Stanno lavorando?

Tempo, spazio e lavoro in un progetto di alternanza scuola-lavoro in Sardegna

Francesco Bachis

Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni Culturali, Università di Cagliari

Table of Contents

Un progetto
Lavoro?
Stanno lavorando?
Tempo e luogo
Conclusioni
Riferimenti bibliografici

Abstract. In an “alternation school-job” project carried on in a high school in Sardinia (Italy), a group of students has collected life histories about IIWW memories, learning some skills of ethnographic methodology through fieldwork. A part of the teachers believed that field research is not a “real job”. Starting from Gramsci's reflections about relations between intellectual and manual work, we will take into account the different conceptions of time, space, and work operating in the neoliberal school, in the common sense of teachers and executives, and in the ministerial “gray literature”. In the project, operate two different conceptions of “learning by doing”. The first is based on a functionalist approach that uses practical jobs to acquire skills connected to neoliberal division of labor; In the second, the fieldwork can produce a critical point of view about concept of work. The article shows how the informal strategies of ethnographic research can produce an oppositional practice that re-negotiate the ideological assumptions of functionalist and neoliberal approach carried on by the educational State's policies.

Keywords: Work; Time; Ethnography; (in)formalization; Sardinia.

È tanto tempo che non la sentivo[1]. Franca è una mia vecchia conoscenza, dai tempi dell’Università e della comune militanza nel collettivo studentesco. Sin da subito ha scelto la strada dell’insegnamento nelle scuole superiori. Una lunga trafila di supplenze, trasferimenti, leggi che cambiano di continuo e influiscono sulla vita dei soggetti, orientandone l’esistenza e le scelte di vita, rendendole forse più dipendenti dal lavoro di quanto i paradigmi post-fordisti neoliberali vadano professando. Per chi, come me, ha perseguito la strada della ricerca, la via degli amici che hanno scelto di percorrere un cammino prefissato, dalla laurea all'insegnamento, dal precariato alla stabilità, sembra ingenuamente un po’ più sicura e stabile. Ed è attorno al lavoro, alla sua stabilità e alle possibilità che offre di costruire una vita in qualche modo “dominabile” che ruotano spesso le nostre discussioni.

«Stai lavorando?» è la frase che apre molte delle nostre telefonate. Mentre a me pare chiaro che gli amici che hanno scelto la prima strada abbiano la possibilità di rispondere con un sì o con un no, spesso trovo imbarazzo nel dover fornire una risposta da parte mia. Che significa “lavorare” per chi ha scelto una strada in cui il tempo del lavoro e il tempo di vita sono più confusi, resi quasi inestricabili dai modelli competitivi neoliberali (Callinicos 2009, Reclaming Our University 2017) e la retribuzione sembra una variabile indipendente (rovesciando paradossalmente le parole d’ordine dell’operaismo degli anni Settanta[2]) rispetto al quotidiano stare a galla con o senza le diverse forme di reddito intermittente che il precariato della ricerca mette a disposizione? Fino a che punto posso rispondere a una domanda che sembra orientata da paradigmi estranei a quell’«uomo accademico flessibile» (Koensler, Papa 2017) che domina con sorprendenti tratti di continuità e somiglianza mondi per altri versi distanti, ricostituisce le soggettività e l’ethos stesso dei ricercatori (Shore, Wright 2016), riplasma in maniera “autocentrata” i rapporti di produzione e di lavoro nel campo accademico (Dalakoglou 2016)[3]?

«Alla fine ho accettato di collaborare». L’impegno sindacale e politico di Franca sembra imporre una spiegazione, quando mi telefona per parlarmi di un progetto di alternanza scuola-lavoro. È contraria in linea di principio a questo strumento, come lo sono io, «ma c’è, e tanto vale tentare di cavarne qualcosa di buono».

«Ho pensato di proporre un progetto di storia orale, far lavorare i ragazzi sulle memorie familiari e coinvolgere te e Alessandra», una amica comune, anche lei conosciuta ai tempi del collettivo studentesco e ora storica contemporaneista precaria. «Alla fine anche questo è un lavoro, e magari più utile e più simile a quello che molti degli studenti andranno a fare dopo la maturità». I tempi stretti della burocrazia di questo strumento necessitano di una progettazione rapida per la stipula delle convenzioni con gli enti ospitanti. Penso che anche il lavoro nella scuola non sia evidentemente così programmato come me lo immaginavo. Tutto sembra ruotare ancora attorno al lavoro, il mio, il suo, quello dei ragazzi.

Proprio a partire dalla concezione di lavoro (e dalla sua separazione dallo “studio”) presenterò in questo articolo alcuni elementi di negoziazione delle concezioni di tempo e spazio che sono emerse durante le fasi di realizzazione del progetto. Indagherò come le competenze coinvolte, unitamente a differenti concezioni dell’apprendere “nel fare” abbiano prodotto forme di negoziazione e conflitto tra saperi. Dimostrerò in che modo sia stato possibile mettere a valore questa diversità di approcci – pur senza una risoluzione dei conflitti che li producono – a partire da una tensione costante tra processi di formalizzazione e di informalizzazione delle diverse pratiche in campo.

Un progetto

Il progetto di alternanza scuola-lavoro del Liceo Scientifico e tecnologico Pertini, del quale sono stato tutor formativo esterno, prevedeva il coinvolgimento di alcune classi del quarto anno, per un monte totale di 40 ore di formazione, tra il febbraio e il marzo del 2017[4]. L’idea era quella di formare un gruppo di ragazzi alle metodologie della ricerca storica e antropologica con la finalità di iniziare a costruire nell’istituto un piccolo archivio di fonti orali e scritte secondo i paradigmi della microstoria (Ginzburg, Poni 1981). L’obiettivo esplicitato nel progetto era, infatti, «l’acquisizione, da parte degli studenti, dei capisaldi della metodologia di ricerca storica ed etnografica sul campo»[5]. Come richiesto dalla normativa, si indicavano le competenze che una pratica lavorativa avrebbe permesso di acquisire ai partecipanti. Queste metodologie, prosegue il testo del progetto, «benché specific[he], rimandano a competenze trasversali che possono essere spese in ogni ambito della ricerca scientifica. L’acquisizione di una solida metodologia di documentazione è inoltre requisito essenziale nell’odierno mondo del lavoro, in qualunque settore si scelga di specializzarsi»[6].

