Conversazione con Angela Biscaldi

Bruno Riccio

Università degli Studi di Bologna

Federica Tarabusi

Università degli Studi di Bologna

Angela Biscaldi insegna Antropologia culturale presso l’Università Statale di Milano e, a partire da diverse ricerche condotte in Italia che hanno coinvolto operatori sanitari o famiglie ed educatori, ha proposto diverse riflessioni sia sul ruolo pubblico dell’antropologia sia, e proprio in questa rivista di cui è stata caporedattrice nei primi anni, sui dilemmi etici dell’antropologia applicata[1].

Bruno Riccio e Federica Tarabusi: A fronte delle resistenze che sono a volte emerse nelle tue esperienze etnografiche e applicate, hai ribadito la necessità di rivendicare la legittimità e l’utilità sociale del ruolo dell’antropologo. Su questo fronte, quali suggerimenti e cambiamenti auspichi per guadagnare autorevolezza e facilitare la collaborazione con scuole, istituzioni private e pubbliche?

Angela Biscaldi: Sicuramente c’è una diffusa difficoltà oggi in Italia a comprendere quella che io ritengo essere la specificità della ricerca etnografica: l’approccio critico. Adottare un approccio critico significa essere disponibili a rileggersi (se stessi e le proprie pratiche) a partire da altri punti di vista; a sospendere per un poco le proprie categorie cognitive e valoriali per provare a “pensare altrimenti”. L’antropologia culturale fa sostanzialmente questo: cerca di ampliare visioni parziali (nel mio caso di relazione educativa così come di salute), mettendone in evidenza i limiti o prospettando altre possibilità o cercando di avviare una riflessione pubblica, il più possibile inclusiva, capace di generare processi di trasformazione sociale. Far comprendere l’importanza di questo approccio oggi è molto difficile, quasi impossibile.

Capita invece che l’intervento dell’antropologo sia apprezzato e richiesto nelle scuole e negli ospedali in quanto sapere tecnico, che dovrebbe fornire conoscenze specifiche su “culture altre”, conoscenze immediatamente spendibili dagli operatori e risolutive (“cosa fare con la donna rumena”, “come farsi rispettare dal bambino marocchino”, etc..). L’antropologia è perlopiù pensata dagli operatori e dagli insegnanti come una conoscenza aggiuntiva che dovrebbe aumentare le conoscenze sugli “altri” — altri diversi da noi — per farli diventare il più possibile simili e a noi; non come un sapere che potrebbe mostrarci se, forse, per caso, le nostre organizzazioni hanno qualcosa da migliorare, o qualcosa ci sfugge, o avremmo qualcosa da imparare da questi “altri”, o non siamo tra noi così simili come pensavamo di essere. Il rischio che l’antropologo applicato si presti a questo gioco e diventi oggi suo malgrado, più di altri, strumento del cosiddetto culturalismo e complice dei processi di reificazione in atto è, per chi di noi opera nei servizi e nelle scuole, molto alto.

Rivendicare l’utilità dell’antropologia in quanto sapere critico — e non tecnico — è difficile, eppure noi antropologi applicati continuiamo a credere che questa rivendicazione sia utile. Perché dovrebbe essere utile?

Non si tratta di retorica buonista, il solito elogio della bellezza della differenza. È utile la capacità dell’antropologia di mostrare che le differenze sono dentro ai contesti, prima ancora che tra i contesti; che i rapporti di potere si esprimono in modi sottili spesso invisibili per attori sociali ingenui; che la violenza simbolica — nelle scuole e nelle ospedali — resta molto alta e ha dei costi; produce conseguenze sociali concrete in termini di esclusione e sofferenza sociale. Che tutti noi rischiamo, come Pierre Bourdieu ci insegna, di diventare inconsapevolmente complici di questi processi di riproduzione delle disuguaglianze.

Detto questo, per rispondere in concreto alla domanda, io credo che uno dei nostri primi compiti sia proprio quello di spiegare ai nostri diversi interlocutori nei contesti in cui iniziamo a fare ricerca o formazione che cosa sia la prospettiva antropologica, intesa come prospettiva critica. Questo non significa — e non va confuso con — chiedere il permesso di dire o fare, né di pubblicare qualcosa (“scusami, mi daresti il permesso di criticarti?”), ma significa condividere preliminarmente un’intenzionalità, un orizzonte di significato, una progettualità. Senza questa condivisione iniziale, il nostro approccio spesso è inefficace o ci può mettere nei guai.

