Osservazioni sulla comunicazione del sapere dell’antropologia al di fuori dell’accademia

Antonino Colajanni

Università di Roma “La Sapienza”

Nella lunga storia dell’antropologia[1] è emerso spesso il tema della comunicazione dei risultati delle ricerche e delle elaborazioni teoriche della disciplina al di fuori della cerchia ristretta degli specialisti e dei colleghi delle Università, dei Musei e dei Centri di Studio. Poche volte autorevoli studiosi del nostro campo si sono posti il problema dell’influenza possibile della disciplina sulle altre scienze sociali e sulla società politica e culturale più in generale, in coincidenza con l’emergere, nel dibattito pubblico, di importanti problemi della contemporaneità. Prima di affrontare direttamente l’argomento sarà opportuno dedicare attenzione al tema della comunicazione in sé; il che sembra indispensabile per collocare nel contesto adeguato la circolazione del sapere antropologico al di fuori delle sue fonti di produzione.

Quello della comunicazione è infatti un argomento che ha interessato in sé, da molti decenni, gli antropologi come aspetto fondamentale della socialità umana; infatti, le azioni, le idee, i sentimenti, gli interessi, le credenze e i rituali di qualunque gruppo sociale non sarebbero comprensibili senza un’attenzione specifica alle forme e agli stili del comunicare fra gli esseri umani. Ogni aspetto e settore o problema dell’esistenza sociale si costruisce e si alimenta – è ovvio – attraverso la comunicazione, linguistica e comportamentale, che contribuisce – anche attraverso la memoria – a fissare e stabilizzare istituti sociali e culturali collettivi. Ma risulta dall’esperienza delle ricerche sul tema e da riflessioni e studi specifici, che questo aspetto della socialità umana non è affatto facile da analizzare con efficacia. È un tema difficile, che va affrontato con solidi strumenti investigativi. Mi sembra che il più antico libro espressamente dedicato a questo argomento sia quello curato da Lyman Bryson, The communication of ideas: a series of addresses (1948), nel quale sono contenuti due saggi di Margaret Mead, “Some cultural approaches to communication processes”, che fa ampi riferimenti alla socializzazione primaria come processo comunicativo, e “A case history of cross-national communication”. Ricordo anche un intelligente saggio sull’argomento di Klyde Kluckhohn, Notes on some anthropological aspects of communication (1961), che affronta i problemi generali della comunicazione. A partire da questi saggi, si è sviluppata, nella storia della disciplina, una grande quantità di studi e ricerche, soprattutto nell’antropologia culturale americana, ma non solo. Tra gli studi francesi va infatti considerato il volume di Yves Winkin, Anthropologie de la communication. De la théorie au terrain (2001) e il bel saggio di Judith T. Irvine, Keeping Ethnography in the study of communication (2012). Anche in Italia una quantità di saggi specifici e di manualistica corrente ha affrontato il tema della comunicazione come oggetto di analisi antropologica. I linguisti-antropologi, come Giorgio Cardona, Maurizio Gnerre e Alessandro Duranti (1992; 2002) hanno dato importanti contributi; così come Angela Biscaldi e Vincenzo Matera (2016; 2019); Matera aveva già pubblicato due brevi volumi sull’argomento: Etnografia della comunicazione. Teorie e pratiche dell’interazione sociale (2002) e Comunicazione e cultura, (2008), e anche Mariella Combi, Massimo Canevacci e Daniele Verducci. Il linguaggio, con le sue complesse articolazioni semantiche, la dialogica come attività sociale cruciale, i gesti, i suoni – hanno costituito un campo privilegiato di riflessioni e ricerca empirica specifica, legata anche a una dimensione poli-disciplinare (in rapporto con la sociologia, la psicologia e la pedagogia), come appare chiaramente dalla amplissima voce “Comunicazione” di Anthony Wilden (1978), nella Enciclopedia Einaudi. Ricordo, tra gli altri, nel campo più strettamente antropologico, l’ottimo numero speciale della rivista Etnosistemi curato da Flavia Cuturi (1997) e dedicato al tema Etnografie degli eventi comunicativi. Dialoghi e monologhi fra udibile e visibile, nel quale si esaminano con insoliti approfondimenti alcuni casi di comunicazione tra ricercatori e attori sociali locali: intrecci tra raccolte di discorsi orali, registrazioni sonore e visive, e scritture etnografiche. Anche nei nostri congressi si è ogni tanto dedicata una particolare attenzione al tema, come nel Congresso della SIAA di Prato, del 2015, nel quale fu organizzato da Francesco Zanotelli e Ivan Severi un panel dedicato al tema ComunicAzione e Antropologia, del quale ricordo – tra gli altri – un ottimo intervento di Sara Zambotti sull’Antropologia della Radio, esempi di racconto radiofonico e riflessioni sulla divulgazione dell’antropologia.

