Politiche dell’accoglienza

Lavoro, welfare e diritti di cittadinanza nell’Europa dell’asilo

Chiara Pilotto

Institut de recherche interdisciplinaire sur les enjeux sociaux (IRIS/EHESS)

Table of Contents

La riflessività riflessa
Posizionamenti
Politiche dell’accoglienza
Bibliografia

Nelle assemblee di lavoratrici e lavoratori dell’accoglienza che attraverso ultimamente, il lavoro nel settore dell’accoglienza alle persone straniere richiedenti asilo viene sovente definito come “lavoro politico”. Scrivendo questo articolo, fa sorridere quanto questa definizione contrasti con l’assunto che ha aperto il dibattito degli antropologi in questa rivista, quello per cui il lavoro nell’accoglienza si macchi di complicità con le strutture di potere, tanto da risultare “collaborazionisti” trovandovisi implicati come lavoratori (Saitta 2017). Come possono, due enunciati così diversi, riferirsi allo stesso oggetto?

Accanto al “rigetto” di ogni forma di collaborazione, la maggior parte degli interventi che hanno nutrito il dibattito si sono trovati a discutere le modalità e i rischi di una pratica antropologica implicata nell’accoglienza. Se pur implicitamente, la riflessione ha riguardato tanto una legittimità politica, che un’efficacia pratica, a partire da una particolare economia morale della conoscenza antropologica, imperniata sulla riflessività critica e variamente engaged della disciplina. Il tema di fondo, tuttavia, ha interessato soprattutto la collaborazione con le istituzioni, che rappresentano l’oggetto privilegiato della critica antropologica, nonché il suo snodo politico centrale, godendo nella disciplina di elevato consenso. Negli studi sulle migrazioni la critica si è concentrata sulle politiche di chiusura delle frontiere europee, il controllo della mobilità attraverso la forma-campo, e l’abbandono istituzionale delle vite.

Nella tensione fra “rigetto” e “collaborazione” in merito all’accoglienza, controversa ed emblematica è diventata la figura dei cosiddetti “antropologi-operatori”, per la maggior parte giovani laureati e addottorati in antropologia, che nell’ultimo decennio sono stati reclutati in largo numero come operatrici e operatori dell’accoglienza. Non solo loro, ma una larga parte di giovani italiani con formazioni diverse in ambito umanistico è stata assunta dagli enti gestori del “privato sociale”, atti a fornire l’accoglienza come “servizio” per conto di soggetti pubblici (i Comuni nel caso del sistema ex-SPRAR, le Prefetture nel caso del sistema di “accoglienza straordinaria”).

I giovani antropologi hanno così trovato un’opportunità di reddito alternativa alla carriera accademica, unica sostanziale via per diventare “veri” antropologi, nonostante si siano trovati a rivestire anche in questo settore i panni di “cadetti sociali”, se considerati in rapporto al loro inquadramento contrattuale e alle condizioni lavorative a cui sono sottoposti (Cutolo 2017)[1]. Alquanto sorprendentemente in tempi di crisi economica, l’accoglienza ha costituito uno sbocco professionale generatosi nel proprio Paese, l’Italia, permettendo di sfuggire, sia pur solo temporaneamente, alla diffusa e altrettanto controversa “fuga di cervelli”, nella quale i giovani “lavoratori della conoscenza” assomigliano più spesso a “migranti economici” che a professionisti in carriera.

Incarnando l’appartenenza alla categoria degli “antropologi-operatori” che il dibattito ha costruito, se pur non rivendicandola, il mio contributo al dibattito intende ragionare sugli impliciti che hanno sostenuto la dicotomia fra il “rigetto” e la “collaborazione” degli antropologi rispetto al mondo dell’accoglienza. Ritengo infatti che questo dibattito abbia fondamentale importanza se inserito in una discussione più ampia sulla natura e il ruolo dell’antropologia nel discorso pubblico e politico contemporaneo. In secondo luogo, il mio contributo propone una riflessione sull’accoglienza come un campo in cui si intersecano gerarchie sociali, pratiche lavorative e prassi politiche costitutivamente differenti, e nel quale è possibile riconoscere la soggettività politica delle operatrici e degli operatori dell’accoglienza come categoria di lavoratrici e lavoratori. Non è mio interesse trattare questo come un assunto ideologico, ma piuttosto come una potenzialità che si disvela proprio in rapporto alle trasformazioni delle politiche dell’accoglienza avvenute nel corso della più recente storia italiana ed europea. Storia con cui l’antropologia, in un modo o nell’altro, dovrebbe avere a che fare.

