emerso che in linea generale gli apicoltori non amano condividere il loro sapere con persone inesperte o estranee al settore apistico, eccetto che nell’ambito di una relazione del tipo maestro-apprendista in quanto, come mi disse un apicoltore durante una conversazione sul campo, «non si può parlare di apicoltura e dei problemi dell’apicoltura sarda con un “apicoltore” appena uscito da un corso di introduzione che non sa nemmeno la differenza tra arnia e alveare!». Configurandosi come elemento distintivo dell’attività lavorativa, e contribuendo a definire il grado di specializzazione e professionalità di chi lo possiede, il sapere, o per meglio dire il “saper fare apicoltura”, funziona come marcatore di identità: è ciò che distingue gli apicoltori “bravi” dai cosiddetti “improddéris” (letteralmente “pasticcioni”), gli “esperti” dai “novizi”, i “professionisti” dagli “amatori”.

In questo senso, partendo a ritroso dal prodotto finito, e cioè idealmente dalla confezione di miele sullo scaffale di un negozio, per un apicoltore professionista è indispensabile conoscere le fasce di prezzo sulle differenti filiere di mercato delle varie tipologie di miele; le normative igienico-sanitarie europee e nazionali legate alla produzione, lavorazione, invasettamento, etichettatura e vendita del miele e dei prodotti dell’alveare; essere aggiornati sui programmi a sostegno dell’apicoltura; conoscere le disposizioni dei Piani di sviluppo rurale, e in generale avere una buona dimestichezza con la burocrazia regionale e nazionale. Continuando l’ideale percorso tracciato e avvicinandoci alle api, si può notare che per poter praticare questa attività è indispensabile che l’apicoltore conosca in maniera approfondita la biologia dell’ape e il funzionamento del “super organismo alveare” (Seeley 2010: 10); possegga nozioni di etologia dell’ape e delle diverse specie di animali suoi antagonisti; che abbia un buon grado di conoscenza delle specie floreali presenti nel territorio in cui posiziona l’apiario e delle aree limitrofe fino a 10 Km – che è la distanza percorsa dalle api per approvvigionarsi di polline (Beekman, Ratnieks 2000); padroneggi con sicurezza le tecniche di conduzione dell’alveare, incluso le procedure di controllo e prevenzione di infestazione dei parassiti; sia in grado di valutare le potenzialità nettarifere di una certa zona durante il corso dell’anno; deve essere abile a prevenire e fronteggiare i danni ambientali causati da incendi, vento e forti piogge. Di estrema importanza è poi conoscere la tipologia delle attività umane e valutarne l’impatto sul territorio e sui propri alveari. Ad esempio, se nelle vicinanze si pratica allevamento o agricoltura usando metodi intensivi o biologici, per evitare contaminazioni ambientali sul miele.

È interessante notare come in molti casi, a queste conoscenze di base talvolta gli apicoltori sardi aggiungano un proprio “archivio personale” di informazioni sul territorio che include la padronanza perfetta dei toponimi locali in lingua sarda, delle caratteristiche pedologiche e la conoscenza della rete di relazioni umane collegate all’utilizzo della terra. Generalmente gli apicoltori posizionano i propri alveari su terreni privati, ed è quindi necessario che siano a conoscenza (nonché in buoni rapporti) non solo dei proprietari dei terreni in cui vengono posizionati gli apiari, ma anche dei proprietari dei terreni confinanti, dei loro custodi, dei pastori e/o agricoltori a mezzadria, dei cacciatori, delle guardie forestali, e di chiunque a vario titolo usufruisca del terreno e delle relazioni sociali che tutti questi intrattengono tra loro. L’apicoltore, dunque, spesso possiede una conoscenza intima del territorio in cui opera, conoscenza che ha acquisito con il tempo e che in alcuni casi è funzionale non solo a mettere in sicurezza i propri alveari, ma anche a mantenere rapporti sociali e/o costruirne di nuovi. Si pensi ad esempio al caso dei furti di alveari che si verificano ciclicamente in tutta Italia [13] e che spesso in Sardegna manifestano dei meccanismi di circolazione che, seppur mitigati, sono simili ai casi di abigeato descritti da Benedetto Caltagirone per i pastori sardi (1989).

Questi fattori determinano l’esigenza da parte dell’antropologa di trovare un terreno comune su cui costruire forme di collaborazione e di condivisione del sapere con gli informatori.

Per accedere al mondo dell’apicoltura e studiare le dinamiche socioculturali che si celano dietro al fenomeno dell’apicoltura urbana a New York, le sociologhe Lisa Jean Moore e Mary Kosut hanno frequentato un corso di apicoltura al Central Park Arsenal e diversi corsi addizionali tenuti dall’entomologo Thomas Seeley (Moore, Kosut 2013: ebook pos. 3). La condizione di novizie ha definito la loro posizione nel campo determinando l’andamento dell’indagine come loro stesse affermano:

Our practice of simultaneously taking notes about bees combined with learning how to become a beekeeper, while also attempting a sociological metalevel analysis of who was in the room and thinking about their concerns and connections to other humans and European honeybees, was a challenge. We wanted to learn the language of bee care, understand the creatures’ habits through human translations and mediations (as the bees were absent and not speaking for themselves), and at the same time get a sense of the humans who surrounded us (Moore, Kosut 2013: ebook pos. 4).