Un problema di fondo, centrale, è dunque quello generale che nasce dalla ricerca sul campo (cioè da quella fase della ricerca nella quale buona parte della conoscenza antropologica viene prodotta e sistematizzata), che si colloca al livello primario dei problemi della comunicazione affrontati dall’antropologia: si tratta della comunicazione con i soggetti sociali presso i quali si realizza lo studio. Anche questo è un problema che riguarda la comunicazione come “oggetto” di riflessione e analisi. Infatti, nella ricerca empirica, nell’etnografia, l’antropologo investe il suo tempo in osservazioni di eventi, azioni, ma deve utilizzare il linguaggio nelle conversazioni libere o nelle interviste non strutturate, oltre a raccogliere tutte le forme di comunicazione che si svolgono sotto i suoi occhi (espressioni linguistiche, gesti, suoni, e così via). E se non è in grado di decifrare il complesso delle presupposizioni culturali, delle allusioni, dei significati non evidenti, degli aspetti taciti dei sistemi culturali, nelle sue interlocuzioni con gli “informatori” locali (il termine, di per sé discutibile, è ormai troppo diffuso per essere sostituito), non riuscirà a produrre una conoscenza adeguata del mondo studiato. A questo proposito, è opportuna un’attenta lettura di un vecchio ma utilissimo libro di Pierre de Zutter, Como comunicarse con los campesinos? (1980). Al centro del suo interesse è lo scambio linguistico-comunicativo tra il ricercatore e la popolazione locale, che sempre più si trasforma – nei decenni recenti – in “interlocutrice costante, attiva, paritaria” del ricercatore professionale. Quantunque apparentemente si tratti di una semplice comunicazione, di fatto questa diventa – nel lavoro sul campo – uno “scambio di saperi”, quindi una difficile “uscita del sapere antropologico dalla sua fonte di produzione” e un impegnativo confronto con interlocutori esterni. Questo è, infine, un primo e fondamentale caso della two-ways communication, sulla quale torneremo presto. De Zutter nel suo libro presenta una eccellente analisi, basata su una lunga esperienza di campo tra i contadini delle Ande e dell’Honduras, dei problemi e delle difficoltà della comunicazione con gli agricoltori e gli allevatori, soprattutto nel contesto di progetti e iniziative di sviluppo rurale. Egli esamina molti casi di insuccessi e inefficienze, enfatizza l’importanza di una ricerca accurata che analizzi le diverse esperienze e sottolinea la necessità di una vera “partecipazione locale”, ma anche e soprattutto della conoscenza approfondita – da parte del ricercatore – delle forme di espressione e di comunicazione esistenti tra gli attori sociali. Poi distingue una “comunicazione come trasmissione” da una “comunicazione come dialogo e scambio”. E si sofferma anche sulle necessità dei “silenzi”, delle “cose non dette”, delle forme non verbali della comunicazione.

Ma il ricercatore antropologo si trova a dover affrontare anche un altro aspetto, collegato con i precedenti ed altrettanto importante, cioè quello delle forme di comunicazione esistenti tra gli attori sociali investigati, tema al quale si è appena accennato: forme verbali, gestuali, sonore, grafiche. E questo aspetto è ovvio che avrà grande influenza sulle forme di comunicazione dell’antropologo con i suoi informatori. Farò un rapido riferimento a una ricerca specifica di qualità su questo tema: il lavoro di Flavia Cuturi contenuto nel citato numero speciale della rivista Etnosistemi dedicato alle Etnografie degli eventi comunicativi. Si tratta di un ricco saggio sui discorsi pedagogici tra gli adulti e i giovani presso gli Huave di San Mateo del Mar, in Messico (Cuturi 1997). Un importante tema collegato con il precedente è quello dei “generi” culturali delle forme comunicative, a seconda delle circostanze, delle persone coinvolte: è il caso delle “conversazioni cerimoniali”, distinte per contenuto, stile formale, toni sonori, dai “discorsi ordinari e lenti”, e dai “discorsi aggressivi di guerra” tra i jivaro shuar e achuar dell’Amazzonia ecuadoriana e peruviana (Gnerre 1996). L’argomento è – ovviamente – di particolare importanza, perché appare ovvio che l’antropologo costruirà le sue strategie comunicative con i soggetti sociali studiati anche e soprattutto sulla base dell’accurata osservazione dei modi di comunicare esistenti nella società presso la quale svolge la sua indagine.

