Antropologia e disturbo da gioco d’azzardo

Premesse per una prospettiva di genere

Giulia Nistri

Centro Ricerche EtnoAntropologiche

Table of Contents

Due linee di ricerca
Donne e sostanze: invisibilità e prospettive di genere
L’azzardo e le donne, prime ipotesi sul contesto italiano
Appunti sul gioco “al femminile” in rete
Bibliografia

Abstract. Questo breve contributo vuole offrire alcune riflessioni emerse a seguito di un'esperienza di ricerca etnografica realizzata, in collaborazione con un altro ricercatore etnografo coordinatore dell’indagine, nell’ambito del progetto “Architettura complessiva degli interventi da parte di una struttura preventiva” dell’ASL 7 di Siena. Si tratta di una ricerca progettata affinché, attraverso l’approccio teorico metodologico proprio delle discipline etno-antropologiche, emergessero elementi utili a svelare la complessità del fenomeno del gioco d’azzardo e del disturbo ad esso correlato.

Due linee di ricerca

Questo breve contributo vuole offrire alcune riflessioni emerse a seguito di un'esperienza di ricerca etnografica realizzata, in collaborazione con un altro ricercatore etnografo coordinatore dell’indagine, nell’ambito del progetto “Architettura complessiva degli interventi da parte di una struttura preventiva” dell’ASL 7 di Siena. Si tratta di una ricerca progettata affinché, attraverso l’approccio teorico metodologico proprio delle discipline etno-antropologiche, emergessero elementi utili a svelare la complessità del fenomeno del gioco d’azzardo e del disturbo ad esso correlato.

Negli ultimi anni, infatti, dalla fine degli anni Novanta e per tutto il primo decennio del nuovo secolo, si è potuto assistere, in Italia, a uno smisurato incremento dell’offerta da parte dell’industria del gioco d’azzardo legale (Lenzi Grillini 2017) che ha finito necessariamente per coinvolgere percentuali di popolazione sempre maggiori, di ambo i sessi. Proprio per questa sua maggiore diffusione e grazie a una progressiva legalizzazione e legittimazione da parte dello Stato, in Italia l’offerta dell’azzardo è diffusa e fruita praticamente ovunque, benché la riservatezza e la discrezione rimangano fra le costanti maggiormente apprezzate e apprezzabili dai giocatori in quanto caratteristiche “preferenziali” dei luoghi di gioco. Come ricorda Schüll, il gioco d’azzardo è riuscito ad iscriversi all'«interno della retorica neoliberista della cultura del consumo che enfatizza la libera scelta dei singoli individui» (Schüll 2002: 23) nel tentativo di svincolarsi dallo stigma e dalle accuse indirizzati alle sue differenti forme ma soprattutto ai suoi effetti più disastrosi ed esasperati. Anche grazie a ciò, la presenza invasiva di slot machine, una ricca offerta di lotterie istantanee come i Gratta e Vinci, nonché di giocatori “patologici” e giocatrici “patologiche” sono diventati parte della nostra quotidianità. Se da una parte questo ha generato nel tempo una reazione di forte allarme e aspra polemica che ha trovato e trova sfogo su articoli e media di portata locale e nazionale, dall’altra si è potuto assistere ad una continua azione “normalizzante” principalmente ad opera dell’offerta dell’azzardo (Cosgrave 2010) che ha finito per incidere sulla stessa percezione dei cittadini. In questo senso, ricorda Castellani (2000), al fine di manipolare il consumatore e influenzare il discorso morale sull’azzardo, l’impresa del gioco, attraverso un lavoro di marketing e di restyling terminologico, ha adottato per il proprio settore commerciale l’etichetta gaming abbandonando quella di gambling. Questa operazione ebbe inizio già negli anni Ottanta e Novanta con la trasformazione dell’immagine di una Las Vegas “ripulita” e tirata a lucido, oltreché di casinò completamente rivoluzionati pronti a «rivendersi come tappe popolari per vacanze di famiglia»[1] (Castellani 2000: 127-128). Un processo, a mio avviso, non troppo distante da quello che sta accadendo oggi in Italia e che interessa l’immagine e l’offerta di alcune grandi sale gioco ispirate al modello dei casinò. In questo senso non è un caso il fatto che la più importante fiera commerciale dedicata ai produttori e agli espositori dell’industria dell’azzardo in Italia si presenti oggi facendo ricorso a parole come “gaming” e “intrattenimento”. In queste ed altre occasioni di promozione commerciale emerge in maniera evidente la strategia dell’industria dell’azzardo finalizzata ad intrecciarsi e confondersi sempre di più con gli elementi costitutivi del panorama dell’amusement.

