Conversazione con Umberto Pellecchia

Bruno Riccio

Università di Bologna

Selenia Marabello

Università di Bologna

Questo testo[1] è solo una tappa di un dibattito già avviato tra gli interlocutori di questa conversazione. Dibattito talvolta serrato - se pur a distanza - che si è articolato in progetti editoriali condivisi[2] o in forme più ampie di dialogo come i convegni SIAA[3] o i seminari, dedicati al ruolo dell'antropologia nella cooperazione internazionale e promozione della salute[4], organizzati dal Centro di Ricerca MODI[5] e dal Laboratorio di Antropologia Applicata[6] dell'Università di Bologna.

La scelta di interrogare il percorso professionale di Umberto Pellecchia che, al momento in cui è stata realizzata l’intervista, ricopriva il ruolo di Senior Researcher presso l’Unità di Ricerca operazionale di Medecins Sans Frontieres (MSF) Bruxelles mirava a rileggere, in filigrana, processi più ampi di definizione e caratterizzazione della ricerca antropologica in contesti organizzativi extra accademici con l’intento di contribuire a un dibattito pubblico connesso ai processi migratori e alla salute.

Umberto Pellecchia, dopo aver conseguito il dottorato di ricerca in antropologia presso l’Università di Siena, ha lavorato all’interno di Medecins Sans Frontieres come ricercatore e coordinatore di progetti su migrazioni e rifugiati dal 2012 al 2018. Attualmente lavora, con medesime mansioni, per Greenpeace Belgium e collabora con l’Advocacy Unit di Medecins Sans Frontieres come ricercatore.

Bruno Riccio e Selenia Marabello: Riflettendo sulla tua esperienza di antropologo fuori dall’accademia, ti chiediamo di raccontarci come si è articolato il tuo percorso professionale. In che modo credi che il sapere antropologico abbia contribuito a innescare processi di cambiamento o a fornire “soluzioni pratiche o applicate”?

Umberto Pellecchia: La domanda che mi ponete ha implicazioni professionali ed esistenziali, scelte di vita e condizioni strutturali, elementi che è difficile distinguere. Molti percorsi intellettuali e lavorativi derivano da scelte o condizioni esistenziali, e viceversa direi. Cercherò di essere breve sugli aspetti esistenziali, anche se non sarebbe corretto separarli dalle scelte: penso che le decisioni professionali, intellettuali e anche politiche, in un modo o in un altro siano immerse in una dimensione personale che non dovrebbe essere messa in secondo piano. Soprattutto per i ricercatori della mia generazione, che hanno vissuto in pieno il periodo di transizione delle riforme universitarie, del precariato sul lavoro — incluso quello intellettuale —, delle ambigue promesse di carriera degli insegnamenti a contratto. Dopo il dottorato, mi sono trovato a insegnare in università per circa un anno; un’esperienza estremamente importante. Tuttavia era evidente per una persona della mia estrazione sociale, che non avrei potuto continuare con brevi contratti, pagati con cifre irrisorie, al cospetto di una responsabilità importante come quella del trasmettere sapere. In un certo senso, nonostante la mia genuina passione intellettuale, mi sono reso conto che per continuare a fare ricerca avrei dovuto possedere un capitale economico che mi avrebbe potuto permettere di andare avanti con insegnamenti a contratto sperando, dopo chissà quanti anni, in un concorso per di più dall’esito non scontato. Per ironia della sorte — o forse no, chissà — l’insegnamento di Antropologia Politica che ho condotto presso l’Università di Siena aveva come oggetto i movimenti politici dei giovani nel continente africano. Era l’epoca delle Primavere arabe, dei giovani egiziani che conquistavano Tahrir Square al suono di Bread, dignity and freedom. Osservare etnograficamente quelle dinamiche, leggere e discutere con i miei studenti — di poco più giovani di me — mi ha fatto riflettere molto. Ho iniziato a pensare al senso del fare ricerca, alle forme sociali e politiche della conoscenza critica dell’antropologia, al suo “perchè” storico ma anche, come dicevo, esistenziale. Al bisogno di trovare un’occupazione meno precaria di quella universitaria, si è quindi aggiunta una necessità intellettuale e pratica di trasferire la conoscenza nella quotidianità e, viceversa, di essere alimentato intellettualmente dalle “cose”. Ieri, come oggi, una breve ma intensa frase di Pier Giorgio Solinas mi guidava: l’antropologo è un produttore di conoscenze. Mi auguro che lui si riconosca ancora in questo — io sicuramente — e sento che la conoscenza che come antropologo produco, attraversi vari luoghi del sapere e non solo l’accademia. Se da un lato, foucaultianamente, è necessario pensare in maniera critica che i luoghi dei saperi sono diffusi — università, governi, ministeri, istituti intergovernativi, think thanks —, dall’altro è anche interessante dare cittadinanza a quei luoghi del sapere meno ovvi, ma che tuttavia “producono” conoscenza storica e trasformazione — penso ai movimenti politici, alle associazioni dal basso, alle organizzazioni non-governative e, perchè no, alle piazze come Tahrir. In tal senso, come antropologo, perchè non pensarsi come produttore di conoscenza anche in quei luoghi? Ne consegue che per me è strutturale pensare criticamente a ciò che osservo. Anche questo deriva dai miei studi: l’antropologia politica, lo studio delle società africane, la base filosofica dell’antropologia. Potremmo parlare per ore del senso critico dell’antropologia, ma forse non è questo il luogo, e ammetto che forse non sono poi del tutto aggiornato teoricamente. Dico solo che per quanto mi riguarda pensare criticamente significa osservare tutte le angolazioni di un evento sociale, senza adeguarsi a quella più lampante che spesso è quella che il potere fornisce. Significa interrogarsi, analizzare e dare dignità alle voci meno rumorose di un gruppo sociale, decriptare le logiche istituzionali, osservare come la violenza del potere si estenda nelle relazioni sociali in forme e modi diversi. L’etnografia, in questo senso, è uno strumento incredibilmente interessante.