Come si vede, dunque, la comunicazione ha costituito un argomento di grande e diffuso interesse. In anni più recenti si è anche sviluppato un campo circoscritto di ricerca, quello appena citato della “antropologia dei mezzi di comunicazione di massa”, che conta già su una abbondante bibliografia specifica. Mi piace ricordare, in proposito, la bella Tesi di Dottorato di Francisco Osorio, Mass Media Anthropology (2001), ma anche la ricca antologia curata da Faye D. Ginsburg, Lila Abu-Lughod e Brian Larkin, Media Worlds: Anthropology on new terrain, che presenta una ampia e dettagliata raccolta di saggi sull’uso dei media nel rappresentare aspetti particolari delle più diverse culture umane (Ginsburg, Abu-Lughod, Larkin 2002) e il saggio di Eric W. Rothenbuhler Media anthropology as a field of interdisciplinary contact (2008), nonché il volume di Mark Allen Peterson, Anthropology & Mass Communication. Media and Myth in the New Millennium, (Peterson 2003). Infine l’importante documento “ufficiale” dell’American Anthropological Association, Guidelines for tenure and promotion reviews: Communicating public scholarship in Anthropology (AAA 2017). In Italia è stata pubblicata nel 2005 un’antologia di saggi molto utile, Antropologia e media. Tecnologie, etnografie e critica culturale (Fagioli, Zambotti 2005). In tutti questi volumi ci si sofferma sulla comunicazione come trasmissione attiva, più o meno “sincera”, di informazioni, idee, scelte, opinioni, punti di vista, contenuti particolari che vengono dall’esperienza antropologica. Ma c’è anche una dimensione diversa che riguarda la comunicazione all’esterno; una dimensione nascosta, occultata, quella del “silenzio”, nella quale i soggetti “non dicono” ciò che sanno, con particolari strategie, o comunicano “indirettamente”. In questo senso i significati sono trasmessi attraverso altri mezzi che non il linguaggio diretto, o vengono occultati consapevolmente o no. Un importante libro curato da Joy Hendry e Conrad W. Watson (2001) affronta una serie di casi che illustrano questo aspetto particolare della comunicazione. Del “silenzio” degli accademici c’è un altro aspetto, che si colloca piuttosto nell’ambito delle responsabilità etiche e politiche degli antropologi, quello della “mancanza di comunicazione”, quello cioè del tacere, del “non dire”, su vicende come la violazione dei diritti umani, la violazione di leggi, o le forme poliziesche e costrittive che l’esperienza della ricerca sul campo spesso rende manifeste ai ricercatori, naturalmente soprattutto nell’età coloniale, ma non solo. In questi casi, alcuni studiosi preferiscono “non correre rischi”, e di fatto risultano a volte “conniventi” con azioni deprecabili dei poteri nei confronti di gruppi sociali marginali. A questo argomento si sono dedicati molti studiosi e feroci polemiche sono divampate – com’è noto – tra gli accademici e i non-accademici, ma anche all’interno delle accademie. La letteratura sul tema è amplissima. Mi piace fare riferimento ad una delle raccolte di saggi meglio calibrate, analitiche e convincenti: il numero speciale della rivista Public Anthropology dal titolo Academic Politics of Silencing, con ottimi contributi di Susan Wright, Antonio De Lauri (2019), Laura Nader (2019), David Graeber (2019), David Price (2019). Della stessa Laura Nader era stato pubblicato, anni prima, un brillante saggio fortemente critico sullo stesso tema (2002). Mi sembra chiaro, però, che questo impegno debba aggiungersi a quelli già menzionati dell’antropologia applicata-pubblica (la produzione di nuova conoscenza e l’adozione di adeguate strategie di comunicazione), non sostituirli. Giacché la presa di posizione politica, anche aspra e inesorabilmente accusatoria, come tale, la può fare qualunque cittadino, non c’è nessun bisogno che sia antropologo; all’antropologo tocca certo il compito di dichiarare e criticare le violazioni dei diritti umani e culturali che si svolgono nel suo campo di ricerca, e quindi di unire ai suoi compiti istituzionali anche questo decisivo impegno. Mi pare che uno dei libri più ricchi e densi sul tema dell’“impegno” degli antropologi e del loro coinvolgimento nei problemi della attività “pubblica” sia quello di Thomas Hylland Eriksen, Engaging Anthropology. The case for a public presence (2006). L’argomento qui accennato coinvolge, naturalmente, uno dei temi più dibattuti nelle nostre discipline: quello della “libertà della ricerca”, che nel caso delle antropologie di tipo applicativo, caratterizzate da uno stretto rapporto con istituzioni committenti e finanziatori, si fa a volte particolarmente difficile. Rinvio per un approfondimento recente al buon saggio di Francesca Declich Ricerca di base e ricerca applicata in antropologia: libertà di ricerca tra neoliberismo e sicurezza (2017).

C’è dunque anche un altro livello di riflessione ed analisi, nel quale la comunicazione non è solo considerata come oggetto di ricerca, di riflessione e analisi, come nel caso delle altre attività sociali dell’uomo studiate dall’antropologia; bensì come “strategia strumentale” degna di una analisi particolare, come un “mezzo” attraverso il quale i problemi, le idee, i metodi e i risultati della ricerca antropologica possono essere diffusi, e recepiti da soggetti diversi da coloro che li hanno prodotti. Si tratta dunque di un processo dinamico, costituito da diversi momenti e tappe. La comunicazione dei risultati del lavoro di ricerca fa parte strettamente, com’è noto, dell’attività successiva al completamento di uno studio, per qualunque tipo di disciplina. Ma non basta intendersi perfettamente con i collaboratori di una ricerca o con i membri del proprio gruppo accademico (è questa la comunicazione di livello “interno” alla comunità scientifica); bisogna anche porsi il non facile problema di trasmettere, trasferire, appunto saper comunicare i risultati delle ricerche ai soggetti esterni: il grande pubblico, le altre discipline di ricerca, le istituzioni della società politica (è questa la comunicazione di livello “esterno”). E quello dei rapporti con il grande pubblico è un tema cruciale, almeno a partire dalle tesi e dai programmi di Robert Borofski, che è stato il fondatore della “Antropologia Pubblica”, attenta a una trasformazione del linguaggio espressivo e comunicativo dei temi antropologici e, in particolare, a una dedicazione intensa e perfino esclusiva della disciplina verso il grande pubblico. Ma c’è una considerazione di carattere più generale che va fatta: l’antropologia, per le sue caratteristiche specifiche, forse più che altre discipline sociali “deve” curare con obbligata attenzione i processi di comunicazione, giacché le sue idee, i suoi concetti e i contenuti delle sue ricerche conducono inesorabilmente ad uno “scarto” significativo rispetto alle idee correnti in un gruppo sociale, in un’epoca storica. Lo “sguardo critico”, dall’esterno, dell’antropologia, che attinge livelli non coscienti e consapevoli e scopre a volte connessioni e interdipendenze nascoste, dovrebbe infatti obbligare ogni gruppo sociale studiato, e soprattutto ogni possibile destinatario dei contributi antropologici, a uno sforzo di presa di coscienza che solo una forma di comunicazione adeguata e ben calibrata può sperare di generare. Quindi, tutti i settori, i campi di ricerca e i problemi dell’antropologia riconoscono alla questione della comunicazione – non solo come oggetto di ricerca, ma come mezzo di trasmissione di contenuti – la posizione di un tema centrale e impongono che si tenga conto anche delle difficoltà, non lievi, che la trasmissione del sapere dell’antropologia al di fuori delle sue fonti di produzione impone.

