Una difficile sfida per l’antropologia applicativa

L’antropologia del mondo militare e i rapporti tra antropologi e militari nell’ambito delle recenti guerre “non convenzionali” e delle “missioni di pace”

Antonino Colajanni

Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

Antropologia e mondi militari

L’ambito militare non gode di buona fama tra gli antropologi, né – in verità – suscita in modo particolare il loro interesse di ricercatori. Avrà certo la sua importanza – nella formazione della maggior parte degli antropologi e nella loro “ideologia antropologica” – una costante e radicata propensione verso l’antimilitarismo, il pacifismo, e la partecipazione ai movimenti per il disarmo. Ma questi importanti ed ineccepibili orientamenti non giustificano la scarsa propensione verso studi accurati su un universo sociale e tecnico, che è anche strumento operativo della politica, al quale non è difficile riconoscere una grande importanza nel mondo contemporaneo. Un campo sociale di tale rilievo dovrebbe in realtà stimolare l’attenzione degli studiosi della condizione umana nelle sue costanti e nelle sue varietà, nel tempo e nello spazio; dovrebbe impegnare le energie intellettuali, critiche e costruttive, di ricercatori che forse più di altri potrebbero rivelare le specificità non solo tecniche, ma anche riguardanti la formazione, le elaborazioni delle tattiche e delle strategie, la produzione valoriale e di giustificazioni, spesso molto elaborate, che accompagnano le azioni del mondo militare, le quali sono quasi sempre caratterizzate dall’uso e/o dalla minaccia dell’uso delle armi, della violenza, delle forme di costrizione.[1]

Ancor più dovrebbero essere interessati a questo complesso mondo sociale gli antropologi che posseggono una particolare sensibilità verso le forme possibili di “applicazione” del loro sapere alle azioni e decisioni del mondo contemporaneo, e quindi anche del mondo militare. Non v’è dubbio che questa dell’antropologia applicata al mondo militare sia una sfida non da poco: per il carattere chiuso e molto specifico dell’organizzazione militare, per la logica verticale delle relazioni tra i suoi membri, per una frequente “oscurità”, “nascondimento” e “segretezza” delle iniziative, e infine per la dipendenza stretta dal mondo politico dal quale i militari ricevono gli orientamenti, gli obiettivi, i limiti della loro azione, ma spesso non in modo trasparente, facilmente conoscibile dall’esterno. Tutto ciò non vuol dire, però, che un antropologo non possa, rispettando le condizioni minimali del lavoro scientifico e del codice etico della disciplina, accostarsi al mondo militare, stabilire dei rapporti, pretendendo il rispetto di alcune condizioni preliminari, che sono quelle consuete del lavoro antropologico: a) una consistente libertà di ricerca e la distinzione visibile dei ricercatori dai militari, nella salvaguardia della posizione indipendente e costituzionalmente “critica” dell’antropologia; b) la realizzazione di un’analisi istituzionale previa, anche a carattere valutativo, del mondo militare e delle sue iniziative; con attenzione specifica al corpo delle forze armate di cui si tratta (infatti, l’Esercito non è la Marina, come l’Aviazione non è la Guardia di Finanza o l’Arma dei Carabinieri; e del resto, l’esercito francese non è quello americano, o quello italiano); c) la capacità di produrre elementi conoscitivi nuovi nel corso stesso delle azioni di consulenza e di eventuale collaborazione; d) l’ottenimento di tempi non brevi e saltuari o approssimativi di lavoro sul campo; e) la possibilità di esercizio di influenza sulle decisioni degli alti gradi militari per quanto riguarda il rapporto con la popolazione civile, con il conseguente impegno militare a “tenere nel massimo conto” le opinioni e le proposte degli antropologi.

Ma quanto sopra detto fa parte di una sola, certo la più complessa e difficile, delle direzioni possibili di impegno dell’antropologia nei confronti del mondo militare: quella che potrebbe definirsi l’antropologia “nel” mondo militare; in questo caso il ricercatore è spinto a, e in sostanza deve, negoziare con i suoi interlocutori i modi, i tempi, le caratteristiche, i fini e i limiti della sua azione. Cosa diversa è la più ovvia e indispensabile direzione di studi, che l’antropologo può dedicare, in assoluta libertà e dipendendo esclusivamente dalle regole del suo mondo accademico, all’universo degli eserciti: si tratta in questo caso dell’antropologia “del” mondo militare, che sottopone il campo sociale delle divise ad analisi puntuale, intensa, osservazionale e partecipativa dall’esterno, come in tutte le altre situazioni classiche degli studi antropologici. Infine, l’ultima direzione possibile di impegno degli antropologi in questo campo può riguardare la formazione antropologica di militari in contesti non operativi (Corsi di Master, Dottorati, Seminari nelle Accademie militari, e così via). È questa l’antropologia “per” il mondo militare. Le distinzioni indicate riprendono e adattano una vecchia tripartizione che è stata da me proposta per l’impegno dell’antropologia nel campo dei processi di sviluppo nel 1994.

In Italia, troviamo tra gli antropologi il più basso livello di interesse per il mondo militare rispetto ad altri paesi europei e agli Stati Uniti. Pochissimi studi. Per esempio, il libro di Alberto Antoniotto sul “peace-keeping” è rimasto molto a lungo isolato (Antoniotto 1999). Una maggiore eco ha avuto il bel saggio recente di Marco Ramazzotti, un antropologo non-accademico, sull’antropologia dei conflitti armati (Ramazzotti 2013). E dei pochi studi dell’ambito italiano fanno parte anche i saggi di Antonio Palmisano sulle forme tradizionali di giustizia in Afghanistan e sul diritto consuetudinario afghano, realizzati nell’ambito del Programma italiano post-conflitto della Riforma Giuridica e Ricostruzione del Sistema Giudiziario in Afghanistan. Poco di altro: brevi saggi di diverso impegno informativo e critico, come quelli di Chiara Galli (2010; 2013), Gianni Albanese (2009), Vittorio Di Cesare (2011), Nicola Perugini (2009), Mariella Pandolfi (2010), Alessandro Vivaldi (2014) e Alessandra Turchetti (2011). La Sociologia militare, invece, ha libri impegnativi e un buon numero di specialisti del tema, da Fabrizio Battistelli (1996) a Marina Nuciari (Nuciari 1990; Nuciari, Sertorio 2003), infine al recente libro di Lorenzo Greco (2009).

Esaminando accuratamente la letteratura specifica internazionale oggi esistente sui possibili rapporti tra antropologia e mondo militare, ci si accorge con sorpresa che proprio l’antropologia “del” mondo militare, che ci si aspetterebbe fosse ben rappresentata, è invece assai scarsa di studi accurati, di lungo periodo, intensi ed etnograficamente accettabili. I militari, insomma, rimangono nonostante tutto soggetti sociali abbastanza oscuri per il mondo dell’antropologia, e quindi spesso oggetto di superficiali affermazioni e approssimativi pregiudizi. Le buone ricerche, soddisfacenti secondo gli standard internazionali dell’antropologia, non sono molte. Raramente il complesso mondo dei costumi quotidiani, delle aspirazioni, dei processi di formazione collettiva, delle forme sociali organizzative, dell’autorità e del potere, dei valori e delle idee, dei diversi mondi in divisa, sono stati fatti oggetto di studi accurati. Tra le recenti etnografie militari di qualità è facile ricordare alcuni, pochi, buoni volumi:

- il libro di N. K. Stewart, che ha comparato e messo in contrasto le forme di coesione nelle truppe inglesi e in quelle argentine nel corso della Guerra delle Falklands (Stewart 1991);

- il libro di Anna Simons, che studia la vita quotidiana e le dinamiche di gruppo in una singola unità dell’esercito Americano, la U.S. Army Special Forces (Simons 1997);

- il libro di E. Ben-Ari, che studia e analizza il militarismo israeliano del quale lo stesso autore è membro (Ben-Ari 1998);

- infine, il libro di J. P. Hawkins, dedicato alla U.S. Army di stanza in Germania nella decade finale della Guerra Fredda, e concentrato sulla vita dei militari e delle loro famiglie in un contesto di alte tensioni sociali internazionali (Hawkins 1999).

Va rilevato che tutti questi studi sono stati condotti con lunga e intensa residenza sul campo in situazioni di pace, o comunque di relativa sospensione delle ostilità dirette. Cosa assai diversa sono gli studi, le testimonianze, i dibattiti e le polemiche, nati e sviluppatisi in contesti di attività belliche correnti, o di interventi delle cosiddette “Missioni di Pace”, che caratterizzano in modo assai consistente buona parte delle attività di intervento degli eserciti contemporanei, sia europei che americani. È opportuno accennare appena, brevemente, alla complessità del tema e al sostanziale eufemismo del termine e del concetto di “peace-keeping”, che il più spesso si riferisce ad operazioni militari che possono anche comportare l’uso delle armi, in contesti caratterizzati da alto pericolo per i componenti delle “missioni”. D’altronde, la stessa mutevole terminologia usata a partire dal primo esperimento internazionale delle Nazioni Unite in Palestina, nel 1948, indica la flessibilità e variabilità di queste iniziative: infatti, il vocabolario internazionale prevede forme di peace making, di peace enforcement, di peace support operations, di post-conflict peace building, infine di peace research e di peace studies.

A un livello più saggistico che non monografico, già dal 1995, una raccolta di studi curata da C. Nordstrom e A. C. Robben, presentava numerosi casi di conflitti violenti contemporanei, nei quali alcuni antropologi si erano trovati a condurre ricerche in condizioni difficili (Nordstrom, Robben 1995). Dieci anni dopo veniva pubblicata una ricca raccolta di saggi sui conflitti armati contemporanei, ai quali numerosi antropologi avevano partecipato come osservatori privilegiati, in Cambogia, Burkina, Somalia, Guatemala, Uganda, Sierra Leone, Liberia, Zimbabwe, Tibet, Bosnia (Richards 2005). A questi saggi si deve aggiungere l’importante recente volume collettaneo curato da Luca Jourdan, Etnografie della guerra e del post-guerra (Jourdan 2015). Importante notare che questi conflitti armati non erano e non sono semplicemente questioni di “ordine interno”, ma coinvolgono in buona parte l’intervento delle forze armate delle Nazioni Unite e in particolare degli Stati Uniti o di paesi ex-coloniali. Costituiscono, insomma, questioni di carattere internazionale.