Partiti da una iniziale idea sulla costruzione di un archivio sulle attività produttive “tradizionali” e sulla “storia sociale” della zona in cui si colloca il Liceo, avevamo cambiato l’oggetto del progetto. Il tema scelto era quello delle memorie del secondo conflitto mondiale in Sardegna[7]. A seguito di alcuni incontri di formazione in classe, i ragazzi avrebbero raccolto, con l’ausilio di strumenti di archivistica digitale e con una piccola ricerca sul campo, della documentazione sulla memoria della guerra nei propri paesi di provenienza. La metodologia etnografica scelta era quella della raccolta audio registrata e trascritta di alcune storie di vita: in prima istanza con militari reduci dal conflitto e, qualora questo non fosse stato possibile, con anziani del paese che avevano vissuto gli anni della guerra. L’idea generale di cui si faceva portatore il progetto era stata espressa dalla tutor sin dalle fasi iniziali della stesura della proposta: contribuire a pensare la scuola come una «comunità di ricerca sul territorio di cui acquisisce consapevolezza storico sociale e nei confronti del quale si configura come custode critico della memoria»[8].

Dal punto di vista del metodo ho realizzato un incontro di formazione di base sulla raccolta delle storie di vita, cercando di promuovere una concezione dell’antropologia come pratica della teoria (Herzfeld 2006) che si acquisisce prima di tutto per impregnazione, attraverso il lavoro di campo (Olivier de Sardan 1995). Nel corso del progetto – per quanto riguarda la sua parte antropologica – gli studenti coinvolti hanno realizzato alcune storie di vita, talvolta prodotte in più di un incontro, e sperimentato la costruzione di una relazione di fiducia con il proprio interlocutore. Le storie di vita, raccolte a partire da un temario co-costruito con gli studenti durante le ore di formazione in classe, affrontavano le condizioni socio-economiche delle famiglie degli interlocutori, il rapporto con il territorio, per giungere al tema centrale della intervista: i ricordi della guerra. Questa era la parte più articolata del temario e quella più ricca delle biografie. Emergevano ricordi specifici sulle condizioni materiali, storie di famiglia legate direttamente al conflitto, la presenza di truppe tedesche nei piccoli e nei grandi centri, gli sfollati e i bombardamenti[9]. La ricchezza dei dati biografici e delle narrazioni avevano stupito e appassionato profondamente gli studenti coinvolti. Alcune delle interviste realizzate duravano più di tre ore, altre erano raccolte in sardo, trascritte e tradotte dai ragazzi, sorpresi, come spesso capita, dalle «parole degli altri» (Clemente 2013) viste come racconti biografici che permettono un accesso del tutto particolare e spesso inedito alla storia.

Al ritorno in classe Paola raccontava stupita del militare Efisio e della sua difesa di una batteria antiaerea a Ventimiglia, della sua diserzione per andare a una fiera di bestiame, incrociava i dati d'archivio e chiedeva al suo interlocutore che significasse la “licenza agricola”. Franca raccontava di come i coniugi Sanna conoscessero tutti i suoi antenati, e si stupiva del fatto che «nel passato non esistessero i ricchi»[10]. In buona sostanza, il progetto sembrava aver raggiunto i suoi obiettivi minimi e gli studenti apparivano soddisfatti dell’esperienza.

Sin dalla fase di progettazione, tuttavia, avevamo riscontrato alcune difficoltà nel far rientrare la nostra attività all’interno delle rigide griglie previste dalla legge 107/2015, la cosiddetta “Buona scuola”[11], che prevedeva l’obbligo di alternanza tra scuola e lavoro, per i Licei e per gli istituti tecnici e professionali. Ben presto, al di là delle questioni meramente burocratiche, il problema di fondo che andava emergendo era una concezione diversa del lavoro e idee molteplici e talvolta non compatibili di cosa significhi effettivamente “lavorare”.

Lavoro?

In uno dei quaderni di miscellanea Antonio Gramsci denunciava come piuttosto diffusa, persino tra le classi subalterne, l’idea che il “vero” lavoro fosse soltanto quello che procurava fatica fisica: zappare la terra è lavoro, non “studiare” (Q. IV, XIII, 55, Il principio educativo nella scuola elementare e media). Ciò induceva tanti a pensare che le difficoltà nello studio fossero «artificial[i], perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale» (Gramsci 1975: 502). In opposizione a questa concezione, il pensatore sardo metteva in luce come anche le forme precipue della professione intellettuale avessero le loro forme di “incorporazione”[12] e di fatica fisica. In alcuni passi Gramsci insiste sullo sforzo del lavoro intellettuale, e la sua vicenda, da questo punto di vista, sembra paradigmatica di una attività che coinvolge prima di tutto il corpo. Affrontando il tema della necessaria riforma del sistema educativo, egli scrive:

Così il ragazzo che si arrabbatta [sic] coi barbara, báràlipton, ecc. Si affatica, è certo, e bisogna trovare che egli debba fare la fatica indispensabile e non più. Ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare e costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè a un tirocinio psico-fisico. Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare «facilitazioni». Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una questione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi. Anche il regime dei cibi ha un’importanza, ecc. ecc (Gramsci 1975: 502-503)[13].

La mia ipotesi di lavoro è che questa “sfiducia” nelle forme lavorative intellettuali, questo anti-intellettualismo di fondo sia riscontrabile anche all’interno dei presupposti ideologici delle ristrutturazioni attuali dei cicli e dei percorsi scolastici. La letteratura grigia dei documenti ministeriali è da questo punto di vista un terreno di indagine molto interessante. Vi si ritrovano passi che rappresentano una forma di contrapposizione (più che integrazione) tra scuola e lavoro attraverso il recupero di un terreno consueto di polemica contro le “nuove generazioni” che sarebbero “choosy”[14], schizzinose.