Qualche nota preliminare sui caratteri della comunicazione in generale sembra essere necessaria, prima di esaminare casi specifici di questo non semplice processo di trasmissione di certi messaggi, di certe idee, di certe conoscenze – frutto di studi e di esperienze precedenti – al di fuori della fonte che le ha generate. Com’è noto, un’attenta analisi dei processi della comunicazione comporta un’attenzione specifica alla “fonte” ben identificabile (chi produce la comunicazione, qual è il suo ruolo, la sua formazione e le sue competenze, i suoi interessi, qual è la sua motivazione), agli “strumenti” particolari utilizzati (la scrittura, la trasmissione orale, le immagini di accompagnamento, la presentazione di documenti in originale, le registrazioni sonore e audio-visive, lo stile comunicativo), ai “contenuti” altrettanto specifici (temi e argomenti, problemi, opinioni e punti di vista, nuovi apporti di informazione, proposte interpretative, critiche argomentate, esperienze dirette, risultati di ricerche), infine ai “destinatari” (individui, gruppi e istituzioni, grande pubblico in generale, studenti e così via). Ognuno dei componenti citati (la fonte, gli strumenti, i contenuti, i destinatari) non manca di porre propri problemi e di imporre la necessità di chiarezza e di discorso esplicito, in una analisi della comunicazione come comportamento sociale sui generis. Rimane, in ogni caso, evidente che il tema della comunicazione “esterna”, al di fuori dell’Accademia, impone di prestare una forte attenzione a due dimensioni cruciali: l’“intenzione” del comunicare e l’“efficacia” dei processi comunicativi. Questo dell’efficacia è un aspetto cruciale, che può chiudere in modo ottimale il circuito iniziato con la produzione di un messaggio o di una serie coordinata di messaggi. Questa efficacia può essere, e lo è spesso, molto robusta, concreta e pratica. Infatti, senza esagerare nel richiamare il detto del poeta che «le parole possono essere pietre», di fatto, le cose dette possono tradursi in induzione ad azioni, o meglio, in vere e proprie azioni.

È necessario, per cominciare, dire qualcosa sugli specifici contenuti (temi, problemi, acquisizioni a partire da ricerche di varie generazioni di studiosi) dell’antropologia che, cioè, la disciplina può considerare come acquisizioni proprie e aspirare a trasmettere, a comunicare, a un pubblico più vasto o alle istituzioni della sfera pubblica. Non è facile dire in poche parole quello che può essere definito come il “contributo conoscitivo” più importante dell’antropologia, anche perché un consenso unanime fra tutti gli antropologi non esiste. Ma un minimo di patrimonio comune può forse essere identificato. Innanzitutto, si dovrebbe iniziare con il sottolineare che l’antropologia ha prodotto informazioni e analisi originali sulla intera umanità, con le sue variazioni interne nel tempo e nello spazio, con le sue analogie e differenze, e nei suoi continui processi di cambiamento. L’idea di fondo, decisiva per la disciplina, è dunque quella della pluralità delle culture, intendendo con questo termine (“cultura”), oggi divenuto abbastanza controverso, un concetto strumentale, che rappresenta uno sforzo espressivo che tenta di racchiudere in un insieme più o meno coordinato, e quasi mai assolutamente omogeneo, la totalità delle pratiche, dei costumi, delle idee, delle simbologie, delle forme di organizzazione sociale, delle attività rituali, che in un dato momento storico si manifestano in un gruppo umano dai confini quasi mai rigidi, certi, e assolutamente esclusivi. La conseguenza di questa accurata indagine sulla complessità, si direbbe sulla “totalità”, delle esperienze di un gruppo umano (nelle loro reciproche connessioni: la tecnologia ed economia con la vita sociale; l’organizzazione sociale con i poteri, le simbologie e i valori; la divisione tra i sessi con il potere e la visione del mondo; le forme religiose con la vita sociale e così via), è che ogni giudizio di valore, immediato ed escludente, è inopportuno e incongruo; può rendere difficile se non impossibile quella attività intellettuale propria delle prime fasi di una qualsiasi ricerca antropologica, che è ben sintetizzata nel concetto di “comprensione”, che può precedere ogni successiva attività eventuale di spiegazione e, quindi, di “giudizio”, che sarebbe bene fosse sempre un “giudizio storico”. Di fatto, i costumi degli “altri” possono violare le norme, la sensibilità, i diritti di base di gruppi diversi. Da tutto ciò deriva una caratteristica costante della comunicazione antropologica verso l’esterno dell’accademia: la critica ai pregiudizi, alle forme di esclusione ed emarginazione, ai giudizi di “inferiorità”, “arretratezza” e così via, che spesso vengono prodotti nei confronti della diversità culturale e che sono quasi sempre basati su rappresentazioni erronee della realtà e su proiezioni incontrollate di pulsioni profonde di tipo psicologico-culturale. E questa critica contro i pregiudizi non dovrebbe mai essere affidata alle forme aggressive e semplificate del “pensiero abbreviato”, bensì alle “virtù dell’argomentazione”, basate sulla supposta conoscenza approfondita dei problemi. Ma c’è da aggiungere che sulla base dell’etnografia, l’antropologia può consentire uno “sguardo ravvicinato” sulla vita collettiva, sulle variazioni individuali; e può raccogliere il punto di vista degli attori sociali, dando loro una voce e consentendo una loro diretta comunicazione con la società “globale” della quale fanno parte. Nel complesso dunque, l’antropologia può permettere di scoprire dimensioni nascoste, non evidenti del comportamento, delle idee e credenze di un gruppo sociale. Tutto ciò funziona anche nel caso di ricerche su aspetti, settori, sottoinsiemi del proprio stesso mondo socio-culturale. In questo caso, infatti, l’antropologo guarda al “familiare” dalla distanza, come se fosse “esotico”. All’interno di questo processo conoscitivo, l’antropologia spesso conduce inesorabilmente verso una messa in discussione della stessa cultura del ricercatore, dunque verso un’auto-analisi critica che risulta di grande importanza per l’esercizio quotidiano della riflessione sul “rapporto tra le società e le culture”. Questi, dunque, sono alcuni dei contenuti specifici del sapere antropologico, che in genere vengono trasmessi e comunicati verso il grande pubblico e le istituzioni che non sempre sono disposti ad accettarli così, semplicemente, come acquisizioni date e dimostrate, e che quindi impone una particolare attenzione, delle tattiche e strategie comunicative molto particolari, per essere efficacemente recepito.

