Identitarismo e “regressione patrimoniale”

Osservazioni su comunità, istituzioni, demoetnoantropologia

Lia Giancristofaro

Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara

Indice

Il terreno folklorico tra culturalismo e anti-culturalismo, patrimonialismo e anti-patrimonialismo
Un terreno folklorico che ci parla degli antropologi
Oltre la retrotopia: l’uso politico delle tradizioni
È troppo tardi per una restituzione etnografica?
Un programma politico di “culturalismo responsabile”
La “regressione” dal patrimonio: comunità e antropologi preferiscono il folklore?
Oltrepassare la frattura retorica tra culturalismo e anti-culturalismo
Bibliografia

Abstract. The essay presents an ethnography conducted in Abruzzo to explore a new form of folk traditions inspired by the old practices documented by the ethnologists. This revival of traditions has been credited by its inventors as an anthropological work, but completely bypasses the analytical procedure of cultural anthropology and even the advantage of heritage as a form of self-awareness. This revival revitalizes the romantic metaphors of folklore, circumscribes identity in an exclusive way, and excludes the “true anthropologists”, advocating everyone’s own ability to be anthropologists and manage heritage. These claims reject the national and international agreements on cultural heritage, deciding to use heritage and traditions for their sovereign political goals. This new framework of folk traditions outlines an “heritage regression”, because the protection and the “heritagization” means to act a dispossession of both folklore and vernacular culture. The issue also concerns the (unsuccessful) work of anthropology in heritage, folk traditions and institutions. In the face of an anthropology which is until today mainly devoted “to fight” heritage and institutions, a commitment “in and with” heritage and institutions can counteract the decline of the public relevance of the discipline.

Keywords. public folklore; public anthropology; applied anthropology; heritage; institutions.

Il terreno folklorico tra culturalismo e anti-culturalismo, patrimonialismo e anti-patrimonialismo

In Italia, tra i possibili sbocchi per la formazione etno-antropologica, fonti autorevoli come Alma Laurea e i corsi di laurea magistrale della classe LM01 (Antropologia Culturale ed Etnologia) annoverano la professione di “esperto nella salvaguardia e valorizzazione delle comunità socio-culturali locali, delle minoranze nazionali, dei gruppi transnazionali” e di “esperto nella conservazione e gestione di patrimoni demoetnoantropologici”, ovvero la possibilità di impiegarsi negli ambiti del settore pubblico (Ministeri, Assessorati) e del terzo settore che si occupano di “patrimonio culturale”. Tale professionalità prosegue e si rinforza con l’ottenimento del dottorato o del Diploma di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici.

La mansione specifica di questo “esperto” si è istituzionalizzata negli anni Settanta proseguendo fino ad anni recenti. Le regioni italiane sono state al centro di una intensa “musealizzazione” (reale, cartacea e telematica) di oggetti, feste e altri beni culturali “volatili”, i quali sono stati riconosciuti e, contemporaneamente, istituzionalizzati come Beni Culturali DemoEtnoAntropologici (BCDEA), dunque degni di valorizzazione (Cirese 1977; Bravo, Tucci 2006). L’istituzionalizzazione si è realizzata sotto forma di “campagne” ministeriali, regionali e comunali di catalogazione dei BCDEA, poggianti su un sistema di schedatura tecnica: alle schede denominate BDI, dall’acronimo “beni demoetnoantropologici immateriali”, si sono aggiunte le schede MODI, cioè “modulo informativo applicabile ad entità immateriali”. La schedatura raramente ha unito la musealizzazione dei beni alla loro pubblica discussione (in gergo tecnico, “restituzione etnografica”) con le comunità portatrici. Si è trattato di attività descrittive, che tendevano a escludere o sottovalutare la partecipazione dei portatori: i censimenti si limitavano a richiedere un consenso affinché lo schedatore potesse “prelevare” dati, registrare un audio o un video, scattare una fotografia, trascrivere un’opinione o un ricordo, riportare il nome e il cognome dell’informatore (Broccolini 2011: 41-51; Giancristofaro 2017: 67, 128). Insomma, l’approccio disciplinare al patrimonio ha consentito il riconoscimento di una funzione operativa delle scienze demoetnoantropologiche sul terreno delle regioni italiane, dando autorevolezza e dignità professionale agli specialisti. Tuttavia, la catalogazione ha espresso una volontà di censimento istituzionale che ha sottovalutato la partecipazione dei portatori, equiparandola al semplice consenso nei confronti del prelievo di dati.