La riflessività riflessa

Le mie considerazioni poggiano sul presupposto secondo il quale il lavoro degli operatori dell’accoglienza si distingue in modo fondamentale dal lavoro di ricerca per natura, obiettivi e strutture in cui ci si trova implicati. Nella mia esperienza personale e professionale, iniziata nel 2016 come operatrice e poi coordinatrice di un centro di accoglienza per donne e minori richiedenti asilo in una zona periferica del Nord Italia, questa distinzione è sempre stata ben chiara. Banalmente, il lavoro nell’accoglienza non ha lo scopo di produrre conoscenza, ma di offrire servizi, essendo inserito nel più ampio settore del lavoro sociale; per il suo funzionamento esso poggia sul sistema statale del welfare, e non su quello dell’istruzione pubblica e della ricerca; inoltre, non è chiamato ad assumere un approccio critico e presumibilmente distaccato sulla realtà sociale, ma piuttosto ad intervenirvi operativamente.

La tensione fra collaborazione e complicità nel rapporto fra sapere antropologico e politiche dell’accoglienza sembra piuttosto evocare il rischio reale di trasformare la conoscenza stessa in servizio, passando da un’analisi del potere a un’analisi per il potere. Questo rischio, tuttavia, non riguarda in alcun modo una specificità intrinseca al mondo dell’accoglienza, così come ricordato per l’embedded anthropology, ma è già attuale nei processi di privatizzazione della ricerca, nell’intersezione fra finanziamenti pubblici e agende politiche europee, nelle gerarchie di “valore” che inquadrano la produzione del sapere dentro parametri di valutazione stabiliti dalle agenzie nazionali, nonché nei processi di precarizzazione dei lavoratori della conoscenza, i quali hanno contribuito a riformulare gerarchie e rapporti di dipendenza personale anche all’interno delle istituzioni accademiche. Rispetto al coinvolgimento del sapere antropologico nel settore dell’accoglienza, la questione era già stata posta nel momento in cui sono state evocate «le relazioni complesse che –– nel contesto neoliberista di smantellamento dell’università pubblica e di esternalizzazione dei servizi sociali e di welfare –– si vengono a produrre tra accademia, mercato, società civile e istituzioni statali» (Sbriccoli 2017: 150). Gli antropologi, quindi, sono consapevoli del fatto che il proprio lavoro all’interno dell’economia della conoscenza non si muove dentro un territorio scientifico-accademico “puro” o addirittura “neutro”. Se grande sforzo è stato dedicato all’esplicitazione dei dispositivi di sapere/potere nel quadro dell’antropologia coloniale, utilizzata anche come antidoto per la pratica antropologica nel presente, molto resta da pensare in termini di auto-riflessività e consapevolezza critica rispetto all’antropologia, tanto come disciplina che come professione a vocazione intellettuale, confinata all’interno di istituzioni accademiche prevalentemente occidentali.

Allo stesso modo, se il necessario esercizio della critica implica il continuo ripensamento del rapporto fra coinvolgimento e distacco, tale rapporto interroga anche le forme dell’agire –– e del non-agire –– politico, alle quali l’antropologia stessa si rivolge. A questo proposito, non stupisce che, proprio quando l’etnografia «come metodo, scrittura ed esperienza», talvolta malgrado la volontà degli stessi antropologi che l’hanno prodotta, assume un ruolo pubblico che supera i confini dell’accademia, i ricercatori siano confrontati ad effetti di appropriazione, circolazione e fraintendimento a cui sembrano essere poco preparati. Se l’antropologia pubblica è dunque presa fra popolarizzazione e politicizzazione, l’insieme di rischi che essa comporta «ha spesso per risultato una forma di prudenza intellettuale che equivale alla rinuncia» (Fassin 2017: 10, traduzione mia).

È interessante interrogarsi, dunque, sulle ragioni per le quali l’accoglienza dovrebbe essere considerata un settore in cui l’antropologia è particolarmente esposta al pericolo di asservimento: forse perché antropologia e accoglienza competono nell’occuparsi entrambe di “altri”, se pur con modalità distinte e obiettivi differenti? La centralità –– politica e accademica –– che migranti, rifugiati e richiedenti asilo hanno assunto nella produzione antropologica più recente ne costituisce di per sé un dato, così come intensa è diventata la frequentazione dei “campi” anche da parte delle ricercatrici e dei ricercatori. Come operatrice dell’accoglienza che, insieme ad altri colleghi “antropologi-operatori”, ha trovato spesso amare le critiche rivolte dagli “scienziati sociali” ad un settore nella cui complessità siamo immersi quotidianamente, vorrei qui esporre una serie di considerazioni partendo proprio dal doppio osservatorio offerto da questo lavoro: uno sguardo strabico, se si preferisce, che parte dai migranti per guardare alla produzione scientifica che li ha per oggetto.