Il progetto di ricerca si occupava principalmente del fenomeno del gioco d’azzardo e del disturbo ad esso correlato, con un focus particolare sulla dipendenza da New Slot e Videolotteries, ma anche, in misura minore, da altri giochi come le lotterie istantanee più comunemente conosciute come Gratta e Vinci, un taglio scelto principalmente per la grande diffusione e successo che queste tipologie di giochi (in particolare le slot-machine)[2] riscuotevano al momento dell’inizio della ricerca. La principale linea di indagine, descritta dal P.I. in maniera dettagliata in altra sede (Lenzi Grillini 2016) ha previsto, oltre a un approfondimento bibliografico, una collaborazione con i SerD dell’area circoscritta dall’indagine, con le strutture e le comunità di recupero presenti nella provincia di Siena. Grazie a queste collaborazioni è stato possibile condurre interviste con giocatori e giocatrici e con alcuni dei loro familiari.[3] Inoltre ci si è interessati al lavoro dei gruppi di auto-aiuto, uno dei quali ci ha concesso la partecipazione ad alcuni incontri .

Oltre ai giocatori, la ricerca ha tenuto in considerazione anche la polifonia delle voci dei soggetti che partecipano al mondo dell’azzardo e per far ciò abbiamo realizzato alcune interviste con gestori e dipendenti di sale slot, ma anche esercenti di locali che le mettono a disposizione. Inoltre, attraverso numerose immersioni etnografiche e mappature dei luoghi del gioco d’azzardo legale, unite ad un lavoro di analisi della letteratura di settore e missioni etnografiche realizzate nell’ambito di fiere internazionali organizzate dall’industria del gaming, abbiamo cercato di cogliere le retoriche proprie di coloro che l’azzardo lo creano e lo commercializzano.

Il focus su una linea di ricerca secondaria, maggiormente focalizzata sulle implicazioni di genere, è emerso in un secondo momento, durante la rielaborazione del materiale raccolto e attraverso la ricerca di approfondimenti e di letteratura specifica, spesso frutto anche di ambiti e approcci disciplinari non solo antropologici. Riascoltando le interviste, rileggendo il diario di campo, oltreché analizzando nuovamente tutto il materiale raccolto durante le missioni realizzate alle fiere commerciali, è emersa una linea specifica, oggetto del presente contributo, che è divenuta ben presto il tema di un’indagine ancora in corso. Analizzando nuovamente i dati etnografici, il tema del “femminile” emergeva soprattutto in alcuni colloqui con operatori di servizi e comunità di recupero che lo richiamavano al fine di sottolineare il numero esiguo di donne che si rivolgevano agli stessi, a volte segnalando e interpretando questo dato come spia di un loro minore coinvolgimento nel fenomeno dell’azzardo o ipotizzando e mettendo in evidenza una difficoltà da parte dei servizi nel riuscire ad “agganciare” le giocatrici.

Quello che intendo offrire qui sono quindi prime ipotesi di lavoro che sto sviluppando all’interno di una nuova declinazione della ricerca volta ad indagare la relazione tra gioco d’azzardo e genere. Si tratta di un ambito, quello della dipendenza da gioco d’azzardo, ancora piuttosto inesplorato dalle indagini antropologiche effettuate in contesto italiano, in particolare nella sua declinazione di genere.