Come ho anticipato, la mia esperienza diretta con l’apicoltura e il mio personale legame con questo mondo hanno agevolato i contatti con gli apicoltori i quali talvolta accettavano di parlare con me come segno di rispetto per mantenere un buon rapporto con la famiglia alla quale venivo naturalmente associata. Tuttavia, far parte di una famiglia di apicoltori non era elemento sufficiente a darmi il diritto di discutere di apicoltura in quanto non determinava necessariamente il possesso di una conoscenza delle pratiche e delle specificità dell’apicoltura sarda. Accadeva durante le interviste che inizialmente gli apicoltori rispondessero alle mie domande in maniera che io ritenevo generica e approssimativa, riprendendo alcuni slogan e luoghi comuni ricalcati sul concetto di save the bees diffusasi a partire dalla campagna mediatica scaturita dal fenomeno del Colony Collapse Disorder (CCD) al quale ho accennato nell’introduzione.

A questo atteggiamento è probabilmente legato anche un fattore di genere. La comunità di apicoltori sardi è infatti, con alcune eccezioni, prevalentemente maschile e le donne che ne fanno parte sono generalmente o mogli degli apicoltori che contribuiscono al lavoro aziendale specializzandosi in ambiti specifici dell’apicoltura come la produzione di regine, la gestione del laboratorio e della contabilità, oppure sono giovani apicoltrici che spesso vengono associate a forme di apicoltura definite criticamente “naïve” o “bee-friendly” – come mi è stato detto nel corso di un’intervista – salvo poi dimostrare di possedere delle competenze adeguate, e quindi guadagnarsi un certo rispetto tra i membri della comunità. Di conseguenza, per me diventava indispensabile “dimostrare” di possedere le competenze minime e il linguaggio tecnico proprio dell’apicoltura. In altre parole, è emersa la necessità di dimostrare “di sapere praticamente” o “saper fare” (Angioni 2011)[14].

La qualità delle informazioni che si scambiano, i discorsi e i temi trattati sono strettamente legati alla possibilità di costruire un terreno d’incontro in cui l’antropologa e l’apicoltore possano condividere la propria expertise. Tuttavia, questo non significa che per poter parlare con gli apicoltori abbia dovuto svolgere un periodo di apprendistato con loro in apiario. Ha significato piuttosto dover utilizzare gli strumenti del sapere antropologico per cercare di negoziare le forme e un linguaggio basato sui saperi tecnici e naturalistici che possiedo e che in buona parte ho incorporato crescendo in una famiglia di apicoltori. Questo sapere incorporato mi ha permesso di trovare, anche fisicamente, una posizione nel campo. Crescere in una famiglia di apicoltori ha significato essere costantemente circondata dalle api, imparare simultaneamente a camminare e a muoversi in apiario senza assumere comportamenti che possano creare una reazione pericolosa negli alveari, utilizzare vista, olfatto e udito per capire il mondo che mi circonda e condividerlo con le api. In altri termini, non ho mai percepito questi insetti come "flying others" (Moore, Kosut 2013). Ho appreso molto presto a muovermi in sicurezza tra loro durante la visita ad un apiario. Di conseguenza, quando accompagnavo gli apicoltori alle visite agli apiari questi, molto presto, imparavano a non preoccuparsi di dovermi dire dove stare o che atteggiamento assumere per prevenire un’aggressione da parte delle famiglie d’api. Potevamo invece concentrarci su argomenti specifici come ad esempio la selezione degli ecotipi, il tipo di attrezzatura utilizzata in rapporto alle tecniche di conduzione degli alveari scelte, il tipo di approccio all’organismo alveare, e altri aspetti strettamente tecnici che riguardano l’apicoltura. Questo fattore ha dunque agevolato la ricerca, permettendo di raggiungere un livello più intimo e di indagare in misura più efficace come le pratiche e i saperi tecnici e naturalistici diventino gli strumenti utilizzati dagli apicoltori per rapportarsi con il mondo.

Fig. 1. L. Manias durante un controllo in apiario, Ales (fotografia di Greca N. Meloni, 2018).