Un caso preliminare, di grande interesse e non molto considerato dal punto di vista dell’analisi antropologica, è quello della comunicazione del sapere dell’antropologia nelle aule scolastiche e universitarie. L’antropologia pedagogica ha dato grandi contributi all’argomento, ma non sempre attribuendo ai processi di comunicazione (e di registrazione dei feed-back conseguenti) l’importanza che meritano. Già in questo caso, un’attenta analisi delle precondizioni cognitive degli studenti, delle loro abitudini comunicative, dei messaggi contrari ed esterni che li premono giornalmente e delle particolari necessità comunicative dell’uditorio, nonché della istituzione all’interno della quale si realizza la trasmissione del sapere (la scuola, l’università) è necessaria. Come anche uno studio accurato dei caratteri e degli effetti dell’uso delle moderne tecnologie comunicative, attraverso un’attenta analisi dei “risultati” della comunicazione in aula, dei contenuti, obiettivi, delle acquisizioni della disciplina. Nell’ampia letteratura sui processi di comunicazione e apprendimento in ambito scolare, ho trovato un eccellente saggio che, pur provenendo dall’ambito della psicologia pedagogica, offre riflessioni e analisi molto approfondite e convincenti sull’intero tema: Common knowledge. The development of understanding in the classroom (Edwards, Mercer 1987). C’è da aggiungere che proprio nel campo della comunicazione e trasmissione del sapere nelle aule scolastiche ed universitarie si può riscontrare quello che mi pare un difetto di buona parte dei processi di comunicazione dell’antropologia dalla fonte di produzione della conoscenza ai destinatari. Infatti, nella tradizione educativa e formativa apparivano costantemente i caratteri della “pedagogia verticale”, secondo la quale era il destinatario a sforzarsi di decodificare i messaggi: la fonte non faceva altro che produrre i messaggi, senza preoccuparsi della “compatibilità dei codici comunicativi”. Lo stesso carattere è apparso a lungo nella predicazione missionaria, costrittiva, basata sulla netta opposizione tra “chi sa e chi non sa” e sulla necessità del destinatario di “apprendere la lingua” (e il codice culturale) dell’emittente il messaggio. Fortunatamente, negli ultimi decenni sia nella scuola che nell’attività missionaria le cose sono molto cambiate e il problema del circuito comunicativo ha trovato soluzioni più eque e più efficaci. Insomma, si sta da tempo diffondendo una forma di “pedagogia orizzontale”e spesso“reciproca” che ha molto modificato la comunicazione formativa e che si richiama spesso ad alcuni autorevoli antecedenti di questo orientamento, la “pedagogia degli oppressi” di Paulo Freire o la “scuola paritaria” di Don Lorenzo Milani.