Donne e sostanze: invisibilità e prospettive di genere

Esiste una nutrita letteratura, in parte di stampo femminista, che si è occupata di mettere in risalto le forti mancanze che i primi studi clinici e psicologici hanno esibito fino dagli anni Settanta nell’analisi della relazione tra genere e consumo di sostanze. Elizabeth Ettorre (1992), ad esempio, mette in evidenza quanto una certa invisibilità del genere femminile abbia accompagnato per lungo tempo la produzione scientifica relativa all’uso di sostanze da parte di consumatrici donne. Per questo, all’inizio degli anni Ottanta, fare ricerca adottando questo tipo di prospettiva venne definito significativamente come un lavoro di indagine di un “non-field” (Kalant 1980), proprio ad indicare la scarsità di ricerche che si muovevano lungo questa linea.

Inizialmente, ricorda Ettorre (2004), tra clinici e studiosi che si sono occupati di dipendenze prevaleva una linea terapeutica e di indagine che la sociologa definisce come “classica”, lungo la quale non sono riconosciute diversità di genere e appartenenza. Si tratta di un taglio che privilegia una lettura fortemente patologizzante, centrata sull’individuo, nell’ambito della quale si incontrano spesso approcci di stampo moralista in cui, con la connivenza di buona parte del mondo mediatico, l’uso di sostanze scivola facilmente sul piano della devianza e le cui cause sono da ricercare nei corpi e nei geni degli “abusatori”. E’ solo con l’approccio post-moderno (Ettorre 2004), che si inizia ad assistere ad una apertura della ricerca e dei percorsi terapeutici verso una vera e propria prospettiva di genere. Si tratta di un approccio che apre a possibili letture maggiormente interessate a situare il consumo di sostanze nei contesti, tenendo conto anche delle disuguaglianze sociali che chiamano necessariamente in causa categorie come genere, classe, appartenenza. I due approcci, comunque, sembrano convivere e sopravvivere fino ai giorni nostri.

Ad ogni modo, i primi lavori statunitensi (di stampo prevalentemente clinico) che cercarono di mettere a fuoco, seppur con scarso risultato, una diversità tra consumatori e consumatrici continuarono a perpetuare letture fortemente ritagliate sull’esperienza della psichiatria male-oriented (Hunt et al. 2016), riproponendo criteri che lasciavano poco spazio a riflessioni che tenessero in considerazione elementi di carattere sociale, economico e politico. Le donne che frequentavano il “mondo delle sostanze” furono spesso raccontate fino agli anni Novanta come “vittime passive”, secondo il binomio pathology and powerlessness ricordato da Anderson (2005) che sottrae possibilità di agency alle attrici sociali ed esclude qualunque aspetto ricreativo legato al consumo.

In maniera coerente con il suddetto quadro l’universo femminile rimase a lungo sostanzialmente inesplorato anche nell’ambito degli studi sul disturbo da gioco d’azzardo. Il dott. R. L. Custer, ad esempio, psichiatra statunitense attivo negli anni Settanta e Ottanta, spesso ricordato come uno dei pionieri nel trattamento della dipendenza da gioco d’azzardo, basò il suo Profilo del giocatore patologico (1984) unicamente su soggetti di sesso maschile. In effetti, se ci rivolgiamo all’analisi della produzione scientifica riguardante la dipendenza da gioco d’azzardo, vale la pena ricordare l’indagine di Mark e Lesieur (1992) che ha contribuito a mettere in evidenza quanto un superficiale processo di generalizzazione abbia a lungo accompagnato questa tipologia di studi, alimentando così la teoria che non vi fossero particolari differenze tra giocatori e giocatrici. Contestualmente viene inoltre sottolineata l’evidente sotto-rappresentazione delle donne nell’ambito di alcune indagini svolte. Anche in questo caso, ripercorrendo la storia degli studi relativi alla dipendenza da gioco d’azzardo, è facile incontrare l’affermarsi di un forte paradigma biomedico, interessato a tracciare i confini di una patologia e le predisposizioni anche genetiche alla “malattia”, approccio in parte criticato da alcuni autori (Castellani 2000; Reith 2007). Si tratta di una tendenza iniziata negli anni Settanta/Ottanta e rimasta incontestata dalle scienze sociali fino agli anni Novanta, periodo in cui, come ricorda Pini, «le voci del dissenso, prevalentemente di area sociologica, hanno iniziato a farsi sentire, denunciando le inadeguatezze della medicalizzazione» (Pini 2012: 70). Ed è infatti verso la fine del ventesimo secolo che si inizia a dedicare un'attenzione maggiore alla relazione tra azzardo e giocatrici.

