Transgender beauty

Soggettività, genere e corpo nell’esperienza trans a Napoli

Marzia Mauriello

Università degli Studi di Napoli L’Orientale

Indice

Contest(i)
Scena e retroscena
Bibliografia

Abstract.  This essay recounts my research among the transgender mtf (male to female) community in Naples with particular reference to my experience as a judge in some beauty contests for trans women. The knowledge/powers that have created and regulated the trans phenomenon have in recent years made their path, from the Constitutional Court ruling (n. 221/2015) to medical-psychiatric terminology (DSM V, 2013; ICD-11, 2018). Despite these changes in the direction of a greater acquisition of rights for transgender people, the process of self-recognition for the trans women I have met at the beauty contests appears closely tied to the construction of not only a compliant, “normative” body, but a beautiful one, often idealized in terms of an aesthetic chimera that leads to what Michael Taussig defines «cosmic surgery» (2012), creating what I might call “hyper-body”. In this sense, beauty contests for trans women are the litmus test for exploring how and how much a certain bodily and aesthetic ideal (that often turns into a hypertrophic but also transgressive feminine) is perceived as the only tool for self-recognition, self-realization, and social acceptance.

Keywords.  Transgender, Naples, beauty, body, femininity.

«There is one thing more enchanting that beauty,

and that is the capacity to metamorphose into beauty».

Michael Taussig, Beauty and the Beast (2012: 41).

Contest(i)

Mi piace questo concorso perché è serio rispetto agli altri, lo vedo molto più organizzato degli altri. La mia amica partecipa perché lei ama la moda e lo spettacolo, ecco perché le piace partecipare ai concorsi. Spero che vinca non perché è una mia amica ma per un gusto personale. Non credo che sia la più bella di tutte ma è la più completa. Perché la Miss non è soltanto l’occhio bello, il naso bello, la bocca bella… è tutto l’insieme che fa una Miss…

E qual è questo insieme?

Il corpo, il viso, il portamento, lo stile, la classe, è questo che fa una Miss!

Che utilità hanno questi concorsi secondo te?

L’unica cosa utile è per far vedere alla gente che noi esistiamo, è un modo per confrontarci nel mondo sociale.

Perché un concorso di bellezza trans e non uno, che ne so, di bravura artistica.

Di bellezza perché noi puntiamo tanto alla bellezza… con le donne noi dobbiamo… vogliamo essere superiori a una donna.

Secondo te essere superiori a una donna vuol dire essere più belle di una donna?

No, però avvicinarci a quello stile perché è quello che vorremmo essere… non essere di più, avvicinarci… confrontarci mai, perché se no il mondo sarebbe capovolto. Noi viviamo nel nostro mondo e siamo un mondo a parte. Esiste un mondo omosessuale e un mondo eterosessuale, questo io credo. La gente che sta fuori fa questa distinzione.

Secondo te la bellezza è un buon modo per avvicinarsi alle persone?

Penso di sì. La bellezza ti fa sentire bene. È un modo per entrare nel mondo sociale… si punta sempre alla bellezza perché è il nostro mondo che è fatto così.

Anche il mondo delle persone non trans in realtà.

Sì ma noi molto di più, noi stiamo sopra, andiamo oltre.

Secondo te che rapporto hanno le donne trans con le donne non trans? Conflitto? Confronto?

Se ti confronti con una bella donna, non va bene il rapporto, perché c’è competizione, la donna cerca di sottovalutarti, di disprezzarti. Una donna più brutta, più semplice, può darti più coraggio. Io ho molte amiche donne, ho un negozio di parrucchiera…

Frequenti queste donne, che ne so, un caffè, un aperitivo?

No, questo no, perché i miei contatti sono con loro [donne trans come lei][1].

Questo lavoro racconta della mia esperienza nella comunità transgender[2] a Napoli con particolare riferimento al mio coinvolgimento come giurata in alcuni concorsi di bellezza per donne trans. L’occasione di essere inserita tra i membri della giuria mi si è presentata per la prima volta nel 2014, durante la mia ricerca sul campo, nel corso della seconda edizione del concorso “Miss Trans Europa”, svoltosi quell’anno presso una tv locale (campana)[3].

Il fenomeno dei concorsi di bellezza transgender in Italia ha una storia relativamente recente: il primo di questi, “Miss Trans Italia”, si è svolto nel 1992 ed è nato come provocazione contro il famoso concorso di bellezza femminile italiano “Miss Italia” che, in quello stesso anno, escluse una tra le finaliste, una donna trans post-op[4], perché non “biologicamente” donna[5]. L’interlocutrice che mi riferisce queste informazioni, un’attivista transgender[6], continua il suo racconto spiegandomi come lei e altri attivisti e attiviste trans decisero di intervenire organizzando un contro-concorso che, inaspettatamente, ottenne grande successo e visibilità nazionale per la sua “natura scandalosa”.

Questo concorso servì a dare un’immagine diversa della realtà transessuale all’opinione pubblica, abituata ad associare questa esperienza alla prostituzione, alla cronaca nera; parteciparono al concorso donne trans che non avevano nulla a che vedere con quel mondo, donne trans che si erano sposate, architetti […].

Nonostante ciò, e sebbene questo tipo di eventi pubblici siano nati per «una giusta causa», intendendo mostrare la “normalità” delle persone transgender, il significato di questi eventi molto presto è cambiato, ha aggiunto la mia interlocutrice, trasformandosi in una vetrina in cui per le partecipanti la vittoria è l’unica cosa che conta.

Si sarebbe passati, dunque, da un evento (provocatorio) di rivendicazione identitaria e di affermazione di diritti, a una passerella per mettere in scena corpi esteticamente “conformi”, con tutte le possibili sfaccettature che tale aggettivo può contenere[7]. Partendo dall’idea che la bellezza, intesa come conformità a un dato modello estetico, un dato equilibrio delle forme, possa rappresentare un mezzo per il riscatto sociale o comunque facilitare le forme della socialità, nel caso delle donne transgender che ho incontrato nel corso della mia ricerca è evidente come entrino necessariamente in campo forze e dinamiche del tutto peculiari e non riconducibili, quantomeno non solo, al comune binomio bellezza/riscatto (umano e sociale).

Roberta, una donna trans con cui di recente[8] mi sono soffermata a discutere in un colloquio informale proprio del fenomeno dei concorsi di bellezza e di un certo modo, per le donne trans che ho incontrato in questi anni a questo tipo di eventi, di vivere (e modificare) il proprio corpo, mi ha raccontato come, dal suo punto di vista, le modifiche del corpo per i soggetti trans rappresentino, di fatto, una, forse l’unica, opportunità di controllo su di sé. In altri termini, una forma di agency. La mia interlocutrice, infatti, parla di una impossibilità, per le donne trans, a “cambiare le cose”, riferendosi a una situazione di disagio e marginalità sociale che la maggior parte di loro vive nel quotidiano. Per contro, possono “agire” sul proprio corpo, modificandolo costantemente per realizzare l’immagine di sé.