Posizionamenti

Il lavoro nel settore dell’accoglienza è caratterizzato in primo luogo da una costante, seppur asimmetrica, prossimità sociale con le persone migranti, considerate “beneficiarie” dei servizi offerti all’interno del progetto. Personalmente mi sono spesso trovata a pensare questa prossimità, in qualche modo forzata per entrambe le parti, in termini di “simbiosi”, volendo trovare un’idea che restituisse l’intensa interconnessione delle nostre vite. Se questa sensazione porta in sé un paradosso, un eccesso, essa va però legata a un insieme di fattori che contribuiscono a costruire l’accoglienza come un campo di relazioni denso e complesso.

L’intimità fra operatori e migranti è in primo luogo prodotta dalle ben note caratteristiche del lavoro post-fordista, altrimenti declinato in “lavoro migrante” (Raimondi, Ricciardi 2004), in cui il lavoro di cura rientra a pieno titolo: flessibilità, disponibilità pressoché totale, impegno emotivo e indifferenziazione tra tempo di lavoro e tempo di vita personale (basti pensare alla reperibilità che gli operatori sono chiamati a garantire anche nelle ore notturne e nei weekend). Se la professione di operatori ed educatori è conosciuta per l’alto rischio di burn out che comporta –– proprio in virtù dell’intensa esposizione agli “altri” e alle loro vicende umane, ciò che gli psicologi chiamano “contagio emotivo” –– la precarietà delle condizioni può essere colta anche da chi si trova dall’altra parte dell’a/simmetria: «You are only one step over us in the food chain» («siete solo uno scalino sopra di noi nella catena alimentare»), ha commentato un ragazzo nigeriano dopo una chiacchierata sull’interdipendenza –– anche economica –– delle nostre vite.

Questa intimità non si riduce all’incontro quotidiano dei corpi nella condivisione di uno stesso spazio, ma riguarda piuttosto la condivisione di un percorso, di una direzione, di un insieme di sforzi, in cui il benessere dei “beneficiari” è il principale obiettivo perseguito, quasi sempre a discapito delle condizioni lavorative e della salute psico-fisica delle operatrici e degli operatori. Questo “bene” è anche quello che ha confuso la pratica professionale degli operatori con la sua “motivazione interiore”, come viene definita da alcuni, inserendo a pieno titolo l’accoglienza nell’economia morale dell’“aiuto”.

Nel lavoro con donne e bambini, che conduco da più di due anni in un CAS che ospita 14 persone (attualmente otto minori e sei adulti), il lavoro di cura è prioritario rispetto al ruolo di “poliziotto” che l’operatrice può rivestire. Considerando che, secondo la ragione umanitaria che ha operato in seno alla “crisi” migratoria europea, «a bambini e donne (incinta) è stata accordata una priorità di accesso alla protezione umanitaria come figure archetipiche dell’innocenza in Occidente» (Bolotta, forthcoming), nei progetti di accoglienza in cui sono stata implicata essi godono di maggiori tutele rispetto agli uomini soli, includendo la progettazione dei percorsi di uscita e la continuità del diritto alla casa alla fine del percorso di accoglienza. Tuttavia, le donne migranti sono più esposte all’irrigidimento della normatività sociale che regola la maternità e la sessualità all’interno dei quadri educativi che definiscono l’operato dei servizi sociali e sanitari, nonché delle Prefetture. Succede che, in virtù del ruolo di mediazione di cui le istituzioni spesso le investono, le operatrici lavorino nel segno di una continua negoziazione e ridefinizione delle norme, spingendo per il riconoscimento tanto del vissuto di violenza che caratterizza l’esperienza delle donne migranti, quanto della loro grande forza e determinazione, contro gli standard universali che fondano sia le disposizioni punitive (il ricorso all’autorità giudiziaria) che quelle “educative”. L’accoglienza, quindi, può e deve articolarsi come un lavoro di contrasto alle forme di abbandono e silenzio prodotte dalle stesse istituzioni (Pinelli 2013).

