Dibattito: L’antropologia applicata tra “tecniche di mercato” e “pratiche politiche”

Riflessioni sui migranti, Migrantour e Noi

Giacomo Pozzi

Università degli Studi di Milano-Bicocca

Sebastiano Ceschi

CESPI – Centro Studi di Politica Internazionale

Indice

Dibattito: Giacomo Pozzi
Bibliografia
Dibattito: Sebastiano Ceschi
Terremoto anti-umano
Riproiettarsi nell’azione politica e nell’applicazione critica
Migrazioni rifondatrici e Migrantour reloaded
Bibliografia

Dibattito: Giacomo Pozzi

Clifford Geertz sosteneva che gli intellettuali che «indossano cappelli quadrati seduti nelle loro stanze quadrate pensando pensieri quadrati, dovrebbero provare a indossare un sombrero» (Geertz 1983: 153, traduzione dell’autore). Prima di iniziare a lavorare per Migrantour in qualità di coordinatore territoriale, ero piuttosto soddisfatto dei miei cappelli quadrati. Pensieri spigolosi che vedevano con sospetto alla possibilità di esistenza di un’antropologia applicata che fosse allo stesso tempo concreta e critica, flessibile e solida, radicale e comprensibile. Migrantour è il sombrero che ho provato a indossare negli ultimi due anni, che mi ha permesso di “sporcarmi i pantaloni” — come disse il sociologo urbano R.E. Park (1927) — nel mondo dell’imprenditoria sociale, del turismo responsabile, dell’associazionismo, cioè in quell’insieme complesso di negoziazioni, procedure, tabelle Excel e report che è poi il mondo del lavoro sociale.

Desidero spendere innanzitutto qualche parola per esplicitare il mio posizionamento all’interno di questo dibattito — finora condotto attraverso la conversazione tra Francesco Vietti e Miguel Mellino, che ringrazio — che è necessariamente esito di un’altra posizione, quella lavorativa. Dal febbraio 2018 ricopro infatti il ruolo, come anticipato, di coordinatore territoriale del progetto Migrantour a Milano, per conto della Cooperativa Sociale Viaggi Solidali. Sono un antropologo di formazione e, dopo aver concluso nel 2018 il mio percorso dottorale in antropologia presso l’Università di Milano-Bicocca in cotutela con l’Instituto Universitàrio de Lisboa, sono oggi assegnista di ricerca presso l’ateneo milanese. Tengo un piede in due scarpe, in poche parole. Eppure, forse irragionevolmente, mi sento a mio agio, perché credo di poter sostenere che le due scarpe siano degli stessi colori, marca e misura.

Mellino ha sollevato diverse questioni che toccano, da un lato, il progetto in sé e, dall’altro, come da lui stesso esplicitato, l’impianto etico-metodologico che sorregge qualsiasi forma di antropologia applicata, ma che probabilmente riguarda la produzione di sapere tout court. Necessariamente questi due livelli sono intimamente connessi e per questo motivo tenterò di dialogare con le riflessioni del collega spostandomi in forma rizomatica sui due piani.

Una prima questione che credo rilevante riguarda la dubbia capacità del progetto Migrantour di costruire e promuovere una contro-narrazione efficace sulle migrazioni. Nelle parole di Mellino, «in che senso Migrantour riesce a dare un contributo davvero politicamente alternativo rispetto agli stessi obiettivi che esso si pone, e soprattutto rispetto ai regimi migratori dominanti? Dove risiederebbero la sua singolarità e alternatività rispetto alle narrazioni dominanti sulle migrazioni?» (Mellino, Vietti 2019: 124). In queste domande sembra nascondersi la percezione — certamente legittima — di una certa complicità, forse implicita e inconscia, con un sistema di sfruttamento e di riproduzione delle disuguaglianze da cui il progetto non riuscirebbe a prendere le distanze. Per cercare di rispondere a questo dubbio bisogna sicuramente indossare un sombrero. Non si tratta infatti a mio avviso di ragionare in termini di progettualità politica sul piano teorico, ma piuttosto concentrarsi sulle micro-pratiche che animano il progetto. La singolarità e l’alternatività di Migrantour si situano non tanto, forse, nella costruzione teorica di un contributo politicamente alternativo rispetto alle narrazioni dominanti (sebbene il tentativo di fare ciò sia presente), ma piuttosto nel fatto che le narrazioni “rese dominanti” all’interno del progetto — e grazie al progetto — sono quelle che nella quotidianità dell’Italia contemporanea sono le più subalterne: quelle dei migranti stessi. In questo senso, la narrazione veicolata dal progetto non è solo “sulle” migrazioni, ma principalmente “dalle” migrazioni. La voce narrante che i partecipanti ai tour ascoltano non è quella di un antropologo, di un tour operator o di un rappresentante di una Ong, ma quella di una persona con un’esperienza personale o famigliare di migrazione. Dal punto di vista delle forme di rappresentazione, questo processo apparentemente banale di “presa di parola” ribalta — seppur in punta di piedi — i meccanismi di riproduzione delle disuguaglianze. Perché non si tratta di una presa di parola “data” o “concessa”, ma piuttosto “desiderata” e infine “ottenuta”. Migrantour in questo senso non rappresenta altro se non una piattaforma flessibile e uno spazio tutelato e tutelante attraverso il quale, chi lo desidera, può prendere la parola per raccontare la propria storia, così come il fenomeno migratorio.

Certamente la professione di accompagnatore interculturale — come già esplicitato da Vietti – obbliga a seguire un “canovaccio” durante i tour, necessario a garantire il rispetto di alcuni standard qualitativi minimi che il progetto stesso prevede per la sua buona riuscita. Gli standard riguardano principalmente l’adozione di un gergo condiviso — in linea con la Carta di Roma, l’utilizzo e la diffusione di dati quantitativi affidabili (Fondazione Ismu[1], partner di progetto, ogni anno ci fornisce dati aggiornati sul fenomeno migratorio) e l’elaborazione di una narrazione sulle migrazioni che faccia dialogare le biografie dei narranti con le storie del territorio.

Dati questi presupposti, il cuore della narrazione — i contenuti — sono stati costruiti negli anni in forma dialogica con gli accompagnatori che sono stati formati dal progetto[2]. Pensando al caso di Milano, la struttura dei contenuti di ogni tour è raccolta in una dispensa di un centinaio di pagine, composta dalle diverse possibili tappe che possono essere svolte durante ognuna delle tre passeggiate previste nell’area meneghina. I contenuti di ognuna di queste tappe sono stati selezionati, raccolti, trascritti dagli accompagnatori stessi, in dialogo con i diversi coordinatori territoriali che nel corso degli anni hanno supervisionato il progetto. La sensibilità e le competenze di ognuno sono dunque messe in campo per valutare l’adeguatezza dei contenuti, ma anche il carico di critica sociale insita.