Un fondamentale contributo in questo senso è stato offerto dal lavoro di Natasha Dow Schüll, la quale ha analizzato in profondità il mondo del gioco d’azzardo attraverso le sue ricerche realizzate a Las Vegas. Schüll conduce fin dai primi anni del Duemila indagini che privilegiano anche una prospettiva di genere, ponendo l’accento su alcune peculiarità delle giocatrici da lei incontrate durante le sue ricerche (Schüll 2002). Inoltre nel suo celebre testo Addiction by Design: Machine Gambling in Las Vegas l’antropologa basa i propri studi su un campione di giocatori da lei descritto come eterogeneo ma all’interno del quale le donne caucasiche tra i trenta e i cinquant’anni occupano uno spazio di rilievo (Schüll 2012).

L’azzardo e le donne, prime ipotesi sul contesto italiano

Per quanto riguarda il contesto italiano, dagli anni Duemila si assiste a un interesse crescente per una prospettiva di genere, in particolare nel campo degli studi psicologici sulla dipendenza da gioco d’azzardo (Lavanco,Varveri, 2006; Guerreschi 2008; Odoardi, Albasi 2013; Prever, Locati 2017). Molto spesso si tratta di contributi che nascono da esperienze dirette di professionisti dei servizi che si trovano a riflettere su un fenomeno in crescita e che pone nuove domande ai servizi stessi che faticano a dare risposte efficaci e mirate (Prever, Locati 2017). Alcuni di questi contributi, oltre a offrire importanti riflessioni sugli aspetti connessi ai percorsi terapeutici, hanno cercato di tratteggiare anche delle cornici storiche e socio-culturali in cui situare il fenomeno indagato. Guerreschi (2008), ad esempio, nel suo testo L’azzardo si veste di rosa dedica una prima, seppur breve, parte della sua analisi a una panoramica sul “percorso di emancipazione femminile”. Anche grazie alle nuove possibilità aperte dai percorsi di emancipazione, ricorda l’autore, si assiste ad un maggior impulso del coinvolgimento femminile nel gioco d’azzardo, un’attività che si rivela sempre crescente e che sembra direzionarsi principalmente verso i giochi «a portata di mano, come slot machine, gratta e vinci, bingo e lotterie varie» (Guerreschi 2008: 36). Ugualmente su questa scia Prever ha definito il gambling l’ennesimo “tabù infranto” dalle donne (Prever, Locati 2012) osservando che, esattamente come avviene per le sostanze, le donne impiegherebbero più tempo a valicare la barriera della “trasgressione”, ma nel momento in cui questo avviene lo farebbero «in maniera esasperata»[4] (Prever, Locati 2017: 129). Emerge quindi in questo senso una necessità di mettere a fuoco la dimensione storica del quadro dei consumi e delle “emancipazioni” femminili per risituare in maniera chiara la relazione che da tempo si sta strutturando, in generale, tra genere femminile e dipendenza da gioco d’azzardo.