Se penso alle mie esperienze di ricerca, spesso i conflitti più forti nel momento della restituzione sono nati proprio perché le aspettative sul mio lavoro erano state fraintese; ci si aspettava una lettura compiacente o descrittiva o addirittura che io producessi dati oggettivi o statistiche e non un’interrogazione critica. Ora, mettere in luce i malfunzionamenti e le criticità genera spesso negli individui, così come nelle organizzazioni, resistenze e conflitti, di natura e intensità diversa. C’è quindi tutto un lavoro preliminare da fare. Quando saremo in grado di mostrare che la dialettica dei punti di vista è parte della vita di una comunità, che non va temuta ma incoraggiata; quando saremo in grado di insegnare ai nostri interlocutori che al punto di vista del ricercatore (talvolta sgradevole e magari, perché no, irritante), si può rispondere argomentando (senza offendersi o insultare), quando saremo in grado di stimolare e sostenere i processi di presa di parola dentro alle organizzazioni (dal basso come dall’alto), allora avremo fatto un passo importante in direzione della costruzione di un’autorevolezza del sapere antropologico.

Dobbiamo imparare a mostrare come si fa critica culturale, a cosa serve farlo e, soprattutto, a non averne paura. In questo senso l’antropologia applicata oggi ha anche l’utilità sociale di portare l’attenzione sull’importanza del dissenso e di avviare una riflessione pubblica sulle modalità di espressione del dissenso nei diversi contesti (social inclusi).

BR e FT: Uno degli ambiti su cui ti sei maggiormente interrogata riguarda le forme di mediazione e comunicazione del sapere antropologico nello spazio pubblico e mediatico. Nel ribadire il bisogno di alimentare un senso di responsabilità e reciprocità con le comunità studiate, hai enfatizzato l’urgenza di dialogare con un pubblico non specialistico attraverso un linguaggio intellegibile, non gergale. Ma cosa significa per te semplificare e “divulgare” un sapere critico senza banalizzarlo?

AB: Il tema della scelta dei linguaggi è un tema centrale per l’antropologia applicata. Ad esso è stato dedicato un convegno della SIAA, di cui sono stata principale curatrice scientifica (“Cambiare il Mondo con le parole. Antropologia applicata e comunicazione”. Cremona, 13-15 dicembre 2018), che ha posto molte questioni, che restano ancora aperte e chiedono un approfondimento. Credo che il convegno di Cremona abbia mostrato che cosa significhi divulgare senza banalizzare. Innanzitutto, uscire dall’accademia: entrare negli spazi pubblici e mettersi prima in ascolto, e poi in dialogo con operatori, insegnanti, giornalisti, amministratori, dirigenti, politici, specialisti di altri discipline. Mettersi in dialogo significa portare avanti un discorso epistemologicamente fondato ed eticamente orientato di trasformazione sociale, in modo inclusivo. Significa cercare di far capire il tipo di approccio che noi antropologi applicati adottiamo e la sua utilità sociale e sforzarsi di trovare punti in comune e di sinergia con altri punti di vista e modus operandi. Non vuol dire presentarsi come chi possiede la verità e vuole diventare liberatore del genere umano, né postare sui social messaggi provocatori. Significa più umilmente comprendere il linguaggio dell’altro, rispettarlo, per proporre, dialogicamente, le nostre argomentazioni.

Qualche settimana prima del convegno di Cremona abbiamo realizzato un video per la città: abbiamo chiesto a diversi interlocutori della realtà cremonese (dal sindaco al rettore del seminario vescovile) che cosa si aspettassero dagli antropologi e dal loro sapere. Ognuno dei nostri interlocutori rispondendoci ha mostrato i pre-giudizi e le aspettative con cui si avvicinavano agli eventi in programma. Ecco, divulgare senza banalizzare vuol dire anche questo: imparare ad ascoltare le diverse domande che ci vengono poste, prenderle sul serio, e coinvolgere i nostri interlocutori in un percorso antropologico di risposta. Senza essere compiacenti, ma al tempo stesso senza essere elefanti in cristalleria.

In secondo luogo, il convegno di Cremona ha proposto un’idea di spazio pubblico come un luogo a cui siamo chiamati a dare conoscenze, competenze, energie, motivazione. Credo che in questo momento storico, particolarmente in Italia, fare antropologia applicata significhi mettersi al servizio di una progettualità, di un’idea di umanità. Durante il convegno abbiamo dato gratuitamente formazione a insegnanti, giornalisti, assistenti sociali, dirigenti sanitari; abbiamo cercato di metterci in dialogo con gli amministratori della città; abbiamo regalato 100 libri alla biblioteca della città; abbiamo lasciato una mostra itinerante sui migranti (“Dopo l’approdo. Una mostra per immagini e Parole” di Luca Ciabarri e Barbara Pinelli) che, a distanza di un anno, è ancora ospitata nelle diverse scuole, facendo riflettere centinaia di studenti e docenti. Molto lavoro resta da fare per la SIAA in questa direzione. Ma io sono convinta che non si possa fare antropologia applicata se non partendo dall’idea di uno spazio pubblico come luogo pubblico a cui dobbiamo dare. È in fondo, un mestiere che richiede una passione e una vocazione profonda.