Porto un esempio personale per approfondire. Dal 2013 svolgo ricerca sui temi della vulnerabilità sociale, delle politiche abitative, della segregazione urbana, dell’informalità abitativa e delle forme di esclusione cittadina. Ho indagato questi temi tra Lisbona e Milano. Questi interessi di ricerca, che a mio avviso rappresentano elementi essenziali nella comprensione delle dinamiche urbane neoliberali, sotto il mio coordinamento sono confluiti nelle passeggiate Migrantour, ma solo perché gli accompagnatori interculturali, “rileggendo” i diversi quartieri attraversati dai tour a partire (anche) dalle mie riflessioni, li hanno valutati come rilevanti ai fini della comprensione dei quartieri. Ribaltando una questione posta da Mellino, «le auto-narrazioni dei migranti» non «restano autonome dal contesto» (del resto quale narrazione è autonoma dal contesto?), ma «riescono [comunque] a sottrarsi dal luogo di enunciazione entro cui vengono sollecitate a “parlare” dall’immaginario antropologico umanistico dominante» (Mellino, Vietti 2019: 126). Camminando con gli accompagnatori per via Paolo Sarpi (la cosiddetta Chinatown milanese), via Padova o la zona dell’ex-Lazzaretto di Milano nel tentativo di aggiornare i contenuti dei tour, il mio sguardo era più abile nel focalizzarsi su esperienze di lotta per il diritto alla casa, sulle diverse forme di disuguaglianza abitativa, sull’eterogeneità delle pratiche e delle politiche di esclusione, sui “segnali” dell’avanzare della gentrification: in generale su quegli aspetti della vita socio-politica di una città su cui gli antropologi lavorano in modo critico. La condivisione di queste riflessioni ha portato alcuni accompagnatori a identificare nuove tappe nei percorsi cittadini, quali per esempio le case occupate di via dei Transiti[3] per l’itinerario di via Padova o le violente e sottili forme di gentrification in atto in Paolo Sarpi, incarnate nella lotta del Comitato Ca’ Sarpi[4], Inquilini del Policlinico di Milano. O, ancora, nell’approfondimento delle pratiche di utilizzo dello spazio pubblico ad opera delle comunità migranti o degli esiti “urbani” del colonialismo italiano in Porta Venezia.

Questo lavoro di condivisione, di co-costruzione dei temi, dei contenuti e delle narrazioni mi appare fortemente influenzato dalle pratiche e dalle politiche della disciplina, o perlomeno dalla forma in cui io penso all’antropologia, cioè in modo molto similare a come gli stessi Mellino e Vietti mi pare la percepiscano: un sapere “sovversivo” (nel senso di “ribaltare”), o forse meglio “trasgressivo” (nel senso etimologico di “andare oltre”), secondo la definizione che di quest’ultima ha dato Foucault:

La trasgressione è un gesto che concerne il limite; è là, in questa sottigliezza della linea, che si manifesta il bagliore del suo passaggio, ma forse anche la sua traiettoria nella sua totalità, la sua stessa origine. Il tratto che essa incrocia potrebbe anche essere tutto il suo spazio. Il gioco dei limiti e della trasgressione sembra essere retto da un’ostinazione semplice: la trasgressione supera e non cessa di ricominciare a superare una linea che, dietro ad essa, subito si richiude in un’ondata di poca memoria, recedendo così di nuovo fino all’orizzonte dell’insuperabile (Foucault 2004: 60).

L’antropologia — e in particolar modo l’antropologia applicata — agisce in forma “modestamente” trasgressiva sui territori: innestandosi sull’effervescenza del contemporaneo, l’andare oltre — la trasgressione appunto — promossa dalla disciplina rappresenta un continuo processo di “superamento” dell’esistente, che, nelle parole di Foucault appena riportate, tuttavia «non cessa di ricominciare a superare un linea» — la realtà sociale — che «subito si rinchiude in un’ondata di poca memoria». In questo senso, l’antropologia — innervata nell’esistenza quotidiana della realtà — ribalta, ma in forma modesta. Come ricordato da Herzfeld, l’antropologia è infatti una disciplina «modesta»,

concerned with practice rather than with grand theory, [that] may ultimately have a more lasting effect in the world. This is a view of anthropology as a model for critical engagement with the world, rather than a distanced and magisterial explanation of the world (Herzfeld 2001: x).

Non credo che questo coincida con una minore incisività dell’agire antropologico (Cornwall 2019), ma anzi — coerentemente con la sensibilità, i tempi lunghi e le peculiarità epistemologiche del metodo di lavoro che caratterizza la disciplina — ciò coincide con la capacità di intervenire socialmente a partire dalla consapevolezza di essere situati nei “legami del mondo” in una forma indissolubilmente implicata (Fava 2017). Questi “legami”, evidentemente, sono anche — e forse soprattutto — divergenti rispetto ai propri obiettivi. Nel caso di Migrantour, le speculazioni urbane, il rischio di estetizzazione della diversità culturale, il mercato turistico, rappresentano sicuramente parte integrante del contesto entro cui si va ad agire. Questo non significa che il progetto stesso promuova queste dinamiche.

Certamente ciò scioglie solo in parte alcune criticità del progetto, ben riassunte in una considerazione esposta da Mellino: «in che modo Migrantour riesce a gestire le tensioni tra l’approccio teorico critico della propria iniziativa e le concrete interazioni con le strutture di potere e le forze di mercato che pervadono il proprio campo d’azione?» (Mellino, Vietti 2019: 124). Questa è una questione centrale di qualsiasi riflessione degna di nota sull’antropologia applicata e ringrazio il collega per averla posta.

Secondo la mia esperienza personale, Migrantour agisce in un contesto caratterizzato da diverse tensioni — puntualmente esposte da Mellino — come se fosse un “operatore del negativo”, riprendendo il concetto di “lavoratore del negativo” formulato da René Lourau (1970), portato in Italia da Franco Basaglia e Franca Basaglia Onglaro (1975) e, infine, trasposto nel campo dell’antropologia da Nancy Scheper-Hughes (1995). Il lavoratore del negativo, ci dice Sheper-Hughes, «è un traditore di classe» (1995: 419-420); è un professionista (uno psichiatra, un insegnante, un docente universitario, ma anche un antropologo applicato) che, pur lavorando in un’istituzione, espressione dunque di una certa relazione tra classi, in una posizione di egemonia, si pone in una relazione conflittuale con l’egemonia stessa che incarna, privilegiando la tutela dei gruppi subalterni che incontra e con cui lavora. Migrantour si situa, dal punto di vista del campo di intervento e non del campo d’analisi, secondo la necessaria distinzione che tra questi ha formulato lo stesso Lourau (1972), all’interno di strutture di potere e di forze di mercato in una posizione necessariamente “conciliante”, ma “negativa” allo stesso tempo, nel tentativo di forzare dall’interno i meccanismi di riproduzione delle forme di estetizzazione, esotizzazione e rappresentazione delle migrazioni. Se il campo di intervento di Migrantour si trova inevitabilmente innestato nelle strutture di potere e nelle forze di mercato, il campo d’analisi dello stesso — e così anche dunque la possibilità di trovare una coincidenza tra i due campi — si situa nel più vasto insieme di riflessioni che questo dibattito sta tentando di ricostruire. L’antropologia dunque come disciplina che agisce su due fronti: da un lato come campo di conoscenza e di analisi, dall’altro come campo di azione e di intervento (Scheper-Hughes 1995).