Questo approccio sembra emergere, ad esempio, nella scelta di allargare ai licei l’alternanza scuola-lavoro, un unicum nel panorama europeo, e va ricollocata nelle trasformazioni profonde del capitalismo all’epoca della recente crisi (Carbonella, Kasmir 2015, Friedman 2015)[15]. I nuovi soggetti formati nella scuola sembrano allora apparire più come futuri “precari” da addestrare a un rapporto di lavoro male o non retribuito, “cacciatori/raccoglitori” da affiancare in futuro ai sempre più esigui lavoratori garantiti, come ha sottolineato Massimiliano Mollona (2009); o ancora dei soggetti pronti alla giostra di perenne formazione – alternata ai cosiddetti “lavoretti” – che sembra caratterizzare questa particolare fase del neoliberismo: una società dell’apprendimento costante in cui i soggetti son spesso costretti ad accumulare competenze potenzialmente spendibili nel mondo del lavoro senza che questo processo sfoci nell’acquisizione di una qualche stabilità (Ciccarelli 2018).

In generale, nel progetto di alternanza scuola-lavoro sembra emergere un modo di concepire la formazione come legata alla “pratica”. “Imparare facendo”, “imparare attraverso l’esperienza” sono espressioni piuttosto comuni nella letteratura grigia del ministero. L’idea di fondo, mutuata dall’Agenda di Lisbona, è non solo la sottrazione del tempo formativo alla frontalità scolastica – e alla sua comunità democratica – ma anche la valorizzazione dell’apprendimento “per immersione” nei contesti lavorativi, da cui deriva anche tutta una retorica “artigianale” che attraversa questi testi. Al contempo si tratta di un’applicazione del principio per cui la scuola deve formare skills che servano alle aziende, che produce una contrapposizione tra contenuti e metodi di apprendimento “buoni e moderni” e altri “libreschi e sorpassati”. In questo senso, come è stato notato, essa risponde a un paradigma funzionalista in cui il ruolo della scuola è quello di «preparare il capitale umano necessario al sistema produttivo. Tale capitale, però, non è composto solo da conoscenze, ma anche da competenze (che uniscono il sapere al saper fare). Pertanto il curricolo scolastico deve volgere nella direzione delle competenze» (Baldacci 2018: 8). Queste innervano la stessa nozione centrale di «capitale umano». Essa, nel distinguere dalla somma di caratteristiche generali dell’essere umano (biologiche, affettive, intellettuali) le sue competenze, ha permesso di «separare il capitale composto dalle competenze e capacità utili del soggetto», intese come ciò che produce un beneficio netto apportato dal singolo alla società o all’azienda per cui lavora, dal «capitale fisso», ovvero dal valore in sé dell’individuo che possiede queste skills (Ciccarelli 2018: 33-34). Il learning by doing diviene in questo quadro lo strumento fondamentale che permette di accrescere in maniera potenzialmente indefinita questa forma di capitale, operando, in un regime di formale libertà – ma di concreta costrizione – un passaggio da un sistema di sfruttamento a uno di autosfruttamento. Una vita in costante alternanza scuola-lavoro la cui massima contraddizione emerge nel «soggetto che pensa di essere un imprenditore, mentre sviluppa una libera capacità di sfruttarsi (Ciccarelli 2018: 37).

Per paradossale che possa sembrare vale la pena di notare come questa forma di “apprendimento nel fare” non sia del tutto estranea agli orizzonti di apprendimento dell’antropologia, nella didattica del lavoro etnografico e nella stessa metodologia di ricerca sul campo. Essa è, almeno in linea teorica, poco distante dall’idea di etnografia come “impregnazione” e dalla visione del lavoro etnografico come lavoro artigiano, che si acquisisce provando e riprovando, sbagliando e correggendo. Sul terreno dello specifico progetto di alternanza scuola-lavoro che ho seguito si sono paradossalmente incontrate due forme di concezione dell’acquisizione “pratica” del sapere che, naturalmente, hanno finalità diverse se non opposte. In ogni caso esse sembrano afferire alla stessa “famiglia logica” delle forme di socializzazione.

In sostanza la collocazione del mio intervento all’interno di questo quadro e di questo campo ideologico centrato sulla contrapposizione tutta utilitaristica del neoliberismo produceva la convivenza di due concezioni del lavoro che avevano alla base l’idea dell’apprendimento nel fare: il sapere etnografico inteso come sapere pratico che si apprende (anche) tramite la pratica, per impregnazione (Robben, Parry 2007; Bernard 2011) e il lavoro nel paradigma “neoliberale” che si apprende anche esso “tramite la pratica”, o meglio che non si smette mai di apprendere. Tutto ciò non si colloca, se non per qualche richiamo formale e del quale non si traggono le conseguenze critiche implicite, nell’idea di “uomo completo” di derivazione gramsciana o marxiana (Baldacci 2018), nel quale i saperi tecnici e i saper fare non vengono separati o gerarchizzati rispetto a quelli “intellettuali”, ma in un contesto di produzione della soggettività tutto interno al neoliberalismo, in cui, in realtà, siamo tutti e per sempre in “alternanza scuola-lavoro” (Ciccarelli 2018).

Sono interessanti, da questo punto di vista, alcuni passi dei documenti ministeriali sull’alternanza. Molti dei testi di presentazione del sito sull’alternanza scuola-lavoro insistono su una concezione di «scuola aperta», che «apre alla vita a chi sta uscendo non solo dalla scuola, ma anche dall’adolescenza» (MIUR s.d. a). Tutto ciò sembra collocarsi in un quadro di abbandono del carattere “duale” dell’apprendimento, superando «la divisione tra percorsi di studio fondati sulla conoscenza e altri che privilegiano l’esperienza pratica» (MIUR s.d. b). Il modello disegnato è quello in cui «conoscenze, abilità pratiche e competenze devono andare insieme» (MIUR s.d. b).

Questo posizionamento si riconnette a un quadro generale definito ed esplicitato nelle formule neoliberali della finalizzazione al mercato e all’impresa delle competenze e della formazione:

La comprensione delle attività e dei processi svolti all’interno di una organizzazione per poter fornire i propri servizi o sviluppare i propri prodotti, favorisce lo sviluppo del “Senso di iniziativa ed imprenditorialità” che significa saper tradurre le idee in azione. È la competenza chiave europea in cui rientrano la creatività, l’innovazione e l’assunzione di rischi, come anche la capacità di pianificare e di gestire progetti per raggiungere obiettivi. È una competenza che aiuta gli individui ad acquisire consapevolezza del contesto in cui lavorano e a poter cogliere le opportunità che si presentano (MIUR s.d. B, enfasi mie).