In questo modo ho potuto rendermi conto di come il fare apicoltura diventa un mezzo per conoscere il mondo abitato, per capirlo, interpretarlo, costruirlo e per classificarlo. Attraverso pratica e sapere gli apicoltori costruiscono il rapporto con le api, con l’ambiente, con il lavoro e con gli altri membri della società prendendo parte alla rete di esseri umani e non umani che attraverso il proprio agire contribuiscono a creare il mondo che abitiamo (Tsing 2015; Bennett 2009). Fare è anche il mezzo attraverso cui si costruisce il rapporto con il territorio, è un operare sul mondo “conosciuto”, in cui sono visibili le tracce dell’agire degli uomini e delle donne nel passato, di cui si conosce la storia e la memoria dei luoghi a cui si sente di appartenere. In altre parole, il fare è il mezzo utilizzato dagli apicoltori per costruire la propria intimità culturale con questi superorganismi e il territorio.

Nel descrivere il rapporto tra apicoltore e territorio, L. Manias «erede e continuatore di una tradizione familiare iniziata da» [suo] «nonno Luigi Olla nel 1917», come lui stesso si definisce, afferma:

[…] io ho sempre pensato che si potesse fare apicoltura nello stesso posto dove tu sei nato, dove sono nati i tuoi nonni. La mia famiglia è attestata dal 1487 ad Ales. Ho sempre pensato che fosse un’ottima opportunità, non una forma di isolamento, una splendida opportunità poter continuare a fare quello che hanno fatto i tuoi antenati – veramente i miei antenati, no? Pensando a Juan Antioco Manias 1654, veramente i miei antenati! – nello stesso posto dove loro sono nati. Io mi sento davvero parte integrante di questo territorio, non faccio, non sono solo l’erede e il continuatore, come ho detto prima di un’attività, io faccio parte di questo paesaggio, umano anche, no? Insomma, e questo per me è importante (L. Manias, Ales, luglio 2016).

La natura e l’ambiente rappresentano quindi un luogo abitato e costruito in cui sono percepibili i segni lasciati dai propri antenati.

È attraverso la pratica quotidiana e il sapere che guida il fare che gli apicoltori sviluppano una forma di “capitale culturale” che li porta a elaborare una visione di sé e della Sardegna alternativa a quella proposta dalle istituzioni. La possibilità di attingere a un bagaglio comune di saperi ha quindi posto le basi per costruire un rapporto di collaborazione in cui antropologa e apicoltore possono condividere l’expertise e imparare rispettivamente l’uno dall’altro. Inoltre, la possibilità di accedere a un livello più interno e intimo del vissuto degli apicoltori ha permesso di andare oltre gli aspetti più superficiali che caratterizzano il rapporto tra la comunità di apicoltori e il mondo politico e di evidenziare il funzionamento delle diverse forme di potere che esercitano gli attori sociali.

Forme di co-produzione tra antropologia e apicoltura

La mia ricerca etnografica si è prodotta attorno all’utilizzo di due strumenti digitali che in una certa misura hanno caratterizzato la struttura stessa dell’indagine e ne hanno determinato i risultati: la videocamera e il blog Abieris e Abis. Nel primo caso, l’approccio alla ricerca con una videocamera sul campo si è rivelato fondamentale, innanzitutto per la possibilità che questo mezzo offre di accedere alla dimensione corporale e al linguaggio non verbale che caratterizza l’attività dell’apicoltore (Martin, 2006). Attraverso la telecamera ho potuto indagare i saperi non-algoritmizzati (Angioni 2011) legati al rapporto tra l’apicoltore e l’organismo alveare, soffermarmi sugli aspetti sensoriali tipici della pratica dell’apicoltura, osservare i ritmi, i gesti e le diverse performance messe in atto dagli apicoltori. Tuttavia, è importante sottolineare che è sempre l’apicoltore che decide i luoghi, le attività sul campo, il tempo da dedicare alle interviste, l’andamento del discorso, ma anche ciò che dovrei riprendere assolutamente e ciò che non ha rilevanza o anche non si vuole riprendere. In questo senso, il momento delle riprese diviene luogo performativo e occasione per attivare dei processi di collaborazione tra antropologa e apicoltore per la creazione di un “prodotto” che per sua natura può essere ri-negoziato nella fase successiva alle riprese stesse.

Nella primavera del 2018, durante le riprese nella costa sudorientale dell’isola, chiesi a G. Bellu[15] di visitare un “bell’apiario” che per lui poteva essere interessante. Saliti sul furgoncino, è iniziata quella che si può definire una sorta di visita guidata con tanto di informazioni sulle caratteristiche geologiche dell’area, il tipo e numero di nuraghi e altri resti archeologici presenti sul territorio, la storia delle attività minerarie che hanno caratterizzato il periodo tra ‘800 e ‘900 e solo brevi e generiche informazioni sulle potenzialità nettarifere per le api e sulle condizioni dell’apiario. Il legame con il territorio sembra essere inseparabile da quello che gli apicoltori costruiscono con le api.