Migrantour, come progetto antropologico, ma non solo, si muove dunque in questa doppia direzione, cosciente della difficoltà di mettere in pratica quell’insieme di elementi di critica sociale che lo accompagnano dal punto di vista teorico. Purtuttavia, il campo d’intervento così come posto in essere sarebbe irrealizzabile senza la radicalità della teoria che vi sta alle spalle. Ma, allo stesso tempo, un’adesione cieca al solo campo d’analisi — dove emergono prepotentemente tutte le «rigidità materiali strutturali» come ci dice Mellino (Mellino, Vietti 2019: 125) — renderebbe irrealizzabile l’intervento stesso. In questo senso, come suggerito altrove, per “agire antropologicamente” è necessario passare dall’implicazione all’applicazione (Liguori, Pozzi forthcoming).

Questo passaggio non elimina un rischio sicuramente soggiacente al progetto: il fatto, cioè, che Migrantour diventi una tecnica di mercato, fondata sulla possibilità di “commercializzare” la diversità culturale e gli spazi urbani “etnici”. In questo senso, Migrantour si tutela con diverse strategie, a partire dalla consapevolezza che in alcuni casi i “clienti” che si avvicinano al progetto aderiscono in parte a una rappresentazione mistificante e stereotipata delle migrazioni. Gli accompagnatori interculturali, così come i materiali informativi e i diversi coordinatori territoriali, cercano di agire in direzione contraria, nel tentativo, da un lato, di ridimensionare le aspettative “de-stereotipizzandole” e, dall’altro, di cominciare a svolgere quel lavoro di “traforo”, quel “lavoro negativo”, dentro e contro le narrazioni dominanti.

Un ulteriore fattore di criticità riguarda i diversi stakeholders territoriali con cui il progetto collabora. Mi riferisco nello specifico a un insieme di piccole e medie attività commerciali facenti parte di una più ampia imprenditoria migrante, quali minimarket “globali”, caffetterie eritree, bar cinesi, negozi dell’antiquariato “orientale”, sartorie indiane, piñaterie peruviane, macellerie marocchine e ristoranti boliviani. Questi attori locali si trovano infatti in quartieri che sempre più sembrano consolidarsi come luoghi di consumo della diversità culturale (Rath 2007), aderendo a un processo globale che è stato ben analizzato dagli antropologi Aytar e Rath[5] (2012): la nascita dei quartieri etnici. Soffermandoci sul caso milanese, la Chinatown di via Paolo Sarpi, la multiculturale via Padova e il quartiere etiope ed eritreo di Porta Venezia rappresentano alcuni validi esempi di questo processo di etnicizzazione del mercato.

In questi contesti, gli imprenditori migranti giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo territoriale, che il progetto difficilmente può permettersi di contestare, nonostante le criticità. Infatti, l’etnicizzazione del mercato offre innegabili opportunità sia ai nativi sia ai migranti, come ricordano Aytar e Rath (2012: 2), nella speranza, per questi ultimi, da un lato, di veder realizzato il proprio progetto migratorio e imprenditoriale e, dall’altro, come ebbe a dire un nostro stakeholder durante una passeggiata, di “veder cambiare il quartiere. D’altra parte, meglio i turisti dei criminali”.

Dati questi presupposti, Migrantour effettivamente coopera con soggetti che agiscono in un settore del mercato neoliberista in ampia espansione (Rath 2000). Tuttavia, sebbene da un punto di vista del campo d’analisi questo tipo di cooperazione sia problematica, dal punto di vista del campo di intervento appare coerente con i principi del progetto, interessato a mettere a valore le esperienze di vita migranti — anche nel loro aspetto economico.

Desidero concludere invitando colleghi e colleghe, operatori e operatrici del sociale e chiunque sia interessato a questi temi, a condividere le proprie esperienze e a suggerire strategie di intervento, affinchè il dibattito non si esaurisca sulle pagine che ospitano questa conversazione. In qualità di “lavoratori del negativo”, quali sfide affrontano gli antropologi applicati quotidianamente? In che modo è possibile far dialogare praticamente e pubblicamente campi d’analisi e campi di intervento? Quali strategie possono essere adottate per conciliare l’agire antropologico locale con i processi globali? Il mio modesto invito, tornando a Geertz, è di provare a indossare un sombrero prima di rispondervi.

Bibliografia

Aytar, V., Rath, J. (eds.). 2012. Selling Ethnic Neighborhoods. The Rise of Neighborhoods as Places of Leisure and Consumption. New York. Routledge.

Basaglia, F., Basaglia Ongaro, F. (a cura di). 1975. Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti alla repressione. Torino. Einaudi.

Foucault, M. 2004. «Prefazione alla trasgressione», in Scritti letterari. Milano. Feltrinelli: 55-72.

Geertz, C. 1983. Local Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology. New York. Basic Books.

Herzfeld, M. 2001. Anthropology: Theoretical Practice in Culture and Society. Oxford. Blackwell.

Liguori, A., Pozzi, G. 2019. «Al bando le periferie. Etnografia, applicazione e implicazione nel Borgo di Chiaravalle (Milano)», in I metodi puri impazziscono. Strumenti dell’antropologia e pratiche dell’etnografia al lavoro. Severi, I., Tarabusi, F. (a cura di). Salerno. Licosia. In corso di stampa.

Lourau, R. 1970. Pour une sociologie des contre-institutions, à propos de deux ouvrages récents. L’Homme et la société, 17: 281-295.

Lourau, R. 1975. «Lavoratori del negativo, unitevi!», in Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti alla repressione. Basaglia, F., Basaglia Ongaro, F. (a cura di). Torino. Einaudi: 191-212.

Mellino, M., Vietti, F. 2019. Dibattito: L'antropologia applicata tra “tecniche di mercato” e “pratiche politiche”. Riflessioni sui migranti, Migrantour e Noi. Antropologia Pubblica, 5(1): 123-131.

Rath, J. 2000. Immigrant Businesses. The Economic, Political and Social Environment. London. Palgrave Macmillan.

Rath, J. (ed.) 2007. Tourism, Ethnic Diversity and the City. New York. Routledge.

Scheper-Hughes, N. 1995. The Primacy of the Ethical: Propositions for a Militant Anthropology. Current Anthropology, 36(3): 409-440.