Il modello è quello che punta ad un contrasto della disoccupazione e del «disallineamento tra domanda e offerta nel mercato del lavoro». «Per questo, [la scuola] deve aprirsi al territorio, chiedendo alla società di rendere tutti gli studenti protagonisti consapevoli delle scelte per il proprio futuro» (MIUR s.d. b).

Ancora nel vademecum per le imprese sul “sistema duale[16]” viene esplicitato il legame forte tra l’alternanza e l’idea di riconnessone tra scuola e impresa, secondo un modello che punta a valorizzare l’esperienza pratica con la finalità di rendere spendibili le competenze nel mercato del lavoro. Obiettivi dell’alternanza sono

attuare modalità di apprendimento flessibili ed equivalenti sotto il profilo culturale ed educativo, rispetto agli esiti dei percorsi del secondo ciclo, che colleghino sistematicamente la formazione in aula con l’esperienza pratica; [...] arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l’acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato del lavoro (Italia lavoro s.d.: 12, enfasi mie).

Quello che propone il ministero è un cambiamento culturale, per la costruzione di una “via italiana” al sistema duale, che riprenda le buone prassi europee, coniugandole con le specificità del tessuto produttivo ed il contesto socio-culturale italiano. In questo quadro generale acquisisce un ruolo importante un modello di apprendimento nel fare. Paradossalmente il lavoro – contrariamente a quanto invece sosteneva Gramsci – viene in una qualche misura separato e contrapposto all’attività di studio e intellettuale proprio nella misura in cui si riconosce a questo un carattere di “non lavoro”, in una certa misura superato dalle necessità di formazione richieste dal mercato. Lo studio viene concepito fuori dal “fare”, senza il «tirocinio psico-fisico» che presiede all’acquisizione di competenze anche attraverso l’addomesticamento del proprio corpo (Gramsci 1975: 502). Quasi in contrapposizione a quanto scritto dal pensatore sardo, i documenti ministeriali sembrano trasmettere una separazione – e perciò stesso una necessità di integrazione – tra saperi appresi attraverso la pratica e saperi estranei alla corporeità del soggetto Su questa acquisizione per impregnazione si insiste in misura notevole, proprio per segnare i tratti di novità della proposta: «È tempo di imparare facendo, di realizzarsi, di prendersi piccole responsabilità e grandi soddisfazioni, di scoprire se stessi in contesti lavorativi dove ci si relaziona con persone più adulte e si prepara il domani, conoscendo meglio le proprie ambizioni e capendo sul serio come realizzarle» (MIUR s.d. A, enfasi mia).

Nel tentare di superare «la divisione tra percorsi di studio fondati sulla conoscenza ed altri che privilegiano l’esperienza pratica», l'alternanza scuola-lavoro sembra riproporre una concezione che considera «lavoro e fatica solo il lavoro manuale». Non si tratta qui, credo, semplicemente di una opposizione tra lavoro astratto e lavoro concreto, volto alla risoluzione di problemi concreti; ovvero differenti “disposizioni” degli studenti, votati da un lato ad una attività in qualche modo speculativa, gli altri verso una concreta e fattiva pratica. L’alternanza, sin dall’inizio, è stata infatti proposta come uno dei pilastri del sistema duale in cui si deve articolare l’intera gamma della formazione secondaria, tanto quella professionale quanto quella liceale. E proprio verso i protagonisti di questa formazione sembra essersi scatenata maggiormente la retorica dei choosy. E saranno poi spesso questi, una volta terminato il ciclo formativo canonico, a sperimentare i processi di soggettivazione caratterizzati dal pendolarismo costante tra la formazione costante e “lavoretti” intermittenti.

Vedremo in seguito come proprio attorno al nodo del lavoro – di che cosa esso sia e di che significhi lavorare – si siano prodotte le maggiori difficoltà nel far accettare la ricerca di ricerca etnografica e d’archivio come una attività pertinente e rispondente ai quadri dell’alternanza.

Stanno lavorando?

Siamo al secondo incontro presso la scuola Pertini. I ragazzi hanno già portato avanti una parte del lavoro di ricerca d’archivio e di intervista. Hanno individuato, seppur con difficoltà, i loro interlocutori, stabilito i primi contatti per le interviste, recuperato i fogli matricolari di alcuni militari attivi durante il secondo conflitto mondiale e si preparano al passo successivo: la raccolta di alcune storie di vita degli anziani del paese che hanno ricordi del secondo conflitto mondiale in Sardegna.

Entro nella sala professori dell’Istituto. Molte delle docenti e dei docenti presenti mi conoscono già. Franca mi ha presentato nella prima fase della mia permanenza nella scuola. Qualcuno mi chiede lumi sul progetto. C’è molto interesse per l’idea di far praticare la ricerca etnografica e la ricerca d’archivio come “alternanza lavorativa” allo studio. Eppure Franca mi aveva già accennato a qualche mugugno tra i colleghi e i dirigenti. Mentre approfitto del mio anticipo per riordinare i materiali per l’incontro con gli studenti, una delle insegnanti si avvicina e mi chiede: “stanno lavorando? I miei tantissimo!”. Mi vengono in mente le tante polemiche sull’alternanza scuola-lavoro, sui liceali mandati “a far panini da McDonald” e su una generale ritrosia verso l’alternanza da parte del corpo docente. Franca mi aveva poi accennato a qualche problema. Sembrava quasi che i suoi colleghi non riconoscessero pienamente come “lavoro” quello dei ragazzi:

Il progetto in sé è piaciuto a tutti eh... tutti dicevano “è un bellissimo progetto”. È vero che poi all’atto... quando i ragazzi lo stavano facendo... cioè, avevano difficoltà a riconoscere il fatto che stavano lavorando... […] Nel senso che in teoria tutti hanno apprezzato il progetto... Mi hanno fatto i complimenti, bellissimo etc. Poi però, quando si è trattato di sgravare i ragazzi durante quel periodo dal lavoro a casa, quando si è trattato di mollare un po’, ognuno nella propria disciplina, gli insegnanti più duri e puri non se la sono sentita e hanno continuato a tartassarli, e loro [gli studenti] se ne lamentavano molto...

