Recensione

Lorenzo D’Angelo, Diamanti. Pratiche e stereotipi dell’estrazione mineraria in Sierra Leone, Meltemi, Roma, 2019, pp. 180

Linda Armano

Università Ca’ Foscari di Venezia – University of British Columbia

Parlare di miniera e di diamanti da un punto di vista antropologico non è semplice per ragioni sia teoriche che pratiche. Se la complessità interpretativa risiede nello svisceramento del groviglio di relazioni tra forme di potere politico-economiche e comunità locali, i problemi pratici sono relativi alla difficoltà di avvicinarsi agli interlocutori a causa dell’ostruzionismo delle multinazionali che impediscono i contatti tra l’antropologo, percepito come scomoda figura indagatrice, e i lavoratori.

Per tali ragioni, la cosiddetta “anthropology of mining” è un filone di ricerca poco esplorato, sebbene l’industria mineraria sia una delle attività più impattanti sull’ambiente e globalmente diffusa.

La maggior parte degli attuali contributi antropologici pubblicati in questo ambito di studio si orientano soprattutto verso un’analisi degli effetti socioculturali ed economici causati dallo sfruttamento delle risorse estrattive da parte delle multinazionali minerarie sulle comunità locali. Tali studi si focalizzano in primo luogo sullo “scontro” tra un sistema di sfruttamento delle risorse venuto da fuori e sistemi nativi di significato locali (Babbington 2011). Nonostante questo approccio produca importanti ricerche, esso rischia di scivolare in analisi semplicistiche in cui il sistema capitalistico viene interpretato come una forma economica fondata su processi di omologazione che si scontrano, dicotomicamente, con realtà locali eterogenee. Il perpetuare di tale approccio nella letteratura antropologica mineraria può determinare quindi lacune interpretative che non consentono di mettere in luce la complessa interrelazione tra sistema capitalistico e comunità indigene che dovrebbero invece essere intesi come realtà culturali reciprocamente porose e non come contesti distinti.

Nelle ricerche di “anthropology of mining” ci sono temi ancora poco esplorati come: la struttura economico-finanziaria, la gestione del lavoro e le condizioni contrattuali dei lavoratori gestite dalle multinazionali, la cui strategia capitalistica è ben sintetizzata dal concetto di “modularity” espresso da Hannah Appel (2012). Pur riferendosi all’industria petrolifera, tale concetto può essere utile anche per comprendere la logica espansionistica delle società minerarie che, come afferma Appel, riescono a funzionare in maniera identica in ogni parte del mondo.

Un altro argomento poco esplorato riguarda inoltre i saperi professionali dei lavoratori, le relazioni instaurate tra minatori nell’ambiente di lavoro e l’interpretazione simbolica che essi attribuiscono alla miniera.

Nonostante la necessità di maggiori approfondimenti e di nuove proposte di indagine esistono, nella “anthropology of mining”, importanti lavori considerati vere e proprie pietre miliari. Tra i maggiori contributi pubblicati, l’articolo di Ricardo Godoy (1985) viene considerato il principale lavoro di sistematizzazione concettuale in quest’ambito di studio. Partendo da un approccio marxista, l’autore tenta di delineare i tratti ricorrenti dell’organizzazione gestionale dell’industria mineraria in contesto globale. In questo suo articolo Godoy afferma inoltre che l’attenzione scientifica sull’attività estrattiva è aumentata, sia all’interno delle cosiddette “scienze dure” sia dal punto di vista antropologico, dopo una sensibilizzazione sociale sul problema delle risorse rinnovabili grazie ai dibattiti scientifici maturati dagli anni Sessanta.

Un altro importante contributo all’interno di questo filone di ricerca è l’articolo di Ballard and Banks (2003) che si focalizza sull’estrazione mineraria nell'Asia del Pacifico e sul ruolo degli antropologi come consulenti minerari o difensori delle comunità native che, scontrandosi con le multinazionali, aprono questioni relative alla negoziazione della gestione del territorio e delle attività tradizionali.

Altre importanti ricerche focalizzano l’attenzione sulle miniere africane e sul rapporto tra industria estrattiva e povertà. Fondamentale in questo ambito è il contributo etnografico di Eleanor Fischer (2007). In particolare, l’autrice analizza il problema della marginalizzazione socioeconomica e dello sfruttamento lavorativo dei minatori nelle miniere artigianali dell’Africa subsahariana. Indagando le miniere d’oro e di diamanti della Tanzania ed applicando il concetto di “esclusione sociale”, la studiosa tenta di comprendere le dinamiche di marginalizzazione causate dal mancato accesso alle risorse estrattive.