In effetti, per realizzare un’indagine efficace che guardi alla relazione tra giocatrici e azzardo risulta indispensabile prendere in considerazione, come suggerito anche da altri recenti studi dedicati alle dipendenze (Hunt et al. 2016), i mutamenti e l’evoluzione delle posizioni sociali di donne e uomini nel quadro dei contesti di riferimento: processi che hanno influenzato e influenzano il panorama dei consumi (e di conseguenza anche gli studi relativi agli stessi). In realtà, illuminare le posizioni sociali e il panorama dei consumi attraverso la prospettiva di genere rischia di rimanere un’operazione incompleta se non ci si immerge allo stesso tempo in un’analisi etno-antropologica di ciò che significa per “le giocatrici” della nostra indagine essere donne, figlie, madri, mogli (giovani e anziane). Maternità/Paternità e famiglia, ma soprattutto il carattere del genere, in quanto esperienza e costruzione del maschile e del femminile, rimangono importanti temi di riflessione che, affrontati in chiave antropologica, potrebbero contribuire in questo caso a dare maggiore profondità alle riflessioni già emerse. Si tratta di elementi che, a mio avviso, non possono essere indagati unicamente attraverso i suddetti quadri disciplinari. Lo studio di Natasha Dow Schüll, ad esempio, prendendo le mosse dal contributo di Sharon Hays (1996) The Cultural Contradictions of Motherhood, mette in evidenza la tensione che emergerebbe dalle narrazioni delle giocatrici da lei intervistate, frequentemente ripercorse da ideologie della maternità e teorie della cura in conflitto con gli ideali di autonomia propri del capitalismo industriale. Per Schüll non si tratterebbe di un semplice conflitto, quanto piuttosto di un “binarismo dinamico” costruito su ideologie della cura e autonomia, costitutivo di «una tensione produttiva del capitalismo»[5] (Schüll 2002: 13). Esiste una nutrita letteratura che si è occupata del nesso tra salute, neoliberalismo e consumo che, data la vastità del tema, non ci è possibile affrontare qui in maniera esaustiva. E’ bene ricordare però che alcuni contributi hanno esplorato in maniera approfondita questo nesso, facendo emergere la pervasività dell’ideologia neoliberale e del sistema neoliberista in cui il mercato diviene «il meccanismo più efficiente per organizzare praticamente tutti gli aspetti della vita umana e sociale» (Esposito, Perez 2014: 418), tra i quali anche quelli che contribuiscono alla definizione di cosa è “la salute”. Sulla stessa linea di questi autori Schüll ha messo in evidenza quanto tutte quelle pratiche e quei saperi che si legano al trattamento dalle dipendenze (anche in relazione ai concetti di salute e malattia) all’interno della cornice neoliberista, trovino sfogo nelle tecniche di autogestione, in un «sé farmaceutico» in cui ai consumatori è richiesto di essere responsabili ed occuparsi della propria salute in un “atto di equilibrio”costruito su un lavoro di «monitoraggio costante e una modulazione attraverso interventi medico-tecnologici» (Schüll 2012: 266).

Anche i contributi italiani citati mettono in evidenza e toccano, in maniera più o meno approfondita, il tema della maternità, del significato della stessa per le giocatrici “patologiche”, come anche il ruolo della famiglia e dei familiari in relazione allo sviluppo e alla cura della “patologia”.

In questo senso credo che questa nuova linea di indagine debba inevitabilmente orientarsi per far emergere in quali forme i rapporti di potere tra generi e le logiche familiari modellino le esperienze delle giocatrici venendone, a loro volta, riprodotte e modellate. Si tratta, in sintesi, di svelare dinamiche e narrazioni, anche frutto di processi di naturalizzazione, che rendono legittimi determinati meccanismi all’interno del contesto di indagine.