Il primo elemento che sembrava sorgere era appunto quello del riconoscimento del lavoro pratico della ricerca come lavoro a tutti gli effetti. Gli elementi di egemonia del pensiero neoliberale, la «nuova razionalità» che orienta e plasma le politiche della contemporaneità (Dardot, Lavalle 2013, Fana 2017) emergevano nella letteratura grigia del ministero e portavano tanti colleghi a opporsi a questa misura. Essi riaffioravano qui come tendenza a considerare il lavoro intellettuale come una parte di pertinenza esclusiva della prima parte della dualità del sistema scolastico italiano, separando lavoro manuale e lavoro intellettuale in due categorie distinte da affidare a due momenti differenti del percorso. Se insomma l’obiettivo era anche quello di “mandare a lavorare” i choosy del Liceo, metterli a confronto con il duro mondo del lavoro e dell’imparare facendo per prepararli ad un futuro di autosfruttamento, da “imprenditori di sé stessi”, spendere questo tempo in un apprendimento legato al mondo della ricerca veniva in una certa misura letto come una forma di aggiramento dell’ostacolo, quasi una truffa per continuare a non far nulla di pratico. Da un certo punto di vista assistevo a un paradossale e involontario misconoscimento del proprio lavoro da parte degli insegnanti. Se il posizionamento in contrasto con il progetto da noi proposto da parte di alcuni operatori della scuola non era dovuto semplicemente a un mancato riconoscimento della figura dell’antropologo in termini di produttività economica, l’idea che “mandare a lavorare” gli studenti fosse qualcosa di utile implicava il fatto che questi – e dunque in una certa misura anche gli insegnanti – non stessero in realtà lavorando, nel tempo ordinario della scuola pre-alternanza.

Nel corso del progetto questo tipo di valutazioni non sono emerse soltanto da parte di chi in una certa misura “sposava” esplicitamente il quadro ideologico dell’alternanza scuola-lavoro, da chi, in parole povere, riteneva opportuno o giusto e formativo mandare i ragazzi “a lavorare” (in un’ottica che, per l’appunto, vede il lavoro intellettuale non come un vero lavoro). Questa concezione sembra emergere anche in chi esplicitamente denuncia politicamente e sindacalmente l’alternanza scuola-lavoro e cerca di sottrarsi all’egemonia del pensiero neoliberale nelle sue articolazioni specifiche della formazione. Non è, insomma, un concetto estraneo a chi si oppone o persino boicotta l’alternanza scuola-lavoro.

Dice ancora Franca. «Questa stessa obiezione [il fatto che il progetto non fosse una vera alternanza] mi è stata mossa, addirittura, dalla parte opposta. Io faccio parte di un sindacato contrarissimo all’alternanza... Insomma, noi siamo contrari all’alternanza... La riteniamo una porcata solenne. Però, così un giorno, parlandone, uno di loro, uno dei dirigenti mi ha detto: “sì però questa non è vera alternanza”».

Anche Franca appariva consapevole della forzatura operata con il progetto, proprio in virtù del fatto che il modello di formazione previsto risponde a un non detto – anche se talvolta, come abbiamo visto, esplicitato nella letteratura grigia e nella comunicazione ministeriale – ideologico per cui il lavoro che si intende è quello presso aziende o enti specifici e non può essere quello dello studio, foss’anche uno studio pratico come la ricerca etnografica[17].

Loro non hanno torto, eh... rispetto alla norma loro hanno ragione... Perché la norma prevede proprio che l’alternanza sia prevista proprio come lavoro, nel senso lavoro in azienda. Perché l’idea che sta dietro all’alternanza scuola-lavoro è alla fine quella che viene dal trattato di Lisbona... Meno scuola più lavoro... È chiaro che la norma sta intendendo che tu li devi mandare a lavorare... in un’azienda... Quindi se tu bari... perché noi un po’ abbiamo barato...

Tempo e luogo

L’articolazione del progetto ha fatto sì che si incontrassero sul campo non soltanto due concezioni di lavoro in una certa misura opposte ma anche due diverse prospettive disciplinari di ricerca, una storica e una antropologica. Anche qui, e proprio in relazione alla concezione del lavoro, iniziano a sorgere i problemi di conflitto sulle differenti modalità di declinare i concetti di spazio e tempo nella ricerca e dunque, in una prospettiva più ampia, nel lavoro. Mentre il lavoro dello storico, almeno se inteso come ricerca e documentazione d'archivio, è quantificabile e individuabile secondo precisi tempi e spazi (permanenza e lavoro in uno o più luoghi) il lavoro etnografico sfugge a questa possibilità o perlomeno non è del tutto riducibile a un tempo e a un luogo (Gupta, Ferguson 1997a, 1997b). Ciò avviene sia per quanto concerne una classica ricerca etnografica, sia se ci si limita alla raccolta di interviste nelle forme della storia di vita. Il tempo impiegato nel lavoro di campo, nella sua progettazione e nella sua realizzazione, deborda rispetto ai canoni classici della quantificazione e localizzazione del lavoro: la costruzione di una relazione con l’informatore sfugge alle possibili riduzioni. È la vita stessa del soggetto ricercante a produrre la parte talvolta più rilevante dei dati sul campo. Un tempo di vita non classicamente quantificabile in termini di “lavoro”.