Tuttavia, come dicevo, nel mio percorso ho voluto trasferire tutto questo nello spazio sociale più esteso. Mettermi alla prova e proporre l’antropologia come possibilità di cambiamento. Provare a pensare l’antropologo come agente di cambiamento. Ora, se questo abbia portato a produrre “soluzioni”, come è evocato nella vostra domanda, non so... La mia reazione a questo termine è che personalmente, come antropologo fuori dall’accademia, non produco soluzioni tanto nel senso di “si fa così”. Piuttosto, in primo luogo, mi sento libero di entrare nel campo e agire, senza adagiarmi su un distaccato “dovreste fare così”. Proporre relazioni — mettere in relazione —, dare chiavi di lettura, agire con un mind-set..., tutto questo è fornire soluzioni a mio parere. Rimane la questione del “fare”, ovvero di mettere nel mondo queste cose. Ciò implica una volontà personale di prendere decisioni (e quindi responsabilità), di essere flessibile nel dialogare con altri saperi — che non necessariamente sono meno critici di quello antropologico —, di accettare altri linguaggi e, se mi permettete, di non perdersi nel twist dell’essere critico per il puro obiettivo di esserlo, poichè questo rischia di diventare un habitus, una posizione. Insomma, il sapere antropologico nella mia esperienza si è configurato come un insieme di conoscenze, ma anche di procedure per osservare il mondo, di predisposizioni politico-morali. Questo insieme di cose risponde per me alla domanda del come innescare, da antropologo, processi di cambiamento.

SM: Questo modo di essere antropologo lo hai speso in un contesto particolare, quello delle organizzazioni umanitarie indipendenti, in particolare Medecins Sans Frontieres. Che margini concreti di applicazione dell’antropologia hai avuto modo di sperimentare?

UP: L’antropologia degli ultimi anni ha dato un contributo importantissimo nel leggere la dimensione dell’umanitario come aspetto gradualmente costituente di un’economia morale e politica che sorregge un preciso impianto governamentale. Ponendosi in un’ottica “dal basso”, e con uno sguardo critico, antropologi ed etnografi hanno studiato da un lato come le cosiddette popolazioni in need si relazionavano ai vari interventi umanitari e, dall’altro, come questo concetto si è articolato in diverse forme istituzionali — dagli eserciti alle organizzazioni non governative —, configurandosi via via come ideologia giustificativa di interventi governativi, o come sfondo etico di approcci caritatevoli ai paesi afflitti da crisi, o ancora come catchphrase che racchiude le storiche disuguaglianze Nord-Sud e, al contempo, le disinnesca in un discorso morale. Al concetto di umanitario si agganciano le grammatiche dei linguaggi del contemporaneo: crisi, disastri, trauma. È un “campo” etnografico estremamente interessante, pulsante, vivo. Mi sono chiesto, a un certo punto, perchè non esserci? Perchè non entrarci? E perchè non farlo in quelle “province” dell’umanitario che — a mio parere — hanno senso, pur senza essere scevre da criticità. In un discorso nel 1984, in occasione di un convegno a Ginevra, Michel Foucault[7] usa queste parole molto interessanti a mio parere:

We must reject the division of labor so often proposed to us: individuals can get indignant and talk; governments will reflect and act. It’ s true that good governments appreciate the holy indignation of the governed, provided it remains lyrical. I think we need to be aware that very often it is those who govern who talk, are capable only of talking, and want only to talk. Experience shows that one can and must refuse the theatrical role of pure and simple indignation that is proposed to us. Amnesty International, Terre des Hommes, and Medecins du monde and initiatives that have created this new right — that of private individuals to effectively intervene in the sphere of international policy and strategy. The will of individuals must make a place for itself in a reality of which governments have attempted to reserve a monopoly for themselves, that monopoly which we need to wrest from them little by little and day by day.