Tale investimento, pressoché totale, sul corpo riguarda in misura maggiore o minore tutte le donne trans con cui ho interagito nel corso della mia ricerca; tale approccio, rilevo tuttavia, non può essere ricondotto alla sola esperienza transgender. La riflessione, più generale, è indirizzata alla visione del corpo nella tarda modernità, poiché è ovvio che l’esperienza che i soggetti trans fanno di questo, il modo in cui lo vivono, è il risultato di processi storico-culturali che hanno reso il corpo un oggetto e al tempo stesso una merce (Le Breton 2007; Mauriello 2018). Tali processi possono dirsi determinati, a loro volta, dai poteri/saperi che nei contesti cosiddetti occidentali hanno portato alla formulazione di una struttura binaria e dicotomica mente/corpo, con particolare riferimento alle “scoperte” e agli esperimenti, specie in ambito chirurgico, condotti dalla biomedicina (Laqueur 1990; Le Breton 2007; Fausto-Sterling 2000)[9]. Nel caso dell’esperienza trans, quest’approccio dicotomico si risolve nella formulazione dell’idea di un “corpo sbagliato”, un corpo, vale a dire, non “allineato” alla mente dal punto di vista dell’identità di genere. Quanto e dove è, però, sbagliato il corpo? Come e dove e quanto bisogna “aggiustarlo” per realizzare l’immagine di sé?

In un universo biomedico (di matrice statunitense) in cui il transessualismo e la relativa riattribuzione chirurgica del sesso (SRS - Sex Reassignment Surgery) è stato da principio letto come un fenomeno che principalmente riguarda un disagio con i propri genitali – in un’ottica di riduzionismo corporeo per cui il genere si identifica con l’aspetto degli organi sessuali e questi sono il luogo, la “sede” del femminile e del maschile – è chiaro che “l’intervento” era da effettuarsi in quel punto del corpo (Plemons 2017)[10]. Con gli avanzamenti in campo medico e chirurgico, anche i significati e le modalità di “aggiustamento” del corpo trans (mi riferisco soprattutto alle transizioni mtf, che sta per male to female), come vedremo, si sono modificati, fermo restando che, per alcuni soggetti trans, la riconversione genitale resti la condizione imprescindibile per un reale cambiamento di sesso e rappresenti l’obiettivo finale.

Torno dunque alla riflessione della mia interlocutrice Roberta sulla questione non tanto dell’agency quanto della marginalità sociale di cui le persone trans – specie mtf, per una questione di “scomoda visibilità” – sono vittime.

Comincio con la questione della visibilità, che tanto ha a che fare con la dimensione estetica. In un recente libro di Eric Plemons (2017) sulla chirurgia di femminilizzazione dei volti dei soggetti trans (FFS – Facial Feminization Surgery), l’autore ragiona sul senso sociale delle operazioni di chirurgia cui le persone trans si sottopongono; la ragione iniziale che soggiace alla richiesta di tali cambiamenti del corpo è che l’accettazione di sé passi per lo sguardo approvante dell’Altro, com’è, d’altronde, piuttosto ovvio. In altri termini, oltre a una necessità, per alcuni soggetti trans più impellente che per altri, di modificare il proprio corpo per vedersi nel genere cui si sente di appartenere e che comporta un cambiamento definitivo di ciò che in una società profondamente e storicamente “corporeizzata” come quella occidentale “significa” il genere, ossia i genitali, vi sarebbe, vi è, tutto l’insieme dei trattamenti, ormonali ed estetici, atti a riconfigurare l’identità del soggetto nello spazio pubblico. Dimensione del sé, da un lato, dunque, dimensione sociale e collettiva (con implicite tutte le forme possibili di inclusione sociale), dall’altro[11]. Senza la seconda, secondo Plemons, è impossibile che la prima dimensione sia soddisfatta; parla, a tal proposito, non solo di intersoggettività ma anche di una «vita sociale del corpo» (2017: 14). Di qui, per l’autore, il senso del successo della chirurgia di femminilizzazione facciale – presente e possibile negli Stati Uniti da circa la metà degli anni Ottanta – che consentirebbe ai soggetti trans (perlomeno ad alcuni di essi) di non essere/sentirsi marginalizzati o, nei casi peggiori e purtroppo comuni, bullizzati per un’ambiguità corporea/visiva che evidentemente infastidisce o scandalizza alcuni e che rende complicata, quando non rischiosa, la vita delle persone transgender.

Di qui la questione della marginalità, che chiama in causa quella della intersezionalità. Il termine transgender, pur nella sua natura di termine ombrello, come ogni definizione e categorizzazione non solo rischia di escludere implicitamente altre categorie e altre dimensioni del sé ma, nel suo raccontare un’esperienza di soggettività che si distingue da quella cosiddetta cisgender (eteronormata), può di fatto condurre anche a un riduzionismo dei soggetti a quella stessa nozione categoriale. In altri termini, le donne con cui mi sono confrontata ai concorsi di bellezza non sono, evidentemente, “solo” trans, ma soggetti provenienti da un determinato contesto socio-culturale, quello del popolino napoletano, che gioca un ruolo chiave nell’esperienza che queste donne fanno del proprio sé e del proprio corpo che cambia[12]. Non è un caso che le partecipanti a questo concorso siano in gran parte soggetti provenienti da realtà di disagio sociale, culturale ed economico. Quando parlo di disagio mi riferisco a specifici elementi che conducono di fatto alla marginalità rispetto alla struttura sociale più ampia, quale che sia l’identità di genere o la sessualità dei soggetti. Bassa o quasi assente scolarizzazione, povertà, disoccupazione, droga, connessioni con la criminalità (in vari modi e forme). Il disagio, inoltre, riguarda, a mio avviso, anche un certo modo di intendere la relazione con l’altro, come nel caso, ad esempio, dell’abitudine alla violenza, verbale e/o fisica, come forma di comunicazione ed esercizio di potere.

Questo il contesto di provenienza della gran parte delle donne trans napoletane (e del napoletano) con cui ho interagito nell’ambito dei concorsi di bellezza. Di norma non vi sono/erano solo partecipanti provenienti dal contesto urbano e dalla provincia di Napoli ma, di fatto, almeno fino al 2017, ne rappresentavano una buona percentuale[13].