Vietti, F. 2018. Migrantour – Intercultural Urban Routes. Un progetto di antropologia applicata tra migrazioni, turismo e patrimonio culturale. Antropologia Pubblica, 4(2): 125-131.

Dibattito: Sebastiano Ceschi

Dalla multiculturalità alle migrazioni rifondatrici. Migrantour reloaded

Nel vivace scambio avvenuto tra Miguel Mellino e Francesco Vietti in seguito alla pubblicazione dell’articolo di quest’ultimo sul progetto Migrantour (Vietti 2018) sembrano confrontarsi due diversi posizionamenti rispetto ai contesti delle migrazioni postcoloniali e alle dinamiche politiche e socio-culturali che li circondano. Mellino, forte del suo vasto bagaglio di letture e riflessioni nell’ambito degli studi culturali, postcoloniali e di teoria critica contemporanea[6], attraverso una prospettiva che potremmo definire un po’ sbrigativamente “antisistemica”, rivolge al progetto Migrantour una forte critica. Quest’ultima iniziativa, promossa come strategia UE e poi realizzata in una dozzina di città perlopiù italiane, seguendo l’argomentazione di Vietti assume come dato e come opportunità il quadro della “superdiversità urbana” che contrassegna alcuni quartieri cittadini, considerando la città globalizzata dal basso come un’arena o un campo di relazioni in cui si può utilmente lavorare, attraverso progetti di impronta etnografico-educativa, in direzione dell’apertura conoscitiva e attitudinale degli abitanti verso la presenza dell’immigrazione. Mellino, guardando ai meccanismi profondi del discorso e del dominio occidentale capitalista sulla popolazione — migrante e non migrante — ed evidenziando “l’involucro materiale e oggettivo” dei rapporti tra società autoctone e immigrati e le profonde diseguaglianze che lo caratterizzano, si contrappone nettamente a quella che ritiene una mistificazione/esotizzazione della diversità migratoria operata all’interno del paradigma e della retorica multiculturale neoliberale. In tale quadro critico, in cui si afferma non solo la permanenza ma la stessa strutturalità delle gerarchie razzializzate e dei processi di esclusione e sfruttamento che organizzano la produzione di valore e l’accesso ai diritti in Europa (Mellino 2019), il progetto Migrantour desta in lui il sospetto di essere funzionale al mascheramento ideologico della cruda realtà di esclusione e sfruttamento subita dai migranti e di mostrarsi come faccia “buona” di un rapporto con la diversità altrimenti spietato ed escludente.

Ammetto che io stesso, leggendo l’articolo di Vietti, ho avuta una reazione simile a quella efficacemente convogliata da Mellino nel suo scritto. Come è ancora possibile riproporre acriticamente l’ideale della differenza come “merce ricercata” quando, negli ultimi anni, sugli stranieri poveri dentro ed alle porte del nostro Paese si sono riversate retoriche mediatiche pervasive, distanziamenti sociali, rabbie pubbliche e private e atti di violenza e razzismo popolare ed istituzionale che ci hanno rivelato la crisi non solo di un progetto o desiderio di inclusione dei migranti, ma della stessa possibilità di una loro presenza, della stessa loro esistenza materiale accanto a noi? Che senso ha parlare dell’attrattività dell’esotismo di prossimità (l’espressione utilizzata è di Giovanni Semi) dei quartieri multietnici quando le città italiane appaiono sempre più divise, segregate e conflittuali ed il multiculturalismo quotidiano descritto a suo tempo da Colombo e Semi (2007) è sottoposto a pressioni fortissime fondate sulla divisione tra “noi italiani” e “loro” stranieri, ormai assunto da molti come unico sfondo semantico per qualsiasi evento ed azione che vede protagonisti i migranti? Ed in che modo le forme di «edutainement itinerante» favorevoli alla «città aperta», rivolte ad una élite di turisti sensibili o pronti a farsi sensibilizzare, può contrastare la montata di una massa non più silenziosa ma berciante, disorientata dalla crisi “di presenza” contemporanea ed incattivita giornalmente e sistematicamente dalla potenza di messaggi opposti? Infine e perciò, rispetto allo specifico ruolo dell’antropologia applicata, mi destava non poca inquietudine il fatto che le pur interessanti teorizzazioni e pratiche di turismo, comunità patrimoniale e osservazione etnografica itinerante si sviluppassero tranquillamente all’interno di un alveo ideologico ancora acriticamente centrato sulla visione delle differenze come prodotti “interessanti” e appetibili commercialmente e turisticamente, liberamente fluttuanti negli spazi sociali e fisici dell’urbano, senza problematizzare se e come tali “differenze” siano politicamente e socialmente tollerabili solo quando compatibili con gli assetti esistenti ed in realtà sottoposte a pesanti condizionalità socio-economiche. Un esempio in tale senso è sicuramente quello delle imprese immigrate, spesso e troppo facilmente celebrate come simbolo di insorgente cosmopolitismo economico-sociale, ma che poi di fatto subiscono e riproducono forme di violenza istituzionale reale e simbolica (si veda il caso dei money transfer o dei venditori di kebab), meccanismi di penalizzazione selettiva e controlli mirati su base etnica (Bressan, Krause 2017; Il Post 2019). In sintesi, l’articolo suscitava l’impressione che, lungi dal considerare la persistente colonialità delle relazioni di potere che strutturano il sistema socio-politico, la proposta concettuale-applicativa di Migrantour fosse a dir poco eterea (o elitaria) e in qualche modo ancora “illusa” dall’idea delle società multiculturali integrative e liberali. E perciò, anche carente rispetto ad una analisi più realistica e profonda del rigido sistema di stratificazione della cittadinanza e dell’accesso a lavoro e reddito che colpisce larghissime fasce di immigrati.

Apparentemente, si potrebbe pensare di essere nuovamente di fronte alla contrapposizione tra un’antropologia/teoria critica militante e radicale, capace di disvelare logiche e dispositivi di dominio del potere economico e politico, rompendo il senso comune e l’habitus che causa l’adesione implicita e inconsapevole allo status quo, e un’antropologia che, per quanto evoluta, si accomoda al caldo dell’esistente e diventa sapere tecnico e collaborativo, omologato al pensiero mainstream e lontano da una reale e decisa pratica politica in favore degli oppressi. Con il conseguente effetto di distanziamento e le reciproche accuse: da una parte, di tirarsi fuori dalla mischia e parlarsi addosso tra pochi “eletti” e “rivoluzionari” e, dall’altra, di anestetizzare la propria coscienza etica e politica ed assecondare ingiustizie e sfruttamento. Per un verso sembra riproporsi il dilemma etico ed operativo tra rigettare e collaborare che aveva costituito il pendolo del dibattito sull’accoglienza (A.P. 2017-2018) e, sullo sfondo, il dialogo/contrapposizione tra un'analitica “morale” e di opposizione versus una più “disponibile” ed embedded. Nel frattempo, però, diverse cose sono cambiate ed un piano inclinato le ha precipitate verso il basso. Passando attraverso l’apprezzabile risposta di Vietti, che assume pienamente la cruda realtà del governo delle migrazioni e delle politiche di “departeid” europee, vorrei mostrare come un’analisi disincantata ma costruttiva del presente possa suggerire un modo per uscire fuori dalle secche di questa polarizzazione improduttiva, e spingerci a mutare profondamente le prospettive chiamate ad interpretare ed agire l’attuale congiuntura politica e culturale.