A questo elemento si contrappone una paradossale quantificazione “fordista” del tempo e del luogo di lavoro. Nel tentativo di preparare gli studenti ad un mercato del lavoro che si vuole slegato dalla classica distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita l’alternanza scuola-lavoro produce una rigorosa quantificazione e spazializzazione delle attività che solo l’informalità dei singoli approcci può separare dal paradigma fordista della divisione del lavoro e del suo meticoloso calcolo. Gli studenti devono fare le ore di alternanza e le devono fare in un certo luogo. Perché ciò sia possibile all’interno di un progetto in cui il concetto di lavoro sfugge a questo schema, è necessario che l’informalizzazione della pratica venga in qualche misura formalizzata attraverso stratagemmi e mediazioni. Nel nostro caso ciò è avvenuto attraverso l’individuazione di un soggetto esterno – una biblioteca – che fungeva al contempo da partner del progetto e da luogo fisico che rispondeva alla necessità di spazializzazione e temporalizzazione del lavoro. Più che un tentativo di “far tornare i conti” questa relazione dialettica tra formalizzazione e informalizzazione sembra aver assunto un ruolo decisamente centrale nelle forme di organizzazione del lavoro e persino nelle pratiche istituzionali[18].

È in questo quadro che si sono prodotte forme di negoziazione e conflitto tra diversi e differenti saperi, diverse idee su cosa e come si apprendano determinate metodologie. La prima forma di negoziazione, e certamente la più complessa da affrontare, era legata all’idea di cosa sia il lavoro etnografico. Seppur ridotta dalla formalizzazione implicita nella scelta di far raccogliere agli studenti delle storie di vita[19], la pratica etnografica appariva alla maggior parte dei miei interlocutori come una pratica non chiara e non esattamente racchiudibile entro ciò che veniva comunemente considerato ascrivibile a un vero e proprio “lavoro”.

In una prima fase questa frizione si è concretizzata nel tentativo di sottrarre la formazione alle metodologie della ricerca etnografica e storica dal computo delle ore totali di alternanza. Gli insegnanti e le dirigenze sentivano la necessità di quantificare e localizzare esattamente il lavoro svolto dagli studenti in termini di ore lavorate, luogo di lavoro, partnership esterna chiara, responsabilità legali.

Tutto ciò ha generato un conflitto prodotto dalle forme atopiche non formalizzate e “lunghe” del lavoro di campo, dall’impossibilità di quantificare esattamente lo “stare in un luogo per un certo periodo di tempo sotto una certa responsabilità”, sottraendo in tal modo la parte creativa del lavoro etnografico al campo della autonomia e libertà dei soggetti, archetipo fondamentale dell’ideologia neoliberale articolato nel mito del soggetto come “imprenditore di sé stesso” (Cfr. Dardot, Lavalle 2013). Ciò che non è quantificabile e spazializzabile non è lavoro. Nella prima fase di redazione e implementazione del progetto questa tensione tra diverse concezioni di spazio e tempo di lavoro ha rischiato di far saltare l’avvio del progetto.

Il bias della nostra idea di apprendere una metodologia di ricerca, sia pure in forma minimale, attraverso il lavoro non era legato dunque esclusivamente a una diversa concezione del “lavoro”. Numerosi altri progetti sono stati portati avanti da altre istituzioni – anche universitarie – e spesso consistevano nella partecipazione a momenti formativi più o meno “frontali” e tutto ciò non ha prodotto particolari tensioni rispetto alla norma e alle pratiche istituzionali. In un certo senso questa accettazione da parte del corpo insegnante permetteva di non mettere in discussione anche il proprio lavoro che, se pure non calcolabile in termini definiti di tempo resta comunque ancorato ad un orario preciso, alla definizione di accordi e norme di legge che ne delimitano il perimetro.

Questi progetti di alternanza consistenti di fatto in una formazione frontale venivano ritenuti congrui perché si tenevano in un luogo e in uno tempo definito e calcolabile. Ciò avveniva nonostante si trattasse sostanzialmente di incontri didattici, talvolta laboratoriali ma sempre in co-presenza e raramente attraverso la pratica di un determinato e specifico lavoro degli studenti.

Il bricolage, la necessità di stabilire rapporti in una certa misura continuativi e intimi, relazioni il più possibile approfondite e non limitate ai colloqui che andavo proponendo agli studenti, dovevano essere continuamente negoziati da un lato con le concezioni del lavoro del corpo docente e delle istituzioni preposte al controllo dei progetti, dall’altro con una serie di problemi di responsabilità di ordine generale che erano impliciti all’interno dell’alternanza scuola-lavoro. Chi si assumeva la responsabilità dei viaggi degli studenti e della loro permanenza presso le abitazioni degli interlocutori? L’interesse degli studenti (e delle loro famiglie) per il percorso che stavamo portando avanti ha fatto sì che l’informalità e la negoziazione degli obblighi assunti all’atto del progetto fosse praticata innanzitutto dagli stessi protagonisti: tutor, studenti e genitori. Ciò si è concretizzato nella presa in carico, da parte dei genitori, dell’accompagnamento nei numerosi incontri con gli interlocutori, assumendo in tal modo una certa “responsabilità”.

«Io ho scoperto dopo», afferma Franca, «che loro, i ragazzi, non erano coperti, dal punto di vista dell’assicurazione. In realtà nell’assicurazione vecchia non era prevista l’uscita fuori dai locali scolastici. Quindi loro hanno fatto tutto questo lavoro senza una reale copertura assicurativa... Fosse successo qualcosa sarei in galera, a quest’ora...».

Evidentemente questa strategia non riguardava soltanto loro, ma anche le istituzioni scolastiche che hanno in una certa misura permesso che il progetto andasse avanti in assenza di una reale corrispondenza con i protocolli previsti.

Per poter “formalizzare” il lavoro etnografico, infatti, avevamo deciso un quantum di lavoro orario connesso a ogni intervista e a ogni ricerca d’archivio. A questa avevamo aggiunto una determinazione forfettaria del lavoro di trascrizione e traduzione delle interviste che tenesse in qualche misura conto anche del lavoro preparatorio e dell’acquisizione di una certa intimità tra gli studenti e i propri interlocutori: le visite precedenti e successive alla realizzazione dell’intervista, i contatti periodici e il tempo di lavoro relativo all’analisi del testo, il lavoro di schedatura degli interlocutori e delle unità narrative delle storie di vita. Avevamo preso in considerazione, cosa accettata dai nostri interlocutori istituzionali, anche l’idea che fosse la valutazione finale del lavoro svolto a giustificare ex post la quantità di lavoro svolto. La negoziazione del tempo di lavoro degli studenti, da questo punto di vista, si svolgeva in un contesto di generale accettazione dei tempi lunghi dell’informalità del lavoro etnografico e la notevole mole dei materiali documentari prodotti dagli studenti era una delle chiavi di volta per rendere accettabile da parte dei nostri interlocutori la quantificazione del lavoro pregresso. La maggior parte degli studenti aveva infatti presentato la registrazione, la schedatura e la trascrizione di storie di vita, raccolte in alcuni casi in più sedute d’intervista. Una parte dei partecipanti al progetto aveva inoltre effettuato l’intervista in sardo, con alcune difficoltà dovute alla non sempre sufficiente competenza attiva della varietà linguistica locale. Ciò aveva aumentato la mole di lavoro sia per la difficoltà di trascrivere le interviste sia per la loro traduzione (presentata soltanto da alcuni studenti).