Al di là delle retoriche sull’“aiuto” e sulla dedizione apparentemente volontaristica di chi lo incarna, gli operatori e le operatrici sanno che il “bene” supremo consiste nell’ottenimento dei documenti per chi ne è in attesa. Il tempo dell’accoglienza, questa condizione di waithood che supera anche i due anni, è di fatto un periodo di accompagnamento e di supporto (sociale, sanitario, legale), che conduce all’audizione in Commissione, dove sarà valutata la richiesta di protezione internazionale. Se pur non esplicitato, immagino che il sostegno all’ottenimento dei documenti fosse anche lo scopo che ha spinto alcuni antropologi italiani a fornire la propria consulenza ai legali che si occupano delle domande d'asilo o dei ricorsi, in caso di diniego da parte delle Commissioni territoriali. La critica al controllo della mobilità e alla chiusura delle frontiere può quindi essere accompagnata da un uso tattico del sapere e delle pratiche –– che può diventare un uso anche strumentale delle istituzioni –– per intessere alleanze contingenti e muoversi fra le maglie del tessuto politico-istituzionale. L'accoglienza degna è, dunque, quella che non solo fonda la costruzione di relazioni significative –– come strumento per operare dentro la complessità della società e delle istituzioni, dove l’autorevolezza è utile al supporto delle persone e non alla loro alienazione –– ma che lavora per la riduzione delle diseguaglianze, il contrasto alle discriminazioni, l’accesso ai diritti di cittadinanza: casa, salute, istruzione, lavoro, partecipazione alla vita pubblica.

Gli studi antropologici hanno guardato fin qui all’accoglienza non tanto a partire dalla soggettività dei migranti, ma a partire dal “campo” come unico dispositivo attraverso cui la soggettività pare determinarsi. C’è da chiedersi quanto questo dipenda anche da una faccenda di metodo, ovvero se attraverso i campi e i centri accoglienza gli antropologi abbiano pensato di incontrare i migranti, i quali però sono già ovunque: a scuola, negli uffici e negli ospedali, nei luoghi di lavoro, nelle piazze quando c’è festa, e dentro la nostra vita personale, una parte importante dei nostri affetti. Se l’interesse dell’antropologia si è concentrato sull’abbandono delle istituzioni, la violenza delle frontiere, il controllo sulla mobilità e sulle vite, la reclusione come modalità diffusa di governo delle popolazioni migranti, la conoscenza prodotta ha certamente portato alla luce i principali effetti dei dispositivi di potere. Forse però non ha guardato a sufficienza lo sconfinamento costitutivo delle forme di vita, che tendono ad eccedere ciò che le ha generate.

A questo proposito è forse utile tenere in considerazione le idiosincrasie del sistema: i migranti chiedono “campo”, quando il campo rappresenta casa, salute, lavoro, tanto da muoversi all’interno della geografia europea in base ad immaginari non lontani da quelli degli stessi “cittadini”. L’Italia, in questa geografia, è un luogo marginale, fatto di scarse opportunità, di povertà sociale e materiale. Succede così che alcuni amici, dopo aver ottenuto il riconoscimento della protezione nel nostro Paese, siano ripartiti con le loro famiglie, e abbiano volontariamente abbandonato i campi italiani, attraversando legalmente la frontiera per presentare domanda d’asilo in Austria o in Germania. Qui hanno ricominciato tutto da capo, di nuovo da un campo, di nuovo in attesa, mentre i bambini ricominciano ad andare a scuola e ad imparare un'altra lingua, perché un passaporto italiano non basta a garantire loro un futuro. Non sono casi isolati, forse sono solo casi fortunati, ma servono a cogliere quanto gli “interstizi” non siano l’eccezione, ma la regola, così come la decisione arbitraria e l’incertezza costituiscono le forme della violenza quotidiana. EURODAC fa cilecca[2], o funziona ad intermittenza nel complicato mondo della burocrazia e dei rapporti fra Stati europei e, mentre il controllo sfugge, si sfugge al controllo chiedendo di nuovo “campo”, sperando questa volta di ottenere di più, non tanto i documenti, ma lavoro, dignità, futuro.

Il sistema di accoglienza tenta di rispondere alle richieste e a sua volta contribuisce a generarle, richieste che interpellano le politiche sociali dei nostri Paesi, le tutele offerte dallo Stato alle popolazioni. Ed è perciò che le popolazioni vengono sempre più distinte in “cittadine” e “non cittadine”, facendo del tema “sociale” l’avamposto dei movimenti sovranisti e di estrema destra. Al contempo, identificare i luoghi marginali, periferici, come luoghi di ulteriore confinamento dei migranti, opera un’ulteriore distinzione, che porta il segno di una cultura urbano-centrica da cui la ricerca non sembra essere esente. Dopo due anni passati a vivere e lavorare sull’Appennino tosco-emiliano, ho potuto sperimentare in prima persona come questi luoghi, seppur bellissimi, siano per tutti zone di abbandono e di negligenza istituzionale, caratterizzati dalla distanza dei servizi socio-sanitari, dalla mancanza di manutenzione delle infrastrutture, dalla scarsità del trasporto pubblico, dall’assenza di asili nido e sostegno alle famiglie, dal fiorire delle case di riposo al posto degli alberghi che fino agli anni ’90 venivano popolati di turisti, i quali a loro volta popolavano i paesi incastonati fra le montagne.