Uno studio di caso: la collaborazione tra antropologi ed esercito americano in Iraq e Afghanistan

Ma per approfondire il tema che stiamo trattando, cioè il coinvolgimento dell’antropologia – ai diversi livelli sopra indicati – nelle questioni militari del mondo contemporaneo, conviene soffermarsi su un esempio in sostanza circoscritto, spazialmente e temporalmente; e limitarsi ad esaminare un periodo intenso di dibattiti e contrasti all’interno del mondo antropologico – in particolare nordamericano – intorno agli impegni militari degli Stati Uniti in Medio Oriente (soprattutto in Iraq ed Afghanistan) negli anni dal 2000 ad oggi. Troveremo, anche qui, che delle tre dimensioni sopra indicate, quella che meno suscita l’attenzione minuziosa e indagativa degli antropologi è proprio l’antropologia “del” mondo militare. Il dibattito, aspro, spesso mal documentato e irragionevolmente aggressivo, moralistico e ideologico, si concentra soprattutto su quella che – effettivamente – è la dimensione più problematica, cioè quella dell’antropologia “nel” mondo militare, ovvero dell’impegno diretto di antropologi in posizioni di consulenza, collaborazione propositiva, valutazione e proposta di suggerimenti, alle azioni militari sul terreno; soprattutto – ovviamente – con riferimento ai rapporti e alle responsabilità nei riguardi delle popolazioni civili coinvolte nelle azioni di “Missioni di Pace”, che spesso nascondono delle vere iniziative di “guerra di occupazione”.

Per ricostruire questo processo continuo di dibattito sulle questioni militari da parte di antropologi, soprattutto americani, bisognerà dare tutto il rilievo che merita alla messa in pratica di una nuova strategia militare in Iraq e Afghanistan (si tratta dell’Human Terrain System, lanciato nel 2007 dal Generale Petraeus).

Vediamo come tutto è cominciato, in un lento processo che ha portato, per opera di alcuni, pochi, personaggi molto attivi, dei quali delineeremo brevemente le caratteristiche, alla diffusione di una certa “sensibilità antropologica” presso gli alti gradi dell’esercito americano. Ci soffermeremo in particolare su tre personaggi-chiave che hanno dato i maggiori contributi alle questioni che stiamo trattando: Anna Simons, al cui volume sulle U.S. Special Forces abbiamo accennato, Montgomery McFate, e David Kilcullen.

La prima, Anna Simons (Ph.D. in Social Anthropology, Harvard University, Professor of Anthropology alla UCLA e poi Professor of Defense Analysis nella Naval Postgraduate School, con una lunga esperienza di ricerca sul campo nel Corno d’Africa e studi sulla destrutturazione sociale della Somalia a seguito dei conflitti interni e degli interventi militari internazionali), ha pubblicato negli anni 2002-2005 un serie di saggi molto importanti sulle grandi trasformazioni delle guerre nell’epoca attuale, ed ha riconosciuto che dopo l’attacco alle Torri Gemelle si è diffuso negli Stati Uniti un senso profondo della “inefficienza ed inappropriatezza” dei tradizionali strumenti di pressione militare affidati esclusivamente alla tecnologia bellica, alla supremazia aerea e alle forme tradizionali, a carattere soprattutto “tecnico”, della “intelligence”.

I conflitti social-culturali tra il mondo euro-americano e i mondi marginali si sono caratterizzati per una progressiva ignoranza dei complicati processi di cambiamento in atto in quei mondi, che si è accompagnata con una conoscenza progressiva sempre maggiore, in senso inverso, dei caratteri dell’Occidente da parte dei popoli e paesi ad esso esterni. E nuove forme di conflitti armati, pensati e gestiti al di fuori delle regole, delle convenzioni e dei limiti stabiliti dalla società internazionale dominata dall’Occidente, hanno fatto la loro apparizione: la connessione tra produzione di droghe pesanti e fenomeni di insorgenza locale, il fenomeno dei “bambini-soldato” (soprattutto in Africa), l’uso dei civili come “scudi”, la pratica dei “suicide-bombers”, il terrore diffuso e l’uso abile dei mezzi di comunicazione propagandistico-minacciosi, infine gli spostamenti provocati di grandi masse di popolazione con mezzi costrittivi. Di fatto, secondo la Simons, gli Americani non hanno sviluppato un’accurata conoscenza, comprensione e studio di questi nuovi fenomeni bellici. Quindi, suggerisce: «One thing we need to do is rethink again the nature of our military capabilities, those of our army in particular» (Simons 2003: 48).

La sua conclusione è che gli Stati Uniti devono impegnarsi in “operazioni militari diverse dalla guerra”, debbono cercare di trasformare una forza che attualmente è in grado di conquistare e soggiogare, in una forza che può realizzare operazioni più raffinate, più nobili e anche più ardue, cambiando completamente la direzione delle sue azioni. Devono insomma trasformarsi in agents of social change. Un altro saggio dello stesso anno è dedicato ad una raffinata e a tratti ironica presentazione delle caratteristiche dei Military Advisors, che sono ufficiali molto competenti ed esperti, che conoscono molto a fondo un paese o una certa area sociale e culturale nella quale si svolgono operazioni militari. Essi non appartengono direttamente ai reparti operativi, nei quali agiscono come “consulenti di alto livello”; e spesso sono membri di corpi militari alleati, sono relativamente liberi da costrizioni e obblighi formali di tipo gerarchico, non hanno funzioni di comando, e si caratterizzano per una assoluta dimestichezza con le popolazioni locali (sono stati nella zona per lunghi anni, conoscendo la lingua e i costumi, ai quali tendono ad adeguarsi con libertà, a differenza degli altri militari).

La Simons sceglie alcuni esempi dalla storia militare (e fa riferimento naturalmente al famoso Colonnello Lawrence “d’Arabia”, che continua ad essere considerato un esempio straordinario – spesso citato – di “assimilazione socio-culturale” di un militare nella società locale) e riflette su alcuni caratteri di questa forma di “consulenza” che – sostiene – assomiglia in maniera straordinaria a quella che può essere (o dovrebbe essere) la caratteristica degli antropologi consulenti del mondo militare, riformato, del futuro. L’empatia con i locali, la conoscenza dei loro costumi, delle aspettative e dei valori locali, la competenza nel campo della “cross-cultural communication”, sono requisiti comuni ai due ruoli, che vengono così accomunati e comparati, fatte le debite differenze (Simons 2003a). I saggi della Simons hanno avuto una grande circolazione e diffusione, ed hanno esercitato una positiva influenza su molti alti gradi del mondo militare americano. Il secondo personaggio al quale facciamo riferimento in questa ricognizione delle basi teoriche e metodologiche della grande trasformazione delle strategie militari americane dei primi anni 2000, è Montgomery McFate, una studiosa che ha dedicato lunghi anni allo studio sul campo della guerriglia urbana in Irlanda, analizzando in profondità i punti di vista, le azioni e le strategie sia degli irlandesi, sia degli inglesi dissidenti (ha pubblicato molti saggi sull’argomento con il nome da nubile di Montgomery Sapone). Ha ottenuto un Ph.D. in Anthropology alla Yale University e un Juris Doctorate alla Harvard Law School. Insegna “Strategic Research” allo U.S. Naval War College.

Ha sposato un alto grado dell’esercito americano e a partire dal 2001 si è dedicata con grande impegno al compito di spingere il mondo militare americano ad ammettere la fondamentale importanza della “conoscenza culturale”, partendo dalla constatazione che i militari del suo paese, così come l’establishment della difesa americana, possedevano una molto povera ed approssimativa conoscenza delle culture del Medio Oriente; il che ha determinato clamorosi insuccessi e gli scandali degli abusi di torture sui prigionieri di Abu Ghraib. La McFate è stata per anni Defense Consultant per la Rand Corporation e l’ United States Institute of Peace. Ha lavorato anche come “Social Science Advisor” nel gruppo che ha proposto lo Human Terrain System nel 2007, ed è stata tra coloro che hanno contribuito alla redazione del famoso Counterinsurgency Manual FM 3-24.

Essendo uno dei pochi antropologi professionisti americani coinvolti direttamente, in modo esplicito e convinto, con argomenti dettagliati e in buona misura ben proposti, è stata uno dei bersagli preferiti delle correnti critiche e aggressive di una parte dell’antropologia americana contraria al coinvolgimento consultivo con le operazioni militari in Medio Oriente. Un saggio famoso della McFate fu pubblicato nella Military Review del 2005. Era dedicato a dimostrare come, nonostante i grandi cambiamenti avvenuti nelle relazioni internazionali e nei conflitti armati dell’epoca contemporanea, che stavano sempre più assumendo il carattere di “guerre asimmetriche”, “guerre non-convenzionali”, “guerre a bassa intensità”, la mancanza di coscienza delle dimensioni culturali dei conflitti e della loro importanza, era clamorosa nell’esercito americano. La incapacità dei militari americani a comprendere gli ambiti non tecnici e operare in contesti culturali diversi dal proprio era divenuta proverbiale. A suo parere gli insuccessi di fatto, che naturalmente si accompagnavano spesso a vantaggi, comunque guadagnati, sul piano degli interessi economici, contribuivano a cristallizzare un diffuso antiamericanismo in quasi tutto quello che una volta era definito il “Terzo Mondo” (McFate 2005). Nello stesso anno la McFate pubblicò nella medesima rivista un breve saggio, in collaborazione con Andrea Jackson, che è ritenuto da molti la base sulla quale venne disegnata la strategia dell’Human Terrain System che venne lanciata dal Generale Petraeus due anni dopo (McFate, Jackson 2005).