È in questa fase che antropologa e apicoltore, ciascuno con i propri strumenti che ne definiscono il ruolo sul campo, si trovano l’uno di fronte all’altro a osservarsi, a scambiarsi lo sguardo, a conoscersi. Lo sguardo al di là della telecamera attinge ai saperi sull’apicoltura per cercare di prevedere i gesti dell’apicoltore mentre i movimenti del mio corpo seguono i ritmi dettati dalle api e dal modo in cui l’apicoltore dialoga con loro.

Per spiegare meglio cosa intendo potrei raccontare due episodi distinti, avvenuti in due zone molto diverse della Sardegna, in fasi dell’anno apistico differenti e con apicoltori diversi.

In primavera, seguivo degli apicoltori nel Sarrabus, a sud est della Sardegna, durante la fase di controllo della sciamatura con la tecnica della rimozione delle celle reali dai favi di covata. In apiario siamo quattro persone, la responsabile dell’azienda, una donna che gestisce gli alveari del padre da cui ha imparato il mestiere, due collaboratori ed io. Dei quattro sono l’unica ad usare i guanti, mentre gli altri lavorano tranquillamente a braccia e mani nude. Mi spiegano che è una tecnica studiata dal padre per utilizzare dei movimenti più delicati che seguano i ritmi dell’alveare. Sono i gesti del corpo il linguaggio utilizzato dagli apicoltori per “comunicare” con le api. Li osservo mentre ciascuno apre delicatamente l’alveare che ha scelto, verificano la presenza o meno di segni di sciamatura imminente, sopprimono le eventuali celle reali, posizionano dei bastoncini di asfodelo davanti all’arnia per poi scuotere in maniera decisa il favo di covata per permettere alle api di rientrare all’interno dell’alveare. I tre eseguono gli stessi movimenti alla stessa velocità, con lo stesso ritmo, in totale armonia. Così, seguendo i loro gesti anche io mi muovo seguendo i ritmi del loro corpo e quelli degli alveari e mi accorgo di assistere a una vera e propria performance di danza in cui sono le api a scandire il ritmo dei nostri corpi.

Così come in qualsiasi altra performance di danza, anche qui è necessario conoscere la musica, i passi e il ritmo. Non si tratta solo di seguire la risposta delle api ai gesti dell’uomo, ma di avere incorporato i movimenti e la catena operativa che l’apicoltore svolge in una specifica fase del lavoro. In questo caso, avere incorporato il gesto tecnico mi consente di anticipare i gesti che gli apicoltori eseguono in questa particolare operazione.

Fig. 2. Controllo sciamatura, Sarrabus (fotografia di Greca N. Meloni, 2018).

Fig. 3. Controllo sciamatura, Sarrabus (fotografia di Greca N. Meloni, 2018).

Il secondo episodio è accaduto in estate, tra la fine della fioritura dell’eucalipto e la fase che precede i trattamenti antivarroa. Sul campo siamo solo io e l’apicoltore, che procede a ritmo spedito a verificare la situazione delle famiglie e segnare sul coperchio dell’arnia le informazioni necessarie. Ai suoi gesti rapidi e decisi l’alveare risponde inviando tutte le guardiane che può. È così che descrivo la mia esperienza sul quaderno di campo:

Mi sorprendono subito le sue api: nervose, aggressive. Cerco di capire se sono aggressive loro oppure è lui che le sta rendendo inospitali. Forse più la seconda. Ho la sensazione che lui stia facendo dei movimenti che innervosiscono le api. Ho paura. Ho un intero alveare addosso e sono allergica. Faccio un passo indietro cercando di mantenere la calma. Fa molto caldo, sono tutta coperta ma le api mi circondano, ne ho sulla testa, sulle mani, intorno alla maschera, vicino alle braccia. So che il pungiglione oltrepassa la stoffa della tuta. Devo fare attenzione, sulle gambe ho solo i calzoncini corti [sotto la tuta]. Lui si muove velocemente, frettolosamente, senza cura, non usa fumo. Continuo a non sentirmi a mio agio. Stacco. Parlo con lui a telecamera spenta. Va meglio. Riprendo. Di nuovo le api che ricoprono. Questa volta ho paura.

La paura di essere punta e la percezione della risposta degli organismi alveare ai gesti dell’apicoltore mi porta a ripensare la mia posizione sul campo e a valutare il tipo di rapporto che intrattengo con questo specifico apicoltore, fino a scegliere di spegnere la telecamera.

Come si vede, il momento delle riprese è un momento decisivo, in cui ci si ritrova immersi in una dimensione “inter-specie” (Moore, Kosut 2013; Tsing 2015) e in cui apicoltore e antropologa definiscono il proprio ruolo negoziando la propria posizione, non solo concettualmente ma anche e soprattutto fisicamente. In alcuni casi il momento dell’intervista porta gli apicoltori a percepire il video come una sorta di palcoscenico in cui “interpretare” sé stessi, “mettersi in scena”. La videocamera, con la sua potenzialità implicita di produzione di un artefatto che può essere rivisto più volte, magari proiettato davanti a una platea, favorisce questo elemento. Inoltre, la stessa pratica dell’apicoltura, che come abbiamo visto è estremamente legata alla fisicità dell’apicoltore, si configura come una sorta di performance teatrale.