Infine, vorrei sottolineare che è importante non confondere l’antropologia applicata con una certa militanza. Noi antropologi applicati siamo scienziati sociali, ricercatori, abbiamo competenze teorico-metodologiche serie, esperienze decennali di campo. Queste devono essere portate nello spazio pubblico e queste devono parlare. La certezza ideologica di essere nel giusto, la presa di posizione arrogante, il sarcasmo per chi è su posizioni politiche diverse, i toni aggressivi o polemici, non sono da confondere con l’antropologia applicata. La consapevolezza del nostro posizionamento — teorico-metodologico così come etico — è importante e deve essere una risorsa, ma dobbiamo sempre essere consapevoli che ogni posizionamento è anche un limite; se ci irrigidiamo, blocchiamo la comprensione e il dialogo, perdiamo di vista la specificità del nostro approccio e del nostro obiettivo principale: l’inclusione.

BR e FT: Un’altra questione a te cara e su cui vorremmo interpellarti riguarda l’etica della ricerca applicata, che “si esprime attraverso scelte di posizionamento che vanno dalla faticosa e continua ricerca di dialogo, all’accettazione, quando possibile, di compromessi, alla denuncia, nonché alla rinuncia al lavoro sul campo se le condizioni sono giudicate inaccettabili”. In che senso interpreti la sensibilità etica nel lavoro applicato come un esercizio di responsabilità dell’antropologia?

AB: La sensibilità etica nel lavoro applicato per me consiste nella consapevolezza prima, e nell’esplicitazione trasparente poi, del nostro posizionamento sul campo di ricerca. Si tratta di un posizionamento teorico-metodologico che ci porta a formulare alcune domande, che indirizzano il nostro sguardo, i nostri pensieri, le nostre relazioni sul campo.

Durante la ricerca non scopriamo nessuna verità nascosta; approfondiamo le ragioni di alcune situazioni critiche, condividiamo un’intenzionalità con i nostri interlocutori, prospettiamo soluzioni a partire dalla condivisione con i nostri interlocutori di strumenti e obiettivi, restituiamo le nostre riflessioni nello spazio pubblico. La nostra forza e la nostra specificità non stanno nella presentazione di dati oggettivi, statistiche, verità rivelate. Abbiamo una metodologia qualitativa che fa leva sulla profondità della comprensione e la forza argomentativa del pensiero critico.

Restituiamo una lettura dei contesti in profondità e incoraggiamo la riflessività. Proponiamo, sulla base di queste premesse, dei cambiamenti nel modo di pensare e di agire dei nostri interlocutori. È un processo complesso che ci coinvolge sul piano professionale e personale. Ne rispondiamo sempre: l’intera impresa conoscitiva dell’antropologo è un esercizio di responsabilità. Un’impresa che richiede, come sottolineavo prima, una particolare vocazione.

BR FT: Di recente, nel dibattito sull’applicazione sono emerse riflessioni importanti, ma anche posizioni diverse, fra gli antropologi sul possibile contributo operativo dell’antropologia. Non sempre, per esempio, siamo concordi nello stabilire a cosa possiamo "rinunciare" delle nostre categorie quando forniamo indicazioni a operatori, amministratori, politici e su come ripensarne i presupposti epistemologici, teorici, metodologici quando indirizziamo cambiamenti sociali nei contesti di intervento. Cosa ne pensi tu?

AB: Penso che ci sia il rischio che si apra una frattura tra gli antropologi applicati accademici e gli antropologi applicati professionisti, cioè tra coloro che pensano e fanno antropologia applicata dentro l’accademia, cioè come strutturati accademici, e coloro che la pensano e la fanno come liberi professionisti. A questo proposito dovremmo porci insieme una comune domanda: quali sono gli aspetti irrinunciabili di una ricerca di antropologia applicata? Quando, facendo applicazione, corriamo il rischio di smettere di essere antropologi e diventiamo altro?

A questa domanda in parte, nella SIAA, abbiamo cercato di rispondere lavorando al codice etico (http://www.antropologiaapplicata.com/wp-content/uploads/2018/07/codice-etico-della-siaa-1.pdf), che pone alcune basi; sicuramente è migliorabile, ma mi sembra, grazie allo straordinario lavoro di sintesi di Antonino Colajanni, un ottimo punto di partenza.