Infine, ancora nel 2005 venne pubblicata la prima versione di un saggio generale destinato a un grande successo negli anni 2000, nel quale l’autrice si interrogava sulla importanza della “cultura” e sulla utilità per i militari di comprendere le concezioni e le pratiche culturali degli “avversari”; si noti qui la sostituzione eufemistica del termine “enemy” con “adversary” (McFate 2005a). Il terzo personaggio su cui si basa la diffusione, negli Stati Uniti, del nuovo interesse per gli aspetti sociali e culturali dei conflitti armati, è molto diverso dai primi due. Si tratta di un Colonnello dell’esercito australiano, David Kilcullen (Ph.D. in Political Science, University of South Wales) che aveva avuto una esperienza di campo intensa e continua, con conoscenza approfondita delle lingue locali, per una decina d’anni, nella Nuova Guinea australiana e in Indonesia, impegnato costantemente in azioni di contro-guerriglia, anche a Timor Est.

Nel 2004 Kilcullen pubblicava in Australia un testo di grande impatto sul mondo militare americano: Complex warfighting, basato sulle sue esperienze di campo e su una grande competenza nel settore delle strategie e delle tattiche militari fondate sul risparmio delle vite umane (proprie e degli avversari) e sulla comunicazione e scambio con le società locali. Egli fu uno dei primi a sostenere che le nuove forme di conflitti, di tipo asimmetrico, richiedevano da parte delle forze armate regolari gruppi di azione flessibili, capaci di spostarsi velocemente e di operare anche in ambiti urbani; gruppi di piccole dimensioni, semi-autonomi e intensamente collegati tra loro, incorporando elementi tradizionali dei conflitti di terra con elementi non-tradizionali come l’abilità nel conoscere i problemi della società civile, nuove forme di intelligenza e attitudini alla comprensione psicologica. Nel 2005 Kilcullen lasciò l’Australia e andò a lavorare come Chief Strategist in the Office of the Coordinator for Counterterrorism nell’ U.S. Department of State degli Stati Uniti. Nel 2006 collaborò attivamente alla stesura del Counterinsurgency Field Manual FM 3-24. Nel 2007 divenne membro del piccolo gruppo misto di civili e militari che furono parte del Personal Staff del Generale David Petraeus, Commander of the Multi-National Force in Iraq; i diversi saggi del Colonnello Kilcullen vennero poi raccolti, nel 2010, nell’opera generale Counterinsurgency.

Nel suo saggio del 2006: “Counterinsurgency Redux” l’autore sottolinea, sulla base di dati tratti dalle campagne militari americane nel Corno d’Africa, in Pakistan, in Iraq e in Afghanistan, il fatto che le forme attuali di ribellione armata nei diversi paesi sono molto diverse da quelle degli anni ’60. Spesso non mostrano strategie coerenti, ma sono basate su un “approccio-di-fede”, difficile da contrastare con i metodi tradizionali. Piuttosto che sconfiggere uno specifico “nemico”, i militari che intendono contrastare queste ribellioni armate possono solo controllarle, adottando metodi di analisi e studio sociale, tenendo conto del fatto che il compito di queste forze di intervento dall’esterno finisce per essere più quello di contribuire a “costruire” una nuova società, che non quello di distruggerne o eliminarne una sua parte (Kilcullen 2006). Egli ribadì l’idea che non si può nemmeno iniziare un conflitto senza conoscere approfonditamente, e dal punto di vista degli attori sociali, le idee, i valori e le pratiche rituali dei gruppi che si vogliono “conquistare” con argomenti sociali, e non con le armi. Kilcullen fu anche critico nei confronti della decisione americana di invadere l’Iraq nel 2003, che considerò un grave errore strategico. Ha anche sostenuto che un ulteriore errore dell’esercito americano è stato quello di usare i droni per interventi mirati in Afghanistan e in Pakistan.

Tutti e tre i personaggi menzionati, ai loro diversi livelli, hanno avuto una grande influenza in quello che è stato definito – come detto - il cultural turn nelle strategie militari USA degli ultimi anni, sia attraverso gli scritti che hanno avuto una grande circolazione nel mondo militare, che attraverso i contatti diretti con gli alti gradi dell’esercito, della Marina e dell’Aviazione USA, sia infine attraverso una lunga e continua pratica di docenza nelle accademie militari e nei corsi post-graduati di alcune università americane.

La nuova strategia dell' Human Terrain System e il Counterinsurgency Field Manual (2007)

I risultati di questa significativa influenza e diffusione di idee sono stati consistenti ed immediati. Nel 2007 il Generale David H. Petraeus (un atipico generale dell’esercito, titolare di un Ph.D. in International Relations all’Università di Princeton), Comandante in capo della forza Multinazionale in Iraq, lancia la nuova strategia dell’Human Terrain System, alla quale abbiamo accennato.

In un saggio del 2006, pubblicato nella Military Review, Petraeus trae dalla sua esperienza e da quella dell’ultimo decennio la necessità di una riforma radicale della progettazione, della gestione, dei metodi e delle finalità degli interventi militari, in Iraq come altrove. L’idea dell’Human Terrain System nasce dalla constatazione che le informazioni tradizionali raccolte dai militari per e nelle campagne all’estero comportavano una ricognizione sul “terreno di operazioni” che era limitata alle configurazioni spaziali, orografiche, logistiche e delle comunicazioni via terra, oltre a quelle meteorologiche, fisiche e sui possibili rifugi e nascondimenti degli avversari (Petraeus 2006). Il nuovo sistema era invece tutto concentrato sugli elementi umani, sociali, del “terreno”. Una ricognizione sistematica, ed impegnativa sugli aspetti linguistici e culturali (costumi locali, credenze, aspettative, valori) delle diverse comunità civili distribuite sul terreno di operazioni, diventava allora indispensabile, se si voleva mutare radicalmente il carattere degli interventi militari. Delle mappe sociali (distribuzione degli insediamenti, vie di comunicazione e di commerci, forme associative e distribuzione del potere, assemblee e corpi decisionali, strutture organizzative della religione, reti di associazioni locali, differenze rilevanti, tensioni e conflitti), diventavano dunque essenziali nella costituzione di questo “quadro d’insieme del contesto della società civile locale”.

Ma la nuova strategia comprendeva anche l’idea di stabilire contatti, accordi, negoziazioni, con le comunità locali, offrendo aiuti nella costruzione di infrastrutture, ponti, pozzi, canali di irrigazione, scuole, posti medici rurali, strade. In tal modo si cercava di realizzare quella straordinaria “mutazione radicale di orientamento” nell’attività militare che aveva auspicato Anna Simons. In effetti, negli anni immediatamente successivi Petraeus riuscì a stabilire stretti contatti con molte comunità del Nord dell’Iraq, realizzando così una forma indiretta di “contrasto” con le prospettive, le proposte, le finalità e gli obiettivi delle forze insorgenti che allora facevano capo soprattutto ad Al-Qaeda. L’iniziativa del Human Terrain System ha comportato il coinvolgimento diretto di alcune decine di giovani antropologi come consulenti, che sono stati assimilati ai corpi militari (ricevendo divise e spesso anche armi, per ragioni di sicurezza). Al di là dell’analisi dei risultati di questo affidamento diretto di compiti a degli antropologi-esperti, il fatto stesso dell’assimilazione diretta degli studiosi dell’uomo all’interno del mondo militare in contesti dotati di notevoli rischi di sicurezza, ha suscitato molte, giuste, riserve. Conviene adesso dedicare una buona attenzione ad un altro dei prodotti specifici dell’influenza diretta e indiretta dell’antropologia sulle azioni militari nelle “Missioni di Pace”.

Si tratta del famoso “Manuale di campo della contro-insurgenza” dell’esercito e della marina americane, che venne lanciato on-line il 15 Dicembre del 2006 e, a causa dello straordinario numero di contatti ricevuti nel primo mese (un milione e mezzo), subito dopo – all’inizio del 2007 - venne pubblicato in edizione molto elegante, di ben 462 pagine, dalla University of Chicago Press (U.S. Army 2007). Si tratta di un testo molto importante, nel quale la parte “tecnico-militare” (la pianificazione e la esecuzione delle campagne ed operazioni di “contro-insurgenza”, le forme tecniche della “intelligence”, la gestione dei rapporti con il “Paese-ospitante”, la leadership e l’etica di comportamento nei diversi reparti, la logistica e l’approvvigionamento) è ben bilanciata con la parte “sociale”, alla quale viene riconosciuta continuamente una importanza centrale. Più volte nel testo è detto che «Questo Manuale intende spingere le forze armate americane a fare della sicurezza delle popolazioni civili la propria priorità, piuttosto che distruggere il nemico.

La popolazione civile è dunque il centro di gravità, il fattore decisivo, nell’impegno militare…anzi, la protezione dei civili diventa parte della missione di contro-insurgenza, di fatto la parte più importante» (U.S. Army 2007: XXV). E più avanti si sottolinea il fatto che i contro-insurgenti prendono su di sé la responsabilità del benessere della popolazione locale in tutte le sue manifestazioni (sicurezza, fornitura di mezzi in risposta ai bisogni economici fondamentali, fornitura dei servizi essenziali come l’acqua, l’elettricità, la sanità di base, il sostegno alle istituzioni sociali e culturali di base, tutto ciò che può contribuire alla qualità della vita della società locale). Nel testo viene dato un grande rilievo alla opinione di un esperto di problemi militari degli anni ’60, David Galula: «Confinare i soldati alle funzioni puramente militari, mentre compiti urgenti e vitali di altro tipo devono essere portati a termine, e nessun altro è disponibile per eseguirli, sarebbe senza senso. Il soldato dunque deve essere preparato a diventare un operatore sociale, un ingegnere civile, un maestro di scuola, una bambinaia, un boy scout. Ma tutto ciò deve avvenire solo fino a che egli non potrà essere rimpiazzato, poiché è meglio affidare i compiti civili ai civili» (Ibidem: 68). E c’è anche qualche affermazione ancora più normativa: «La intelligence nella contro-insurgenza riguarda essenzialmente la popolazione locale. Le Forze degli Stati Uniti devono comprendere la gente locale del ‘Paese ospitante’, gli insorgenti, il governo della nazione ospitante. I comandanti e i pianificatori richiedono un approfondimento sulle culture, sulle percezioni, sui valori, sulle credenze, sugli interessi e sui processi di presa delle decisioni degli individui e dei gruppi. Queste richieste devono costituire la base per la raccolta e per il lavoro analitico» (Ibidem: 80). Del resto, nello stesso capitolo terzo, dedicato al tema “Intelligence and Counterinsurgency” c’è un piccolo trattato di socio-antropologia, con alcune pagine accettabili dedicate alla “Cultura”, che corrispondono a quanto si può trovare in un normale manuale universitario americano della disciplina, magari non aggiornatissimo. Qui si tratta della cultura come “rete di significati”, come “codice operazionale”. Alle credenze, ai rituali, ai valori, alle “forme culturali”, alle attitudini e le percezioni, sono dedicate sintesi abbastanza ben costruite e convincenti, con qualche esempio etnografico concreto. Nel capitolo settimo, dedicato alla leadership e all’etica si aggiunge: «La consapevolezza culturale (cultural awareness) è divenuta una crescente competenza per i leaders delle piccole unità militari. I giovani leaders dotati di sensibilità percettive imparano presto come le culture possono influenzare le operazioni militari….