Per i migranti, il sistema di accoglienza costituisce una risposta –– sempre insufficiente, sempre parziale –– alla richiesta di tutela e protezione sociale, soprattutto quando si è abituati ad essere trattati, molto prima di arrivare in Europa, come non cittadini, privati di ogni diritto, a partire dal proprio Paese. In questo senso credo sia intellettualmente ambiguo, e forse anche pericoloso, individuare una continuità fra i campi libici ed i campi europei. Fra le mie prime esperienze di lavoro, l’incontro con le donne appena sbarcate in Italia è stato causa della mia più grande inquietudine. Rimasi colpita dall’innumerevole numero di giovani donne che dovevo accompagnare a fare la prima visita ginecologica. Tutte presentavano lo stesso sintomo, un dolore al basso ventre, che era anche la prima cosa che raccontavano di sé. Ricordo le lacrime silenziose di ognuna, quando la ginecologa ripeteva il suo verdetto: incinta. E ognuna è ripartita, in Italia, dallo stesso punto. Eravamo noi operatrici a chiamare gli ospedali, prendere gli appuntamenti e ad accompagnarle per sostenere la loro scelta, che andava sempre nella stessa direzione: interrompere la gravidanza. Se una complicità con le strutture di potere vi è fra gli operatori e le operatrici dell’accoglienza, questa non consiste nello stupro sistematico e nella tortura come modalità di controllo e contenimento delle persone. In tempi in cui l’accoglienza è sotto attacco dallo stesso governo italiano, che da anni stringe accordi con le autorità libiche, questa idea semplice andrebbe meglio ricordata.

Politiche dell’accoglienza

Il dibattito che anima questa rivista da circa due anni è rimasto paradossalmente estraneo ai mutamenti politici che hanno interessato il mondo dell’accoglienza, iniziati all’incirca nello stesso periodo in cui gli antropologi hanno cominciato il loro confronto. Probabilmente dettato dai tempi di redazione e pubblicazione della rivista, questo silenzio ha lasciato la discussione degli antropologi al di fuori delle dinamiche “vive” che operatori e migranti stanno attraversando da anni, fatto salvo per alcune eccezioni incarnate, non a caso, da operatrici dell’accoglienza (Castellano 2017; Mencacci, Spada 2017).

Negli ultimi anni le politiche nazionali europee hanno operato uno spostamento verso l’erosione dell’accoglienza come sistema di supporto e tutela rivolto ai migranti. L’approccio securitario ha prevalso su quello umanitario e la “compassione” ha ceduto il passo a una sempre più esplicita istituzionalizzazione del razzismo, validato con forza di legge. Qualcuno ha già annunciato la “fine dell’accoglienza” (Reggente 2019), che chiaramente non coincide con la fine dei campi, ma con l’intensificazione della loro logica contenitiva e disciplinare. A partire dalla criminalizzazione delle ONG[3], la missione di “salvare le vite” non riguarda più tanto i processi di vittimizzazione e controllo dei migranti che abbiamo conosciuto finora. Nel discorso pubblico italiano, sempre più spesso “salvare le vite” significa salvarle dalla morte in mare: quindi, ancor più, non farle partire, con delega diretta alle autorità libiche. Solo qualche anno fa, tuttavia, era stata l’ecatombe del naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, a generare “la parata militare-umanitaria” Mare Nostrum (Perugini 2013), promossa dal governo delle larghe intese a guida Gianni Letta, che ricordiamo in posizione orante davanti alle centinaia di bare numerate, morti anonime che in quell’occasione si erano presentate in modo così massiccio, a bussare alle porte dell’Europa.

È stato poi il governo di Paolo Gentiloni, con l’allora Ministro degli Interni Minniti, a promuovere con forza l’esternalizzazione del controllo delle frontiere, attraverso un accordo con la Libia[4] che ebbe immediata ed effettiva incidenza sulla diminuzione degli sbarchi sulle coste italiane a partire dal febbraio 2017[5]. Nonostante il Ministro leghista si sforzi oggi di appropriarsi di questo “merito”, le diverse forze politiche italiane sembrano trovarsi concordi su un punto: il dispositivo militare-umanitario si fonda sulla “segretezza pubblica”, volta a silenziare il terrore come particolare modalità di gestione dei migranti in Libia, così trattenuti dentro un sistema fatto di detenzione, corruzione, lavoro forzato, tortura e stupro sistematico[6]. Le recenti politiche italiane sull’accoglienza, e il progetto sociale e politico che esse racchiudono, rafforzano ancor di più il valore di ciò che Michael Taussig ha definito come la più importante forma di conoscenza sociale, quella centrata sul «sapere quel che non bisogna sapere» («to know what not to know») (Taussig 1999). Da questo silenzio passa l’istituzionalizzazione del razzismo: dal reato di clandestinità alla richiesta di asilo come unica modalità di regolarizzazione, combinata al dispositivo dell’espulsione[7]; dalla distinzione fra “veri” e “falsi” rifugiati alla meritocrazia come base di accesso ai diritti di cittadinanza, sistematizzata dal Decreto “Salvini”[8], che oggi è legge di Stato[9].