Appunti sul gioco “al femminile” in rete

Non è possibile in questa sede restituire un’analisi completa del lavoro di indagine che si sta sviluppando, ma quello che vorremmo aggiungere alle precedenti riflessioni sono alcuni brevi appunti relativamente alla relazione tra industria dell’azzardo e genere femminile. Già Prever (2017) ha ricordato l’operazione di targeting che l’industria del gioco d’azzardo ha intrapreso da alcuni anni per attrarre e coinvolgere sempre più giocatrici. Durante il lavoro di ricerca in rete di testi o articoli che potessero aiutarmi a costruire una bibliografia per una visione d’insieme del rapporto tra donne e azzardo sono finita inevitabilmente per essere indirizzata e, per ciò che ha riguardato la mia prospettiva di ricercatrice, anche per essere “attratta” da siti di gioco online. Le mie navigazioni, attraverso siti italiani e stranieri che riportavano le parole women e gambling (e i corrispettivi “donne” e “azzardo”), mi hanno ricondotto frequentemente a pagine web di gioco online, che offrivano sezioni dedicate alla relazione tra gambling e mondo femminile. Tutto ciò ha spinto inevitabilmente anche la mia indagine all’interno di queste narrazioni del mondo dell’azzardo per le donne. Sia chiaro che non si desidera qui indagare e discutere la veridicità delle informazioni riportate dai siti ma piuttosto evidenziare le narrazioni proprie di alcuni siti di gioco online. In rete gli intenti celebrativi della relazione tra genere femminile e gioco d’azzardo emergono, più o meno apertamente, nella forma di due “linee retoriche” principali che si alternano e si intrecciano e che proverò ad accennare brevemente. Entrambe prendono le mosse da una premessa che coinvolge anche gli uomini, una “narrazione maestra”, ricorrente anche nella nostra indagine più ampia. Questa narrazione si costruisce grazie a un lavoro di storicizzazione del gioco d’azzardo, un’operazione di legittimazione che richiama, in alcuni casi anche esplicitamente, l’impossibilità di controllare un “fenomeno” come quello del gioco d’azzardo, una lettura riprodotta frequentemente anche da alcuni esercenti e giocatori intervistati durante il lavoro di ricerca. In particolare segnalo il seguente passaggio:

Non ci sono mai state leggi in grado di far desistere gli antichi romani dallo scommettere e divertirsi con l’azzardo! Il divertimento e l’amore per il rischio fanno parte della nostra cultura e attraversano i secoli, cambiando forma ma rispondendo sempre alla stessa profonda necessità di sfidare la sorte.[6]

L’operazione di legittimazione, non solo chiama in causa la storia, ma si costruisce lungo un filo conduttore, quello della “nostra cultura” fortemente caratterizzata da un “amore per il rischio” che “attraversa i secoli” e che risponderebbe a una “necessità”, quasi un bisogno di sfidare la sorte. Natura e cultura si congiungono a costruire un passato dalle radici secolari, indispensabili per investire di solida autenticità il fenomeno. Non a caso Pini, nel suo Febbre d’azzardo, aveva già messo in evidenza la presenza di due principali orientamenti che emergono dagli studi che si sono occupati e si occupano di gambling. Un primo orientamento, ricorda Pini, è condiviso da industria del gambling e paradigma biomedico e considera «[…] il desiderio di giocare un fatto ubiquitario legato alla specie e individuabile attraverso fattori di rischio biologici (sistema di ricompensa cerebrale, vulnerabilità genetica) o di personalità (deficit del controllo degli impulsi, tratti ossessivi o antisociali) […]» (Pini 2012: 39). Il secondo orientamento invece è quello che privilegia lo studio del fenomeno focalizzandosi su contesti umani e geografici specifici anche attraverso indagini etnografiche. Si tratta di un approccio in linea con alcuni importanti contribuiti di ambito psicologico (Zinberg 1984) e socio-antropologico (Preble 1966; Waldorf et al. 1991) dedicati allo studio del consumo di sostanze, che hanno posto l’accento sulla necessità di distaccarsi da prospettive focalizzate prevalentemente sugli aspetti legati alla sostanza (drug). Tali studi sottolineano inoltre l’importanza di prendere in considerazione anche quegli elementi, come il set psicologico di chi consuma e il setting di consumo, che emergono come fondamentali e irriducibili nel modellare l’esperienza del consumatore. In questo senso nel loro testo Cocaine Changes: The Experience of Using and Quitting gli autori sottolineano l’importanza di rivolgersi al contesto analizzandolo non limitatamente alla «situazione sociale in cui una sostanza è utilizzata»[7] (Waldorf et al. 1991: 233) ma ampliando il raggio d’indagine fino a comprendere gli aspetti più strutturali del setting da un punto di vista socio-culturale.