Soluzioni differenti sono richieste in contesti culturali differenti. I leaders dei piccoli gruppi di azione sanno adattarsi alle nuove situazioni, comprendendo presto che le loro parole e azioni possono essere interpretate differentemente in culture differenti. Come tutte le altre forme di competenza, la consapevolezza culturale richiede auto-consapevolezza, capacità auto-diretta di apprendimento, ed adattabilità» (Ibidem: 242). C’è da ricordare, infine, la lapidaria e molto interessante affermazione contenuta nel primo capitolo del Manual: «La conoscenza culturale è essenziale per montare un processo efficace di contro-insurgenza. Le idee americane su ciò che è “normale” o “razionale” non sono universali. Al contrario, i membri di altre società spesso hanno differenti nozioni di razionalità, di comportamento appropriato, o livelli di devozione religiosa, o norme che riguardano le relazioni fra i generi. Quindi, ciò che può apparire anormale o strano a un osservatore estraneo, può invece sembrare auto-evidentemente normale a un membro del gruppo. Per questa ragione, i contro-insurgenti – specialmente i comandanti, i pianificatori, e i leaders delle più piccole unità – devono impegnarsi nell’evitare di imporre i loro ideali di normalità su un problema culturale a loro estraneo» (Ibidem: 27).

Nel “Manuale” ci sono pochi e alquanto cauti cenni alla “giustificazione” degli interventi militari ed alla fondatezza della guerra “a bassa intensità” in certe situazioni e in certi contesti, con i consueti riferimenti alla distinzione tra lo jus ad bellum (che riguarda le decisioni che si riferiscono al “se” e al “quando” entrare in guerra) e lo jus in bello (che si riferisce invece, una volta che la decisione di entrare in guerra sia stata presa, in genere da altri, al “come” eseguire nel migliore dei modi questo compito). Ma appaiono anche alcune nette e precise affermazioni contro gli abusi nelle detenzioni e nelle interrogazioni dei combattenti avversari o di testimoni diversi, con la condanna esplicita di ogni forma di tortura.

In quest’ultimo come in altri aspetti delle dichiarazioni contenute nel testo esaminato si dovranno, naturalmente, distinguere le cose dette o scritte dalle cose poi effettivamente fatte, e ci si deve aspettare – come in tanti altri casi – di riscontrare forme di contraddizione tra le norme, gli orientamenti espliciti, e le azioni concrete. Ma non può essere passata sotto silenzio, d’altronde, l’assoluta novità del testo, rispetto a quelli precedenti dello stesso tipo, che miravano piuttosto a presentare le azioni militari USA come poderose aggressioni giuste e giustificate, di tipo esuberante, nei confronti di soggetti umani e gruppi “inferiori”, “irragionevoli e fanatici”, vittime della fascinazione da parte di capi carismatici. Insomma, la strategia dello Human Terrain System e il Counterinsurgency Field Manual mostrano senza ombra di dubbio una forte influenza di idee, concetti e prospettive tratte dagli studi e le ricerche antropologiche, e potrebbero essere considerati una buona base di partenza, ancora approssimativa e iniziale certo, per una futura negoziazione più stretta e dettagliata con i professionisti dell’antropologia, in termini di antropologia applicata. Ma è ovvio che questa possibile forma di scambio, da approfondire sulla base della identificazione di precise condizioni, possa e debba basarsi su un fondamento già consistente di “Antropologia del mondo militare”, combinato con una altrettanto intensa attività di formazione specialistica, nel quadro della “Antropologia per il mondo militare”. In altri termini, si poteva pensare che ci fossero le condizioni per la fondazione di una “Antropologia nel mondo militare”, caratterizzata dalla creazione di specifiche figure di “consulenti”, social advisors, ma sulla base di una intensa attività di ricerca e di docenza, cioè di esercizio delle prime due forme di antropologia dedicata al mondo militare. Invece così non è stato, purtroppo. Perché il mondo antropologico accademico americano ha reagito, in grande maggioranza, in modo acritico, aggressivo, moralistico, chiudendo formalmente, e rapidamente, le porte ad una collaborazione con il mondo militare.

Le aspre reazioni critiche di alcuni antropologi accademici americani: D. González e D. Price.

Il primo antropologo americano a reagire molto criticamente ai nuovi orientamenti cristallizzati nel citato “Manuale” è Roberto J. González, Ph.D. in Antropologia alla University of California, Berkeley, nel 1998 e Professor of Anthropology nella San José State University. Egli aveva pubblicato una bella e ricca monografia etnografica sulle conoscenze naturali e l’alimentazione dei Zapotechi del Messico (González 2001). Nel 2007, appena pubblicato il “Manual” di cui si tratta, González firma un intervento molto critico e aspro, senza appello, nella rivista inglese del Royal Anthropological Institute Anthropology Today.

Nel titolo di questa radicale presa di posizione appare l’accusa di “antropologi-mercenari” (González 2007). L’autore stigmatizza il “carattere strumentale” dei riferimenti antropologici, la cui finalità è, a suo vedere, quella di “manipolare le relazioni sociali locali in modo da separare gli insorgenti dalla loro base di supporto sociale”. Egli dà, insomma, per scontata la malafede nella mobilitazione di concetti e idee dell’antropologia e soprattutto la assoluta condivisione – da parte delle società rurali afghane e irachene – dei punti di vista e degli interessi dei gruppi insorgenti in armi. Per lui i “consulenti” antropologi dell’esercito (Kilcullen e McFate) hanno «acriticamente impegnato le scienze sociali verso obiettivi stabiliti dal Pentagono, obiettivi che nella Amministrazione di Bush includono missioni che assomigliano ad operazioni di polizia a carattere coloniale, in uno stile di indirect colonial rule». Di fatto, per González siamo di fronte alla «ascesa al potere di una piccola banda di guerrieri-intellettuali» che stanno cercando di realizzare un modello di militarizzazione culturale. La conclusione è che «le agenzie militari e di “intelligence” impiegano la scienza sociale proprio come un’altra “arma” nel campo di battaglia. Gli antropologi, dunque, stanno lavorando come mercenari culturali» (González 2007: 16-17, 19). Le accuse, come si vede, sono senza appello; il linguaggio è quello della propaganda politica e ideologica antibellicista, senza sfumature.

L’autore si guarda bene dall’analizzare casi specifici di “coinvolgimento” e di “manipolazione”; e certo sopravvaluta – come aveva fatto del resto la stragrande maggioranza della letteratura critica sul tema “Antropologia e contesti coloniali del passato” – la “funzione”, la “utilizzazione” e l’“uso” di ricerche antropologiche per fini perversi, nel contesto di azioni militari. Non v’è uno spiraglio su “come le cose avrebbero potuto essere fatte”. Non v’è traccia di un possibile, per quanto severo e condizionato, intervento critico-costruttivo dell’antropologia nelle questioni assai spinose degli interventi militari degli Stati Uniti, così lontani dal suolo americano. Viene così lasciato senza scrupoli il campo, completamente, alle antropologie improvvisate, ai giovani inesperti ansiosi di trovare un qualche lavoro retribuito, alla gestione autonoma, da parte degli alti gradi militari, della materia antropologica, senza controlli e correzioni professionali adeguate.

Non voglio con questo dire che il saggio di González sia del tutto inutile o da buttar via. Certo, non coglie l’occasione per presentare un’accurata analisi antropologica del mondo militare che chiede antropologia. In realtà il saggio era iniziato bene, perché l’autore si chiedeva in limine quali siano le implicazioni etiche e le altre possibili conseguenze di questo tipo di lavoro. E si chiedeva, cosa questa ancora più importante, perché gli ufficiali militari e della “intelligence” dell’esercito manifestavano un tale interesse verso la “conoscenza culturale” negli anni recenti. Ma queste importanti domande sono rimaste senza risposta.

Alcune critiche al “Manuale” non mancano di fondamento. Per esempio, che l’antropologia in esso presentata insista un po’ troppo su un orientamento che richiama il “relativismo culturale”, che la presentazione del concetto di “cultura” sia abbastanza datata, si presenti come “monolitica e monodimensionale” e dedichi una non intensa attenzione ai processi storici di cambiamento come “interni” alla configurazione del concetto, e non ad esso esterni. Poi, le ricerche e le consulenze richieste vengono spesso realizzate come “clandestinamente”, in una specie di “lavoro segreto” in short-terms assignements. Argomento questo assai delicato, che avrebbe richiesto approfondimenti, chiarimenti, analisi puntuali. Infine, possono essere considerati con interesse i riferimenti ai “Private Contractors” coinvolti nelle imprese militari, che negli USA hanno richiesto competenze antropologiche (Hicks e Associates, MPRI, Booz Allen Hamilton, Mitre Corporation). Ma anche qui, come altrove, semplici denunce, allusioni, accuse apodittiche, senza vera analisi. All’intervento di González replica immediatamente, con garbo e sforzo argomentativo, David Kilcullen (il militare australiano-americano al quale si è fatto riferimento). La sua breve risposta è pubblicata nello stesso numero della rivista Anthropology Today (Kilcullen 2007). Il militare tenta di dare una risposta argomentata al quesito dell’antropologo. Egli sostiene che è “etico” l’uso dell’antropologia nelle attività di “controinsurgenza” se esso genera il più grande bene per il più gran numero di persone, costituito dalla popolazione non-belligerante dei paesi come l’Iraq e l’Afghanistan. Per lui «è il benessere della gente comune, non quello degli insorgenti armati o dei membri del governo, che conta». L’esperienza dimostra, per Kilcullen, che una maggiore conoscenza antropologica dei territori, da parte dei membri dei corpi di controinsurgenza, rende più umane le loro operazioni sul terreno. La conoscenza contribuisce alla decrescita della sofferenza diffusa, e anche alla riduzione dell’esercizio della violenza.