Relativamente a un tipo di contesto come questo, l’investimento sul corpo appare non solo una forma di agency, una forma di controllo su di sé, ma anche un passo indispensabile per sfuggire alla marginalizzazione multiforme che molti di questi soggetti vivono.

Nella prospettiva dell’auto-riconoscimento, è chiaro che per alcuni soggetti trans il cambio di sesso dal punto di vista chirurgico sia una conditio sine qua non per il raggiungimento di uno stato di benessere e il superamento di una condizione di disagio col proprio sé. Qui, però, bisogna fare un passo indietro. In primo luogo, emerge la questione della culturalità dei generi, in virtù della quale viene da chiedersi se la transizione da un genere all’altro non sia dopotutto un bisogno indotto dalla necessità di corrispondere a uno dei soli due generi prodotti e mantenuti nel “sistema” occidentale. In secondo luogo, e questa riflessione è la risultante di quella precedente, può davvero esistere un autoriconoscimento sottratto allo sguardo dell’altro? Nella mia esperienza di molti anni di campo, non mi è mai capitato di incontrare un soggetto trans (mi riferisco soprattutto alle soggettività mtf) che abbia modificato (aggiustato?) solo i genitali e null’altro. Accade spesso, invece, che il passaggio sia pressoché compiuto e che manchi proprio “quella” trasformazione.

Le riflessioni di Plemons in tal senso sono appaiono decisamente opportune; di fatto, ciò che consente lo stabilirsi di una relazione tra individui, la «produttività dinamica della relazione intersoggettiva», come lui la definisce (2017: 15, mia trad.), sta nella visione dell’altro in senso letterale, ossia nel modo in cui l’altro viene letto nel momento in cui lo si guarda. La verità della persona non può essere, in tal senso, la verità (ricostruita) della sua anatomia, almeno non nell’immediato della relazione intersoggettiva in corso. È il viso a restituirci l’idea e insieme il senso pieno del soggetto che si ha di fronte. Al centro della mia riflessione, dunque, quel che Plemons definisce «riconoscimento» (2017) e che consente il superamento di questa impasse data dalla questione dell’auto-riconoscimento; senza il primo non può esistere il secondo.

Difatti, sottolinea l’autore, tale riconoscimento può essere sì costruttivo, ma anche distruttivo, se inverso rispetto alle aspettative del soggetto (2017) (per esempio, nel caso di una donna trans, essere riconosciuta come uomo o come donna trans ma non come donna).

Il bisogno di riconoscimento (costruttivo) si traduce, invece, per alcune donne trans, nella necessità di conformarsi a un modello estetico femminile che va dallo stereotipico all’idealizzato. Nell’analisi che fa Plemons relativamente allo sviluppo delle pratiche e delle tecniche chirurgiche per donne trans, emerge a tal proposito la questione centrale del passaggio, a metà degli anni Novanta, da una chirurgia facciale (FFS) finalizzata a rendere femminile (o più femminile) il volto di una donna trans, a un “bel viso di donna”. In altri termini, dalla necessità di vedersi come l’Altro si sarebbe passati alla necessità di vedersi belle (o più belle dell’Altro) (Plemons 2017: 35). Dalla realizzazione del proprio sé femminile per le donne trans si giunge, dunque, alla realizzazione del proprio sé femminile ideale. Di tale processo/passaggio i concorsi di bellezza sono a mio avviso la cartina di tornasole.

Per i soggetti che ho incontrato e intervistato a questo tipo di concorsi, la bellezza, di fatto, non è solo una possibilità o un'aspirazione, ma rappresenta una necessità fondamentale per l'auto-accettazione che ovviamente passa attraverso lo sguardo condiscendente e “riconoscente” degli altri. Un corpo, allora, diventa “giusto” se e quando si allinea a un modello specifico, di matrice occidentale, genderista ed eteronormato (Barnes 2001; Hausman 1992). Soprattutto, l’investimento totale su un corpo che cambia rischia di trasformarsi in una chimera estetica che in alcuni casi può ingenerare ulteriore disagio[14].

Un elemento di particolare rilevanza in tal senso è il binomio femminile/materno che si traduce talvolta nella "costruzione" di corpi ipertrofici che, a mio avviso, rinviano per gli stessi soggetti trans all’idea di fertilità. La questione della maternità influenza la relazione col proprio corpo in transito, poiché l'impossibilità a procreare è intrinsecamente percepita come un femminile “minore”, nonostante tutti i cambiamenti e le modifiche del corpo, inclusa la cosiddetta rettificazione genitale. La tensione alla perfezione del corpo potrebbe essere, di fatto, anche una risposta a questa sensazione di un femminile incompiuto, irrealizzabile e irrealizzato.

Come nel caso di Maria, 38 anni, che, in merito alla questione del sottoporsi o meno alla RCS (riconversione chirurgica del sesso), dichiara:

Assolutamente no, perché alla fine noi siamo trans. Pure se ti fai l’operazione non diventerai mai una donna biologica, che puoi procreare. Alla fine ti operi, poi non riesci più a godere e vai in depressione. Io sto bene con me stessa perché alla fine è già una lotta continua che io faccio con la vita e penso che andarmi a mettere un altro problema [la vagina] non ne vale la pena.

La relazione con la chirurgia genitale demolitiva e ricostruttiva è profondamente soggettiva e le risposte alla mia domanda sulla necessità o meno dell’operazione e sui motivi che dovrebbero condurre a questa sono state varie. Per alcune intervistate, il potenziale ricorso alla RCS sarebbe a soli fini estetici e non una o l’unica soluzione all’autoriconoscimento o alla realizzazione di sé, mentre per altre, invece, rappresenterebbe “la” soluzione, l’unico e il solo modo di sentirsi “finalmente donne”. Questo diverso approccio al corpo genera dinamiche di esclusione e conflitto all’interno della stessa comunità trans, così come mi ha illustrato nel corso di un colloquio informale Laura, una donna trans napoletana di circa quarant’anni, attivista, che da molto giovane si è sottoposta alla riconversione genitale. Lei mi ha spiegato che spesso le trans che non intendono sottoporsi alla RCS definiscono le trans mtf operate, come lei, “castrati” (uomini evirati) – riferendosi probabilmente alla negazione del piacere sessuale successivo all’operazione, laddove le donne trans “operate” definiscono quelle che non hanno modificato i genitali ricchioni o femminielli, epiteti entrambi usati in senso denigratorio. Il termine ricchione nella lingua napoletana indica gli omosessuali passivi ed è spesso utilizzato per offendere anche gli uomini eterosessuali (Mauriello 2013, 2018); in questo caso, però, ossia attribuito dalle trans alle trans, restituisce appieno la dinamica di riduzione al corpo, alla sua parte genitale, nella formulazione ed elaborazione delle identità. La parola femminiello oppure, nella versione femminile del termine, femminella, indica, invece, una categoria specifica di persone, che oggi chiameremmo transgender, che appartiene alla tradizione culturale della città; questa figura può in realtà essere interpretata come un terzo (o altro) genere, fenomeno o esperienza presente in altri contesti non occidentali e che l’antropologia ha di recente opportunamente investigato[15].