Terremoto anti-umano

Negli ultimi cinque, dieci anni sono avvenute profonde trasformazioni rispetto al tema delle migrazioni sia nella pratica politica e istituzionale, nella “struttura di sentimento” popolare. La mobilità umana, fino ad anni recenti considerata all’interno di un certo paradigma neoliberale come motore ed opportunità di scambio e arricchimento delle società in un quadro di sviluppo di relazioni transnazionali e di società tendenzialmente multiculturali, ha assunto connotazioni sempre più “sinistre” ed invise al pensiero di stato, all’opinione pubblica ed al senso comune. La cosiddetta “crisi dei rifugiati” e gli effetti di lungo periodo della crisi economica (e aggiungerei sociale e culturale) che attraversa l’Europa, ed in particolare l’Italia, hanno non solo rinforzato gli aspetti di contenimento e di governo repressivo delle migrazioni ed indebolito il loro parziale contrappeso costituito dalle politiche di integrazione, cooperazione e cosviluppo (Mezzetti, Ceschi 2019), ma anche conquistato alla causa della “Fortezza Europa” settori sempre più ampi di rappresentanti e governati. Non solo è potentemente ripartito il processo di chiusura, militarizzazione ed esternalizzazione delle frontiere marittime e di terra messo temporaneamente in crisi dalle rivoluzioni arabe (Campesi 2011; Gaibazzi et al. 2017), ma si sono anche moltiplicate all’infinito le forme di confine che inseguono il migrante anche dopo essere entrati nello spazio europeo (Mezzadra, Neilson 2014; Carbone, Gargiulo, Russo Spena 2018). Mai come adesso, perduranti e al tempo stesso crescenti barriere materiali, burocratiche, sociali, simbolico-culturali impediscono sia la dignitosa accoglienza e integrazione dei nuovi arrivati, sia l’uguaglianza sostanziale dei vecchi migranti e dei loro figli non migranti con il resto della cittadinanza.

Quella dimensione post-nazionale, inclusiva e meticcia annunciata da tanta letteratura scientifica — da Beck ad Appadurai — e a cui le nostre società sembravano felicemente destinate prima dell’inverno economico-sociale di questa decade, sembra essersi sciolta come neve al sole di fronte al montare della crisi e del suo governo. L’idea che fosse positivo e auspicabile diventare una “società aperta” attraversata dalle migrazioni, all’interno di un mondo in espansione destinato a diventare sempre più pluriculturale e differenziato all’interno di nuove configurazioni post-nazionali della cittadinanza fondate sulla partecipazione e la denizenship, non appare più all’ordine del giorno. Certo, si può obiettare, si trattava di teorie politiche e vulgate socio-culturali che descrivevano società “cosmopolite” ed un mondo di soggetti liberi e sempre più svincolati da appartenenze e relazioni obbliganti, nascondendo quanto in realtà tale mondo restava profondamente determinato da dispositivi iniqui e gerarchici di gestione del potere e della ricchezza su base politico-culturale, etnico-nazionale, territoriale, di classe e di genere. Tuttavia, ora, simili posizioni vengono attaccate e contestate non solo dagli “antioccidentalisti”, dall’antropologia militante e dai movimenti di pensiero legati alla decolonialità, ma molto più violentemente ed efficacemente dalle politiche sovraniste, dall’ideologia razzista, fascista e dal pensiero della barbarie. Non sono più il discorso egemone a cui contrapporsi, ma una sempre più sfumata cornice di valori che, seppur altamente imperfetti, contestabili e da emendare profondamente in chiave anti-neocoloniale, potremo ritrovarci presto a rimpiangere.

A livello globale e più specificamente europeo, abbiamo di recente assistito, oltre che all’edificazione in quest’ultima decade di 15 nuovi muri in Europa — internamente ed esternamente allo spazio Schengen (Benedicto, Brunet 2019) — all’abbandono del soccorso navale e di qualunque seria missione di SAR (Search and Rescue) nel Mediterraneo (al momento ci sono solo alcuni voli di ricognizione di EUNAVFOR Med, anch’essi a rischio di revoca); agli accordi e al pesante sostegno finanziario alla Turchia di Erdogan e alla “guardia costiera” libica (con la creazione di una impensabile “SaR” libica in cui operare il “salvataggio”) per fare il lavoro sporco di toglierci di mezzo i migranti per mare e per terra prima ancora di accorgerci della loro esistenza; all’accanimento e separazione dai famigliari dei minori irregolari alla frontiera tra Messico e Stati Uniti ed a politiche sistematiche di negazione del diritto d’asilo; alla persecuzione legale e politica delle navi delle ONG, alla chiusura dei porti e ai dinieghi di sbarco — di fatto dei veri e propri respingimenti — conditi da affermazioni efferate e disumane contro persone in stato di emergenza e contro i loro soccorritori, costretti a restare al palo per giorni o settimane in alto mare. Il tutto, sotto gli scroscianti applausi ed i peggiori improperi del popolo elettore, del popolo dei social e dei sondaggi. In Italia siamo da pochissimo usciti da un intollerabile tunnel di 14 mesi di un governo che intorno al trattamento disumano della questione migratoria ha costruito il suo incontrollato potere e largo consenso, cospargendo tutti i gangli del paese di odio e riempiendo di tossine l’intera popolazione. Abbiamo assistito più o meno passivamente ad uno spaventoso arretramento civile, politico e sociale nella relazione con gli “altri coloniali” e ad una regressione mai così netta in termini di diritti e rispetto della dignità umana. Nel disprezzo sbandierato di ogni regola e consuetudine di civiltà costruita da decenni, secoli o millenni dalla storia dell’umanità – dall’obbligo del soccorso in mare a persone in difficoltà all’uguaglianza formale di fronte alla legge da parte di tutti i cittadini, fino al diritto ad una protezione statale per i rifugiati e all’iscrizione anagrafica di colui che richiede asilo – abbiamo subito la violenza dell’esaltazione dell’illegalità, l’esibizione della disumanità. Il nostro paese ha conosciuto il crollo del senso morale della politica, la continua produzione di atti criminali verso persone da soccorrere e persone che soccorrono, e la criminalizzazione non solo di chi ha bisogno di aiuto, ma anche di chi fa del bene. Trasformando la difesa dei diritti umani in “ideologia buonista”, i soccorritori in trafficanti, i gommoni della morte in “taxi del mare”, i richiedenti asilo in clandestini, i migranti “economici” in truffatori infiltrati e tutti gli immigrati (come ben sappiamo utili alla società di destinazione) in nemici della “nazione” e potenziali terroristi.