Ciò che qui mi preme sottolineare è quanto la prima chiave di lettura, quella condivisa dall’industria del gambling e dall’approccio biomedico, sia spesso utilizzata a supporto di una narrazione che legittima il gioco d’azzardo, restituendo l’immagine di un fenomeno antico quanto l’essere umano e connaturato allo stesso, quindi incontrastabile.

Ma arriviamo alle due linee retoriche che guardano e parlano alle e delle donne. Spesso, in continuità con la suddetta narrazione maestra, molti siti passano in rassegna differenti personaggi femminili di giocatrici che si sono contraddistinte in epoche passate e presenti. Si tratta di giocatrici famose delle quali si celebrano la capacità, la genialità e l’abilità nel gioco, oltre alla volontà di sovvertire le regole di un mondo “dominato” dagli uomini. È il caso, citato in quasi tutti i siti che ho visitato, delle Faro’s Daughters, un gruppo di aristocratiche inglesi vissute alla fine del diciottesimo secolo, divenute famose per il loro vizio di giocare a Faro, un gioco di carte che le vedeva impegnate fino a notte fonda in case che divenivano dei veri e propri circoli di gioco. Di queste donne viene spesso ricordato che la loro passione per il gioco fu oggetto di forte critica, tanto da costar loro la minaccia della messa alla berlina. I siti visitati riportano, seppur brevemente, la storia delle Faro’s Ladies spesso per sottolineare quanto queste donne fossero state stigmatizzate per la loro trasgressività. Non a caso in una pagina web la loro storia si trova in una sezione intitolata Female rule-breakers of the Past, volta a sottolineare il carattere anticonformista e rivoluzionario di queste donne pronte a sfidare i canoni dell’epoca, tanto da venire punite, ricorda un altro sito, solo per il fatto di “essere donne”. Si tratta di quadri retorici in cui si innesta la seconda linea narrativa, quella che chiamerei di “rivendicazione”: costruita su narrazioni che, intrecciandosi spesso alla legittimazione del gioco d’azzardo al femminile attraverso il richiamo a una storia secolare, invocano la “parità di diritti” a fronte di un mondo del gambling definito “machista (su alcuni siti si parla di un “mito da sfatare”: l’azzardo non sarebbe mai stato unicamente maschile). La linea rivendicativa continua poi in alcuni casi, in cui il binomio “azzardo/donne” è detto “vincente”, tracciando i profili delle odierne giocatrici:

  • “Le donne in carriera”: frequentatrici sia dell’online che delle sale, giocano nel fine settimana o durante le pause pranzo, mentre attendono un volo o nei momenti di svago dal lavoro. Si tratta di donne che giocherebbero per competizione, riporta un sito, in primis nei confronti degli uomini e in seconda battuta nei confronti delle colleghe. Del resto, ricorda il sito, “la competizione è femmina”[8].

  • “Le pensionate e le casalinghe”: annoiate dalla routine quotidiana che cercano un passatempo “particolare e originale”, un modo per divertirsi e “intascare” piccole e/o grandi vincite tentando la fortuna.

Le retoriche di empowerment indirizzate al genere femminile che compaiono sui siti sono spesso accostate ad immagini di donne giovani, belle e bianche che, frequentemente in gruppo, si divertono (e molto spesso vincono) davanti a una slot o dietro a una roulette. Alcuni siti ricordano inoltre la possibilità che l’azzardo offrirebbe alle donne per dimenticare gli stress e le preoccupazioni quotidiane: saranno gli uomini d’ora in poi, suggerisce un sito, ad attendere la propria donna a casa, in ritardo magari per qualche giocata in più.