Sebbene questa negoziazione della nozione di lavoro e della concezione di spazio e tempo del lavoro etnografico avesse prodotto una condivisione del progetto e il suo compimento fino al termine previsto, le remore circa un “aggiramento” delle norme e dei protocolli previsti non cessarono, nonostante una generale accettazione positiva dei risultati. Da questo punto di vista l’informalità dell’organizzazione aveva rappresentato sì una forma di negoziazione di saperi “di metodo” sul lavoro di ricerca ma non al punto da giungere a una soluzione pienamente condivisa. Le strategie di informalizzazione della pratica messe in campo da genitori e studenti sembravano configurarsi più correttamente come forme di “resistenza” alla trasformazione dell’apprendimento scolastico in una chiave neoliberale. Un apprendimento “nel fare” funzionale alla formazione di forza lavoro utile al mercato – veicolato e promosso dall’alternanza scuola-lavoro – sembrava essersi rovesciato in un fare nell’apprendere che si configurava come forma di resistenza agli stessi paradigmi che orientavano l’idea di alternanza, un recupero attraverso l’informalizzazione del progetto, di una capacità autonoma di gestire tempi e spazi dell’apprendimento “nel fare”.

Nella ridiscussione dei risultati del progetto anche Franca era ormai convinta di tutto ciò. L’informalizzazione dei tempi e dei modi della ricerca etnografica, l’accesso a un sapere critico che già di per se pone dei problemi alle forme di irreggimentazione del lavoro dell’alternanza ci sembrava una delle strategie di resistenza al rovesciamento di senso insito nei presupposti ideologici del tipo di formazione duale proposto in Italia in questi anni. Le lunghe discussioni via mail e le telefonate durante e dopo il progetto offrono uno squarcio interessante su come i saperi antropologici in un contesto didattico come quello dell’alternanza scuola-lavoro possano offrire la sponda all’elaborazione di una visione critica dei rapporti sociali in quei determinati contesti.

A fine progetto Franca mi scrive:

Hai notato che i frequenti richiami al metodo di don Milani portano nella chiara direzione della negazione di un sapere continuo, centrato sulla narrazione diacronica, in storia per esempio, a favore di una frantumazione progettuale che nasce dal situare i percorsi di apprendimento sulle situazioni pratiche dell’esistenza che agiscono da stimolo, inquadramento e motivazione all’apprendere? Anche qui abbiamo il pervertimento di uno dei caposaldi dell’acquisizione di una pedagogia non di classe: l’idea che la migliore motivazione all’apprendimento sia la vita stessa. Ma se nel caso di don Milani questo significava reazione critica e consapevole a un sapere che separa e divide perché imposto egemonicamente da una classe e subito dalle altre, quindi riappropriazione di secondo livello della specificità della propria condizione esistenziale (e nell’ottica che fosse possibile cambiarla); nel caso di questa nuova didattica siamo invece in presenza di una mole enorme di burocrazia progettuale, di una terminologia allontanante e pseudo specifica, e del quasi nulla contenutistico[20].

Conclusioni

Il progetto di alternanza scuola-lavoro al quale ho partecipato ha fatto emergere una negoziazione di saperi e concezioni del lavoro prodotte a diversi livelli. Il principale terreno di negoziazione è stato quello della concezione del lavoro e la sua quantificazione e spazializzazione secondo protocolli “rigidi”. In questo quadro i saperi prima di tutto metodologici dell’antropologo hanno dovuto continuamente confrontarsi con altri saperi e protocolli mutuati da una concezione diversa del lavoro, della formazione finalizzata alla risposta a specifiche esigenze di mercato e alla formalizzazione rigida dei progetti ministeriali. Questa mediazione/conflitto ha avuto come terreno principale la quantificazione e spazializzazione del lavoro di formazione per impregnazione implicito nella pratica etnografica adottata che entrava paradossalmente in conflitto con un’altra concezione dell'apprendimento “nel fare” che replicava però una irreggimentazione dello spazio e del tempo e una separazione tra formazione “frontale” e lavoro, portato ideologico dell’idea che il lavoro sia “estraneo” in una qualche misura allo studio. L’esperienza ha fatto emergere diversi livelli di implicazione dei soggetti in campo rispetto alle idee di formazione di matrice neoliberale (Shore et al. 2011). La normatività nelle politiche di alternanza scuola-lavoro è stata in una certa misura negoziata con le esigenze del progetto attraverso l’informalizzazione delle pratiche concrete degli studenti e la loro restituzione, a consuntivo, in strutture formalizzate che potessero rispondere alle necessità del quadro normativo. In un certo qual modo questa negoziazione ha rappresentato anche la sperimentazione, da parte dei soggetti coinvolti, di una forma di resistenza rispetto alle quantificazioni e spazializzazioni del lavoro e alla loro semplificazione normativa.

Apprendere il lavoro etnografico diventa per gli studenti una piccola strategia di resistenza alle logiche dell’apprendimento subordinato, alle forme di irreggimentazione e plasmazione della forza lavoro per un mercato che richiede una loro formazione “nel fare” finalizzata non alla costruzione di relazioni umane ma alla produzione di “cacciatori e raccoglitori” in grado di procacciarsi il loro reddito in una condizione di subalternità. La pratica etnografica, ancor prima della funzione maieutica dell’incontro, dell’ascoltare le voci e le esperienze dell’altro facendosi carico di un dialogo disturbante e per ciò stesso critico, ha messo gli studenti davanti alla necessità materiale di “inventarsi” una informalità, una negoziazione critica e conflittuale dei tempi e dei luoghi irreggimentati nell’alternanza, un antidoto che li ha aiutati a riflettere criticamente sulla stessa loro concezione di lavoro. Tornati ai loro báràlipton essi saranno meno portati a considerare la loro fatica come una inutile perdita di tempo libresca, contrapposta ad un mondo che è tutto fuori e separato dalla loro formazione, e prenderla pienamente come un lavoro «con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare […] un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia» (Gramsci 1975).