L’apparato umanitario — di cui non si vuole affatto negare né le contraddizioni e l’ambiguità, né la sua internalità/strutturalità rispetto alle logiche della governance neoliberale — è stato potentemente investito, in Italia, in Europa, negli USA, da processi di criminalizzazione e delegittimazione da parte di leggi, norme, dichiarazioni e comportamenti che non ne riconoscono più la legittimità di azione e la fondatezza dei valori che lo sorreggono, che sono in sostanza quelli dell’importanza della vita umana e del diritto/dovere di prendersi cura delle persone, al di là della loro appartenenza collettiva. “Saving Humans” e “restare umani”, cioè essere ancora in grado di provare sentimenti di solidarietà e vicinanza con gli altri e avere a cuore la loro sopravvivenza, sono diventati slogan disperatamente contrapposti da attivisti e militanti dei diritti umani sempre più radicalizzati di fronte al mutato panorama attuale di sempre più normalizzata brutalità e rifiuto di empatia e di soccorso. Un panorama segnato da un generale incattivimento sociale e politico verso chi si muove ed esprime dei bisogni, da un arretramento giuridico spaventoso nei confronti dei non-cittadini, da una chiusura fisica e “spirituale” delle frontiere (materiali, culturali e simboliche) della nostra società. Un piano inclinato che crea fratture all’interno della governance neoliberale e dell’umanitario, costringendoci a prendere più decisamente una posizione, a definire meglio i nostri posizionamenti scientifici e applicativi.

Riproiettarsi nell’azione politica e nell’applicazione critica

Si può senz’altro ammettere, con Mellino, che il modello “securitario, criminalizzante e regressivo” (migranti come estranei e non-umani) e il modello multi-interculturalista (migranti come forza lavoro e poi, secondariamente, “risorsa” funzionale ad un certo tipo di narrazione multiculturale) siano stati parte dello “stesso ordine del discorso neoliberale” imperniato sul governo/dominio della popolazione finalizzato allo sfruttamento capitalista e alla invisibilizzazione degli indesiderati. E si può senz’altro condividere l’analisi per cui anche l’umanitario abbia svolto un ruolo “di sistema” attraverso la rappresentazione dei migranti come "vittime" passive piuttosto che come soggetti attivi, contribuendo in tal modo alla non esigibilità di alcuni diritti, alla desoggettivizzazione e mortificazione della dignità delle persone. Tuttavia oggi, la faccia multiculturale e politically correct del neo-liberismo è non solo “smascherata” dall’evidente inclusione/esclusione differenziale dei migranti, ma anche sempre più disarticolata dalla feroce congiuntura anti-umanista e antisolidale, spietatamente ipercapitalista e apertamente razzista/nazionalista che, oltre ad estremizzarne le pratiche governamentali precedenti, contesta al contempo i presidi di civiltà faticosamente costruiti nel tempo dall’Europa, quali il diritto al salvataggio e all’accoglienza, ad un trattamento dignitoso e al diritto di asilo. Ora che lo sguardo violento dell’Occidente verso le migrazioni, il resto del mondo e sé stesso è sempre più privo di remore e di infingimenti, che è sotto gli occhi di tutti l’annullamento del valore della vita dei migranti — esemplificato dalle continue stragi nei deserti, nei mari, nei luoghi di confine e di confinamento e reclusione, «il cui sistematico ripetersi è conseguenziale a politiche eliminazioniste scientificamente formulate dagli stati» (Calamai 2018: 38) e che, secondo alcuni, i giuristi dovrebbero ora trovare il modo di perseguire — non dobbiamo restare troppo “impigliati” nella critica del declinante paradigma della multiculturalità umanitaria. Dobbiamo invece trovare strade diverse per spezzare questo continuum o crescendo di sfacciata inciviltà che da uno porta all’altro, rilanciando e praticando di continuo elementi di rottura: politica, simbolica, sociale, culturale. D’altronde, lo dimostrano tante azioni di attivisti ai confini, sulle rotte dei migranti e nelle stesse città d’Europa, è lo stesso mondo dell’umanitario, dell’antirazzismo e dell’accoglienza che sta mutando in una tale congiuntura, assumendo sempre di più atteggiamenti e significati oppositivi alle politiche correnti, reagendo e ripensando criticamente la “ragione umanitaria” e la sua “svolta governamentale”. Con azioni di vera e propria ribellione, cittadini, intellettuali, equipaggi e militanti stanno sfidando con azioni sempre più sospese sul crinale dell’illegalizzazione le politiche e le disposizioni statali criminali e portatrici di morte fisica e sociale.

Ciò significa, mi sembra, che ci sono nuovi spazi per aggregare diverse forme di contestazione e di scarto, con storie e genesi differenti, e per provare a riposizionare e riorganizzare un fronte di reazione che inglobi e accompagni anche quel che resta della «buona coscienza bianca, liberale, umanistica e occidentale» nel commutare il proprio «antirazzismo morale o pedagogico» (Mellino 2019: 125-126), o “democratico”, in qualcosa che assomigli ad una spinta profondamente trasformativa degli assetti esistenti. Abbiamo cioè bisogno di approcci e pratiche politiche e scientifiche in cui possano confluire i diversi rivoli ed i diversi gradi di opposizione alle politiche dei confini alla mobilità fisica, sociale e culturale, cercando confluenze tra vecchie e nuove forme di opposizione, aiutando quella parte del pensiero “progressista” ancora interessata a preservare valori democratici e solidali ad uscire dallo stato di rattrappimento civile e politico in cui versa e a riappassionarsi a nuove e più decise istanze di cambiamento.

Da un punto di vista più strettamente attinente all’antropologia teorica e applicata, nella lucida risposta di Vietti c’è già indicata una direzione. Pur riconoscendo di operare all’interno di un sistema globale e di istituzioni regionali altamente plasmate dall’ideologia e le pratiche neoliberali – e perciò altamente problematico, contraddittorio e magari anche sbagliato o distorto – egli rivendica non solo il compito analitico e autoriflessivo da parte dell’antropologia di “coltivare l’ambivalenza” del mondo sociale e la necessità dello studio ravvicinato delle contraddizioni, ma anche quello di operare dentro a tali ambivalenze e contraddizioni. E ciò senza che questo voglia dire perdere l’anima e rinunciare all’istinto del dubbio e, nei limiti del possibile, alla pratica della lotta, della trasformazione degli immaginari sociali, della soggettivazione sociale e politica delle persone. Possiamo immaginare questo compito come una tensione teorica e applicata capace di tenere insieme la pars destruens con quella construens, di coniugare la postura analitica dell’antropologia con quella morale (Kierans, Bell 2017), affondando i propri pori ricettori nelle ambivalenze costitutive delle persone e nelle incoerenze del mondo, dunque rilanciando un’attenzione scientificamente, empiricamente, etnograficamente fondata sull’“oggetto”. Senza perdere, però, la necessaria (ora più che mai) istanza di politicizzazione del proprio sguardo. Che in questo caso specifico significa non rinunciare ad una visione etico-antropologica dell’uomo e dell’interumano, all’utopia di una mondialità ugualitaria e solidale per tutti e ad immaginare una «politica del vivente oltre l’umanesimo» (Mbembe 2019: x).