Kilcullen identifica chiaramente quello che è il problema principale del suo interlocutore: se sia legittimo supportare in qualche modo (con la propria conoscenza, con opinioni e suggerimenti) l’attuale conflitto che vede coinvolti gli USA in Iraq e in Afghanistan. Se cioè si abbia il diritto, come americani, di impegnarsi direttamente o indirettamente in queste attività militari-belliche. Egli riconosce che ci sono, ci possono e ci debbono essere - su questo argomento - diverse opinioni, tutte legittime, e basate sulla libertà di coscienza. Nessuno può imporre ad altri una posizione. Nessuno impedisce a González e a tanti altri di votare per candidati al Congresso che siano contrari alla guerra, poiché sono i leaders politici che decidono, in queste circostanze. E l’intervento militare americano è stato deciso dal Congresso degli Stati Uniti. Una volta fatta questa scelta, che riguarda il campo definito come jus ad bellum, tocca ai militari eseguire nel migliore possibile dei modi il successivo campo di azione, definito come jus in bello. Ma tutto ciò, il militare vi insiste più volte, è una questione che riguarda tutti i cittadini, non è una questione di competenza specifica degli antropologi. In essa gli antropologi non hanno una particolare autorità. Essi non hanno speciali diritti e non possono dire nulla di particolare, di proprio, su tale argomento. E di certo González non l’ha nemmeno tentato. Poi aggiunge una critica diretta: González pensa che ogni conflitto contro un nemico non-statale costituisca, per definizione, una forma di oppressione contro la popolazione innocente. In realtà, è il comportamento dei gruppi insorgenti in armi che danneggia la popolazione innocente. Sarebbe dunque importante identificare e distinguere, attraverso una accurata ricerca ad hoc, i comuni cittadini dagli insorgenti o terroristi, affidandosi alla propria disciplina (l’antropologia, parte delle scienze sociali), che è una disciplina empirica, basata su ipotesi che derivano dall’osservazione, e non – invece – abbandonarsi ad una forma di arroganza intellettuale, basata su opzioni ideologico-politiche. Lo stesso tono di proposta di discussione argomentata e pacata ha la risposta di Montgomery McFate nella stessa rivista. La McFate cita una espressione di González in un precedente saggio, nel quale sottolineava la “funzione dell’antropologia” (“costruire ponti fra i popoli”), e si chiede come mai adesso questo autore prenda una posizione di isolazionismo intellettuale nei confronti dei militari. Inoltre, avanza molti dubbi che abbia senso la pretesa della “proprietà e controllo” sulla conoscenza prodotta, da parte degli antropologi. Infatti, innanzitutto non v’è “una sola antropologia”, ma esistono molte diverse traiettorie intellettuali nella disciplina. E del resto, l’idea che della conoscenza possano “appropriarsi” altri rispetto ai produttori suggerisce la convinzione della opportunità di una “censura epistemologica”.

È invece nella natura della conoscenza che essa possa “sfuggire” ai legami posti dal suo creatore. Quindi, che i militari debbano rimanere in una condizione di “ignoranza antropologica”, appare come un assurdo. L’autrice segnala anche che, con tutte le osservazioni che si possono fare, bisogna, però, anche riconoscere che il Manuale FM 3-24 ha introdotto per la prima volta l’antropologia all’interno delle dottrine militari. E conclude ribadendo la diffusa opinione che una conoscenza socio-culturale approfondita possa ridurre la violenza, creare maggiore stabilità, promuovere una migliore forma di governo e migliorare il processo decisionale militare. Gli antropologi dovrebbero dunque sentirsi obbligati a contribuire fattivamente alla formazione dei militari e dei decisori politici, per evitare errori nel futuro (McFate 2007).

Nel successivo numero della rivista Anthropology Today c’è una breve controreplica di Hugh Gusterson che non fa avanzare di molto il dibattito. Si sofferma sul consueto tema della “illegittimità della guerra”, non argomenta in modo convincente contro la tesi che la utilizzazione di idee, concetti e metodi dell’antropologia possa attenuare e ridurre l’esercizio della violenza nelle operazioni militari, ribadisce l’ormai trito slogan che in quei contesti «gli antropologi si prostituiscono come raccoglitori di intelligenza in affitto per coloro che gestiscono il potere» e aggiunge che l’esercito «ha bisogno di mobilitare i metodi antropologici solo per una forma di spionaggio» all’interno di un “sordido progetto neo-coloniale” (Gusterson 2007: 23). Come si vede, poche o nulle argomentazioni conoscitive e analitiche.

Un mese dopo, nel Settembre del 2007, appare un breve articolo critico, dello stesso tipo, nella rivista radicale americana CounterPunch a nome di Roberto González e David H. Price, quest’ultimo un antropologo che presto dominerà nella scena delle critiche senza appello all’ Human Terrain System. Qui, tra accenni superficiali e vaghi a questioni molto importanti, come la effettiva organizzazione, i metodi e la gestione dei giovani antropologi coinvolti in quella forma singolare di “consulenza” (tutte cose sulle quali sarebbe stato di fondamentale importanza disporre di una ricerca specifica con dati a analisi congruenti), di fatto si pongono anche domande allusive che rivelano preoccupazioni non prive di fondamento, ma che rimangono al livello dei sospetti, senza dati concreti: «Cosa impedirebbe il trasferimento dei dati raccolti dagli scienziati sociali ai comandi che pianificano campagne militari offensive? Dove si colloca la linea che separa l’antropologo professionale dal tecnico della contro-insurgenza?» (González, Price 2008: 2). E come al solito, un problema che è effettivamente serio, viene trattato allusivamente e vagamente. Per esempio, si fa riferimento preoccupato a certi precedenti simili in vecchie operazioni militari (Vietnam, Filippine) e si allude all’ “uso di dati antropologici”; ma ci si guarda bene dal presentare informazioni dettagliate e concrete, dal dire di che tipo di “uso” si tratti, di quali siano stati gli effetti negativi (per le società locali) di questo misterioso “uso”. E si accenna anche alla «caratteristica mancanza di trasparenza nelle campagne di contro-insurgenza», concludendo che «assistere le operazioni di contro-insurgenza finisce per costituire una violazione delle relazioni di fiducia e di sincerità nei riguardi delle popolazioni con le quali gli antropologi lavorano» (González, Price 2007: 2-3).

L’anno 2007 è dunque molto importante per il dibattito che stiamo ricostruendo. In esso assume sempre maggiore importanza polemica il citato David Price, Ph.D. in Anthropology alla Tulsa University nel 1993 e Professor of Anthropology alla St. Martin’s University in Lacey, Washington. Egli è il più aspro dei critici, che suole anche documentare dettagliatamente le azioni che critica, ma soprattutto sulla base di riferimenti ad accurati studi storico-documentari che riguardano il passato (ha trascorso anni negli archivi dell’FBI, della CIA e dell’esercito americano).

Ha pubblicato nel 2004 un denso e ricco libro critico sulle “sfide” subite dall’antropologia americana “di sinistra” negli anni del Maccartismo (Price 2004) e due anni dopo pubblicherà un altrettanto dettagliato e sorprendentemente ricco volume sulle attività consultive di antropologi americani nel periodo della Seconda Guerra Mondiale (Price 2006). Così, i suoi interventi negli anni intorno al 2007 sono pieni di rinvii comparativi alle vicende lontane degli anni ‘40-‘60 del secolo passato. I riferimenti alle vicende che ci riguardano, cioè all’impegno militare americano in Medio Oriente e al cosiddetto “cultural turn” della US Army, sono quasi sempre secchi, allusivi, accusatori, senza un qualche spunto propositivo e una qualche proposta correttiva. Qua e là appare qualche frammento di testimonianze dirette, critiche, dall’ “interno” dello stesso mondo militare, poco d’altro. I suoi interventi, sempre brevi e pungenti, sono pubblicati dalla rivista CounterPunch, da Anthropology Today e da altre riviste di cultura politica generale come Current Concern o The Nation. Price non sembra aver avuto una vera esperienza di ricercatore di campo (è una sorta di “antropologo senza etnografia”).

Ma va posto in grande evidenza che ai primi di Novembre di quell’anno 2007 è apparso un documento che imprime un carattere definitivo alla controversia un po’ asimmetrica che si è determinata dopo la pubblicazione, agli inizi dell’anno, dell’ormai famoso Couterinsurgency Field Manual 3-24 e dopo la messa in pratica della nuova strategia degli Human Terrain Systems. Il documento viene prodotto da una Commissione ad hoc nominata dalla American Anthropological Association, l’associazione professionale che riunisce una decina di migliaia di antropologi accademici e di simpatizzanti interessati alle discipline antropologiche. Nel preambolo di questo breve documento si afferma che «è importante che i giudizi sulle relazioni tra l’antropologia da una parte, e le operazioni militari e statali di “intelligence” dall’altra, siano fondati sulla base di una accurata investigazione dei loro aspetti particolari» (American Anthropological Association 2007: 1). Il testo segue sostenendo che lo H. T. S. dell’esercito americano colloca gli antropologi, come “contrattati” dai militari USA, in situazioni belliche, con lo scopo di raccogliere dati sociali e culturali perché siano usati dai militari. I problemi etici sollevati da queste attività includono i seguenti:

a) come contrattisti che lavorano in contesti di guerra, gli antropologi dell’H.T.S. si trovano ad operare in situazioni nelle quali non è sempre possibile che si distinguano dal personale militare e possano essere identificati come antropologi. Ciò pone un importante condizionamento sulla loro attitudine a comunicare chi essi sono e quale è il loro specifico lavoro;