Io credo che la domanda che dovremmo porci è di nuovo una domanda relativa alla possibilità di utilizzare un approccio critico quando l’antropologo fa ricerca su committenza: in questi casi, non è lui che decide su cosa, non è lui che decide gli obiettivi, non è lui che decide i tempi della ricerca. È indubbiamente più difficile, ma a questo proposito occorre una riflessione seria. Se svolgere una ricerca applicata su commissione significa abdicare del tutto, e per principio, alla vocazione critica dell’antropologia e rendere l’antropologo un professionista come qualsiasi altro, allora si apre un problema serio. Se invece significa negoziare obiettivi e finalità, è un altro conto; e la questione diventa forse quella di stabilire se c’è qualcosa di non negoziabile e cosa fare quando ci si imbatte nel non negoziabile. Su questo non possiamo essere superficiali. È indubbia la posizione privilegiata degli antropologi applicati che lavorano in accademia in termini di libertà di ricerca — sebbene negli anni siano in progressivo aumento persino i vincoli dei ricercatori accademici. Nondimeno questo, il grosso della partita nello spazio pubblico, è oggi giocato dai professionisti non accademici e dalla loro serietà scientifica.

Ricordo che anni fa parlando con Ugo Fabietti, molti anni prima che in Italia nascesse la SIAA e si parlasse di antropologia applicata e pubblica, mi disse che se un sapere diventa organico al potere, quando ottiene un riconoscimento pubblico, quel sapere è morto, nel senso che ha perso la sua carica critica. Ripenso spesso a quelle parole e mi chiedo se c’è un modo, e quale sia, per mantenere “viva” l’antropologia e quale sia la strategia per mantenere intatta la sua carica critica e al tempo stesso permetterle di entrare negli spazi pubblici e permettere agli antropologi di professionalizzarsi.

Credo che questa sia una questione cruciale: il futuro dell’antropologia applicata dipende proprio dalla capacità dell’antropologia di mantenere la sua carica critica (che ripeto, per me è la sua specificità), entrando nello spazio pubblico. L’obiezione “bisogna pur mangiare” che a volte mi avanzano alcuni colleghi, per me non è accettabile. Essere antropologi applicati comporta la disponibilità, talvolta, a rinunciare a mangiare, se per mangiare dobbiamo rinunciare al sapere critico per diventare “intellettuali del piffero”. Rispondo quindi alla domanda: credo che tutti, come antropologi, non possiamo rinunciare all’esercizio della critica culturale.

BR FT: L’ultima domanda riguarda invece la tua posizione di antropologa che lavora all’Università. Pensando alla formazione accademica dei futuri antropologi, quali sono secondo te gli aspetti che andrebbero rafforzati nei loro curricula di studi in vista di percorsi professionali e applicati?

AB: I curricula, si sa, sono di per sé parziali e non possono avere la pretesa di dare forma allo studente perfetto. Necessariamente si costruiscono con le risorse, anche umane, interne ai corsi di laurea. Io credo, però, che ci sia una carenza nel sistema universitario, come sottolineavo in un precedente numero della rivista di Antropologia Pubblica da me curato[2], nella formazione dei giovani rispetto ai temi dell’etica della ricerca; auspico l’apertura di un insegnamento di etica della ricerca in tutti i corsi di laurea in scienze umane e sociali. In un insegnamento specifico di Etica della Ricerca molti degli aspetti di cui ho parlato in questa intervista potrebbero essere affrontati con le nuove generazioni di studenti: dall’importanza della consapevolezza del proprio posizionamento, alla centralità della qualità della comunicazione ai rischi insiti nei processi di professionalizzazione del sapere. Quando affronto questi argomenti a lezione con i miei studenti trovo sempre interesse e un grande bisogno di spazi di confronto e dibattito sull’etica della professione. E anche un crescente bisogno di mettere in dialogo la propria traiettoria biografica con il percorso di studi intrapreso e le aspirazioni lavorative.

Penso poi che sarebbe importante nei curricula di studi antropologici inserire momenti che consentano di potenziare la riflessività critica, una certa idea di responsabilità e bene comune, una motivazione all’agire disinteressato nello spazio pubblico. Per insegnare queste cose, conta molto anche quanto investiamo personalmente come docenti nella didattica, il modo in cui riusciamo a portare in aula, con serietà e passione, la nostra esperienza di professionisti, di uomini e di donne. Il momento storico che stiamo vivendo, del resto, ci chiede, nella didattica come nella ricerca, di essere testimoni, prima che esegeti, di quell’atteggiamento dialogico e critico che vogliamo promuovere.



[1] Si veda a proposito Biscaldi, A. 2012. Un figlio è sempre un figlio. L’immaginario degli adolescenti lombardi sulla generazione e sull’aborto. Cremona. Padus; Biscaldi, A. 2013. Etnografia della responsabilità educativa. Bologna. Archetipo libri; Biscaldi, A. 2015. "Vietato mormorare": sulla necessità della ricerca antropologica in Italia. Archivio Antropologico Mediterraneo. 18: 13-18. Biscaldi A. 2016. (a cura di) Etiche della ricerca in antropologia applicata, Antropologia pubblica, 2 (2).

[2] Biscaldi A. 2016. (a cura di) Etiche della ricerca in antropologia applicata, Antropologia pubblica, 2 (2).