Un altro tema generale di riflessione è quello della divulgazione e della diffusione delle conoscenze accumulate nelle ricerche antropologiche presso il grande pubblico. Ci sono subito da affrontare questioni di linguaggio e di liberazione della “antropologia pubblica” dai “codici” rigidi della riproduzione accademica; ma anche la scelta degli argomenti e la loro relativa “semplificazione” sono aspetti importanti. La questione generale che racchiude in sé l’intero tema è quella della “circolazione del sapere al di fuori della sua fonte di generazione”. La diffusione della conoscenza antropologica presso il “grande pubblico” è ormai da anni, come già accennato, il compito centrale della Public Anthropology, che a partire dagli scritti di Robert Borofski ha in parte riassorbito molti aspetti dell’“antropologia critica”, dell’“antropologia radicale”, della Engaged Anthropology. In molti di questi casi lo spirito critico e politico – pur basato su fondamenti il più delle volte indiscutibili – ha occultato o messo in secondo piano il solido contenuto di analisi e interpretazione socio-antropologica dei comportamenti e delle azioni sociali criticate. In anni più recenti numerosi saggi hanno approfondito il tema dell’antropologia pubblica, legandolo all’analisi dei media e anche alla Collaborative Anthropology. Basti fare riferimento ai contributi di David Vine (2011), Luke Eric Lassiter (2008), Sam Beck e Carol Maida (2015), Sarah Pink e Simone Abram (2015), e infine alla citata rivista pubblicata da Brill Public Anthropologist, che ha come Editor-in-Chief Antonio De Lauri, un Dottore di Ricerca della Bocconi di Milano. Ma non tutti questi scritti mettono in massima evidenza il carattere che mi pare fondamentale per l’“Antropologia Pubblica”, e cioè quello della necessaria realizzazione di un intenso processo di comunicazione, che andrebbe specificato, analizzato con cura, costruito in grande dettaglio. Mi sembra che un rapido ed efficace saggio in questa direzione sia quello di Maximilian Forte (2011) dal titolo Beyond Public Anthropology: Approaching Zero. Anche quello che è senz’altro il momento e l’attività cruciale dell’antropologia, l’etnografia, è stato rivendicato come attività fondamentale per lo studio della comunicazione nell’antropologia pubblica, come appare con evidenza nel caso citato del libro di Pierre de Zutter (1980). Ho già ricordato, in proposito, il saggio di Judith Irvine, Keeping ethnography in the study of communication (Irvine 2012); aggiungerei il numero speciale della rivista Qualitative Research dedicato alla Public Ethnography. Ma sulla “etnografia pubblica” è necessario richiamare un importante volume che mi pare indispensabile anche per riflettere sul tema dell’“impegno politico” degli antropologi. Si tratta del volume curato da Didier Fassin, dal titolo If the truth be told. The politics of Public Ethnography (2017), che contiene un ottimo saggio introduttivo del curatore, Introduction: When Ethnography goes public, nonchè vari interventi critici che trattano anche delle tensioni e delle difficoltà di queste nuove forme di etnografia impegnata, fin dalla sua progettazione, con spirito critico costruttivo. Infine, non posso trascurare di ricordare l’ottimo saggio di Barbara Tedlock, The observation of participation and the emergence of Public Ethnography” (2008), contenuto nel volume curato da Worman K. Denzin e Yvonne S. Lincoln (2008), Strategies of qualitative inquiry, che contiene soprattutto contributi di sociologi.

È dunque anche necessario – come s’è visto – fare attente osservazioni sulle caratteristiche e le peculiarità, nonché sulle scelte, dei “media” (giornali, TV, radio), come alcuni degli studi più recenti stanno facendo. La one-way communication, tutta incentrata sulla trasmissione efficace di alcune idee, concetti, risultati di ricerche, agisce spesso indisturbata nella comunicazione per il grande pubblico, che è assai raramente coinvolto in maniera diretta nello stesso contesto e momento della produzione comunicativa; quindi si comporta esclusivamente come “recettore” passivo dei messaggi rivolti da un attore sociale che si suppone abbia competenze ed esperienze particolari. Tuttavia, è necessaria la conoscenza non superficiale della tempistica e dello stile, ma anche della grammatica, logica e retorica dei media. Alcuni antropologi che hanno avuto successo in questo senso, in Italia, sono Marc Augé, Adriano Favole, Marco Aime, Amalia Signorelli, Paolo Apolito, Marino Niola. Le possibili ragioni di questo successo andrebbero indagate con molto impegno. E sarebbe utile anche esaminare attentamente gli interventi di alcuni dei citati antropologi nell’ambito dei “Dialoghi sull’Uomo” di Pistoia, celebrati con grande successo di pubblico negli ultimi anni. Quello che ci tocca osservare è che il successo nei media (soprattutto nella televisione) dipende da un’abilità, di alcuni degli antropologi coinvolti, nel dire cose di “senso comune”, spesso solo “colorate” da qualche parola-chiave se non concetto antropologico; insomma, il successo a volte dipende dall’essere dei semplici “opinionisti”, abituati alla tempistica del mezzo ed alla “semplificazione” dei problemi. Mi pare invece che un antropologo convocato dai media visuali, o impegnato sulla carta stampata, non debba mai perdere la sua caratteristica precipua: quella di essere uno studioso o, nel peggiore dei casi, uno che sa sintetizzare gli studi altrui. Insomma, si dovrebbe vedere chiaramente che l’antropologo è depositario di un sapere sui generis, faticosamente guadagnato in anni di approfondimenti. Naturalmente, la sfida consiste nel saper trasmettere, nel saper comunicare questo sapere perché sia recepito da chi ascolta, vede o legge, cioè dal grande pubblico. Non sembri esagerato, ma a mio parere l’antropologo che si cimenta in queste difficili operazioni dovrebbe anche essere un esperto delle logiche comunicative, e dovrebbe dichiarare costantemente qualcosa come: “Le nostre ricerche, condotte durante lungo tempo, hanno prodotto i seguenti risultati…”. In definitiva, per me l’antropologo applicativo e l’antropologo pubblico (non vedo moltissime differenze tra i due) dovrebbero suscitare rispetto ed affidabilità per il fatto di essere degli “specialisti”, conoscitori approfonditi di certi problemi dell’umano. Mi limiterò a fare un esempio che ritengo significativo del successo di un antropologo nei media che non rinunzia alla sua posizione di “studioso”: gli interventi di Adriano Favole, sul settimanale del Corriere della Sera “La Lettura”, riescono a conciliare i dati di ricerche sull’Oceania contemporanea con i problemi del mondo d’oggi in Italia e in Europa e a interessare – così – anche il grande pubblico; anche i suoi numerosi interventi nell’iniziativa annuale di Pistoia “Dialoghi sull’Uomo” mostrano lo stesso carattere.