b) gli antropologi, all’interno dell’H. T. S. sono caricati della responsabilità di negoziare le possibili relazioni con numerosi e diversi gruppi, includendo le popolazioni locali e le unità dell’esercito americano che li impiegano, all’interno delle quali essi sono “incastrati” (embedded). Conseguentemente, gli antropologi dell’H. T. S. possono assumere degli obblighi nei confronti delle unità dell’esercito, nelle zone di guerra, che confliggono con le loro fondamentali obbligazioni nei riguardi delle persone che essi studiano o consultano, specialmente quelle sottoscritte nel “Codice Etico” della American Anthropological Association, che impongono di «non danneggiare coloro che vengono studiati»;

c) gli antropologi dell’H. T. S. lavorano in zone di guerra in condizioni che rendono difficile per coloro con i quali essi comunicano di dare il necessario “consenso informato” alla diffusione di informazioni senza subire coercizione. In tal modo il voluntary informed consent previsto dal Codice Etico risulta impossibile;

d) come membri dei gruppi di azione dell’H. T. S. gli antropologi forniscono informazioni e suggerimenti ai comandanti delle unità dell’esercito. Ciò configura il rischio che le informazioni fornite possano essere usate per prendere decisioni riguardanti la identificazione e la selezione di specifici gruppi di popolazione come obiettivi delle operazioni militari nei tempi brevi o lunghi. Anche in questo caso verrebbe violato il Codice Etico dell’Associazione, là dove prevede che non siano danneggiate le persone studiate;

e) poiché lo H. T. S. rende identici e assimilabili gli antropologi (e l’antropologia) con le operazioni militari, questa identificazione – data la diffusa e globalmente accettata immagine del militarismo USA – potrebbe creare serie difficoltà per molti antropologi non legati all’ H. T. S. e per le popolazioni che essi studiano, compresi anche gravi rischi per la incolumità personale.

Le conclusioni del documento sono: che l’iniziativa criticata viola il Codice Etico dell’Associazione, e che l’uso degli antropologi costituisce un pericolo sia per altri antropologi, sia per le persone che essi studiano. Quindi, l’Executive Board dell’A.A.A. esprime la sua disapprovazione nei confronti del Programma dell’H. T. S. Si aggiunge anche un giudizio “politico” sull’intera vicenda: «Nel contesto di una guerra che è ampiamente riconosciuta come una violazione dei diritti umani e basata su una errata conoscenza dei fatti come anche su principi non-democratici, questo progetto rivela una applicazione problematica dell’expertise antropologica, specificamente per quanto riguarda i fondamenti etici». E su questo punto non si può che concordare alla lettera con il giudizio dato sull’intervento americano in Iraq. Infatti, poteva essere già chiarissimo fin dalla famosa conferenza stampa di Powell, prima dell’inizio dell’intervento (nella quale venivano presentate le “giustificazioni” del governo del Presidente Bush), che si trattava di menzogne belle e buone: infatti, l’Iraq non possedeva affatto un piano già quasi operativo per usare bombe nucleari, non possedeva per nulla delle fabbriche in piena attività pronte a fornire materiali per la guerra batteriologica, e infine Saddam Hussein non aveva affatto sostenuto Al-Qaeda nella organizzazione dell’attacco alle Torri Gemelle.

Alla fine del testo, viene tentata una conclusione “conciliante”, abbastanza retorica, vaga e priva di proposte concrete: «L’Executive Board dell’A.A.A. afferma che l’antropologia può, e di fatto si sente obbligata ad, aiutare a migliorare le politiche governative degli Stati Uniti attraverso la più ampia possibile circolazione della comprensione antropologica nelle sfere pubbliche, in modo da contribuire, così, a uno sviluppo trasparente e informato, e ad una implementazione delle politiche USA sulla base di un processo robustamente democratico di ricerca dei fatti, di dibattito e di dialogo, e di decisioni. In questo modo, l’ Executive Board afferma che l’antropologia può legittimamente ed effettivamente aiutare a guidare la politica USA a servire le cause umane della pace globale e della giustizia sociale» (American Anthropological Association 2007).

Dunque, il documento della Associazione Antropologica Americana (che ebbe una diffusione straordinaria e fu giudicato da molti antropologi come una “chiusura definitiva del problema”) assumeva in buona parte le posizioni espresse da González e Price, anche se faceva riferimento all’applicazione un po’ rigida e preoccupata del Codice Etico, cosa questa che – però – poneva effettivamente alcuni problemi di non facile soluzione. Di fatto, non è difficile accogliere buona parte delle critiche più rilevanti. Tuttavia, non si può passare sotto silenzio l’eccesso di preoccupazione “preventiva” che emana da questo documento: la preoccupazione per un eventuale uso delle informazioni che potesse procurare danni agli attori sociali. Mi pare che questa preoccupazione eccessiva deformi in buona misura la natura delle “informazioni” che possono raccogliere gli antropologi. Se il compito di questi ultimi era, o poteva essere, quello di raccogliere informazioni sui costumi locali, sulla organizzazione sociale e sulle idee religiose, sugli interessi, le aspettative e i punti di vista della società locale riguardo ai processi generali con i quali si confrontava, e ciò allo scopo che il contingente dell’esercito che operava nella zona tenesse tutto ciò nel debito conto, nel corso delle sue decisioni, delle sue operazioni, è difficile immaginare quali tipi di “danni” ci fosse il rischio di procurare ai gruppi locali. Dal documento risulta insomma la preoccupazione eccessiva che gli studiosi di scienze sociali potessero trasformarsi in antropologi-spie, che avrebbero comunicato segreti e informazioni compromettenti ai militari (forse, si pensava che avrebbero potuto rivelare – dopo averle raccolte – informazioni sul numero degli insorgenti, sui loro armamenti, sui loro insediamenti, sulle loro strategie e tattiche, e così via). Ma tutto ciò mi sembra paradossale, e rivela ansie e complessi preventivi di colpa che non mi pare abbiano molto riscontro nelle esperienze concrete. A parte il fatto più generale, che sarebbe tutto da verificare, se i contadini e i pastori delle zone in esame siano veramente solidali con gli insorgenti e questi ultimi siano “espressione” social-politica (e bellica) della società locale. Cosa che, allo stato delle conoscenze attuali, appare molto dubbia. Rimaniamo convinti che l’A.A.A. avrebbe fatto meglio ad assumere una posizione critica sì, ma costruttiva, proponendo correzioni, integrazioni, condizioni.

Alcuni saggi di valutazione equilibrata dei rapporti tra aspetti socio-culturali e attività militari

Va ricordato che nel 2007 appaiono anche i primi saggi di valutazione serena e argomentata del nuovo orientamento che tenta di coinvolgere il mondo dell’antropologia; prima fra tutte una ricca e meticolosa trattazione dell’intero tema – da un punto di vista molto equilibrato, tutto interno al mondo militare – in una pubblicazione dello Strategic Studies Institute dell’US Army War College di Carlisle, Pennsilvanya, a cura di Sheila Miyoshi Jager, un’esperta di studi asiatici e coreani in particolare.

Il saggio parte dalla considerazione del drastico contrasto che si è determinato tra la politica dell’ex-Segretario della Difesa Donald Rumsfeld, basata quasi esclusivamente sul rafforzamento delle tattiche militari aggressive, che si accompagnavano all’idea che il successo in questi conflitti sarebbe stato raggiunto solo con l’uso sovrastante della forza, e invece – dall’altra parte - l’orientamento post-Rumsfeldiano del Pentagono, che promuoveva un approccio più “soft”, enfatizzando la conoscenza culturale dei contesti di conflitto e una forma di “intelligence etnografica” come ingredienti di base della nuova “dottrina”, in modo da contrastare e sostituire la sistematica incomprensione delle società dell’Iraq e dell’Afghanistan, che era stata caratteristica del precedente periodo. Ma l’autrice notava subito che queste buone intenzioni, di conoscenza accurata dei contesti sociali, dei costumi e dei valori, delle aspettative e delle differenze interne esistenti nei contesti di operazioni, non erano trasferite dall’esperienza di campo ai leaders politici, allo scopo di ridefinire e modificare consistentemente una nuova strategia generale dei rapporti internazionali basata sulla approfondita conoscenza culturale.

Il saggio propone una posizione più flessibile nei confronti delle differenze sociali, culturali e politiche dei molti e diversi gruppi insorgenti, l’abbandono della vecchia impostazione di opposizione morale tra i “noi” (gli Americani) e “loro”, una capacità di tenere in conto con attenzione come le diverse società affrontano e valutano i rischi, definiscono i loro criteri di sicurezza e percepiscono le sfide; e infine un maggiore collegamento e comunicazione accurata tra i militari e la società civile, che comprenda anche una “conoscenza culturale” approfondita del mondo militare. L’autrice distingue i consueti livelli della tattica sul terreno, della strategia specifica di medio-lungo periodo nelle azioni di contro-insurgenza, e infine la grande strategia e politica nei confronti delle difficili e conflittuali relazioni internazionali, nei loro aspetti economici, militari, territoriali, di equilibri politici. Ad ognuno di questi livelli la “conoscenza culturale”, l’approfondimento dei costumi, norme, valori dei gruppi sociali e delle nazioni, risulta indispensabile. La visione dei fenomeni culturali non manca di riconoscere la dinamicità e il costante cambiamento, gli “aggiustamenti” imposti dalle situazioni di reciproca influenza tra le società. Viene anche notato il frequente “uso strumentale” della cultura nei processi di conflitto. Per esempio, il gruppo di Al-Qaeda ha frequentemente reinterpretato i testi islamici, i sistemi di credenze e valori, per giustificare la sua ideologia radicale. Ancor più è necessaria questa conoscenza culturale approfondita (fatta anche di rispetto, fiducia, amicizia, comprensione) quando le forze armate americane si trovano impegnate in un rapporto stretto e intenso con una parte della popolazione locale con la quale intendono operare. Mentre nei nuovi orientamenti dell’esercito i militari cercano di applicare sul terreno un diverso approccio costruttivo e “sociale-culturale”, i politici nella madrepatria mostrano invece difficoltà ad usare lo stesso metodo ai livelli delle strategie generali.