Tuttavia, è innegabile che l’utilizzo di una videocamera possa anche essere percepito come un elemento negativo perché può “mettere a nudo” l’apicoltore, e cioè spogliarlo dei suoi segreti. È il caso questo delle riprese fatte a mia madre mentre sceglieva le larve per la produzione di api regine. Questa pratica richiede un altissimo livello di specializzazione tecnica, e una manualità specifica. Non tutti gli apicoltori sono in grado di eseguirla. Avevo inserito questa fase in un primo montaggio video e mia madre ha sollevato delle perplessità. In questo caso il video, che può essere visto da chiunque, rischiava di svalorizzare le sue competenze. Ma la paura di mettersi a nudo è talvolta legata al rapporto problematico con altre figure professionali di cui si è parlato più sopra. In questo senso è fondamentale che il prodotto finale sia frutto di una ulteriore collaborazione tra antropologa e apicoltore per la negoziazione dei contenuti.

Interessante è l’utilizzo che gli informatori fanno della ricerca etnografica e delle sue fasi. Nel corso delle interviste ho notato la tendenza, non solo da parte degli apicoltori ma anche di alcuni politici e di altri informatori, di sfruttare il momento dell’intervista per inviare un messaggio a coloro che stanno dall’altra parte, intesi come gli apicoltori che hanno una opinione diversa o altri ancora. La ricerca etnografica diventa dunque l’occasione per condividere le proprie posizioni in opposizione all’“altro”, uno strumento per dare voce alla propria visione del mondo e affermare la propria identità. Talvolta avevo la sensazione, durante le interviste, anche a telecamere spente, che i portavoce di alcune delle associazioni di apicoltori sfruttassero il mio ruolo sul campo nel tentativo di rafforzare la propria visione dell’apicoltura e percezione dell’ambiente in opposizione alle altre visioni proposte. In quanto ricercatrice dell’università di Vienna, venivo percepita come portavoce di un “sapere scientifico” che potrebbe essere utilizzato per riconoscere la dignità e validità di una visione piuttosto che un’altra.

L’attività di ricerca si è tradotta in processi di mutuo scambio di saperi particolarmente con l’associazione Apiaresos e con il suo segretario, Luigi Manias, che in diverse occasioni mi ha invitato a collaborare, ad esempio come relatrice ai convegni organizzati dall’Associazione o in cui è coinvolta, oppure per la pubblicazione di un articolo all’interno del volume Api Buridane (2017). Un esempio di scambio di saperi particolarmente rilevante è avvenuto in seguito all’appello della Regione Autonoma della Sardegna e rivolto ai cittadini e alle associazioni di categoria a esprimere il proprio parere sul Disegno di legge sul governo del territorio approvato il 16 marzo 2017. Durante l’animato dibattito nel gruppo Facebook “Abieris di Sardegna” la bozza di relazione che scrissi venne utilizzata da Luigi Manias che la integrò con i contributi di altri apicoltori e di Vanni Floris, tecnico UNAAPI, per redarre la “proposta di Apiaresos per la tutela del territorio e dell’apicoltura”[16].

Gli strumenti del sapere antropologico e la metodologia di ricerca etnografica sono inoltre utilizzati e sfruttati dagli apicoltori nel processo di patrimonializzazione dei saperi “tradizionali” legati all’apicoltura. È significativa in questo senso la richiesta da parte di Luigi Manias di creare un breve cortometraggio sul processo di lavorazione dell’abbamele [17] secondo la tecnica “semi-tradizionale” usata dalla anziana zia Verina Olla, anch’essa apicoltrice, e da includere nel sito internet dedicato alla promozione di questo prodotto agricolo tradizionale. Secondo quanto testimoniato nel website dell’Associazione, Apiaresos si è a lungo adoperata affinché l’abbamele venisse riconosciuta come prodotto agricolo tradizionale (PAT) avviando le procedure burocratiche e producendo un dossier storico e fotografico, che è poi confluito nel sito web creato dalla stessa associazione in collaborazione con la Pro Loco Monti (www.abbamelesardegna.it, sito internet consultato in data 22-02-2019).

Fig. 4. Preparazione dell’abbamele, Ales (fotografia di Greca N. Meloni, 2018).

Fig. 5. Preparazione dell’abbamele, Ales (fotografia di Greca N. Meloni, 2018).