Qui parla di altre organizzazioni, ma in un certo senso il punto può essere esteso anche a Medici Senza Frontiere (MSF). Certamente, le organizzazioni non governative sono molto cambiate dagli anni ’70 e ’80: complessi processi di burocratizzazione, di fund raising e management hanno influenzato, e continuano a farlo, sia i mandati che le visioni. Anche il mondo è cambiato indubbiamente. Il senso di lottare per i diritti umani o per principi universali è stato largamente problematizzato. L’impatto — se posso usare questo termine — del lavoro umanitario ha mostrato di essere constantemente a rischio di riprodurre meccanismi di potere diseguale, non ultimo di essere un tassello ulteriore di una mentalità coloniale che perdura inesorabile. E la logica del “salvare delle vite umane” appare sicuramente ambigua anche nella pratica, senza dover arrivare per forza a interrogarsi sulla nozione di “vita” stessa, come fanno molti critici dell’umanitario a partire dalle riflessioni di Giorgio Agamben. Per gli stessi operatori umanitari, il loro lavoro è un costante processo di problematicità e di equlibri precari. Un medico occidentale, formato alla scuola biomedico-cartesiana, a cui è stato impedito dalle accademie occidentali di riflettere in termini politici sul suo lavoro, si ritrova in Sudan del Sud, in un campo rifugiati di 60.000 persone, senza alcuna strumentazione tecnologica e distante centinaia di chilometri da un ospedale. Egli o ella deve contare sulle sue forze, sul suo team, su una relazione col paziente che è centralissima. Deve rendersi conto che il suo operare su quel “corpo” fa parte di una narrazione più ampia, costituita da rapporti di forza che usano proprio quel corpo per esistere. Beh... nella mia esperienza di lavoro con questi medici, posso solo affermare che il loro lavoro non è per niente ingenuamente imbevuto di un fare caritatevole fine a se stesso. Al contrario, è consapevole. È intenzionato a fare di quel “salvataggio di una vita” una denuncia per le ingiustizie che hanno portato quella vita a essere in pericolo.

Io credo che molti lavori antropologici, che hanno cercato di decostruire l’umanitario, abbiano sottovalutato il potenziale motivazionale di chi decide di lavorare per un’organizzazione di questo tipo. Piuttosto che essere semplicemente soggiogato a una logica “morale”, chi lavora nell’umanitario è partecipe di un’esperienza complessissima e antropologicamente forte. Se ne è accorta Liisa Malkki[8] nel suo The Need to Help del 2015 dove problematizza questo aspetto e, facendolo, lo mette in gioco. E ne è cosciente anche un “ex umanitario”, e ora tra i maggiori antropologi contemporanei, come Didier Fassin che nelle sue riflessioni — anche su MSF — rispettosamente pone le questioni che si pongono anche gli umanitari stessi. Meno interessante mi sembra invece il lavoro di Peter Redfield[9]Life in Crisis. The Ethical journey of MSF, dove a tratti c’è una rappresentazione un po’ macchiettistica del lavoro umanitario — e io vivendolo dall’interno lo posso confermare. Redfield si pone in quel lavoro con un approccio critico tout court, per la serie “c’è del marcio in MSF”[10]. Così facendo, però, perde di vista le persone e, dal mio punto di vista, perde di vista anche l’imperativo etnografico di osservare le cose dal punto di vista del “nativo”, sospendendo giudizi etnocentrici. A tratti Redfield si ferma al mito della figura “dell’eroe” (il salvatore di vite, il testimone delle tragedie) che sembrerebbe costituire l’essenza della “persona” o dell’habitus dell’umanitario. Tuttavia, una etnografia più approfondita avrebbe permesso di vedere come tale figura in realtà sia una narrazione il più delle volte contestata dagli operatori umanitari stessi, e anzi in realtà piuttosto fuori moda ormai. Anche il rischio della tecnicizzazione dell’umanitario — che Redfield vede nell’advocacy ad esempio — non è davvero una novità per quel complesso sistema sociale che è l’umanitario stesso, dove la “tecnica” viene smussata dalla motivazione a fare quel determinato mestiere. Insomma, il pericolo che vedo nel leggere alcune produzioni antropologiche sull’umanitario è che esse semplifichino parecchio, piuttosto che aprirsi alla complessità, come dovrebbe a mio parere fare un etnografo. Un altro rischio è di percepire gli attori umanitari (i “nativi” di questo mondo) come degli ingenui mossi da pulsioni etiche inconsapevoli se non ingenuamente magiche, che l’antropologo illuminista decostruisce mettendole in relazione con un orizzonte storico-culturale di cui essi non sarebbero già consapevoli.