Proprio i femminielli, che ancora oggi, per quei pochi rimasti, almeno nel contesto urbano[16], si rappresentano nella loro identità femminile attraverso un corpo maschile che non modificano, aiutano a mostrare come e quanto l'atteggiamento verso il proprio corpo dei soggetti che incarnano una variante di genere è cambiato nel tempo, in risposta ai bisogni, ma anche alle possibilità, della realtà contemporanea (Mauriello 2014, 2017a, 2018).

In tempi in cui il corpo è il vero protagonista, una donna transgender (mtf) rappresenta l'apoteosi di un investimento totale su di esso e il punto di arrivo della corsa verso un ideale estetico che, in realtà, come asserivo poc’anzi, riguarda tutti, di là dalle questioni di genere. Più che mai, allora, appare chiaro come la bellezza sia principalmente «una ricerca di umanità» laddove «fare umanità significa anche intervenire esteticamente sul corpo lasciandovi segni di umanità e di bellezza» (Remotti 2000: 113).

In ogni tempo e luogo, le culture paiono essere impegnate soprattutto nell’elaborare modelli e forme, che sono nello stesso tempo canoni di bellezza e di umanità. Se si tratta di inventare e costruire umanità, è inevitabile che questa venga “incorporata”, “in-segnata” sul corpo, ovvero che il corpo ne parli, ne sia la manifestazione visibile, tangibile (Remotti 2010: 113).

Il fenomeno transgender sottolinea proprio la necessità e al tempo stesso la possibilità, oggi, di possedere un corpo – “ho un corpo e sono il corpo che ho” – conforme (e bello) per realizzare l’esperienza di sé, dal punto di vista del riconoscimento ma anche dell’auto-riconoscimento.

Scena e retroscena

Come accennato prima, però, le varie soggettività trans si esprimono anche attraverso un diverso approccio alle modifiche del corpo, che possono essere parziali o totali, con riferimento, in questo ultimo caso, alla parte genitale. Nel contesto dei concorsi di bellezza trans cui ho partecipato, la maggior parte delle partecipanti risulta non operata. Ciò è dovuto al fatto che molte di loro sono lavoratrici del sesso[17] e, come loro stesse mi hanno raccontato, mantenere un'anatomia maschile (genitali) significa guadagnare di più, poiché ai clienti piace di più l'idea di fare sesso con una sirena, vale a dire una «metà e metà»[18], e anche perché molti dei loro «cosiddetti clienti eterosessuali» amano «fare la donna» nei rapporti sessuali. Qui di seguito, parte dell’intervista a Valeria, 34 anni.

Lo volevo fare nel 2008 [di operarsi]. Poi per lavoro non l’ho fatto. Solo per lavoro. Non ho mai pensato al fatto del piacere… non lo so se si prova piacere oppure no, non mi interessava saperlo… volevo la vagina perché volevo essere donna al 100%. Ho conosciuto questo lavoro, ho visto come va questo lavoro e non mi opero assolutamente perché “il mio gioiello” è la mia pensione.

L’attività di escort (come molte di loro si definiscono), evidentemente – e per alcune di loro – consente di guadagnare una notevole quantità di denaro, anche al fine di pagare gli interventi di chirurgia estetica. Sulla questione riferisce ancora Valeria, 34 anni:

Dopo aver pagato questi debiti, ho visto i 100 euro facili, ho visto mia sorella che ne aveva bisogno, ho visto che io avevo voglia di rifarmi il seno, di vestirmi più bella, di comprarmi una macchina più bella… ci sono rimasta dentro. Cosa penso di questa vita? È una vita da schifo, la odio. Perché lo faccio? Perché è una vita che mi soddisfa economicamente. Odio gli uomini, fanno schifo gli uomini, sono tutti ricchioni gli uomini, lo grido ad alta voce.

Quest’ultima testimonianza ritorna sulla questione sessuale cui facevo riferimento poc’anzi, relativamente al fatto che la clientela delle escort trans preferisca l’ambiguità di corpi “doppi” e la possibilità di un’inversione dei ruoli sessuali “standard”. L’identità maschile dei clienti (sono tutti ricchioni) viene messa in dubbio dalle donne trans proprio per le loro richieste sessuali, dove a fare la differenza in termini di genere è il così percepito ruolo sessuale attivo (maschile) o passivo (femminile). In questo modo, si palesa sia l’indistinzione tra la sessualità e identità di genere sia l’introiettata visione profondamente binaria della realtà, che poi rientra nel più generale processo di normalizzazione che riguarda parte del mondo transgender.

Certo, ci sono donne transgender che non sono lavoratrici del sesso e che comunque decidono di non modificare i loro genitali: si considerano donne nonostante la loro anatomia maschile e non percepiscono il loro genitale come una "escrescenza" da rimuovere. Alcune di loro hanno anche affermato di considerare la loro "ambiguità" qualcosa di più e non qualcosa di meno. Molte di loro hanno riferito di essersi abituate al loro corpo con il passare del tempo, finendo con l’accettarlo (Mauriello 2013; 2017a).

Un'altra ragione per rifiutare la riattribuzione sessuale è la paura di non poter più provare piacere sessuale o di rimpiangere un cambiamento permanente. Riporto qui uno stralcio dell’intervista a Francesca, giovane donna trans che al momento del nostro incontro aveva 19 anni.

Come ti senti col tuo corpo?

Mi vedo bellissima… ho problemi a guardarlo [il pene]… non lo vorrei vedere… ma solo per una questione soprattutto estetica mi piacerebbe tanto avere una vagina, ma come le ho detto ho le mie motivazioni che mi bloccano dal farlo.

Che ti hanno detto i medici di questa cosa?

Non mi fido dei medici. Loro dicono che si arriva al piacere ma io non ci credo perché finché non lo fai non si può dire.

Le tue amiche trans che ti hanno raccontato?

La mia migliore amica trans non è operata, altre sì… c’è chi dice che prova piacere, altre no… ho paura.

Come mi hanno riferito alcune donne trans non operate, ci sono donne trans non soddisfatte della riconversione per i motivi sopra citati, ma anche, in alcuni casi, per i risultati della vaginoplastica (diverse donne trans chiamano la nuova vagina "scippo", termine che in gergo napoletano significa "graffio", che in questo caso indica un risultato estetico non soddisfacente).