Fondamentali ricerche in America del Sud sono invece quelle di June Nash (1979) e Michael Taussig (1980). La prima autrice si concentra sul contesto lavorativo dei minatori boliviani nelle miniere di stagno. Basando la sua analisi sul lavoro etnografico ad Oruro tra il 1969 e il 1970, Nash indaga la coscienza di classe dei lavoratori delineando i contorni di una vera e propria identità professionale. Taussig, creando un fil rouge con l’indagine di Nash, analizza il significato culturale della figura del diavolo nel folklore dei lavoratori nelle piantagioni di Cauca Valley in Colombia e dei minatori delle miniere di stagno in Bolivia. Secondo Taussig la figura del diavolo è, per questi ultimi, un sincretismo simbolico che spiega lo stato di alienazione derivante dall’avvio di nuove pratiche economiche esterne, come quella mineraria, nella cultura delle comunità native.

Se gli autori citati rappresentano alcuni importanti punti di riferimento nella “anthropology of mining”, oggi questo settore di ricerca è stato incrementato dalla produzione di altri fondamentali contributi che hanno consentito una maggiore comprensione dell’impatto globale da parte dell’industria mineraria su diverse realtà socioculturali. Tra le figure di maggior spicco, emerge anche Lorenzo D’Angelo, le cui riflessioni consentono di fare chiarezza sia sul crescente processo di industrializzazione estrattiva che sull’attività di piccola scala, sia infine su quella artigianale, oltre che sull’estrazione subacquea dei diamanti in Sierra Leone.

L’originalità del suo ultimo libro “Diamanti. Pratiche e stereotipi dell’estrazione mineraria in Sierra Leone” (2019), basato su un’intensa ricerca etnografica in Sierra Leone durata quasi dieci anni, sta nell’analisi degli stereotipi sui minatori sierraleonesi impiegati nell’attività mineraria artigianale e su piccola scala. Come afferma D’Angelo, questo tema consente di esplorare le rappresentazioni, etero ed auto prodotte, sui lavoratori mettendo in luce come tali stereotipi producono sia immagini “miserabilistiche”, a volte addirittura immorali se viste attraverso il giudizio coloniale dell’Altro, sia "eroiche" se considerate come figure prototipiche del proletariato alla stregua degli scritti di Marx ed Engels (D’Angelo 2019: 20-21).

Grazie alla sua ricerca D’Angelo stimola riflessioni antropologiche più ampie relative alle tensioni tra etero ed auto–rappresentazioni di cui l’antropologo deve costantemente prendere coscienza durante la ricerca sul campo. Accanto alle etero-rappresentazioni sui minatori sierraleonesi, prodotte dagli accademici e dagli esperti dello sviluppo, D’Angelo affianca, attraverso una procedura dialogica, le pratiche di lavoro dei minatori mettendo in questo modo in luce, con grande forza espressiva e concettuale, le loro auto-rappresentazioni culturali relative all’attività estrattiva (Armano 2018). D’Angelo quindi, dando voce nel suo lavoro a queste soggettività, consente loro di sfidare il monopolio ormai obsoleto della sola scrittura accademica connessa ad un’unica figura legittimata che è quella dello studioso.

Grazie al dettagliato lavoro di osservazione sul campo nei distretti minerari diamantiferi di Kono e di Bo nella regione sud-orientale della Sierra Leone, D’Angelo raccoglie nel suo libro un ingente materiale relativo all’organizzazione del lavoro, al sistema di distribuzione, tra lavoratori, dei guadagni eventualmente ricavati dall’attività estrattiva, oltre che un’analisi delle pratiche simbolico-religiose a cui i minatori si affidano per cercare i diamanti.

D’Angelo spiega come nell’attività di estrazione su piccola scala si possano distinguere tre principali fasi di lavoro: l’esposizione del terreno, che prevede il taglio di alberi per ripulire lo spazio in cui sono previste le operazioni di scavo (D’Angelo 2019: 90); l’estrazione, che consiste nello scavo di buche di varie dimensioni misurate in “fada” che, rappresentando la misura standard corrispondente all’altezza di un uomo con le braccia protese verso l’alto, consente di calcolare l’ipotetica profondità del giacimento (D’Angelo 2019: 91); ed il lavaggio della ghiaia recuperata dai letti dei fiumi, nelle aree paludose o attraverso le operazioni di scavo in un’area diamantifera (D’Angelo 2019: 87).

D’Angelo inoltre struttura l’analisi della figura del minatore sierraleonese in cinque “costellazioni di rappresentazioni stereotipate” (D’Angelo 2019: 35). Partendo dal “minatore come lavoratore disorganizzato e caotico” (D’Angelo 2019:53), l’autore esamina i paradossi che emergono dalla comparazione di vari scritti giornalistici relativi al lavoro minerario sierraleonese. Se da un lato tali descrizioni raffigurano un ambiente minerario caotico, in cui l’anarchia e l’estemporaneità nella conduzione dell’attività estrattiva prevalgono sull’ordine e sull’organizzazione ponderata, dall’altro esse rappresentano i contesti minerari sierraleonesi come paesaggi immutati negli anni. Per contro, l’analisi dello stereotipo del “minatore come lavoratore disorganizzato e caotico” effettuata da D’Angelo smentisce il quadro che ritrae le miniere diamantifere sierraleonesi come realtà confuse, mostrandole sotto la nuova luce di contesti lavorativi strutturati secondo forme gerarchiche e regolate da precisi accordi economici presi dai minatori impiegati sia nelle miniere artigianali che di piccola scala.