Ecco, in quest’orizzonte, io come antropologo mi sono posizionato in MSF come persona tra le persone. Prima di arrivare alla posizione che occupo ora — Senior researcher presso l’Unità di Ricerca operazionale di MSF Bruxelles — ho occupato varie posizioni, anche di coordinamento e management. Credo che il comune denominatore antropologico che ho praticato in tutte queste posizioni sia stato uno specifico mind-set, un modo di vedere le cose, e quindi di narrarle e prenderne parte. Sia nelle situazioni in cui ho lavorato come antropologo in senso stretto, sia in quelle in cui dovevo coordinare un team di persone, penso che la particolarità che caratterizza la nostra professione sia sempre venuta fuori. A volte come competenze specifiche. Per farvi un esempio, nel 2014 ho preso parte all’intervento di MSF in Liberia durante il drammatico outbreak di Ebola. Era il momento del picco dell’epidemia, con già decine di morti e un caos organizzativo da parte delle istituzioni preposte alla tutela — Governo, Organizzazione Mondiale della Salute — davvero incredibile. L’approccio di allora era tra quelli più drastici contemplati nelle emergenze di salute pubblica: quarantena forzata, eliminazione coatta dei cadaveri, sospensione delle libertà individuali. L’Ebola era descritto come un “nemico” da combattere. In un paese come la Liberia, in una fase di lento e delicato ricovero post- guerra civile, tale messaggio diffuso dallo stato verso la popolazione non era evidentemente tra i più efficaci. E, in effetti, la popolazione ha reagito di contraccolpo, con episodi di disobeddienza civile organizzata così come attraverso i linguaggi interpretativi del complottismo o della stregoneria. In quel contesto, sono stato chiamato come antropologo a fornire delle indicazioni su come meglio adattare la strategia medico-emergenziale di MSF alle dinamiche comunitarie. Poca letteratura a quel tempo esisteva sull’Ebola da un punto di vista antropologico anche se, invece, vi era già molto sulle epidemie. Ho allora pensato di adottare il mio bagaglio di conoscenze metodologico-interpretative per tentare di rispondere a quella domanda. In estrema sintesi, ho proposto in primo luogo una lettura “politica” delle dinamiche comunitarie in risposta alla diffusione del virus, individuando le cause dei “comportamenti scorretti” (sic!) della popolazione più che pratiche culturali (come mangiare la carne di pipistrello o praticare funerali), e osservando i rapporti di forza attivati dalle istituzioni — qui compresa anche la stessa MSF che all’inizio dell’epidemia si è trovata a mettere in piedi una strategia di piena emergenza, con tutti i protocolli conseguenti. Ho quindi interpretato le dinamiche culturali come forme di resistenza, o forme ambiziose (e pertanto interessanti) di auto-protezione dal virus. In secondo luogo, ho osservato il mondo con gli occhi della gente, più che con quelli dell’operatore umanitario. E, in tal senso, proporre una lettura simbolica della risposta epidemica. Cosa vuol dire in pratica, lo offre un esempio. Il centro di trattamento per l’Ebola impiantato da MSF a Monrovia è stato costruito di fretta e si componeva sostanzialmente di grosse tende e ospedali da campo. Il tutto era circondato da un alto muro grigio che, di fatto, impediva di vedere cosa succedeva all’interno. Le ambulanze con i malati o i sospetti entravano da un cancello sulla sinistra, ne uscivano vuote da un altro sulla destra. Nel mezzo, l’unica cosa che si poteva osservare dall’esterno era il fumo nero che usciva da una ciminiera, il cui edificio sottostante era mascherato dal muro. Che cosa succede lì dentro? Entrano corpi ed esce fumo[11]. Questo era quello che le comunità attorno al centro di trattamento osservava quotidianamente. Questo fatto lampante — è diventato tale solo grazie ad un lavoro di analisi ed esplicitazione, allora non lo era per niente — ha stravolto la percezione del comportamento delle comunità e dei motivi della loro mancanza di fiducia verso le organizzazioni “umanitarie”. Il fumo nero (insieme ad altri elementi che ora tralascio per mancanza di spazio) come solo fattore “visibile” della risposta all’epidemia, ha dato senso alle parole degli intervistati «preferisco morire in casa che da voi», «siete voi bianchi a portare l’epidemia», «nella clinica di MSF si muore», e così via. Un clic antropologico che permette di interpretare e capire, elaborare ed agire. Se una risposta sanitaria — anche in casi di estrema crisi — vuole funzionare, essa deve essere inclusiva, aperta e dare cittadinanza al linguaggio medico così come a quello popolare. L’adattamento della strategia medica ha previsto successivamente una apertura del centro di trattamento alle comunità, con l’organizzazione di visite in cui si spiegava il funzionamento del processo di presa in carico dei pazienti. Un team di MSF — specificamente dedicato — si muoveva quotidianamente tra i quartieri per parlare con la gente, spiegare e ascoltare. In terzo luogo, ho pensato di mettere in connessione alcuni argomenti “classici” dell’antropologia africanista con le possibili forme di cura. La conoscenza delle forme della parentela, ad esempio, è stata molto utile a elaborare una stategia di contacts tracing operata dai colleghi epidemiologici. Questa è sostanzialmente un tracciamento degli individui che sono entrati in contatto con la persona infetta i quali, a loro volta, possono essere stati potenzialmente esposti al virus. Ora, se molti di questi contatti possono essere erratici o casuali, altri sono più prevedibili: ad esempio la partecipazione a eventi topici della vita comunitaria, come funerali o matrimoni, o altro ancora, che aumentano il rischio di entrare in contatto con il virus. La partecipazione a questi eventi è spesso regolata da complesse regole di parentela. Conoscendole, si può elaborare una strategia di tracciamento meno random, e più affine alla “razionalità” locale. Questa connessione viene elaborata in modo magistrale da Paul Richards — autore di Fighting for the Rain Forest — e dal suo team di ricercatori in un interessantissimo articolo[12] sulla Sierra Leone, scritto durante il periodo dell’epidemia.