Tuttavia, l’obiettivo di praticare forme di antropologia applicata che uniscano consapevolezza critica e operatività reale deve anche essere capace di realizzarsi diversamente, se necessario, cambiando le proprie strategie. Se le cornici ideologiche e il quadro di azione appaiono o troppo ristrette e oppressive o troppo mistificanti per poter agire controcorrente, bisogna essere capaci anche di saltare il fosso e porsi, con la stessa caparbietà mostrata dai migranti nel voler passare i confini, in direzione “ostinata e contraria” ai processi in corso. Bisogna perciò lavorare tutti insieme a costruire e potenziare un terzo spazio — di voce e di azione sociale, politica ed antropologica — che invece di appiattirsi sui due poli del collaborare e riprodurre acriticamente i meccanismi del dominio e la denuncia, il rigetto e la condanna dall’esterno che non cambia le cose, utilizzi pragmaticamente queste due opzioni (act e exit) per entrare e uscire continuamente dal dispositivo di produzione di necropolitiche e governamentalità sempre più palesemente contrarie al senso dell’umano che governa il presente. Contestando dall’interno e contestando dall’esterno la frontiera che uccide, i diritti che discriminano e svaniscono, l’odio sociale e lo scivolamento verso il male e tutte le manifestazioni della barbarie umana continuamente fecondata dall’attuale ipercapitalismo piratesco e spietato, «totale e indecente, sganciato dalla realtà sociale, estraneo all’etica e senza limiti di sorta» (Chamoiseau 2018: 70).

Oggi sono proprio le migrazioni, insieme alla questione ambientale, il terreno più sensibile su cui questa sfida di riarticolazione di antropologia radicale e applicata, e più in generale della coscienza critica dell’Occidente, andrà portata avanti. L’antropologia, applicata e non, può farlo attraverso una postura analitica che deve saper articolare insieme l’attenzione alle realtà empiriche e ai soggetti in campo con quella per i meccanismi globali e macrosociologici del potere, senza mai perdere quella specifica sensibilità disciplinare per le persone, le loro capacità di aspirare e di immaginare il proprio futuro. A condizione, cioè, di “prendere sul serio” le migrazioni ed i migranti e tutti coloro che le loro presenze si portano dietro, non solo come astratta categoria politica o viceversa “massa” indistinta, ma come «differenze, molteplicità, singolarità, corpi sensibili (Didi-Huberman 2019: 26). A condizione cioè di assumere in pieno il potere dirompente e perturbante di questi movimenti di uomini, donne e bambini, spettri che si aggirano per l’Europa ed i suoi confini esterni e che non possono non essere i nostri più importanti interlocutori di cambiamento. Perché è veramente venuto il momento di rielaborare con gli altri e per gli altri “dai margini e per i margini” come direbbe Chakrabarty, nuove fonti di relazione, giustizia, scambio, ospitalità.

Migrazioni rifondatrici e Migrantour reloaded

In primis, le migrazioni sono un “oggetto” che può agire con forza nel questionare il “Soggetto”. Per un verso esse sono al centro del processo di agnizione e disvelamento che decostruisce l’Occidente come bene universale, fonte di democrazia e benessere per tutti, la dimostrazione finale del suo fallimento, «il limite su cui si infrange il modello di democrazia universale» (Avallone, Torre 2018: 7). Per l’altro, l’irruzione postcoloniale delle periferie al centro spinge per un cambiamento epistemologico, storico-critico e politico del pensiero occidentale, da una parte “liberando le migrazioni” dai paradigmi e gli approcci concettuali Stato-etno-centrici di derivazione coloniale (Avallone 2018), dall’altro sollecitando l’Europa e le sue nazioni a ripensare la propria storia, identità ed il proprio presente e futuro in consustanziale dialettica con il resto del mondo, «riconoscendo i limiti della nostra stessa episteme, interrogando e capovolgendo la singolarità e la superiorità di concetti che abbiamo ereditato, come quello di stato-nazione, cittadinanza, umanità» (Bejeng Ndikung 2019: 11).

In secondo luogo i migranti, quelli in carne ed ossa, se ascoltiamo attentamente le loro voci e ci dedichiamo ad un’etnografia dei loro desideri e delle loro rappresentazioni della mobilità, dell’Altrove e dell’Europa (Degli Uberti, Riccio 2017; Riccio 2019), ci dicono e ci mostrano che, nonostante tutto, sono ancora qui, in centinaia di migliaia, a continuare a rischiare la vita pur di approdare in Occidente, in Europa. Non possiamo esimerci di considerare come rilevante questo dato e di indagarlo etnograficamente. I migranti incontrati nei centri di accoglienza, al di là della speranza in future migliori condizioni di vita, mi parlavano di esistenza della legge e dello stato di diritto, di pace e di mancanza di violenza nelle strade, della possibilità di muoversi per la città senza venire disturbati. Queste persone non sono spinte al movimento solo perché perseguitate da guerre e violenza, ma anche perché oppresse da ingiustizie e da un destino di subalternità (Cutolo 2017) che ritengono di avere qualche chance in più di evitare recandosi in Europa. Pur conoscendo quanto sarà difficile affrontare il viaggio per arrivarci e anche le condizioni per rimanerci ed “integrarsi”, non rinunciano a “passare ad ogni costo” dall’altra parte della frontiera. Forse ha ragione La Cecla affermando che «qui c’è in ballo il diritto a partecipare a ciò che di buono l’Europa e l’Occidente hanno prodotto per sé e per i propri cittadini (…): la conquista dell’individualismo, la separazione tra religione e politica, una certa idea di persona, l’Illuminismo, le idee liberali, le idee della lotta delle classi oppresse e della lotta dell’individuo» (2016: 156). Una prospettiva attenta alle periferie, agli ex-colonizzati e le loro discendenze, lungi dal considerare tali spinte come unicamente una falsa coscienza indotta dal discorso manipolatorio del (neo)colonizzatore, ci dovrebbe portare a considerare con rispetto e profondità ciò che i migranti esprimono con i piedi e con la testa, perché «chi difende oggi i diritti dell’immigrazione deve rendersi conto che deve anche difendere ciò per cui gli immigrati partono» (ibidem: 22).