Durante una conversazione informale con un urologo napoletano che si occupa di interventi di RCS[19], questi ha espresso la sua delusione per il fatto che tutte le donne trans che ha operato non si sono mai dette soddisfatte dei risultati della chirurgia e non erano contente del loro nuovo corpo. Ha asserito che l'immagine corporea (ma più in generale l'immagine del sé) che queste persone hanno in mente non è mai raggiungibile: dopo aver lavorato per molti anni con donne trans ha affermato che ciò cui questi soggetti aspirano, per quel che riguarda il loro corpo, è un’utopia.

L’idea di bellezza si associa spesso a un femminile idealizzato in base allo stereotipo maschile della donna bella e “formosa”[20]. Qui sta anche un’ulteriore differenza tra:

  • chi propende per una normalizzazione attraverso il passing , che di fatto nega l’identità trans e che si manifesta in uno “stile sobrio” che dovrebbe condurre alla invisibilità nel senso di non riconoscibilità, dall’esterno, del soggetto trans,

  • altri soggetti trans che, invece, non negano la loro identità trans ma che non amano dare esibizione di sé in quanto trans attraverso quello che per loro rappresenta un eccesso,

  • chi orgogliosamente mostra la sua soggettività trans mettendola in scena attraverso la costruzione di un corpo femminile ipertrofico (definibile, a questo punto, “femminile trans”) e dichiarando la distanza dalle “donne normali” per come definite da molte donne trans incontrate.

L’immagine di una donna deve essere quella di una donna, non di un carnevale… quelle che lo fanno è perché gli piace l’eccesso, vogliono l’eccesso e si piacciono così… non è una provocazione, secondo me, chi lo fa, lo fa perché lo desidera. È un desiderio di alcune persone… perché alla fine noi lo facciamo perché vogliamo piacere, un bel culo, delle belle tette, ci fanno stare bene. Però poi ci sono quelle che esagerano perché non sanno stare nella normalità (Maria, 38 anni).

E ancora, nel corso di un’altra intervista:

È per fare scena proprio per chi lavora… glielo dico anch’io [alle altre trans]… c’è chi si mette più in mostra… perché a loro piace la figura non femminile ma la figura del trans, il classico trans è questo qua, più silicone, labbro più sporgente… è per loro questo è essere bella. Io vado sul femminile… non è per lavorare che sono eccessive, è perché loro vogliono esserlo, vogliono dire “mi devono vedere che so ricchione! Mi faccio le mèches più chiare così mi vedono da laggiù!”. A me piace passare inosservata. Ora sto qua [al concorso di bellezza], mi metto un po’ più di decolleté fuori… nella vita quotidiana assolutamente no (Valeria, 34 anni).

Giulia, 25 anni, mi racconta che per le donne trans la bellezza conta molto ma che per lei le trans «artefatte» non sono belle. Mi parla di una bellezza naturale: «Devi essere donna, nel comportamento, nel fisico, in tutto. Alcune trans sono bellissime ma si vede che sono artefatte quando camminano per strada. A me non piace quel tipo lì». Quando le suggerisco che anche le donne cisgender che esagerano con la chirurgia estetica in molti casi peggiorano, mi risponde che quelle donne «nel momento in cui cominciano a rifarsi, sembrano delle trans».

Un’altra delle intervistate, Giuliana, 22 anni, afferma che anche con l’intervento non si metterebbe mai a confronto con una donna. Poi aggiunge che nessuno si accorge che lei è trans, ma che lei lo dichiara con orgoglio: «Sono orgogliosissima di essere trans. Amo essere trans. Quando mi prendono per donna mi dispiace un poco. Per questo non mi opererei mai». Quando le chiedo cosa pensa delle trans che si sottopongono alla RCS mi risponde: «Perché loro si sentono donne, io amo sentirmi trans».

Tale, legittima, rivendicazione identitaria, oltre che configurarsi come forma di agency per quel che concerne la questione dell’auto-riconoscimento extra-eteronormativo, introduce l’altra, importante, questione del desiderio nelle sue molteplici forme e sfaccettature. Desiderio di apparire, di mostrarsi in una forma che supera il binarismo, come nell’ultimo caso riportato, ad esempio, ma anche desiderio di piacere in quella forma seppure, per chi segue la via del sesso a pagamento ma non solo, questa stessa sia spesso intrinsecamente legata all’idea di perversione. Per come rilevato nel corso dell’etnografia, a un corpo che trasgredisce la norma non può che corrispondere una sessualità non conforme, per come percepita dagli stessi soggetti trans, che suscita nell’altro un desiderio percepito come trasgressivo e, quindi, perverso (Mauriello 2013). Se l’idea di trasgressione, intesa anche come esercizio di libertà, genera desiderio nell’altro, nondimeno in alcuni soggetti trans vi è il desiderio di trasgredire, attraverso un corpo che appare “eccedente”, proprio allo scopo di rivendicare il proprio libero spazio nel mondo e, con questo, eventuali, nuovi e diversi, modi di espressione del sé e di relazione con l’altro. Più che come merce da vendere all’altro, ecco che il corpo diventa un oggetto in perenne “costruzione/modifica” al fine di “ottenere” se stessi. Tale “ottenimento di sé” può compiersi, com’è ovvio, nei modi più diversi, seppur sempre attraverso un corpo che cambia. Ecco che allora da corpi costruiti su un principio di eteronormatività si passa a corpi eccedenti, “iper-corpi”, oppure, come accennato all’inizio, il cambiamento costante del corpo si traduce in una sostanziale forma di controllo su di sé.

Sulla questione della femminilità e degli interventi estetici, risponde anche Francesca (19 anni):

Ognuno ha la propria. Io mi sento molto femminile perché ho un corpo molto minuto. Porto 36 di piede! Ho fatto solo il seno e il sedere un poco, poi basta. Non ho mai preso ormoni perché mamma ha paura… […]. Mamma è molto scossa da medicine, malattie… a 18 anni mamma mi ha fatto fare il seno direttamente chirurgicamente… 5000 euro per il seno e 2000 euro per i glutei (col silicone).

Quando le chiedo come si sente dopo gli interventi di chirurgia estetica, mi risponde che si vede «ancora più bella, però il viso non lo ritoccherò mai. Voglio solo ingrassare un po’».

Gli interventi di chirurgia estetica restano, in un modo o nell’altro, una costante nell’esperienza delle trans intervistate; alcune di loro hanno speso una notevole quantità di denaro in chirurgia estetica per il solo concorso.