Molte delle narrazioni analizzate sembrano costruirsi attraverso goffi tentativi di ribaltamento degli stereotipi di genere, altre finiscono per confermare e riprodurre quegli stessi stereotipi, molte volte giocando strategicamente con figure effettivamente presenti e che frequentano gli spazi dedicati all’azzardo. Le sale, principalmente quelle che si ispirano al modello e allo stile dei grandi casinò, si stanno rendendo sempre più accoglienti per questo tipo di clientela ed è sempre più facile trovare offerte “in rosa”, inviti ad eventi “al femminile”, come anche promozioni dedicate che compaiono nei siti di gioco online. Ogni “tipologia” di giocatrice è comunque celebrata.

Sono diversi i media coinvolti e le strategie impiegate dall’industria dell’azzardo nelle operazioni di targeting rivolte alle donne e in questo breve contributo è stato possibile fare riferimento solo ad alcuni. È importante ricordare però, che agli spazi dell’azzardo – reali e virtuali – si affianca, ad esempio, tutto quel complesso di programmi (prevalentemente locali) di televendita di numeri e pronostici del lotto, che vedono un buon coinvolgimento del pubblico femminile, un ambito ancora inesplorato e che aggiungerebbe un’ulteriore dimensione alla nuova linea di indagine. Ugualmente sarà importante non sottovalutare l’importanza che altre forme e contesti di gioco d’azzardo hanno acquisito negli ultimi anni per ciò che concerne il coinvolgimento del genere femminile, come ad esempio il gioco del bingo. Inoltre trovo utile provare ad indirizzare questa nuova linea di analisi anche verso prospettive, dando voce non solo alle giocatrici, ma anche alle altre figure femminili che animano le sale come ad esempio le hostess, le barlady, le addette di sala. Si tratta di un’operazione che si rivela spesso non semplice ma che aiuterebbe a cogliere nuove prospettive e ad arricchire il quadro del mondo del gioco “al femminile”, posto che lo si ponga sempre in relazione con la sua controparte.

Un’ultima riflessione, infatti, la vorremmo dedicare alla necessità di guardare al gioco d'azzardo attraverso una prospettiva di genere che si rivolga al maschile e al femminile in eguale profondità. In alcuni degli studi qui ricordati ci pare di sentir riecheggiare un certo tipo di vittimizzazione del genere femminile, una semplificazione a tratti nuovamente essenzializzante, che rischia di offuscare alcune importanti sfumature che mettono in contatto, a mio avviso, l’esperienza di gioco al femminile con quella maschile. Concentrarsi solo su una delle due esperienze e “calcare la mano” sulle diversità di genere, significa forzare il quadro e perdere di vista alcuni comuni denominatori che devono essere necessariamente visti e messi in evidenza, anche per restituire la complementarietà delle parti in gioco. Sono questi gli snodi indispensabili dai quali ha preso le mosse e si sta strutturando la mia attuale linea di approfondimento. Solo per fare un esempio, Schüll, al tempo delle sue prime indagini, sottolineava: «Gli stereotipi dell’uomo che “gioca a dadi” e delle donne che giocano “per fuga” alle slot stanno rapidamente perdendo terreno»[9] (Schüll, 2002: 23). Erano i primi anni Duemila e si trattava di Las Vegas ma, a nostro avviso e per quanto riguarda la nostra indagine, si tratta di una riflessione più che attuale.

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[1] Traduzione a cura di chi scrive.

[2] Intendo definire e riunire sotto questo termine sia gli apparecchi denominati New Slot sia le VLT.

[3] Nello specifico sono state realizzate trentasei interviste, di cui otto con donne, congiuntamente ad altri cinque ulteriori colloqui informali con giocatrici.

[4] Traduzione a cura di chi scrive.

[5] Traduzione a cura di chi scrive.

[6] https://www.planetblog365.com/il-gioco-dazzardo-nellantica-roma/ (ultima consultazione: novembre 2018).

[7] Traduzione a cura di chi scrive.

[8] https://www.slot-mania.it/blog/705-quando-il-gambling-e-sempre-al-femminile (ultima consultazione: novembre 2018).

[9] Traduzione a cura di chi scrive.