Per un’eredità demartiniana, la demologia italiana si è fondata su un modo di guardare al potere e alla società incentrato soprattutto sulla «mediazione dell’idioma storico-religioso» (Palumbo 2018: 219), e questo ha oscurato altri aspetti, concentrando l’attenzione “patrimoniale” sul rito e sulla festa folklorica. Questa visione “patrimoniale” dei BCDEA ha scavato nell’immaginario dei gruppi e delle comunità come un fiume carsico, sollecitando movimenti di “capitalizzazione” a fini turistici e ricreativi che, come vedremo, si sono incentrati sulla festa popolare e oggi riesumano e identificano le metafore romantiche del folklore.

Lo studio delle “culture locali”, divulgato attraverso i libri, i documentari televisivi, la musealizzazione e il censimento dei BCDEA, a partire dagli anni Novanta è risultato interessante per le comunità di riferimento, ma pericoloso per la comunità scientifica degli antropologi, preoccupati per gli “eccessi di cultura” e il rischio che il ruolo dell’antropologo venisse frainteso come quello di un esperto della “differenza culturale” o della “valorizzazione dell’identità”. Per questo, si acuì la distanza tra l’antropologia accademica e l’antropologia dei programmi politici regionali, nazionali e sovra-nazionali, questi ultimi sovente prodotti dalle iniziative dell’UNESCO, in cui giocavano un ruolo importante antropologi come Marshall Sahlins[1]. Le ulteriori tensioni scatenate dalla politica internazionale attraverso le cosiddette Liste del Patrimonio vennero evidenziate da autori come Michael Herzfeld, Berardino Palumbo, Daniel Fabre o Christian Bromberger, i quali fin dagli anni Ottanta hanno messo in luce l’identitarismo aggressivo, le sfumature nostalgiche che sostengono l’attaccamento alle tradizioni e le varie forme di mobilitazione popolare in merito al patrimonio. Sull’onda di questi studi, sempre più antropologi dichiarano oggi una postura “anti-culturalista”, ritenendo che la nozione di cultura sia intrinsecamente pericolosa perché contribuisce a naturalizzare le relazioni tra cultura e potere e a reificare i fatti che descrive e interpreta. Tuttavia, osservando a mia volta la “postura anti-culturale”, ho notato che essa molto spesso preferisce sostenere la sua critica tramite la riflessione teorica, piuttosto che usando gli esempi concreti dell’esperienza sul campo. Sicché il presente saggio da un lato porta una prova tangibile della pericolosità del concetto di cultura; dall’altro lato, però, dimostra la pericolosità di un’antropologia che pratica un’eccessiva distanza dal terreno, magari per distinguersi da un’etnografia ingenua, rappresentata dallo studioso del folklore, macchiato di campanilismo e demagogia, oppure dall’esploratore positivista, ancora incentrato sul diffusionismo e sulle “geografie culturali”.

Il saggio parte da una etnografia relativa alla conoscenza popolare delle ricerche demoetnoantropologiche: una conoscenza che sembra aver creato, nel caso in esame, la risemantizzazione di alcuni rituali folklorici. Da questo fenomeno ricaviamo importanti informazioni sulle dinamiche culturali della società, dei gruppi e degli stessi antropologi. Il contesto etnografico esplorato è quello abruzzese: ho osservato gruppi e stratificazioni particolarmente attivi nelle cosiddette “tradizioni popolari” in un lasso di tempo che va dagli anni Settanta ai nostri giorni. Conosco bene il contesto in quanto “nativa”: sono stata presente in giovanissima età sul terreno delle feste patronali con gli antropologi, seguendo i loro discorsi e apprendendo per emulazione come si dialoga con la “diversità culturale”. Gli antropologi che ho osservato andavano alla ricerca di quelli che all’epoca chiamavano “relitti culturali”[2]. Questo precoce interesse si deve al fatto che mio padre è un etnologo nativo abruzzese, ma la nostra inter-generazionalità disciplinare rappresenta, come vedremo in seguito, più una discontinuità che una continuità[3]. Infatti, la continuità quarantennale della mia osservazione nelle stesse zone frequentate “da” mio padre e “con” mio padre mi pone oggi in una prospettiva opposta rispetto alla prospettiva che ebbe quella generazione di antropologi. Oggi, tra le nuove cautele sulla privacy, la crisi della figura dell’intellettuale e le nuove tecnologie della comunicazione, il ruolo sociale dell’antropologo sembra essere stato completamente sovvertito, e le condizioni del terreno sono radicalmente mutate, come vedremo in seguito. Se negli anni Settanta il mio primo incontro col terreno demologico e “patrimoniale” fu naturale, familiare, intimo, un secondo incontro, che non è del tutto rappresentativo di un contesto ben più ampio, fu traumatico e straniante. Esso avvenne nel 2011. Dopo anni di studio e lavoro all’estero, ero rientrata in Abruzzo e, prima ancora di riuscire a riflettere autonomamente sul rapporto tra la demologia e il cambiamento culturale, scoprii che l’antropologo deve avere ogni giorno la prontezza di interpretare una realtà che lo oltrepassa da tutte le parti, perché le cose non succedono mai nel modo in cui è stato già descritto nei manuali.