Infine, di estremo interesse è l’utilizzo che gli apicoltori fanno del materiale etnografico reso disponibile online attraverso il blog Abieris e Abis e condiviso tramite i social network. È il caso di un articolo che descriveva con toni fortemente biografici gli aspetti più difficili del mestiere dell’apicoltore e che è stato utilizzato nella prima lezione del corso di introduzione all’apicoltura. Ciò che sembrerebbe aver trovato il favore degli apicoltori è la descrizione cruda che si offre, che si contrappone alla descrizione che sarebbe formulata dai tecnici apistici durante i corsi di apicoltura promossi dalla Regione Sardegna e che sarebbero complici della promozione di una visione dell’apicoltura basata sull’idea di produrre “soldi facili”, e che quindi non preparerebbe le nuove generazioni ad affrontare in maniera adeguata i problemi e le difficoltà a cui vanno incontro. L’articolo, dunque, è stato utilizzato come strumento didattico per incoraggiare i giovani apicoltori ad assumere un atteggiamento consapevole e critico nei confronti delle difficoltà di fare apicoltura.

Il blog ha il duplice scopo di divulgare il sapere antropologico al di fuori del mondo accademico e di promuovere un dibattito costruttivo sui temi che riguardano l’apicoltura tra le diverse figure professionali che si occupano di questo settore. Attraverso questo strumento e il materiale contenuto si è modificata la percezione che di me avevano gli apicoltori e sono cambiate le modalità di accesso al campo. Sono gli stessi apicoltori, talvolta a me sconosciuti, che mi riconoscono e mi chiedono di fare parte della ricerca o di tornare da loro a riprendere momenti diversi dell’attività. Benché online da pochi mesi, si è rivelato uno strumento efficace per comunicare la ricerca antropologica e far conoscere il mestiere dell’antropologo e le potenzialità applicative del sapere antropologico (Shanley, Laird 2002).

Per una etnografia del co-management

Nel corso dell’articolo ho cercato di evidenziare come l’esigenza di dimostrare di saper fare e la necessità di costruire una safety zone, un terreno d’incontro in cui figure professionali ed expertise differenti possano confrontarsi all’interno di “confini sicuri” abbia rappresentato un elemento chiave della mia indagine etnografica. Fondamentali nell’accesso al campo, e poi nella gestione della ricerca, si sono rivelati i saperi sull’apicoltura incorporati crescendo in una famiglia di apicoltori. Come si è visto, questo bagaglio di conoscenze è servito a produrre un linguaggio e un terreno comuni per sviluppare il rapporto con i miei interlocutori. Tuttavia, è soprattutto l’attività divulgativa intrapresa che ha permesso di meglio definire la posizione dell’antropologa sul campo.

L’analisi dei processi di negoziazione attivati dall’utilizzo della videocamera e dell’attività divulgativa promossa attraverso il blog Abieris e Abis suggerisce che l’indagine etnografica può assumere una funzione positiva nel favorire forme di collaborazione interdisciplinare tra le diverse figure professionali coinvolte nel campo dell’apicoltura e promuovere forme di gestione condivisa delle risorse naturali e del territorio basate sul concetto del co-management (Escobar 1998; Menzies 2006). In questo senso, attraverso l’analisi di alcuni casi etnografici, ho cercato di dimostrare come le competenze e i saperi antropologici possano condurre il ricercatore ad assumere il ruolo di “mediatore culturale” tra le esigenze rivendicate dalla comunità di apicoltori e le ragioni delle istituzioni. Come si è visto, le prime articolate, in parte, in saperi informali di tradizione orale basati sul contatto diretto con il “mondo naturale”; le seconde sviluppate nell’ambito del sapere tecnico-scientifico (Angioni 2011; Escobar 1998). Proprio da questa diversità di saperi e dal forte carattere interdisciplinare dell’apicoltura sembra emergere il conflitto tra la comunità di apicoltori e le diverse figure professionali che agiscono come delegati degli enti regionali. Si tratta di un conflitto basato sulla contrapposizione del cosiddetto “sapere scientifico”, cioè quel sapere la cui validità passa attraverso l’analisi dei dati raccolti secondo specifici protocolli e dunque si concepisce come “scientificamente dimostrabile” e oggettivo, e le forme del sapere apistico possedute dagli apicoltori i quali, come abbiamo visto, combinano conoscenze di tipo tecnico-scientifico a abilità di carattere empirico, legate alla conoscenza del territorio in cui operano e alla pratica quotidiana con i loro alveari. Nonostante il tentativo intrapreso dagli enti regionali di avviare processi di collaborazione tra le diverse figure professionali, sembrerebbe che i rapporti tra le istituzioni regionali e gli apicoltori sia ancora basato su una sorta di “gerarchia del sapere” in cui solo il sapere scientifico è ritenuto uno strumento valido per organizzare piani di gestione del comparto apistico e di tutela della biodiversità. Emblematico in questo senso il caso della nuova commissione apistica regionale (L. R. n.19 del 2015, art.11) che prevede la partecipazione, insieme ai delegati regionali, degli apicoltori rappresentanti delle associazioni. Questo organismo dovrebbe avere il compito di esprimere pareri o avanzare proposte per migliorare il settore apistico sardo e che tuttavia, a quattro anni dalla sua istituzione (2015), non si è ancora insediato. La commissione apistica è stata spesso definita dagli stessi apicoltori “ininfluente”, perché a detta loro gli stessi apicoltori che ne hanno fatto parte in passato delle commissioni apistiche precedenti non si sarebbero mostrati all’altezza del ruolo che ricoprivano. Inoltre, sempre gli apicoltori criticano la partecipazione di membri considerati esterni al mondo dell’apicoltura, quali i rappresentanti della ASL e del mondo della ricerca. All’accusa di inadeguatezza a riconoscere le specificità dell’apicoltura mostrata da tecnici regionali e da operatori sanitari, si aggiunge la necessità di “farsi ascoltare” e di essere riconosciuti come parte indispensabile del mondo agro-pastorale sardo. Per usare le parole di un apicoltore:

Noi facciamo parte del territorio, siamo indispensabili al territorio. Cioè riconosciamo che quello che produciamo, il reddito che facciamo col miele è nulla rispetto al beneficio che stiamo dando al territorio. E non si capisce perché vengono dati contributi per salvaguardare una pianta di fico particolare oppure altre cose strane e poi non lo dai per le api. Perché? Non ho capito perché escludere proprio l’ape. Finché mi dici non ci sono soldi, va bene non ce n’è per nessuno, pazienza. Perché proprio l’ape non vuoi capire che è indispensabile? Bello anche salvaguardare un animale, l’asinello sardo o i fichi di chissà dove, e l’ape? Perché non considerarla? Migliora anche gli altri di settori. Proteggono il gruccione. Adesso quello è un nostro nemico, no? Quello lo proteggono, e l’ape no? Cioè, ma se vogliamo vedere, tra i due cos’è più utile all’ambiente, il gruccione o l’ape? Se proprio vogliamo… Spendono, perché arreca danni, per questo gruccione, e per noi non c’è mai niente. C’è molta ignoranza, non l’hanno capito, però perché non l’hanno capito? perché non parlano con noi (F. A., marzo 2018).

È qui che l’antropologo potrebbe assumere il ruolo di mediatore tra i diversi attori sociali nel mezzo del dibattito sulla gestione delle risorse naturali e sulle problematiche dell’apicoltura. Infine, come si è visto, soprattutto l’attività del blog Abieris e Abis, non solo ridefinisce la posizione sul campo dell’antropologa, ma contribuisce a rendere la ricerca etnografica uno strumento pratico per favorire nuovi modi di pensare l’apicoltura e il rapporto tra uomo-ape-territorio, utile a riformulare delle politiche di governo del territorio e di tutela della biodiversità mirate a una gestione condivisa e sostenibile delle risorse naturali e dell’apicoltura.

Bibliografia

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[1] Ringrazio i revisori anonimi della rivista Antropologia Pubblica per le critiche costruttive e i preziosi suggerimenti.

[2] Il titolo per esteso è Making Honey - Making Identity. Policies and Beekeeping in Sardinia.

[3] Il termine “comunità” nel corso di questo articolo verrà utilizzato per indicare l’insieme di persone che sono accomunate dalla pratica dell’apicoltura e che condividono dei saperi tecnici specialistici in questo campo.

[4] L’abbamele è un prodotto agroalimentare tradizionale ottenuto dalla lavorazione di miele e cera con acqua. Si veda il sito internet http://www.abbamelesardegna.it"www.abbamelesardegna.it (consultato in data 22/02/2019)

[5] È utile qui precisare che l’art. 3 della L. 313 del 2004 benché stabilisca che «è apicoltore chiunque detiene e conduce alveari», differenzia l’imprenditore apistico dall’apicoltore professionista, il primo rappresentato da chiunque detenga e conduca alveari come parte della sua attività agricola, il secondo definito da chiunque pratichi l’attività dell’apicoltura in maniera esclusiva.

[6] Secondo una conversazione scritta avvenuta nel 2016 insieme a Massimo Licini, tecnico dell’agenzia Laore, in quell’anno in Sardegna operavano circa 450 aziende professioniste la cui produzione era legata in maniera esclusiva all’apicoltura. Di queste, la gran parte detiene dai 150 ai 500 alveari, circa 18 possedevano un numero di alveari compreso tra 500 e 1000, solo 2 aziende possedevano oltre 1000 alveari e una sola azienda in forma associata, la Organizzazione di produttori Terrantiga, gestiva circa 3000 alveari. Nell’intervista rilasciatami a luglio 2018, Massimo Licini conferma generalmente i dati del 2016, facendo però notare che la maggior parte delle aziende professioniste in apicoltura gestiscono tra i 100 e i 300 alveari.

[7] Si veda l’art. 6, comma 5 della Legge Regionale del 24 luglio 2015, N. 19 “Disposizioni in materia di apicoltura”.