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[1] Ringrazio i referee anonimi di Antropologia Pubblica per i preziosi consigli e suggerimenti e Manuela Lucchesu per aver letto e discusso con me le bozze dell’articolo.

[2] L’idea di salario come “variabile indipendente” dalla produzione deriva dalle teorie dell’economista Piero Sraffa e diviene una delle elaborazioni dell’operaismo italiano nel corso degli anni Sessanta a partire dal dibattito sviluppato nelle riviste Quaderni rossi e Classe operaia (cfr. Trotta, Milana 2008). Sarà uno degli orientamenti delle rivendicazioni del movimento operaio negli anni Settanta e verrà archiviata con la cosiddetta “svolta dell’EUR”, anticipata dal segretario generale della CGIL Luciano Lama in una celebre intervista al direttore di la Repubblica Eugenio Scalfari nel gennaio del 1978.

[3] Sul mondo universitario nell’epoca del neoliberismo e su come questo paradigma impatta sul lavoro degli antropologi in diversi contesti accademici si vedano i due forum di Anuac (Haetherington, Zerilli 2016, 2017).

[4] Per l’Istituto, operante in una cittadina della Sardegna centro-occidentale, e per i nomi dei protagonisti nel progetto sono stati utilizzati degli pseudonimi a tutela dei soggetti coinvolti.

[5] Dal progetto di alternanza scuola-lavoro della IVa del Liceo Scientifico e Tecnologico Sandro Pertini [pseudonimo].

[6] Dal progetto di alternanza scuola-lavoro della IVa del Liceo Scientifico e Tecnologico Sandro Pertini [pseudonimo].

[7] L’impostazione del lavoro etnografico sulle memorie della guerra è stato fortemente debitore dei lavori di Francesca Cappelletto, in particolare Memory and World War II:An Ethnographic Approach (2005).

[8] Dal progetto di alternanza scuola-lavoro della IVa del Liceo Scientifico e Tecnologico Sandro Pertini [pseudonimo].

[9] Sulla Sardegna nella Seconda Guerra Mondiale, in particolar modo sulla fase finale, si veda Sanna 2018.

[10] La stratificazione di classe nella Sardegna contadina e pastorale e la sua percezione sociale è stata oggetto di buona parte degli studi antropologici di Giulio Angioni (Angioni 1974, soprattutto pp. 100 e sg).

[11] Per una lettura critica della Buona scuola si vedano Baldacci et al.2016, Ciccarelli 2018.

[12] Una intera tradizione antropologica ha approfondito questo tema, anche in riferimento allo studio e a come questo plasmi e modifichi in profondità il corpo. Si vedano almeno il testo fondativo di questa prospettiva (Mauss 1965) e l’impostazione leroi-gourhaniana (Leroi-Gourhan 1977) e post-leroi-gouhuraniana (Angioni 1986, Warnier 2005).

[13] Gramsci ritorna sullo stesso tema nel Quaderno 12 (Appunti e note sparse per un gruppo di saggi sulla storia degli intellettuali), affrontando il problema degli intellettuali “rurali” e di quelli “urbani” (Gramsci 1975: 1513 e sg.).

[14] L’espressione inglese è divenuta celebre in Italia, generando al contempo aspre polemiche, a partire dall’autunno del 2012. L’allora ministro del welfare Elsa Fornero invitava i giovani a non essere «troppo choosy» nella ricerca del primo impiego: «meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare il posto ideale». (Corriere della Sera, 22 ottobre 2012).

[15] Una nuova antropologia economica strutturata e ricca ha indagato proprio le modalità di rappresentare e vivere dal basso la crisi e le forme e i percorsi concreti locali di trasformazione delle forme del lavoro. Si vedano perlomeno Carrier, Kalb 2015, Narotzky, Besnier 2014.

[16] «Il Sistema duale è un modello formativo integrato tra scuola e lavoro che, creando un rapporto continuativo e coerente tra i sistemi dell'istruzione, della formazione professionale e del lavoro, punta a ridurre il divario di competenze tra istituzioni formative e impresa con il fine ultimo di diminuire la dispersione scolastica e la disoccupazione giovanile e di facilitare l’ingresso dei giovani nel lavoro» (ANPAL s.d). Nelle politiche attive del lavoro il sistema si articola nell’istruzione e formazione professionale, nell’alternanza scuola-lavoro, nell’impresa simulata e nell’apprendistato (ANPAL s.d).

[17] Pesa qui certo in misura non secondaria la difficoltà a far riconoscere in Italia quello dell’antropologo non solo come un lavoro accademico di ricerca ma anche come un lavoro professionale, che può svolgersi al limite anche all’interno del mercato. Il riconoscimento pubblico del lavoro dell’antropologo ha impegnato negli ultimi anni una parte consistente dell’associazionismo antropologico. La recente nascita della SIAA (Società Italiana di Antropologia Applicata) e soprattutto dell'ANPIA (Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia) segnalano l’urgenza da parte degli antropologi di acquisire uno statuto pubblico e, con il recente percorso di riconoscimento di ANPIA nell’elenco delle Associazioni professionali del Ministero dello Sviluppo Economico, anche istituzionale.

[18] Si veda in proposito la ricca sezione tematica di Anuac 2, 2017 (Smart et al. 2017), in particolare per il settore pubblico e istituzionale Pusceddu 2017, Zerilli, Trappe 2017, Smart 2017.

[19] Si vedano in proposito Agar 1980; Poirier, Clapier-Valladon 1983; Gonseth, Maillard 1987; Angrosino 1989, 2007: 41 e sg.; Bernard 2011: 156-187; Clemente 2013.

[20] Da una mail di Franca, 28 novembre 2018.