Infine, un caso assai importante e significativo, che abbiamo appena accennato, è quello della comunicazione del sapere antropologico in contesti applicativi, nel quadro di una collaborazione (la forma più consueta è la “consulenza”) con le istituzioni del cambiamento sociale, economico e culturale, che richiedono la competenza antropologica. È questo un caso ottimale della two ways communication. Infatti, il rapporto nasce da uno scambio attivo tra conoscenze, competenze, decisioni ed effetti delle medesime. È assoluta, in questi casi, la necessità di studiare accuratamente le istituzioni con le quali si collabora, di comprendere a fondo i messaggi e le forme comunicative (in poche parole il “linguaggio”) che l’istituzione normalmente produce. E al tempo stesso la necessità di comunicare il proprio sapere in modo adeguato alla singolare circostanza dello scambio comunicativo e decisionale con le istituzioni. L’esempio, tra i tanti, di grande interesse, è quello della comunicazione tra l’antropologo e le istituzioni burocratiche del mondo internazionale nei progetti e programmi della Cooperazione Internazionale. Come suggeriva molti anni or sono Michael Cernea, antropologo che lavorava alla Banca Mondiale, bisogna “saper comunicare” con i funzionari delle Istituzioni dello Sviluppo, per far valere la propria competenza e realizzare l’ambizione dell’“esercizio di influenza” sulle decisioni e sulle azioni di quelle istituzioni; e per far ciò bisogna conoscere a fondo i codici di comunicazione che essi utilizzano. Può essere di grande utilità studiare attentamente i “rapporti” su temi specifici o problemi particolari di certi paesi o di certe regioni che essi normalmente producono; analizzarne la scrittura e la distribuzione degli argomenti con i processi argomentativi, e poi confrontarli con la struttura, con il rapporto tra documentazione e conclusioni teorico-metodologiche, con la logica inferenziale, propria dei saggi antropologici accademici e soprattutto con quelli dell’antropologia applicata. Ma è raro che le istituzioni manifestino un vero interesse analitico verso il tema delle loro forme di comunicazione e producano documenti pertinenti in proposito. Ho trovato una significativa eccezione a questa reticenza delle istituzioni in un importante documento prodotto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri: Gli stili della Comunicazione Istituzionale. Risultati del Progetto di Ricerca (Donaggio 2004). Un autore che si è occupato intensamente del problema delle forme di comunicazione (soprattutto nel contesto di relazioni internazionali e di progetti di sviluppo rurale) già dai lontani anni ’70 del secolo passato, è stato Andreas Fuglesang, al quale dobbiamo un ottimo punto di partenza per questo tema di riflessione nel libro da lui curato, The story of a Seminar in Applied Communication, che contiene un suo saggio pieno di illustrazioni che vengono da un corso di formazione sull’argomento (Fuglesang 1973a). Fu poi pubblicato un suo volume sistematico, Applied Communication in Developing Countries. Ideas and Observations (Fuglesang 1973b), ma l’argomento richiama subito la grande questione della “comprensione” diretta e reciproca, sulla quale lo stesso Fuglesang ha pubblicato un libro di grande interesse, About Understanding. Ideas and Observations on Cross-cultural Communication (Fuglesang 1982). Il che vuol dire che comunicare con le istituzioni dello sviluppo per realizzare una soddisfacente collaborazione e scambio rientra nella “comunicazione inter-culturale”, che si occupa di come comunicare – nel corso di una ricerca, o nel trasmettere i suoi risultati agli stessi attori sociali – con i rappresentanti di una cultura diversa. Ma in questo caso la “comunicazione inter-culturale” prevede anche una funzione aggiuntiva, assai importante e non facile: l’esercizio di influenza sulle azioni e decisioni di una struttura tecnica o semi-tecnica istituzionale nei confronti della quale non si può evitare la “critica costruttiva” delle idee e delle pratiche dello sviluppo. Insomma, il problema della comunicazione interculturale può benissimo legarsi allo stile di lavoro, ai metodi e agli obiettivi della “Antropologia Applicata”. È quanto appare chiaramente nel bel libro di Anna Ihle (2008), Is the study of Intercultural Communication Applied Anthropology? A case study on Intercultural Training. Ma già in anni più remoti, lo stesso problema veniva affrontato in un numero speciale della rivista Practicing Anthropology della Society for Applied Anthropology, dedicato a un “Workshop in Intercultural Communication” (Leeds-Hurwitz, Trager 1987). E tutto l’argomento era stato disegnato con buoni approfondimenti e studi di caso nel volume più antico, curato da Daniel Lerner e Wilbur Schramm, Communication and change in the developing countries (Lerner, Schramm 1967). Ma il tema che stiamo trattando ha coinvolto fino in fondo anche alcune grandi istituzioni internazionali dello sviluppo. Che hanno frequentemente costituito delle unità specializzate nel processo di “comunicazione con gli attori sociali”, attraverso strategie diverse volte a incrementare la “partecipazione” (per esempio, dei contadini nei progetti di sviluppo rurale). In prima linea tra le grandi istituzioni internazionali del sistema delle Nazioni Unite, la FAO ha dedicato grande attenzione alla comunicazione nel mondo rurale. Un testo ottimo di riferimento è Communication for Development Round Table Report. Focus on Sustainable Development (FAO 2007). All’interno della grande istituzione, che ha visto crescere consistentemente la cura verso gli interessi reali e le capacità installate, incrementabili con accurate strategie comunicative, è stato intenso, nell’ultimo decennio, il lavoro di Mario Acunzo, al quale si deve la cura di due utilissimi strumenti per l’esercizio della efficace comunicazione, anche attraverso mezzi visivi: Communication for Rural Development (F.A.O., 2014), e Collaborative Change. Enhanging and up-scaling CBA and DRR through Participatory Communication for Development (FAO 2016); molto interessante del resto è pure il breve saggio La comunicación y el desarrollo rural sostenible (Acunzo 2004). Anche la Banca Mondiale si è occupata con impegno dell’argomento, organizzando un importante congresso internazionale: World Congress on Communication for Development. Lessons, Challenges, and the Way Forward. Gli Atti di questo congresso raccolgono contributi critici e costruttivi nei settori della salute, della “governance”, dello “sviluppo sostenibile”. E nella premessa si richiama la Risoluzione 51/172 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella quale si sostiene che la comunicazione per lo sviluppo deve permettere alle comunità di parlare direttamente, di esprimere le loro aspirazioni e scopi e di partecipare alle decisioni che riguardano il loro sviluppo. E si afferma anche che questa definizione contrasta radicalmente con la precedente tendenza ad associare la parola “comunicazione” con idee come la “disseminazione di informazioni”, la produzione di messaggi, la persuasione, l’uso dei media classici (CI, WB, FAO 2007). Tutti questi documenti appena citati possiedono riferimenti frequenti – anche se non sempre esaustivi – alla dimensione socio-culturale, al problema dei costumi e delle tradizioni, alle reazioni re-interpretative e attive dei contadini e degli indigeni destinatari degli interventi, alle simbologie e alle “presupposizioni culturali” che non sempre sono evidenti all’osservazione e all’interlocuzione linguistica con gli attori sociali. Naturalmente, non va taciuto che queste “buone intenzioni”, queste affermazioni generali, non sempre si vedono realizzate concretamente nei progetti, che spesso sono manovrati da tecnici e supposti “esperti” i quali – per diverse ragioni contingenti – si guardano bene dall’applicarle rigorosamente. E del resto le “valutazioni critiche” dei progetti risultano essere spesso non altro che “adempimenti burocratici” tardivi e poco efficaci.