Il variegato mondo dell’accoglienza, che si era generato attorno alle logiche umanitarie emergenziali, è stato investito da questi cambiamenti. Al contempo, la sua diversificazione socio-territoriale, che comprende l’appalto del servizio ad associazioni e cooperative sociali di lunga esperienza, tanto quanto ad albergatori salvati in questo modo dalla crisi, ha prodotto anche la riorganizzazione dei singoli posizionamenti. In seguito all’approvazione del Decreto “Minniti-Orlando”[10], forte dissenso è stato espresso contro l’applicazione della disposizione che trasforma gli operatori dell’accoglienza in “pubblici ufficiali”, chiamati a svolgere funzioni — come le notifiche delle decisioni da parte delle Commissioni territoriali — che prima risultavano di competenza esclusiva delle Questure[11]. In seguito all’approvazione del Decreto “Salvini” nell’ottobre 2018, EuropAsilo lancia la campagna “Diritti Non Privilegi”, a cui aderiscono decine di realtà operanti nell’accoglienza, mentre si moltiplicano le manifestazioni di piazza. In alcuni progetti di accoglienza si organizzano incontri di informazione legale e dibattito coinvolgendo i migranti ospiti nei centri. Dai centri, dunque, inizia un confronto fra operatori e migranti che diventa quotidiano e cresce col crescere della consapevolezza di ognuno/a, portando anche alla partecipazione condivisa alle mobilitazioni pubbliche[12].

È contro la conversione del proprio ruolo in quello di “poliziotti” che in Italia nel 2017 cominciano a nascere anche le assemblee indipendenti di lavoratori e lavoratrici dell’accoglienza. Accanto alle trasformazioni del lavoro dell’accoglienza, che spingono a riflettere sulle possibili forme di sindacalizzazione degli operatori sociali, le assemblee tendono ad evidenziare come il sistema di accoglienza vada analizzato in primo luogo a partire dalla relazione fra operatori/operatrici e “beneficiari”, e dalle esperienze soggettive di chi si trova implicato in questo tipo di relazione, affermando “l’irriducibilità delle persone alla norma dell’istituzione”:

Sia le e i migranti che entrano nel sistema d’accoglienza, sia le lavoratrici e i lavoratori che vi operano non sono soggetti inerti o vuoti, completamente modellabili, ma vivono ed attraversano tale istituzione con il loro carico di bisogni, aspettative, immaginari, obiettivi ed interpretazioni. […] Adottare lenti che schiaccino le pratiche lavorative di volta in volta sulla figura dell’oppressore o del salvatore non restituisce la complessità attraverso cui questo contraddittorio dispositivo funziona[13].

Gli operatori e le operatrici invitano quindi a uno spostamento di sguardo rispetto al discorso pubblico imperniato sulla politicizzazione dell’accoglienza: 1) si costituiscono come autori di un discorso autonomo e specifico, in quanto soggetti direttamente coinvolti, la cui posizionalità rafforza la legittimità del discorso stesso; 2) identificano la relazionalità che attraversa i centri di accoglienza come interconnessione costitutiva di soggettività, che proprio attraverso questa interconnessione si vengono a formare, sfidando le dicotomie su cui la rappresentazione dell’accoglienza si fonda; 3) si riposizionano come lavoratrici e lavoratori, interrogando la relazione con l’entità datoriale a partire dalle istanze specifiche prodotte dal loro posizionamento all’interno delle gerarchie istituzionali e lavorative.

Nel futuro che è già qui, il Decreto Salvini contribuisce a inasprire il lavoro degli operatori, prevedendo un taglio netto dei finanziamenti ai progetti di accoglienza, con la conseguente diminuzione delle ore di copertura delle strutture, l’eliminazione dei corsi di italiano e degli accompagnamenti sanitari, ed una drastica riduzione del supporto legale ai migranti. A partire dalla “fine dell’accoglienza” e dall’orizzonte vicino dei licenziamenti per migliaia di giovani italiani, le assemblee delle operatrici e degli operatori hanno sempre più avvicinato il lavoro politico, centrato sulla critica delle politiche migratorie e sull’antirazzismo, al lavoro sindacale, con l’obiettivo di ridefinire le condizioni lavorative e contrattuali dell’intera categoria degli operatori sociali. È in questa direzione che il tema delle migrazioni incontra quello del lavoro, un nesso più sovente interpretato come “guerra fra poveri” che alimenta le correnti populiste, un nesso che rimane pressoché assente nella critica antropologica sui “campi”.