BR: Quello che descrivi è molto interessante. Hai parlato di coordinamento, management... e queste non sono competenze direttamente legate all’antropologia, come il fare antropologico ha orientato questi diversi ruoli organizzativi?

UP: Ciò che ho appena descritto come esempio, parla del ruolo di antropologo che ho rivestito all’interno di MSF, ed è qualcosa di immediata comprensione. Forse meno ovvio è, in effetti, capire come l’antropologia sia entrata in altri ruoli che ho ricoperto, come ad esempio quelli di coordinamento e management. Per vari anni ho lavorato in progetti sulla migrazione e sui rifugiati, sia come ricercatore che come Project coordinator. Quest’ultima figura, in MSF, ha la responsabilità di un team e delle operazioni di MSF in una specifica regione del paese dove l’organizzazione opera. Il coordinatore deve avere competenze generali varie — risorse umane, logistiche, amministrative, strategiche — e guidare la visione di un team multidisciplinare. In più, è responsabile della sicurezza del team e dell’organizzazione nello specifico territorio. Intrattiene relazioni con le autorità, sviluppa network e rappresenta MSF. Le competenze più tecniche — come quelle mediche — sono evidentemente affidate al personale specializzato. Ma è sul ruolo strategico e relazionale che il coordinatore agisce. Ora, questo mestiere si può fare in vari modi. Si può, ad esempio, seguire alla lettera gli insegnamenti dei corsi di leadership o di project management. Oppure, si può contare sul proprio “ego” di personalità estroversa che “naturalmente” guida persone e azioni. O ancora, sfortunatamente, si può essere un autoritario che crede in una rigida gerarchia. Al di là delle caricature, ciò che voglio dire è che lavorare con un team di persone diverse al fine di perseguire un obiettivo — quello che io definisco un progetto — prevede delle qualità diversificate. A mio parere l’antropologia rientra in queste qualità su due livelli fondamentali. Il primo, l’essere abituati a dialogare con le differenze — culturali, sociali, simboliche — permette all’antropologo di mettere in relazione le competenze diverse che compongono un team. È un’alchimia molto difficile, ma quando riesce, è davvero potente. In secondo luogo, l’antropologia propone sfide continue ponendo questioni e stimolando riflessioni. Questo permette di procedere in un progetto con un pensiero strategico, processuale, plastico.

Un esempio del primo caso lo ritrovo nella mia esperienza di lavoro con migranti e richiedenti asilo con esperienze di violenza e tortura. Ho lavorato in tre diversi progetti — due in Egitto e uno a Roma — su queste questioni, anche come ricercatore. MSF ha da poco ultimato uno studio — per ora solo interno, ma forse presto destinato anche a una pubblicazione — di analisi della metodologia di cura adottata nella clinica per vittime di tortura di Roma. Lo studio è stato affidato ad un antropologo che ha condotto la ricerca sul campo. Io ho curato il coordinamento scientifico e l’impostazione generale della ricerca, in collaborazione con il coordinatore della clinica, un medico dalla lunga esperienza in MSF. Insieme a lui la sfida è stata di portare l’analisi antropologica della violenza in un contesto di cura, utilizzando il punto di vista antropologico come una componente essenziale della pratica terapeutica. Evidentemente questo non è una novità nè per l’antropologia, nè per l’approccio alle vittime di tortura. Tuttavia, la novità sta nel fatto che questa “operazione”, sia intellettuale che pratica, è stata fatta nel contesto di una organizzazione umanitaria abituata, per così dire, all’emergenza. Ciò che rilevo di assolutamente interessante è stata la possibilità di far dialogare visioni della violenza — e sulla violenza — diverse: psicologi, psichiatri, medici, antropologi, pazienti. Tutti attori portatori delle loro verità, scientifiche e/o umane, e vedere come all’unisono esse possano essere indirizzate in una pratica terapeutica innovativa.