Ma non è solo grazie alla loro “funzione specchio” (in negativo e in positivo) e alle loro istanze post/decoloniali che i migranti scuotono le (in)certezze occidentali. C’è qualcosa di più profondamente politico alla radice del loro possibile impatto sulle nostre società, che accompagna la loro incredibile energia e ostinazione nel voler varcare i nostri confini. È quello che Ferrajoli ha definito come «l’autentico fatto costituente dell’ordine futuro, destinato, quale istanza e veicolo di uguaglianza, a rivoluzionare i rapporti tra gli uomini e a rifondare, nel tempi lunghi, l’ordinamento internazionale» (2019: 6). Nella sua ottica, solo la richiesta pressante di diritti fondamentali, tra cui quello di emigrare, e l’obbligata assunzione della pressione delle periferie come un “problema proprio” da parte dell’Occidente potrà costringere le nostre società ad affrontare seriamente la questione delle diseguaglianze, le violenze, le miserie ed i disastri ambientali in gran parte provocati dalle proprie politiche. Solo «il coraggio di vedere nel popolo meticcio ed oppresso dei migranti (…) la prefigurazione dell’umanità futura come unico popolo globale» porterà ad una politica incentrata sui diritti fondamentali e l’uguaglianza, «presupposto elementare di un costituzionalismo globale» (ibidem: 6). Assumere fino in fondo la questione migratoria come forza “antagonista” all’esistente e come enorme sfida di polity e non unicamente problema di policy per il vecchio continente, implica includere anche il “Noi” nel problema. Non solo perché la questione delle difficoltà di “integrazione” nel mercato del lavoro e nella società neoliberista accomuna anche gran parte della frustrata popolazione autoctona e perché migranti siamo stati e migranti saremo sempre più anche “noi” (sono quasi 250 mila italiani espatriati nel 2018), ma anche perché la questione del diritto di emigrare e la contestazione del regime dei confini esistenti è una battaglia per l’umano e dell’intera umanità.

Nell’ottica di costruire un’alleanza trasversale e contestataria tra popolazione sedentaria e popolazione migrante, per provare a rifondare lo sguardo sulle migrazioni e con esso lo sguardo sulla nostra condizione politico-societaria ed aprirsi alla mondialità, già esistono e si apriranno sempre di più cantieri di lotta e di sperimentazione pratica ed operativa, oltre che di natura più teorica.

All’interno di un orizzonte critico di contestazione del neoliberismo e in direzione della costituzione di nuovi edifici giuridici, sociali e politici di convivenza e di ospitalità, che cosa le migrazioni ed il progetto Migrantour, insieme ad altri progetti di rifondazione antropologica della convivenza e dell’inter-umano, possono spostare e sottrarre alla società della colonialità, della razzializzazione del valore dell’esistenza, all’odio diffuso? Credo che questa grande domanda teorica ed applicata potrà e dovrà impegnare ulteriormente le persone coinvolte direttamente nel progetto, producendo uno sforzo considerevole di consapevolezza politica a cui le critiche di Mellino e di altri potranno dare una importante cornice di chiarezza teorica e politica spingendo, ad esempio, a tematizzare fortemente la questione dei conflitti urbani, che appare piuttosto assente. O a proporre turismi e riflessioni più ampie e politicizzate sulle “città aperte” ed i quartieri multietnici, portando Migrantour anche in altri contesti fisici e socio-politici: la città del decoro urbano (Tulumello, Bertoni 2019), la città di airbnb, i centri gentrificati e museificati, le occupazioni dei senza casa espulsi dalle dinamiche immobiliari e dalle non-politiche abitative. A quel punto l’immersione nelle increspate fattezze del reale e nelle contraddizioni dei contesti sociali potrà meglio e più continuativamente alimentare soggettività alternative non schiacciate sulla linea della colonialità; e la tensione verso la produzione di cambiamenti potrà veramente portare alla produzione di rappresentazioni e pratiche non addomesticabili alle logiche neoliberali. Allora sì che le affermazioni su “comunità patrimoniale”, narrativa alternativa dell’incontro interculturale, turismo educativo potranno essere intese come proposte “post” e non “pre” disincanto del mondo, dunque molto più come semi di future pratiche di “ri-evoluzione” che come ingenue “inattualità”.

In conclusione, ben venga un Migrantour reloaded, un processo di più attento posizionamento di Migrantour nelle dinamiche urbane, globali e locali. Ma, forse, con la consapevolezza che il vero migrantour su cui c’è urgenza di concentrare la nostra attenzione di antropologi e di cittadini è altrove, è quello che giornalmente vede un’umanità migrante intraprendere rotte e percorsi in direzione, alle porte, dentro ed intorno all’Europa (autour de l’Europe, suonerebbe in francese). Che li vede sbattere contro confini chiusi, muoversi attraverso e oltre le frontiere, attraversare e produrre spazi (anche urbani e a noi prossimi) di richiesta di diritti e di umanità. Incontrando contemporaneamente il peggio (le brutalità delle guardie di frontiera, i campi, la morte e le torture) ed il meglio (gli attivisti, i cittadini solidali, gli interstizi di ospitalità) dell’Europa. Producendo sia sofferenze e morti che passaggi e speranze.

Forse sono questi altri tours, questi altri passaggi a nord-ovest che necessitano ora dell’impegno dell’antropologia (delle migrazioni, ma non solo), che «deve fare di questo territorio di voci e di corpi dimenticati un capitolo centrale del proprio lavoro» (Beneduce 2018: 28), se necessario mobilitando alla causa anche i turisti sensibili e gli amanti delle “passeggiate urbane”.

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[1] «Fondazione ISMU è un ente scientifico indipendente, che promuove e realizza studi, ricerche, corsi di formazione, progetti e attività di divulgazione sulla società multietnica e multiculturale, con particolare riguardo al fenomeno delle migrazioni internazionali», si veda http://www.ismu.org (Consultato in data 16 settembre 2019).

[2] Negli ultimi due anni a Milano sono state formate una trentina di persone. Di queste sette hanno concluso il loro percorso formativo (44 ore di formazione frontale più diverse ore di tutoraggio) e attualmente sono contrattualizzate dalla Cooperativa Viaggi Solidali in qualità di accompagnatori interculturali.

[3] https://www.internazionale.it/reportage/giorgio-ghiglione/2018/07/02/ambulatorio-medico-popolare-milano (Consultato in data 16 settembre 2019).

[4] https://www.internazionale.it/reportage/luigi-mastrodonato/2018/12/17/milano-via-sarpi (Consultato in data 16 settembre 2019).

[5] Come già sottolineato da Vietti (2018).

[6] Oltre alle pubblicazioni dell’autore, si veda il sito http://www.decoknow.net, che riunisce una rete di ricercatori e militanti impegnati nella decolonizzazione dei saperi e la “sprovincializzazione” dell’Italia in direzione di un “sapere collettivo e molteplice” e “l’individuazione di patiche di riappropriazione e soggettivazione”.