In questo processo ancora in corso, e dagli esiti comunque incerti, mentre le politiche dell’accoglienza deviano verso un sistema esclusivamente centrato sul contenimento e il controllo, le pratiche dell’accoglienza si ricompongono e le soggettività si moltiplicano per opposizione, disgiunzione e differenziazione rispetto al sistema. «In che modo il discorso può e deve dispiegare le sue forze nella sfera della politica e intensificarsi nel processo di rovesciamento dell’ordine stabilito?» — si chiedeva Michel Foucault in quella che è stata poi rinominata una Introduzione alla vita non-fascista (Foucault 1977). Il dibattito degli antropologi, preso fra “rigetto” e “collaborazione”, risulta ormai inattuale, se confrontato con la “fine dell’accoglienza”. Nello scivolamento dal politically correct del dispositivo militare-umanitario, ad un vero e proprio razzismo di Stato, l’antropologia è ancor più chiamata a promuovere l’esercizio della critica: una critica che faccia del lavoro intellettuale una modalità attiva e responsabile di connessione con il mondo, capace di riconoscerne non solo i rischi, ma pure le forze vitali, gli esiti inaspettati e le possibilità future.

Bibliografia

Bolotta, G. «Innocence», in Humanitarianism: keywords. A. De Lauri (ed.). Leiden. Brill, forthcoming.

Castellano, V. 2017. “We only have rights over operators”. La riappropriazione del “regime di sospetto” da parte dei richiedenti asilo in un centro di prima accoglienza. Antropologia Pubblica, 3 (1): 51-73.

Cutolo, A. 2017. Collaborare o rigettare? L’arcipelago dell’accoglienza e il “mestiere dell’antropologo”. Dibattito. Antropologia Pubblica, 3 (1): 201-207.

Fassin, D. (ed.). 2017. If Truth Be Told: The Politics of Public Ethnography. Durham & London. Duke University Press.

Foucault, M. 1977. «Preface», in Anti-Oedipus: Capitalism and Schizophrenia. G. Deleuze, F. Guattari. New York. Viking Press: xi-xiv.

Grassi, P., Parolari, C., Spertini, M. 2016. L’Europa deporta. Richiedenti asilo nella rete del Regolamento di Dublino. Verona. Ombre Corte.

Mencacci E., Spada S. 2017. Andare oltre. Per un’antropologia pubblica dell’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. Antropologia Pubblica, 3(1): 169-191.

Perugini, N. 2013. Tutto il resto è destra. In Lavoro Culturale http://www.lavoroculturale.org/mare-nostrum (consultato il 6/03/2019).

Pinelli, B. 2013. Silenzio dello Stato, voce delle donne. Abbandono e sofferenza nell'asilo politico e nella sua assenza. Antropologia, 15: 85-108.

Raimondi, F., Ricciardi, M. 2004 (ed.) Lavoro migrante. Esperienza e prospettiva, Roma. DeriveApprodi: 5-21.

Reggente, S. 2019. La fine dell’accoglienza. Gli Asini, n. 61 (marzo): 4-7.

Saitta, P. 2017. Collaborare o rigettare? L’arcipelago dell’accoglienza e il “mestiere dell’antropologo”. Dibattito. Antropologia Pubblica, 3 (1): 195-201.

Sbriccoli, T. 2017. Discipline al lavoro. Sull’ambiguità del ruolo dell’antropologo nell’accoglienza italiana. Antropologia Pubblica, 3(1): 149-167.

Taussig, M. 1999. Defacement: Public Secret and the Labor of the Negative. Stanford CA. Stanford University Press.



[1] Il settore dell’accoglienza è di fatto caratterizzato da una “giungla" contrattuale, data l’inesistenza della figura professionale dell'operatore dell’accoglienza fino a qualche anno fa, che non è contemplata dal CCNL delle cooperative sociali, scaduto peraltro da oltre sette anni. La discrezionalità con cui gli enti gestori hanno inquadrato i propri dipendenti, ha di fatto prodotto una varietà di situazioni lavorative, che non hanno escluso la possibilità per alcuni “antropologi-operatori” di rivestire ruoli di responsabilità vicini alle posizioni dirigenziali delle imprese sociali. I rapporti di lavoro e le gerarchie interne al settore meriterebbero quindi ulteriore indagine.