Un esempio del secondo aspetto lo ritrovo nello stimolo antropologico — critico-politico — che tento di portare quando MSF fa advocacy per la questione migratoria. Come per molte organizzazioni internazionali, l’azione politica di MSF non è mai esplicita o evidente — se non in casi circoscritti. Essa si svolge attraverso azioni di lobby, o di comunicazione, di mobilitazione dei membri o nelle scelte strategiche da operare (il posizionamento). MSF non è certamente un partito nè un’organizzazione politica. Essa è un’organizzazione medico-umanitaria ed è fondamentale discutere all’interno di queste coordinate di riferimento. In queste premesse, l’advocacy è un insieme di pratiche finalizzate a produrre un cambiamento. Essa si può rivolgere a governi o istituzioni adibite a specifiche politiche — come il Ministero della Salute o l’Organizzazione Mondiale della Sanità — o ad altre organizzazioni o enti. Nella maggior parte dei casi una strategia di advocacy si basa su dei dati, dei report, o delle ricerche. Altrettanto spesso all’advocacy si accompagna il témoignage: la testimonianza/denuncia di un evento o una dinamica che si rivolgerebbe a un pubblico generale. Redfield ha ben analizzato il ruolo della témoignage in MSF, rilevando come questa possa essere intesa come un certo tipo di sapere, che possiede un afflato morale, e si basa su elementi tecnici ovvero i dati epistemologici. Ora, riportanto tutto questo nel contesto delle migrazioni, la questione è evidentemente quale tipo di narrazione sul migrante si va a produrre. E il rischio che una organizzione medico-umanitaria può correre è di restituire una immagine vittimistica del migrante e di ridurre l’esperienza migratoria a meri bisogni sanitari. Analizzando le pratiche di advocacy e la produzione di “saperi” sulla migrazione di MSF negli ultimi anni, mi sentirei di affermare che questi rischi sono sicuramente stati corsi, ma mai in realtà completamente. Anzi, a livello internazionale MSF si è posto come un attore che a partire dalla sua identità medico-umanitaria ha posto la questione delle migrazioni nel Mediterraneo (e oltre) su un piano giuridico-politico. Una visione comprensiva del fenomeno, che è diventata una presa di posizione anche forte — si pensi alla denuncia del trattato UE-Turchia o alla tempesta scatenata intorno alla cessazione delle operazioni di soccorso in mare nel Mediterraneo. Non mi dilungo sui dettagli di questi eventi che ho vissuto in prima persona. Per il fine di questa intervista, voglio soltanto dire che lavorando come coordinatore di alcune operazioni di MSF sui migranti — sono stato in Egitto tra il 2016 e 2017, lavorando nei centri di detenzione dove migranti in transito venivano detenuti — e ricercatore per progetti di advocacy, l’antropologia mi ha consentito di dare profondità alle analisi su cui si basa sia il lavoro prettamente operativo che quello di advocacy. Questo portando al centro dell’attenzione il soggetto o i soggetti — i migranti — e le dinamiche entro cui essi agiscono. In tal senso, si supera la testimonianza come semplice atto di congelamento in poche, compassionevoli parole del dramma umanitario che l’operatore sente il dovere di denunciare. Al contrario, si produce un discorso basato su un’analisi, e questo dicorso diventa politico in quanto si contrappone molto spesso a quello sostenuto dalle istituzioni. Ultimamente ho completato una ricerca sulla condizione dei migranti a Bruxelles, abbandonati da un governo di destra al loro destino. La ricerca intendeva fornire delle informazioni per un report di advocacy per MSF. Ho lavorato intensamente con un collega, di altra formazione intellettuale, e insieme abbiamo fatto interviste, elaborato lo scritto, riflettuto. Uno degli aspetti su cui ci siamo concentrati è stato decostruire l’idea “naturalizzata” dai discorsi istituzionali che i migranti in Belgio non hanno bisogno di assistenza in quanto “in transito” (transmigrants), destinati per loro stessa volontà ad andare in Inghilterra. Questa narrazione de-responsabilizzava lo Stato dal prendersi in carico i bisogni sanitari e legali di queste persone scaricandone, di fatto, l’origine a una dinamica interna ai migranti stessi. Questo meccanismo ha prodotto che centinaia di persone erano costrette a vivere per strada, alla ricerca di mezzi illegali per raggiungere le loro reti amicali, familiari e/o di conoscenti, e senza alcun percorso di accesso ai diritti di asilo. L’interesse di MSF era evidentemente di consentire a queste persone di accedere a servizi sanitari – al di là delle etichette o classificazioni. Ma, al fine di perseguire questo obiettivo, ci è sembrato opportuno decostruire il concetto di migrante in transito proprio a partire da un diritto — quello alla salute — universale. E facendo questo, conseguentemente, ci siamo trovati a decostruire i meccanismi per cui tali soggetti vengono definiti “transitanti” e come questo faciliti un discorso di deterrenza nell’accoglienza dei migranti.