Da quanto fin qui detto, dovrebbe risultare chiaramente che ogni forma di relazione, azione, collaborazione, con istituzioni e soggetti esterni all’accademia, dovrebbe basarsi solidamente su una attenta analisi dei processi comunicativi. La comunicazione, insomma, non può che essere la chiave del rapporto esterno del sapere antropologico al di fuori delle sue fonti di produzione. Ma non basta: i processi comunicativi, ben calibrati, dovrebbero basarsi su una vera e approfondita conoscenza degli aspetti antropologici del problema del quale si vuole trattare (educazione e formazione, salute pubblica, processi di urbanizzazione e vita urbana, innovazioni nell’agricoltura, organizzazione del lavoro d’impresa, amministrazione civica, aspetti religiosi e simbolici della vita sociale, rapporti tra i sessi e sistemi di uguaglianza, migrazioni e accoglienza-integrazione, e così via). E per avere una conoscenza approfondita dei problemi ci sono due soli mezzi: la ricerca e l’esperienza.

Nello sfondo, rimane sempre – nel caso si trascurino le analisi previe, alle quali si è accennato, sulle variabili costitutive del processo di comunicazione dei saperi dell’antropologia al di fuori della fonte di produzione – il rischio della “incomprensione” doppia (gli antropologi che non comprendono o non studiano accuratamente i loro referenti esterni; e questi che non riescono a comprendere e accettare le acquisizioni conoscitive e i punti di vista degli antropologi). Può diffondersi, in queste occasioni, l’idea della “inutilità” del sapere antropologico al di fuori delle sue fonti di produzione e della sua necessaria ed unica circolazione in ambito accademico. In effetti, non dobbiamo dimenticare la pessimistica osservazione di David Pitt, nei tardi anni ’70, relativa ai numerosi casi di interventi di antropologi come consulenti in iniziative di sviluppo, con scarsa analisi approfondita dei contesti socio-culturali e superficiale trattamento dei processi comunicativi:

«Quanto successo hanno avuto gli antropologi presso le agenzie di sviluppo? Ovviamente, gli esempi non sono moltissimi, ma si possono osservare dei segni pessimistici. Presso alcune agenzie l’antropologo o il sociologo è qualcosa come un ‘lusso’, che viene aggiunto alla complessa macchina organizzativa negli anni delle vacche grasse, ma sono i primi a andar via negli anni di difficoltà finanziarie. In qualche senso l’antropologo può essere considerato come uno ‘status symbol’ da parte della organizzazione o del dipartimento che lo ha coinvolto, un segno sicuro di essere alla moda nel dare spazio alla dimensione sociale. Conseguentemente, i suoi rapporti possono essere ricevuti con deferenza, ma lasciati poi a raccogliere la polvere in uno scaffale» (Pitt 1976).

Il compito dell’antropologia applicata e dell’antropologia pubblica è dunque quello di far mutare radicalmente il triste quadro che risultava dalla pessimistica osservazione di David Pitt.

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[1] Comunicazione presentata al VI° Congresso della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA), Cremona, 13-15 dicembre 2018.