Come ha asserito l’interlocutrice cui accennavo all’inizio, mentre i primi concorsi di bellezza per donne transgender avevano soddisfatto secondo lei l'obiettivo di dissociare l'esperienza trans dal lavoro sessuale e di dare effettivamente all'opinione pubblica un'immagine diversa della comunità transgender, in tempi più recenti tali eventi sono diventati, invece, vere e proprie passerelle con un alto livello di competizione.

Difatti, alla mia domanda sul perché della loro partecipazione al concorso di bellezza, in molte hanno risposto che i concorsi di bellezza offrono visibilità e sono, a dire di molte delle partecipanti, occasione di emozione e di divertimento, oltre che un modo per «farsi riconoscere» – vale a dire mostrarsi nella loro «normalità» a un vasto pubblico.

Maria a tal proposito ha risposto:

Per farci accettare che comunque pure noi possiamo fare tante cose, come le donne… io non sono competitiva, lo vivo più come un gioco, anche perché non è che poi alla fine ti cambia la vita. Per me è un gioco, mi piace sfilare… se no non mi metterei a competere alla mia età con le ragazze di vent’anni. Mi piace l’adrenalina che ti dà quando stai sul palco, è comunque una cosa bella. Noi lo facciamo anche per farci conoscere… usciamo in tv, le persone ci vedono… è come una manifestazione che uno fa, per farci accettare e sperando che Napoli cresce un po’ di più su questa cosa. La bellezza per me conta, sia nella trans sia nella donna, conta. Essere bella aiuta. Di fronte a una bella e a una brutta io penso che uno guardi la bella, non la brutta, no? Il mio modello di bellezza è la perfezione. Ognuna di noi cerca di raggiungere la perfezione, perché nessuno di noi è perfetto, ognuno ha i suoi difetti.

Altra motivazione che risponde alla mia domanda sul perché della partecipazione a un concorso di bellezza riguarda la potenziale richiesta dei «diritti», tuttavia spesso non meglio esplicitati. Sulla questione mi risponde Valeria (34 anni):

Per come la vedo io, a concorsi come questo le trans operate non dovrebbero partecipare perché sì è un concorso di bellezza; alla fine qui si fa più per la bellezza che per i diritti… fanno a chi se mett a ’copp, e tu vedi. Se tu parli di diritti, noi trans non operate dobbiamo avere i diritti… una trans già operata ma che diritti più deve avere chella guagliona? Tiene un documento femminile, dove si presenta si presenta, è una donna… che diritti deve avere?

La ragione principale del successo di questi concorsi di bellezza è, a mio avviso, l’idea che tali eventi siano percepiti come l’occasione per riscattarsi socialmente mostrando una bellezza in molti casi dolorosamente e faticosamente costruita; una delle partecipanti, quando si è resa conto di non avere ottenuto la vittoria, si è infuriata e ha dichiarato «dopo tutti i sacrifici in termini di soldi e dolore, meritavo di vincere».

Il concorso in sé ripropone le tappe di un comune concorso di bellezza; passerella, sfilata con indosso prima un costume da bagno, poi un abbigliamento casual e poi l’abito da sera. Su quest’ultimo la maggior parte delle partecipanti investe molto denaro. In molti casi questi ultimi sono, di fatto, tendenzialmente abiti da cerimonia, estremamente elaborati e “ricchi”. Nel corso dell’etnografia ho potuto rilevare come e quanto sia importante e implicitamente richiesto che le partecipanti rispettino il dress code del concorso, il che significa adeguarsi a una certa visione di come il femminile debba essere rappresentato in passerella, apprezzato soprattutto se ostentato. Ho rilevato che la “semplicità” del look in questa occasione può essere percepita come una sorta di mancanza di rispetto per l’ufficialità dell’evento ed essere elemento di critica, da parte dell’organizzazione ma anche del pubblico. L’ostentazione di ciò che viene immaginato sia come femminile sia come “femminile trans” rientra, a mio avviso, nella ragion d’essere di un concorso di questo tipo. Nel secondo caso si tratta, in un certo senso, di una messa a distanza, di un bisogno di sottolineare che la loro è una femminilità diversa.

Voler sembrare “troppo normali”, rappresentandosi come donne non trans, in qualche modo starebbe a rinnegare una sorta di senso identitario comune (si legga lo stralcio di intervista che propongo all’inizio del testo). Al tempo stesso, però, vi è un modello femminile imperante che va seguito e rispettato. Trovare un equilibrio in queste dinamiche, considerando tra l’altro tutto ciò che essere una donna trans significa e comporta, per quel che riguarda le difficoltà e i pregiudizi, è molto complicato. Il concorso, da questo punto di vista, è la piazza in cui tutto ciò viene letteralmente messo in scena, è uno spazio pubblico in cui ciascuno propone la propria visione e versione dell’esperienza trans. Non a caso, ad alcune concorrenti viene consegnata una fascia, come normalmente si fa ai concorsi di bellezza, a indicare una particolare qualità della Miss. In questa occasione ho potuto rilevare come, da un lato, venga apprezzata la bellezza “naturale”, dove per naturale si intende una bellezza “normalizzata” tendenzialmente conforme a un femminile “standard”. In questo caso, si fa riferimento al passing cui accennavo prima, in virtù dell’invisibilità dell’identità trans di alcune concorrenti. Dall’altro lato, però, a essere premiata è la bellezza trans, in virtù della rivendicazione di un’identità altra, ma anche per consentire – specie a quei soggetti meno “femminili”, visto che anche la chirurgia estetica ha i suoi limiti – il pieno riconoscimento. Alcune giovani partecipanti, durante una conversazione informale, mi hanno raccontato di una discriminazione interna al “mondo trans” in base proprio al maggiore o minore grado di “veridicità del femminile” di alcune di loro, dove veridicità è sinonimo di bellezza. In altri termini, tra le donne trans vi è uno standard minimo da raggiungere per non essere suscettibili di critica o, peggio, di derisione per il fatto di esibire un femminile poco credibile e ridicolo (Mauriello 2017a). Chi ha dei limiti iniziali maggiori, a causa di una fisicità troppo maschile, deve fare uno sforzo in più, deve investire di più nella propria femminilità (trans) in tutti i sensi. Ecco perché maggiori sono i sacrifici, maggiore ci si aspetta sia la ricompensa. In questo caso, una possibile vincita al concorso di bellezza.

Per la fortunata vincitrice, il concorso rappresenta l’opportunità di realizzare il sogno di essere “la più bella”, nel senso specifico di donna trans più femminile, dove per femminilità si intende, oltre al soggettivo (buon grado di) raggiungimento/ottenimento di un dato modello/ideale estetico, l’insieme di una serie di “doti” attribuite alle donne: dolcezza dei movimenti, delicatezza dei gesti e l’utilizzo una voce suadente. Qui di seguito un’intervistata risponde sulla questione del significato della femminilità:

Per me è tutto. È fatta di eleganza, di saperti porre a un pubblico… di tante cose. Pure io a volte sono nervosa per via dell’infanzia… poi mi rendo conto che non sto diventando femminile quando sono nervosa e poi mi calmo perché mi rendo conto che sto facendo un percorso di andare verso una donna.