BR: Engelke direbbe “pensare come un antropolgo”, queste tue riflessioni in merito al pensare / fare antropologico le condivido pienamente.

UP: In questo senso, davvero l’antropologia è un sapere di frontiera...

BR: Che strategie adotti nella tua comunicazione, per mettere a frutto il tuo “capitale culturale” nel dialogo con le altre professioni e gli interlocutori più diversi?

UP: La comunicazione cambia in base ai ruoli assunti, talvolta attraverso la forma dei report altre volte attraverso articoli e pubblicazioni scientifiche. In generale, uno degli aspetti che ha richiesto più attenzione riguarda la comunicazione di concetti e categorie di analisi. Quello che intende un antropologo può differire da ciò che intende un altro professionista, e queste differenze costituiscono un terreno di confine interessante. Un esempio classico è il concetto di cultura. O quello di “transmigrante” che dicevo poco sopra. Ma mi vengono in mente anche quello di “salute” — cosa significa “stare bene” — o “cura”. Per mesi, nel corso della ricerca sulla tortura, con un mio collega medico ci siamo confrontati sul significato di riabilitazione, trattamento e cura per soggetti con esperienza di violenze. Curare le ferite del corpo, e inserire questi soggetti in un percorso di terapia, sono sufficienti a definire una riabilitazione? Si può ri-abilitare un soggetto con tali esperienze?

Io penso che la mia sfida come antropologo è lavorare al confine tra le discipline e le professionalità. Quando diverse professionalità condividono un orizzonte politico e pratico, la comunicazione non è una barriera, ma una delle attività su cui concentrarsi operativamente ed intellettualmente.

BR e SM: Dal tuo punto di vista quali sono le competenze e gli strumenti necessari per lavorare come antropologi fuori dall’università?

UP: Potrei rispondere a questa domanda dicendo che la formazione universitaria italiana malauguratamente non fornisce una preparazione adeguata per un antropologo applicato. Molti antropologi applicati, a me sembra, sono antropologi accademici che studiano il “mondo applicato” per ragioni intellettuali o di produzione di testi. In tal senso dovrei sostenere che le competenze da sviluppare sono tecniche e metodi a cui l’antropologo non è abituato — ad esempio la progettazione, il management, la scrittura dei report e così via. Tuttavia, pensandoci bene, affermare che l’antropologo per lavorare dovrebbe acquisire competenze che non ha è un truismo. Non dovrebbe essere “normale”, per chi si dichiara antropologo, immergersi in un contesto e imparare ciò che non si sapeva prima? Non è, questo, parte di quel processo unico che è l’etnografia e, in ultimo, lo sviluppo della conoscenza antropologica? Per quanto mi riguarda per poter lavorare fuori dall’università l’antropologo dovrebbe sviluppare quello che sa fare: osservare, partecipare senza giudizio, riflettere criticamente, trovare senso nelle pratiche. Così cerco di fare, ovviamente prendendo del tempo per imparare cose nuove, in esse agire, e su di esse riflettere.

In altre parole, ripensando agli scambi avuti in questi anni con antropologi impegnati nelle attività di MSF mi pare di intravedere che, sempre più, vi sia una conoscenza approfondita dei dibattiti teorici ma una mancata ricerca etnografica intesa come descrizione densa di fatti, processi e posizionamenti in campo. Ricerca etnografica che, nella mia esperienza di ricerca “operazionale”, è stata spesso il grimaldello più efficace per ragionare con colleghi medici, epidemiologi e/o altre figure professionali con cui ho lavorato. Penso che la puntualità di una descrizione etnografica renda il sapere antropologico prezioso ed efficace proprio per la capacità di rendere visibili processi misconosicuti agli attori sociali implicati. Quando mi viene chiesto di supportare dei ricercatori, magari più giovani, nelle fasi di avvio delle ricerche sul campo per MSF, la mia prima indicazione è: «descrivi il combattimenti dei galli». La seconda indicazione, che per me è importante tenere sempre a mente, riguarda invece il lettore diretto del lavoro di ricerca: «per chi scrivi?». Queste due indicazioni sono cruciali per rendere le ricerche di taglio antropologico intellegibili oltre che potenzialmente di stimolo per un cambiamento di prassi e procedure in ambito sanitario. I medici e gli operatori sanitari, pur non condividendo con noi un corpus di saperi, hanno spesso voglia di confrontarsi con questi grazie ad un ricercatore con cui hanno condiviso tempo e quotidianità. Avere apparati teorici solidi e articolati per gli antropologi è necessario ma, io penso, che sia opportuno chiedersi costantemente chi è il lettore? Cosa potrebbe farsene di ciò che dico? Cosa conosce del dibattito teorico che cito? Basarsi su una ricerca etnografica puntuale potrebbe non solo rendere il sapere antropologico traducibile, leggibile, rifuggendo da uno sterile citazionismo che spesso rende i lavori del tutto auto-referenziali ma permette di far divenire l’antropologia “un sapere pratico” che, dal mio punto di vista, è fondamentale per chi lavora in contesti non accademici ma sarebbe utile anche a coloro che lavorano in istituzioni di ricerca e università. Probabilmente rafforzare se non dotare gli antropologi in formazione di solidi strumenti di analisi qualitativa e, non solo, mi pare sia davvero importante.