La Jager dedica anche alcune pagine sobrie, argomentate e rispettose ma in dissenso, alle reazioni degli antropologi nei confronti delle nuove strategie e dello Human Terrain System. Vengono citati González, Price, Gusterson e l’autrice trae da questi scritti, e dallo Statement dell’American Anthropological Association, l’impressione che l’antropologia voglia rimanere in una sua posizione “insulare”, isolandosi in una condizione minoritaria (a differenza della scienza politica e dell’economia) immergendosi in complicati problemi etici che potrebbero essere discussi e risolti con maggiore saggezza. Per la Jager questo non è che un esempio del problema assai più ampio, del coinvolgimento di civili nelle operazioni militari, e del pregiudizio contro i militari che è molto diffuso in America come altrove. È il già accennato problema di cosa si debba fare quando uno è contrario a un intervento militare che è stato deciso da poteri legittimi, e rifiuti in conseguenza di apportare la sua competenza in casi nei quali si potrebbero migliorare gli interventi e salvare vite umane. La conclusione del saggio è la seguente: «Una politica estera guidata da una profonda comprensione delle forze del nazionalismo, dell’identità e della memoria collettiva, può essere uno strumento potente per contribuire a dare nuove forme, e anche a modificare, il comportamento degli avversari» (Miyoshi Jager 2007: 24).

È importante anche, in questo dibattito, un bel saggio di ampio respiro di Patrick Porter pubblicato nella rivista Parameters nel 2007. Il saggio di Porter, che è un docente al Defense Studies Department del Kings College di Londra, assume una prospettiva molto ampia, ed in parte esterna al dibattito americano, anche se trae spunto proprio dal cultural turn delle forze armate americane che ha stabilizzato in qualche modo una visione “culturalista” delle ragioni, cause e motivazioni delle guerre contemporanee, e che tende ad assumere una configurazione di “paradigma” in grado di spiegare anche tutte o molte guerre del passato. Ci sarebbe dunque una “Non-Western Way of War” (in particolare riconoscibile nel mondo “orientale”) caratterizzata dall’uso ridotto della forza e della esclusiva dimensione militare, accompagnato da inganni, stratagemmi, tecniche simbolico-sociali basate sulle tradizioni, le identità, le religioni, le memorie collettive; ad essa si opporrebbe una “Western way of war”, propria dell’Euro-America, nella quale viene privilegiato l’uso della tecnica militare, della pressione diretta sul terreno, della forza dispiegata al massimo della sua potenza. Questa contrapposizione non è accettata dall’autore che trova anche rigido e incongruo il contrasto tra Clausewitz e Sun Tsu (il famoso teorico cinese antico della “conoscenza approfondita del nemico per vincere con poco spargimento di sangue”). E nota che appare nella interpretazione “culturalista” delle guerre un determinismo non giustificato dall’analisi accurata della storia remota e recente dei conflitti. In realtà, egli sostiene, la cultura è certo un fattore influente nella presa delle decisioni in campo bellico; ma non è l’unica forza che spinge chi prende le decisioni; anzi, spesso i politici e i capi militari sfruttano strumentalmente i fatti culturali. I fattori determinanti sono invece il potere e la debolezza altrui, la ricchezza, le risorse, la tecnologia. Osserva anche, come molti altri critici, che spesso la cultura viene vista come statica e si trascura il suo carattere dinamico che genera rilevanti trasformazioni proprio nel corso di un conflitto bellico. In definitiva, Porter – pur partendo dalle innovazioni e dai dibattiti suscitati dal recente nuovo corso delle strategie militari americane – riporta la discussione sul piano più generale della “natura” e caratteri delle guerre, di quelle “tradizionali” e di quelle contemporanee, “asimmetriche”, “non-statuali”, “a bassa intensità” (Porter 2007).

Nello stesso anno 2007 appare una critica argomentata a Price da parte di John Nagl, Professor of History nella US Naval Academy, che riequilibra un poco il confronto con gli antropologi “anti-militaristi”. In un precedente intervento sulla consueta rivista CounterPunch, dal titolo “Pilfered scholarship devastates General Petraeus’s counterinsurgency”, Price aveva caricato aspramente la dose delle sue critiche, con un tono violentemente accusatorio e pieno di disprezzo. L’ormai noto Field Manual era stato scritto, a suo modo di vedere, da «gente ambiziosa priva di talento, che aveva preteso di scrivere un manuale in pochissimo tempo, violando quindi tutte le regole accademiche». Le risposte di Nagl sono caute, rispettose e ben argomentate. Egli ricostruisce il processo di formazione del Manuale e il coinvolgimento molto impegnato dei migliori tra i militari e di un gruppo di civili esperti in scienze sociali. L’urgenza di trasformare radicalmente lo stile di azione militare USA in Oriente, di incrementare drasticamente la capacità di comprensione dei contesti operativi, e di diminuire gli errori e l’uso massiccio di armi, aveva spinto a stringere i tempi nei due mesi di lavoro intensissimo che avevano preceduto il seminario conclusivo di accettazione, con correzioni e interventi, del testo. Price accusa il testo di «non possedere delle note che indichino da dove sono prese certe informazioni generali e teoriche, e di non possedere una bibliografia ricca ed adeguata» Cioè, Price critica il volume sulla base di criteri “accademici” incongrui rispetto alla natura dell’opera, che vuole essere soprattutto uno strumento pratico e un testo che cambia radicalmente l’orientamento dell’azione militare. Dall’intervento di Price scaturì anche un’accusa spropositata di “plagio” che generò un inutile dibattito.

Nagl insiste anche sul calcolo che alcuni militari hanno fatto, delle minori vite umane sacrificate – in entrambi i fronti – da quando si è cominciato ad applicare il Manuale (Nagl 2007). Da quest’ultima polemica, che mostra una sostanziale incapacità degli antropologi americani del tempo, come Price e González, di tentare un dialogo critico costruttivo con il mondo militare, sulla base di argomenti specifici, tratti dalla propria esperienza professionale di studiosi di scienze sociali, si trae un senso di disagio; e ci si sorprende di notare quale impressionante carenza di attitudine argomentativa ci fosse nell’antropologia americana radicale dell’epoca. Eppure, di argomenti critici e di proposte di correzione, come anche di attitudine alla comprensione reciproca, ci sarebbe stata grande necessità, e c’erano del resto molte possibilità di dialogo. Per queste ragioni conviene abbandonare la recensione minuta del groviglio di polemiche, quasi tutte apparse su giornali e periodici, con pochi veri saggi di analisi. Certo, si rimane colpiti di come una ragionevole e accettabile contrarietà alla guerra intrapresa dal governo Bush su basi fragilissime, riesca a dominare completamente il campo, impedendo a questi colleghi antropologi di manifestare le loro capacità di studio, di analisi, di ricognizione dei veri interessi – materiali e simbolici – e dei diversi punti di vista, che si muovono in quel difficile scenario delle guerre “non-convenzionali” in Iraq e in Afghanistan. E sorprende soprattutto la incapacità di “comprensione” dei complessi aspetti sociali, culturali, tecnici ed economico-politici che girano intorno alle attività militari, che sono viste con un imbarazzante pregiudizio. Viene in mente il ricordo di ciò che tanti anni fa notava Claude Lévi-Strauss, sostenendo che gli antropologi, fin troppo tolleranti e capaci di “comprensione umana” nei confronti di costumi e istituti estremi di culture lontane (il cannibalismo, l’infanticidio femminile, la caccia alle teste, e così via), quando invece si occupano delle “cose di casa loro” diventano improvvisamente rigidi, incomprensivi, carichi di pregiudizi e mancanti di flessibilità intellettuale.

Un testo critico affidabile e ben documentato dell’ American Anthropological Association (A.A.A.), del 2009.

Ancora, in questo anno cruciale 2007, il dibattito continua su riviste di informazione, quotidiani e riviste militari. Alcuni saggi di Samantha Power (2007), Semour H, Hersh (2007), Joe Klein (2007), e Marc W. D. Tyrrell (2007), si segnalano per la loro forza polemica.

Nel 2008 le discussioni aspre continuano; Roberto González scrive sulla consueta rivista del dibattito, Anthropology Today un altro articolo al vetriolo (González 2008) e Steve Featherstone pubblica una interessante testimonianza diretta tratta da un breve inchiesta in Iraq, al seguito di un gruppo di “consiglieri” dell’H.T.S., nella rivista Harper’s Magazine del Settembre di quell’anno (Featherson 2008). Appaiono anche i primi commenti critici e abbastanza analitici provenienti dall’esterno degli Stati Uniti: il saggio di Addaia Marrades Rodríguez della Università di Barcelona (Marrades Rodríguez 2008), e quello di José Medina González Dávila, della Universidad Iberoamericana di Città del Messico (González Dávila 2008).

Fortunatamente, le cose negli anni successivi migliorano alquanto, e appaiono i primi studi accurati e meglio strutturati sull’intero problema. L’American Anthropological Association, dopo il breve e fin troppo sintetico Statement del 2007, incarica una Commissione formata da 11 membri dell’Associazione di studiare più approfonditamente il tema e nell’Ottobre del 2009 viene diffuso un ampio documento, sempre critico nei confronti della collaborazione con i militari, ma molto più analitico e argomentato (American Anthropological Association 2009).

Il nuovo testo merita un’attenzione particolare, perché innanzitutto esamina con grande accuratezza le fonti dirette prodotte dall’organizzazione dell’Human Terrain System e il dibattito che si è svolto negli ultimi anni; ma aggiunge anche i risultati di una serie di interviste dirette realizzate presso gli alti gradi dell’esercito e presso molti dei professionisti di scienze sociali coinvolti nell’iniziativa. Il tono è sobrio, argomentato, documentario. Di fatto, viene presentato un utile confronto sistematico tra ciò che l’H.T.S. intendeva fare e ciò che ha in realtà fatto da una parte, e il sistema normativo (soprattutto il codice etico) dell’Associazione degli Antropologi Americani, che quindi parla a nome della disciplina. Ma alcune considerazioni preliminari appaiono, di per sé, clamorose; perché contrastano apertamente con il tono e il livello critico-ideologico scelto dagli interventi, di quegli anni, di Price e González. Infatti, si dice con chiarezza che sono state la propaganda degli alti gradi dell’esercito e l’alto numero di interventi giornalistici a presentare l’H.T.S. come una iniziativa centrata soprattutto sulla introduzione dell’antropologia in primo piano nelle nuove strategie militari e nella formazione delle truppe destinate a missioni estere “di pace” in Iraq e in Afghanistan. Di fatto, invece, i numeri dicono chiaramente che gli antropologi compongono solo una piccola frazione del totale dei 417 “esperti” sociali impiegati nell’H.T.S. Quindi il programma non è da considerare un programma antropologico, ma piuttosto un programma militare che ha reclutato, individualmente, alcuni antropologi.