[8] Nota pubblicata sulla pagina Facebook di Api. Pro.-Apicoltori Professionisti di Sardegna il 12 dicembre 2017.

[9] L’Aethina tumida è un coleottero di piccole dimensioni che si ciba di covata, miele e polline, causando la fermentazione e contaminazione del miele nei favi. Nei casi di infestazioni gravi, l’Aethina tumida può portare alla totale distruzione dell’alveare o all’abbandono dell’arnia. Si veda il foglio illustrativo del Ministero della Salute “Aethina tumida: piccolo coleottero dell'alveare” disponibile al link: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_notizie_1878_listaFile_itemName_0_file.pdf (consultato in data 1 agosto 2018).

[10] È nota la reazione negativa del mondo apistico italiano nei confronti del Decreto n. 94 del 19.09.2014 emanato dal presidente della Regione Calabria. A seguito della scoperta della presenza di questo coleottero nei territori limitrofi al porto di Gioia Tauro e della Sicilia, infatti, il presidente della giunta regionale calabrese istituisce una “zona di protezione” e una “zona di sorveglianza” con lo scopo di salvaguardare il «patrimonio apistico Regionale e Comunitario per rinvenimento di “Aethina Tumida” in alveari del territorio di Gioia Tauro (RC)». Nello stesso decreto si decide che «In caso di rilevamento di adulti o stadi larvali che facciano sospettare la presenza di Aethina Tumida si dovrà ricorrere alla distruzione dell’intero apiario e al contestuale trattamento del terreno circostante che dovrà essere arato per una profondità di almeno 20 cm. E trattato con sostanze anti larvali (es. permetrina al 40%)» e che «In caso di rilevamento di adulti o di stadi larvali di A. tumida […] Tutte le arnie, compresi i melari, dovranno essere prima distrutti col fuoco e poi, i relativi resti, interrati in loco». Per il testo integrale si veda http://www.consrc.it/gestbur_2002/RecBurc/2014/50/S1/T3/A1/ATTO_N_94.pdf (consultato in data 17 luglio 2018).

[11] La Varroa destructor è un acaro parassita che attacca le popolazioni di api danneggiando irrimediabilmente le famiglie fino, nei casi più estremi, a portare al collasso della colonia.

[12] Commento pubblicato da F. Caboni il 28 aprile 2018 sulla bacheca di Abieris Sardegna, un gruppo Facebook privato creato nel 2015 da alcuni apicoltori sardi in modo che, come recita la head di benvenuto: «Qui possiamo parlare un pochino più liberamente dell'apicoltura Sarda, che sotto alcuni aspetti risulta differente da quella continentale! E si può pure scrivere in sardo senza che qualcuno dopo pochi secondi ti scriva "COOOSAAAAA????"».

[13] Si veda Guido Minciotti “In crescita il numero dei furti di alveari: una famiglia di api vale 300 euro”, in Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2018, http://guidominciotti.blog.ilsole24ore.com/2018/05/07/in-crescita-il-numero-dei-furti-di-alveari-una-famiglia-di-api-vale-300-euro/ (consultato in data 22-02-2019).

[14] È importante sottolineare che quando ho deciso di includere mio padre nella ricerca etnografica si è resa necessaria la figura di un mediatore, che mi aiutasse a porre il sapere nel campo apistico in posizione secondaria rispetto al sapere antropologico. Questa funzione, nella fase iniziale della ricerca, è stata svolta dal collega Francesco Bachis che, pur avendo un certo livello di intimità con mio padre, ha favorito un distanziamento tra i saperi apistici miei e di mio padre e il posizionamento antropologico che andavo assumendo.

[15] Nome di fantasia.

[16] La proposta di legge sul governo del territorio ha suscitato non poche preoccupazioni nella comunità di apicoltori, sommandosi ai timori che da tempo alimentavano il conflitto tra le istituzioni regionali e gli apicoltori. Il 13 dicembre 2017 Apiaresos invitò tutti gli apicoltori e le associazioni a partecipare alla manifestazione organizzata davanti agli uffici della Regione per rivendicare i diritti degli apicoltori sull’ideale slogan “El pueblo unido hamas será vencido”. Tuttavia, l’incontro con l’Assessore all’Agricoltura Pier Luigi Caria è stato definito da Nino Schirra, presidente di Apiaresos «un incontro a ‘ruote sgonfie’, dove praticamente non si è deciso niente». Il 24 aprile 2018, Luigi Manias fa sapere che l’iter procedurale non sembra essersi ancora concluso. Si veda il sito web di Apiaresos: https://apiaresosdearbaree.wordpress.com/2017/12/ (consultato in data 22-02-2019).

[17] Si veda S’Acuamebi de Verina Olla all’indirizzo https://vimeo.com/282813963 (consultato in data 22-02-2019).