In questi anni mi sono dovuto ricredere sulla capacità di lettura dei fenomeni da parte dell’analisi quantitativa. Al momento, per farvi un esempio concreto, ho un dibattito in corso con un mio collega epidemiologo che vorrebbe quantificare la violenza sui migranti e dunque sta cercando indicatori che consentano di individuarla. Ovviamente il dibattito tra noi si è acceso subito: proprio sulla definizione stessa di violenza. L’atto violento è quello corporeo subito nel processo migratorio ad opera di qualcuno che intenzionalmente ha agito o è, piuttosto, un processo più complesso che comprende fatti e condizioni inerenti anche la vita in Europa. Comprende, per esempio, vivere in un parco a Bruxelles per sei mesi perché non hai dove andare? Piuttosto che arroccarci ciascuno nei riferimenti disciplinari siamo andati da dei colleghi psicologi a chiedere loro cosa ne pensassero e, soprattutto, se loro cogliessero dei sintomi e segni di violenza potenzialmente riconducibili alla vita in Europea.

Siamo ancora in pieno dibattito su questo ma il mio impegno a collaborare con i colleghi è dovuto anche alla consapevolezza che il dato quali-quantitativo non solo va costruito con attenzione ma che quando è effettivamente complementare rende, spesso, le ricerche empiriche e qualitative più forti nel loro impatto.



[1] Intervista del 26 giugno 2018. L’intervista audio-registrata è stata integralmente trascritta e rielaborata, a distanza, dagli autori.

[2] Si fa qui riferimento al volume curato da Selenia Marabello e Umberto Pellecchia, 2017. Capitali Migratori e Forme del potere. Sei studi sulle migrazioni ghanesi contemporanee. Roma. CISU.

[3] III Convegno Nazionale SIAA “Antropologia Applicata e Approccio Interdisciplinare”, Workshop coordinato da Ivo Quaranta e Marco Armellini Antropologia e Contesti Sanitari, 18 Dicembre 2018.

[4] Il seminario dal titolo: Promozione della salute, migrazione forzata e antropologia: l’esperienza di Medecins Sans Frontieres, tenuto da Umberto Pellechia (relatore) e Selenia Marabello (discussant), 2 dicembre 2015.

[5] Centro di Ricerca MODI (Mobilità, Diversità e Inclusione Sociale: https://centri.unibo.it/mobilita-diversita-inclusione-sociale-edu/it/agenda/laboratorio-permanente-di-antropologia-applicata

[6] Il laboratorio, attivo dal 2014, è coordinato da Bruno Riccio, Federica Tarabusi e Selenia Marabello.

[7] Foucault, M. 1984. Face aux governments, les droits de l'homme. Liberation, 967, trad. ing.: http://decolonizingsolidarity.blogspot.com/2011/03/foucault-on-solidarity.html;

[8] Malkki, L. 2015. The Need to Help: The Domestic Arts of International Humanitarianism. Durham. Duke University Press.

[9] Redfield, P. 2013. Life in Crisis. The Ethical Journey of Doctors Without Borders. Oakland. University of California Press.

[10] Dopo l’epidemia di Ebola in Africa occidentale i lavori di Redfield su MSF sono parzialmente più indulgenti (per così dire) e, in questo senso, forse più utili alla conoscenza di un fenomeno.

[11] L’edificio dalla cui ciminiera usciva il fumo era un inceneritore per materiali sanitari infetti — guanti, vestiti, ecc. — che dovevano essere bruciati immediatamente in mancanza di un procedimento alternativo, infattibile per mancanza di tempo e logistica. I timori della comunità erano dovuti anche al fatto che il governo liberiano aveva imposto la cremazione forzata dei cadaveri, in un luogo diverso dal centro di trattamento MSF provocando nella popolazione rabbia e frustrazione. Non sono mancati riferimenti ai forni crematori nazisti e, indubbiamente, l’immagine descritta evoca tristemente tale riferimento storico.

[12] Richards P., Amara J., Ferme M.C., Kamara P., Mokuwa E., Sheriff A.I. et al. 2015. Social Pathways for Ebola Virus Disease in Rural Sierra Leone, and Some Implications for Containment. PLOS Neglected Tropical Disease 9, 4: 1-15.