[2] EURODAC è il sistema europeo che cataloga le impronte digitali dei migranti che fanno ingresso illegale in Europa. Tuttavia, durante il loro percorso verso l’asilo, i migranti sono tenuti a rilasciare le loro impronte per ben tre volte: la prima, al momento dello sbarco nei cosiddetti hotspot, la seconda al momento della formalizzazione del modello C3 presso le Questure, e la terza all’ottenimento dei documenti. In base alle mie conoscenze, lo sconfinamento delle frontiere europee e la domanda d’asilo in un Paese diverso da quello d’ingresso avviene con facilità, se pur con molti rischi, per chi ha rilasciato solo la prima impronta in Italia. Donne e bambini vengono solitamente inclusi nel sistema di accoglienza del secondo Paese, anche quando viene identificato il luogo del loro primo arrivo. Queste questioni meriterebbero ricerche approfondite, ma sottolineano l’alto grado di arbitrarietà con cui le politiche migratorie europee vengono gestite nelle pratiche quotidiane, così come il saper-fare che i migranti acquisiscono attraverso le proprie reti informali.

[3] Si veda il “Codice di condotta per le ONG impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare”, presentato dal Ministro Minniti alla Commissione europea con l’appoggio di Francia e Germania: http://www.interno.gov.it/sites/default/files/codice_condotta_ong.pdf (consultato il 6/3/2019).

[4] Memorandum d'intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all'immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana”, firmato a Roma il 2 febbraio 2017 dal Presidente del Consiglio dei Ministri Paolo Gentiloni e da Fayez Mustafa Al-Serraj, Capo del Governo di riconciliazione nazionale dello Stato libico.

[5] Ad agosto 2017 si registrava una flessione dell’85% rispetto all’agosto 2016. Si veda il cruscotto statistico giornaliero, disponibile sul sito del Ministero degli Interni italiano, e commentato anche con sarcasmo dai giornali italiani, come nell’articolo Migranti, i numeri veri degli sbarchi in Italia (non c’è alcuna invasione), "Il Sole 24 Ore", 18/06/2018.

[6] Insieme agli accordi fra Italia e Libia, è importante ricordare l’accordo fra UE e Turchia sancito nel marzo 2016 con affine missione di delega sul controllo dei migranti. Per la rotta balcanica, che ha segnato innumerevoli morti, ci hanno pensato gli altri Paesi, come Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria, dove l’esperienza del carcere ha caratterizzato il viaggio di molti migranti.

[7] La combinazione di asilo ed espulsione trova compimento, all’interno dell’area Schengen, attraverso il Regolamento di Dublino, che obbliga i migranti a presentare domanda d’asilo nel primo Paese in cui fanno ingresso. Il controllo biometrico, attraverso il rilascio delle impronte digitali, dovrebbe garantire il funzionamento di questo meccanismo. Si è creata così la categoria dei “dublinati”, migranti espulsi da Paesi europei che vengono forzosamente ricondotti al Paese di primo arrivo, fra cui l’Italia. Su queste “deportazioni” interne allo spazio europeo si veda Grassi, Parolari, Spertini 2016.

[8] Decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell'Interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata” (Gazzetta Ufficiale n. 231, 4 ottobre 2018).

[9] Legge n. 132/2018.

[10] Decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13: “Disposizioni urgenti per l'accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell'immigrazione illegale” (Gazzetta Ufficiale n. 40, 17 febbraio 2017). Il decreto è stato poi convertito nella legge n. 46/2017.

[11] L’applicazione della disposizione era stata sospesa – ufficialmente per “approfondimenti tecnici” – con la Circolare del 10 agosto 2017. Con la Circolare dell’8 agosto 2018 la Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo, afferente al Ministero degli Interni, ha dato attuazione alla norma.

[12] Oggi tale condivisione deve essere accompagnata da una riflessione sui rischi differenziati che migranti e cittadini hanno rispetto all’esporsi pubblicamente. Il Pacchetto “Sicurezza e Immigrazione”, infatti, allarga la categoria dei reati che prevedono la revoca della domanda d’asilo, la perdita della protezione e addirittura della cittadinanza, includendo ad esempio il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Considerando che diverse figure svolgono funzioni di pubblico ufficiale, come i controllori negli autobus e nei treni, la norma apre la strada a una discrezionalità che lascia campo libero all’istituzionalizzazione di pratiche razziste, fondate sull’autorità/autorialità dei verbali. Inoltre, la norma mina chiaramente la partecipazione pubblica dei migranti, trasformandoli in corpi docili e al contempo potenzialmente meritevoli, come dimostra l’introduzione del permesso di soggiorno concesso agli “eroi” che si distinguono per atti di valore civile.

[13] Cit. da “Genealogia di un’assemblea”, documento interno di ALAB (Assemblea delle Lavoratrici e dei Lavoratori dell’Accoglienza Bologna).