È chiaro che queste donne investono molto nella costruzione della loro bellezza, che causa loro un dispendio notevole in termini economici, per la chirurgia estetica, e dolore fisico.

Come accennavo all’inizio, probabilmente lo scopo di questo duro lavoro sul corpo è per le donne trans l’ottenimento del massimo riconoscimento, almeno in termini fisici. Riconoscimento che passa anche per il lavoro di escort che è un altro mezzo per dare un senso al proprio sé, per sentirsi importanti e apprezzate da qualcuno. La bellezza rappresenta, di fatto, la condizione principale di questo processo di auto-riconoscimento ma anche di autostima (il fatto di essere molto richieste e ben pagate grazie alla propria bellezza). Se l’investimento sul corpo non riguarda solo la comunità transgender di Napoli ma è oggi una tendenza globale, una sorta di imperativo morale, è ovvio che, nel caso dei soggetti trans, questa tendenza rappresenta un investimento totale di vita, un impegno senza fine che condiziona totalmente le loro esistenze.

Come raccontava l’interlocutrice di cui riporto le parole all’inizio di questo scritto, «si punta sempre alla bellezza perché è il nostro mondo che è fatto così»; ecco, allora, che il concorso di bellezza rappresenta il luogo “ideale” in cui ritrovarsi e “ri-conoscersi”. In tal senso, a mio avviso, questi eventi, nonostante l’alto livello di competizione tra le partecipanti, sono anche un’occasione per “fare comunità”. In nessun altro contesto ho visto, infatti, tale livello di partecipazione da parte delle donne trans, che si fosse concorrenti oppure no.

È chiaro dunque che il valore schiacciante attribuito a un modello estetico femminile, che va dallo stereotipico all’ipertrofico, è parte di un orizzonte simbolico in cui l'amore e l'affetto vengono “negoziati”, probabilmente anche all’interno della stessa comunità trans, attraverso una specifica immagine corporea. Tuttavia, se eventi come questi qui descritti possono avere il pregio di far sentire le partecipanti “regine per una notte”, il rischio è che si continui a investire sul corpo e su null’altro.

Queste persone devono avere chiara una cosa: il corpo lo puoi trasformare quanto vuoi, ma devi fartene una ragione: ci possono essere dei limiti che sono quelli che la natura ha dato. Puoi essere bella quanto vuoi ma devi essere soprattutto bella dentro al punto da accettarti per quella che sei. Molte continuamente vanno a farsi interventi di ogni genere per ottenere chi sa cosa. La passerella deve essere allora un di più, non deve essere una guerra alla trasformazione del proprio corpo per ottenere un risultato soddisfacente a un concorso di bellezza[21].

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[1] L’intervistata è una giovane donna trans che in quell’occasione accompagnava una sua amica che concorreva per l’elezione di “Miss Trans Europa”. L’intervista è stata raccolta da chi scrive durante l’edizione del concorso del 2014.

[2] Transgender è un termine ombrello che include, oltre alle soggettività il cui genere assegnato alla nascita non corrisponde al genere cui si sente di appartenere, anche quei soggetti che vivono e interpretano il proprio sé in modalità non conformi alle espressioni e/o ai ruoli di genere attribuiti stereotipicamente al femminile o al maschile (soggetti gender-variant). Per approfondimenti si vedano almeno i seguenti riferimenti oggi collocabili nel filone dei Trans Studies: Califia 1997; Ekins 2005; Feinberg 1997; Garber 1994; Halberstam 1991, 1998; Hausman 1992; Namaste 2005; Plemons 2017; Prosser 1998; Shrage 2009; Stryker 2008; Stryker-Whittle 2006; Suthrell 2004; Valentine 2007. Per un approfondimento sulle questioni teoriche ritenute fondative di questi studi, si vedano Michel Foucault 2006 e Judith Butler 2004, 2006.

[3] Mentre intervistavo alcune partecipanti e condividevo con loro l’emozione dei preparativi nel dietro le quinte, l’organizzatrice del concorso, che mi aveva accordato un permesso speciale (durante una mia intervista a lei qualche settimana prima) per svolgere le mie ricerche nel corso dell’evento, mi propose di entrare a far parte della giuria. Nonostante temessi per le sorti della mia ricerca (per le ovvie ragioni legate al mio nuovo ruolo), mi resi ben presto conto che rifiutare quell’offerta sarebbe stato fuori luogo. Inoltre, questa mia nuova veste avrebbe potuto offrirmi ulteriori spunti di analisi, consentendomi di indagare, ad esempio, le diverse percezioni relative alla “bellezza trans” degli altri giurati e delle altre giurate. Pur essendo il voto di ciascuno segreto, infatti, nel corso dell’evento i membri della giuria si scambiavano sguardi (di approvazione e non), chiacchiere e opinioni relative alle concorrenti.

[4] Sta per trans “operata”, sottopostasi alla riconversione chirurgica del sesso (RCS).

[5] Da sottolineare che in Italia la Riassegnazione Chirurgica del Sesso (RCS) è possibile (legale) dal 1982 (legge 164); questa stessa legge, come mi ha spiegato un’avvocatessa che si occupa di tali questioni, «veniva disapplicata dai giudici di merito che la interpretavano nel senso di ritenere necessario l’intervento per la riattribuzione del nome»; tale lettura è stata di fatto “superata” dalla sentenza della Corte Costituzionale nel 2015. La legge attuale in Italia consente il cambio dell’identità sui documenti anche senza intervento chirurgico, purché si dimostri una persistente condizione di identificazione col genere opposto a quello assegnato alla nascita e il raggiungimento di un perfetto equilibrio tra soma e psiche.

[6] Ho conosciuto la mia interlocutrice in occasione del primo concorso cui ho partecipato come giurata (in concorso era alla sua seconda edizione). L’intervista è stata da me raccolta durante una delle giornate del concorso, il 21 giugno 2014. Le interviste qui riportate, dove non diversamente indicato, sono state tutte raccolte da chi scrive nel corso di quattro edizioni del concorso di “Miss Trans Europa”, dal 2014 al 2017. I nomi delle intervistate sono tutti di fantasia.

[7] Se c’è un modello estetico femminile imperante nelle società cosiddette occidentali, l’idea di conformità estetica è un concetto che va opportunamente relativizzato, specie in un caso come quello preso in esame, in cui la visione del corpo femminile può essere idealizzata al punto da diventare “difformemente conforme”, o meglio conforme all’identità femminile trans, come approfondirò dopo nel testo.