Tra i collaboratori accademicamente qualificati in scienze sociali, 12 su 58 sono antropologi che possono essere considerati “professionisti” (7 forniti di PhD in Antropologia e 5 di MA o MS nella disciplina). Inoltre, il testo si diffonde nel documentare che all’interno dello stesso mondo militare americano l’H.T.S. non gode di approvazione diffusa. Ci sono molte critiche interne, e vengono citati progetti alternativi di collaborazione tra scienze sociali e mondo militare, come il Progetto “Minerva”, che godono di più ampia approvazione. Alle critiche aspre e senza appello di antropologi come Price e González il testo riserva solo una pagina e mezza, tra le 72 complessive, e si limita a riportarle senza particolari approvazioni.

Le osservazioni critiche più rilevanti riguardano la scarsa consistenza delle attività di formazione, nel campo delle scienze sociali in generale e nella “ricerca empirica”. E per quanto riguarda la vera e propria “attività di ricerca”, viene ripetuto più volte che la “integrazione” degli esperti sociali all’interno dell’esercito (con uniformi e spesso anche con armi) rende difficile se non impossibile un tipo di ricerca in aree di conflitto che vorrebbe essere qualificata come “antropologica”. Ma la questione di fondo, e la più delicata, riguarda il fatto che i militari sono i destinatari diretti dei risultati delle ricerche, che essi decidono come tradurle in elementi “operativi”. In realtà, appare evidente la fondatezza della critica più rilevante all’H.T.S., consistente nel fatto che non è bene distinto, all’interno del Programma, il livello della research, da quello della intelligence (che è propria degli apparati militari sul campo), e infine da quello dell’advising. Insomma, la distinzione cruciale tra collectors e analysts appare di fatto in ombra. L’altra fondamentale critica è quella nota riguardante gli aspetti “etici” della professione del ricercatore antropologo (il “consenso informato e previo” da parte degli informatori locali, il rischio che in zone di conflitto si possano produrre dei “danni diretti” per la popolazione locale sulla base di informazioni, magari riguardanti i gruppi in armi). La conclusione del documento è dunque lapidaria: questa non può essere considerata “etnografia” in senso stretto e meno che mai “antropologia”.

Ma c’è da dire che questo testo non manca di essere, a sua volta, vago e approssimativo proprio sul piano documentario, su certi temi importanti. Perché le perplessità, di certo fondate, che sono state appena indicate non sono basate su un esame accurato di dati diretti. Infatti, si dice in varie parti del documento che l’H.T.S. era stato ideato, programmato e posto in essere per «cercare di attenuare il contrasto tra l’esercito americano e le società locali, attribuendo agli esperti sociali la funzione di agire come ‘mediatori’ o cultural brokers, suggerendo – sulla base della loro esperienza di ricerca – dati sulla vita sociale locale, sui valori, sul modo in cui questa percepiva i militari americani». Il testo accenna qua e là ai contenuti specifici delle informazioni che gli esperti sociali avrebbero dovuto accumulare: sulla etnicità, sulla struttura sociale, sui conflitti per le risorse, sulle personalità-chiave regionali, sull’influenza dell’Iran in Afghanistan, sulla frequenza scolare, sui tipi e i caratteri dei matrimoni, sulle origini dei conflitti sociali, sulle transumanze dei pastori, sui mutamenti dei confini amministrativi. Altrove indica altri temi: la vita sociale nei “vicinati”, la raccolta di informazioni sull’età, sullo stato maritale, sui livelli di educazione, sulla affiliazione tribale, e in particolare sul comportamento tribale in Iraq, sulla politica irachena, sugli aspetti della religione, sulle regole giuridiche, sul processo in corso di stabilizzazione e ricostruzione sociale comprendente anche le necessità e gli impatti dei servizi basici come acqua, elettricità, incluso il tema della influenza dei Talebani sulla popolazione locale, sulle attività economiche di base e sull’organizzazione politica locale, infine sulle politiche della Shia nel Nordovest di Baghdad. Ma il testo si guarda bene dal fare oggetto di critica – come dovrebbe essere fatto – il “materiale informativo e documentario” prodotto dai ricercatori. Insomma, i “prodotti” di queste discusse ricerche non appaiono, nel loro bene e nel loro male, nel documento della A.A.A. Il che pone problemi assai consistenti, nel quadro più generale di una “antropologia applicata” quale dovrebbe essere – e forse potrebbe essere – quella messa in moto, certo in modo abbastanza maldestro, dall’H.T.S. Infatti, finiscono per essere vaghe e allusive le preoccupazioni etiche nei confronti di ciò che potrebbe accadere se certe informazioni (e sarebbe bene sapere quali, concretamente) fossero utilizzate (e non sarebbe male chiarire fino in fondo, con esempi concreti, cosa possa voler dire questa “utilizzazione”) dalle forze armate in danno delle popolazioni locali.

Come si sa, il fondamento di ogni possibile antropologia applicativa, e quindi anche di una antropologia applicata al mondo militare, che non c’è alcuna ragione per escludere da questo campo di studi e attività pratiche, sta tutto nelle condizioni segnalate all’inizio di questo scritto: a) la qualità e l’attendibilità della conoscenza prodotta (riconoscibile secondo gli standards disciplinari); b) la qualità del rapporto con le popolazioni locali secondo gli standards consueti nella disciplina (questione del “consenso”); c) il tipo di uso della conoscenza da parte di soggetti diversi da coloro che l’hanno prodotta (i militari); ma va subito detto che non solo l’“uso” può essere molto diversificato, e che se la conoscenza è fondata secondo quanto detto in a), non si può impedire a un soggetto diverso di farne un “uso” imprevisto, basta che sia possibile la critica aperta del produttore della conoscenza; d) l’analisi istituzionale e delle politiche della entità responsabile dell’intervento sociale; e) gli effetti di questo processo di circolazione della conoscenza, nel medio e lungo periodo, con la conseguente modificazione delle “azioni” di diversi soggetti. Purtroppo, il testo della American Anthropological Association non ci aiuta affatto in tutto ciò.

C’è una ulteriore osservazione finale da fare. Il testo esaminato presenta, come s’è visto, numerose critiche all’iniziativa dell’H.T.S., buona parte delle quali non prive di fondamento. Ma non chiude definitivamente le porte a una possibile collaborazione dell’antropologia (si intende a livello “istituzionale”, cioè riguardante le Università o le Associazioni professionali, e non individuale) con il mondo militare. Accenna più volte ad azioni possibili, a negoziazioni augurabili, ad accordi tutti da pensare e programmare attentamente. Ma non propone nulla di specifico. Si limita a sostenere che «un impegno costruttivo tra l’antropologia e il mondo militare è possibile», che un nuovo tipo di rapporto nel futuro «dovrebbe comportare un programma disegnato con molta accuratezza e controllato costantemente, e una effettiva e continua collaborazione da parte degli scienziati sociali, per evitare la possibile confusione tra raccolta aperta di dati sociali e attività di “intelligence”», che inoltre «si potrebbe stabilire una formazione costruttiva di lungo periodo nel campo culturale, all’interno dei corpi militari», che «un dialogo costruttivo attraverso i difficili confini tra gli antropologi e il personale militare sarà la sfida da affrontare….in modo che sia riconosciuto il ruolo potenziale dell’antropologia nel contesto militare, giacché la mancanza di questo dialogo costruttivo e di scambi collegiali di fatto finirebbe per divenire anti-democratica», che del resto «la predominanza delle pre-cognizioni militari, piuttosto che di quelle antropologiche, potrà essere modificata solo lentamente, e questo è di per sé un buon argomento a favore della necessità di un più ampio dialogo con il mondo militare», infine che «più costruttive forme di adattamenti, di collaborazioni, comprendenti le applicazioni etiche tipiche della pratica antropologica e della conoscenza antropologica, sono possibili. Di fatto, anche i più accesi critici antropologici dell’H.T.S. non sono categoricamente opposti a lavorare e collaborare con i militari. Dobbiamo continuare a discutere e a dibattere su come ciò può essere fatto meglio e più responsabilmente» (American Anthropological Association 2009: 46, 51-53). Come si vede, ripetute affermazioni di disponibilità, ma poche o nulle proposte specifiche. E questa, invece, avrebbe potuto essere l’occasione buona.

Nello stesso anno 2009 gli antropologi critici dell’Human Terrain System continuano imperterriti a pubblicare libretti al vetriolo che riprendono e rafforzano le posizioni sostenute negli articoli delle riviste radicali degli anni precedenti. Roberto González pubblica un libro che ha avuto un grande successo, per la Prickly Paradigm Press di Chicago (González 2009). Un gruppo di 11 antropologi lancia nello stesso anno un “Comitato di Antropologi Impegnati” che pubblica presso lo stesso editore una specie di “Manifesto per la Demilitarizzazione della Società Americana” (Network of Concerned Anthropologists 2009). Infine, due anni dopo David Price scrive un libro che raccoglie e rielabora tutte le sue posizioni critiche sull’intero problema (Price 2011). In questi nuovi interventi, che non mostrano traccia della relativa “disponibilità” manifestata dalla A.A.A. nel suo documento del 2009, è evidente la critica aggressiva senza appello, la scarsissima propensione a un “dialogo” con le forze militari, e infine – quel che appare più grave – una modesta familiarità con la antropologia “del” mondo militare.

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[1] Comunicazione presentata al II Congresso della S.I.A.A. (Società Italiana di Antropologia Applicata) di Rimini (12-13 Dicembre 2014). Il testo integrale, molto arricchito, con numerosi approfondimenti e con la completa documentazione bibliografica pertinente, sarà prossimamente pubblicato in altra sede.