D’Angelo, cogliendo l’occasione per analizzare lo stereotipo del “minatore inesperto” (D’Angelo 2019:79), prosegue descrivendo l’elaborato corpus di saperi ecologici dei lavoratori. Come egli afferma, si tratta di conoscenze pratiche che relazionano l’uomo direttamente con il suo ambiente di lavoro, ma da cui si sviluppano anche atteggiamenti morali e pratiche simbolico-religiose messe in atto dai minatori per trovare i diamanti.

L’autore prosegue con l’analisi del “minatore tecnologicamente rudimentale ed inefficiente” (D’Angelo 2019: 103). Come egli osserva, nella letteratura sull’estrazione artigianale dei paesi economicamente poveri, sono spesso presenti riferimenti sull’uso di equipaggiamenti rudimentali che, implicitamente, si contrappongono alle sofisticate tecnologie utilizzate dalle multinazionali minerarie. Descrivendo l’utilizzo del setaccio come strumento indispensabile nella ricerca di frammenti di diamanti nei fiumi, l’autore mette in luce come particolari situazioni sociali, politiche ed economiche possano influenzare le scelte e gli accorgimenti tecnici dei minatori.

L’analisi dello stereotipo del “minatore povero o schiavo” (D’Angelo 2019: 121) consente a D’Angelo di ripercorrere le idee, presenti in molti report prodotti da analisti dello sviluppo, che collocano nell’estrazione mineraria artigianale il ritratto di un minatore povero e sottomesso verso cui emergono le logiche compassionevoli dell’umanitario. Tale analisi consente all’autore anche di riflettere sugli eventuali problemi che l’antropologia dello sviluppo dovrebbe maggiormente considerare, come lo studio delle interazioni tra diversi, e spesso contrapposti, attori sociali al fine di inventariare i vincoli a cui essi sono assoggettati.

Infine, la rappresentazione del “minatore come giocatore d’azzardo” (D’Angelo 2019: 135) mette in risalto l’aspetto legato all’incertezza dei guadagni e al rischio di affidarsi alla fortuna piuttosto che ad una ponderata organizzazione del lavoro. D’Angelo sostiene che, considerando l’attività estrattiva come una forma di gioco d’azzardo, si rischia di costruire l’immagine di un minatore incentrata sull’idea di fare “soldi facili” e velocemente, eliminando quindi dall’analisi il punto di vista dei minatori e i loro saperi tecnico-estrattivi, oltre che lo scenario socioculturale ed economico-politico con cui i minatori sierraleonesi articolano la loro rappresentazione emica del lavoro in miniera.

Il libro di Lorenzo D’Angelo fornisce quindi importanti riflessioni per future ricerche nell’ambito della “anthropology of mining”, sia in contesto africano, sia in altri contesti etnografici. Le miniere della Sierra Leone sono state per esempio il fulcro dell’eclatante scalpore suscitato, negli anni Novanta, sui “blood diamonds”. Come sottolinea D’Angelo, le notizie sui “conflict diamonds” non hanno fatto altro che incrementare la connessione tra spazi della produzione dei diamanti, caratterizzati da forme di sfruttamento lavorativo ed ambientale, con gli spazi di consumo dei paesi più ricchi (D’Angelo 2019: 160). Tale riflessione può quindi essere un ottimo spunto per analizzare l’altra faccia della medaglia relativa cioè alla “rappresentazione pulita e sostenibile”, promossa dalle multinazionali, sugli “ethical diamonds” canadesi che pubblicizzano l’immagine di minatori felici di scendere nelle viscere della terra.

Bibliografia

Appel H. 2012. Offshore work: Oil, modularity, and the how of capitalism in Equatorial Guinea. Journal of the American Ethnological Society, 39, (4): 692-709.

Armano L. 2018. La cultura di miniera nelle Alpi. Autorappresentazione della categoria professionale dei minatori. Roma. Aracne.

Ballard C., Banks G. 2003. Resource Wars: The Anthropology of Mining. Annual Review of Anthropology, 32: 287-313.

Babbington A., 2011, Minerìa, movimentos sociales y respuestas campesinas. Lima. Istituto de Estudios Peruanos.

D’Angelo L. 2019. Diamanti. Pratiche e stereotipi dell’estrazione mineraria in Sierra Leone. Milano. Meltemi.

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Fischer E. 2007. Occupying the Margins: Labour Integration and Social Exclusion in Artisanal Mining in Tanzania. Development and Change, 38 (4): 735-760.

Nash J. 1979. We eat the mine and the mine eats us. Dependency and exploitation in Bolivian tin mines. New York. Columbia University Press.

Taussig M. T. 1980. The Devil and Commodity Fetishim in South America. Chapel Hill. University of North Carolina Press.