[8] Ho incontrato Roberta nel corso di un seminario sull’esperienza transgender a Napoli tenutosi nel mese di ottobre 2018.

[9] Lo stesso transessualismo, inteso qui come possibilità di modificare il proprio aspetto fino ad arrivare a sembrare/essere l’altro/a, esiste in virtù della biomedicina; si può dire, anzi, che sia stata quest’ultima a creare il fenomeno transessuale (Chiland 2011; Stryker 2008; Barnes 2001; Hausman 1992), contribuendo in questo modo sia a reiterare il discorso su un ordine binario (maschio o femmina) in relazione al corpo sia a rendere quest’ultimo alla stregua di un oggetto da modificare senza soluzione di continuità (Mauriello 2013; 2014; 2017a; 2018; Le Breton 2007).

[10] Una volta verificate le condizioni necessarie, vale a dire, una volta ottenuta la diagnosi, (la cui stessa terminologia, in direzione della depatologizzazione, si è modificata nel corso delle varie edizioni del DSM – Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali: dalla diagnosi di transessualismo si è passati a quella di disturbo dell’identità di genere (DIG), poi a quella di disforia di genere che, nel DSM5 (2013), è presente in un capitolo a parte proprio in virtù della depsichiatrizzazione del fenomeno) si può procedere col percorso che si conclude, per chi lo desidera, con l’operazione di riattribuzione del sesso (cfr. Plemons 2017: 102). Nel maggio 2018 la pubblicazione dell’ICD-11 (International Classification of Diseases 11th Revision) ha inserito l’incongruenza di genere nel capitolo denominato «Condizioni relative alla salute sessuale» https://icd.who.int/browse11/l-m/en#/http%3a%2f%2fid.who.int%2ficd%2fentity%2f411470068 (sito consultato in data 31/05/2019). Quella delle persone transgender risulta oggi una condizione esistenziale che resta nei manuali per consentire le prestazioni sanitarie gratuite. A proposito di ciò, Plemons riferisce di come, ad esempio, il Medicaid dello Stato di New York, facendo seguito al Medicare 2014, abbia deciso di coprire i trattamenti per la disforia di genere che includono la terapia ormonale e la SRS, escludendo tutti gli altri trattamenti perché ritenuti non relativi all’identità di genere ma al miglioramento del proprio aspetto fisico (trattamenti non medici ma cosmetici) (2017: 103). In questo modo, nonostante gli “avanzamenti interpretativi” relativi alla condizione trans, la visione del genere appare comunque ancora strettamente legata alla parte genitale «genital-centric problem» (Plemons 2017: 102). Nel caso italiano, attraverso colloqui informali avuti con operatori del settore in campo sia giuridico sia medico, ho appurato che la chirurgia per il cambio di sesso è un’operazione a carico dello Stato insieme alla mastoplastica additiva (per i soggetti mtf) o mastectomia (per i soggetti ftm che sta per female to male), considerati tutti interventi “funzionali” al benessere del soggetto (oltre al trattamento ormonale); gli altri interventi di chirurgia estetica, non sono, invece, inclusi nelle prestazioni sanitarie gratuite. Ciò è comprensibile (pur nelle sue contraddizioni, dal momento che anche gli interventi di chirurgia estetica di fatto rientrerebbero in un percorso di realizzazione di sé e quindi di benessere della persona) alla luce del fatto che la realizzazione del proprio ideale estetico è una condizione soggettiva (che interessa anche i soggetti cisgender) di cui lo Stato evidentemente non può farsi carico.

[11] Che poi la stessa definizione del sé (femminile e maschile) sia stata storicamente costruita in un senso binario è una riflessione che nell’economia di questo studio non posso approfondire. Si veda a tal proposito, tra gli altri, Laqueur 1990.

[12] In linea col discorso di Judith Butler quando scrive che «Diviene pertanto impossibile separare il “genere” dalle intersezioni politiche e culturali in cui viene invariabilmente prodotto e mantenuto» (Butler 2004: 6).

[13] Nell’ultimo concorso cui ho partecipato come giurata, nel luglio 2017, tra le partecipanti vi erano anche donne trans provenienti da altre regioni d’Italia e alcune concorrenti brasiliane.

[14] Come scrive Michael Taussig, la cosmetic surgery può trasformarsi in una cosmic surgery che, per l’autore, con riferimento all’America Latina, è «the latest expression of colonial baroque, with its “exaggerated aestheticism”, artificiality, and transgression» (2012: 1).

[15] Sul tema si vedano almeno Zito-Valerio 2010; 2013; Vesce 2017; Mauriello 2014; 2017a; 2017b; 2018; Romano 2013; Ceccarelli 2010.

[16] Di fatto i femminielli sono una figura presente storicamente nella città di Napoli ma anche in altri luoghi del napoletano. Come rilevato nel corso dell’etnografia, vi sono alcune differenze (auto-percepite e sottolineate) tra i femminielli in relazione al contesto di provenienza che l’economia di questo studio non consente di approfondire.

[17] Sulla prostituzione – che viene ancora intrinsecamente associata al mondo trans in relazione a un’idea, tra l’altro interiorizzata, di “perversione sessuale” legata alla condizione di transgender– torna la questione della intersezionalità. L’orientamento verso un tale tipo di mestiere si deve anche all’appartenenza a un universo socio-culturale in cui, a partire dal contesto familiare, il più delle volte si è schiacciati/e, affossati/e in partenza dal punto di vista delle aspettative e dello sviluppo di interessi personali, a prescindere dalla condizione di transgender. Le ulteriori difficoltà che un soggetto trans evidentemente deve affrontare anche per la “scomoda visibilità” cui accennavo poc’anzi, insieme alla necessità di guadagni veloci per poter affrontare le operazioni di chirurgia estetica, fanno il resto. Non ultima, la questione della “scelta per assimilazione”, a sua volta dettata dal fatto che ci si autoescluda dal contesto più ampio e si tenda, per le donne trans, a frequentarsi esclusivamente tra loro.

[18] Metà donna e metà pesce; nella lingua napoletana “pesce” sta a indicare il genitale maschile (Mauriello 2013; 2018).

[19] L’incontro è avvenuto nel 2014.

[20] Stereotipo legato al contesto di riferimento, che associa la bellezza femminile all’abbondanza delle forme (anche per la questione dell’idea di fertilità cui accennavo prima).

[21] Intervista all’organizzatrice del primo concorso di bellezza per donne trans in Italia, cui facevo riferimento all’inizio di questo scritto.