Un terreno folklorico che ci parla degli antropologi

A partire dal 2001, avevo notato che in Abruzzo i riti folklorici studiati e “patrimonializzati” dagli antropologi erano sotto le luci della ribalta e venivano sovente esaltati dai politici come “il petrolio dell’Abruzzo”, adatti a supportare un nuovo “turismo ricreativo”. Il senso comune che negli anni Settanta e Ottanta, epoca di neofilia, rifiutava le tradizioni popolari come espressione di povertà e subalternità culturale, ora quelle tradizioni esaltava in modo vistoso. Erano in atto grandi processi, organizzati anche in rete, di “revival delle tradizioni popolari”, dai quali gli antropologi “disciplinari” erano stati esclusi, o marginalmente coinvolti. La società civile sembrava aver fatta propria la preoccupazione degli antropologi per la “fine delle tradizioni”, e il movimento di “riscoperta” veniva guidato da soggetti nuovi: spariti gli antropologi, spariti i contadini analfabeti che con commozione raccontavano il passaggio della transumanza o le formule di incantesimo per difendersi dalla febbre, al loro posto, era entrata in scena la categoria ibrida del soggetto acculturato che, accreditandosi come “appassionato”, organizzava eventi presentati come una prosecuzione salvifica di quelle attività espressive che gli antropologi e le comunità avevano istituzionalizzato come “patrimonio culturale”. Queste attività di rivitalizzazione peraltro erano “fuori luogo”: esse non si svolgevano nei piccoli paesi montani dove gli antropologi avevano documentato le tradizioni, ma si dispiegavano nelle aree recentemente urbanizzate della Valpescara, delocalizzando le tradizioni. Per esplorare lo scenario politico di questo “revival”, nel 2009 ho cominciato a realizzare una nethnography, cioè la partecipazione osservante alla vita delle comunità reali e virtuali che erano coinvolte da queste attività[4].

Fui incuriosita, in particolare, da un ciclo di iniziative etnocoreutiche propagandate come “Il ritorno della tradizione”: una sorta di festa popolare che si ispirava al «filone sagrista che celebra il villano» e che implicava l’uso del costume di scena da parte degli animatori (Bravo 1995). Questa festa, a differenza delle sagre, si sdoganava come un’espressione storica e religiosa reale, attestando una continuità attraverso l’uso di elementi devozionali materiali (ventole devozionali, amuleti, rosari). I protagonisti indossavano abiti rifatti “sul modello borbonico” e tutto si fondava sullo slogan del “rigorosamente autentico”. Ho cominciato ad esplorare queste nuove forme di tradizionalizzazione la sera del 23 giugno 2011, quando in un agriturismo della Valpescara ho partecipato alla prima edizione dell’evento “Il ritorno della tradizione del Sangiovanni”.

L’evento era promosso da un’associazione «per l’antropologia territoriale e per il turismo» (così recitava lo statuto) e sembrava obbedire alle finalità merci-patrimoniali già analizzate da altri autori (Comaroff, Comaroff 2009; Palumbo 2006). Ero stata caldamente invitata a intervenire per visionare la “metodologia innovativa” elaborata dal gruppo per tutelare i «preziosi relitti folklorici in via di dispersione» (così recitavano e-mail e comunicati stampa). Gli attivisti erano sicuri che sarei rimasta colpita da quella che avevano orgogliosamente definito come “anastilosi delle tradizioni”. Infatti, essi ritenevano che la ricostruzione filologicamente corretta degli abiti, dei cibi e delle movenze fosse una “conquista scientifica”, una soluzione geniale a cui i demoetnoantropologi non erano ancora pervenuti nel loro inutile sforzo di salvaguardia delle culture. La soluzione innovativa consisteva, appunto, nella “ricostruzione materiale delle tradizioni, pezzo per pezzo”, nello stesso modo con cui, per anastilosi, si ricompone un vaso andato in frantumi. Questa ricostruzione materiale era finalizzata al “trapianto o re-innesto nella società dell’elemento morto, che viene così rivitalizzato”. Così recitavano manifesti, locandine e il sito web dell’associazione.

Colpita da questa inspiegabile fiducia in una “implantologia delle tradizioni” e da questa volontà di trasformare le culture del passato in corpi protesici del presente, sono andata ad osservare la grammatica di questa attività espressiva. L’evento si ispirava ad un rituale religioso, come dimostravano i rosari di legno e ventole devozionali in vendita all’ingresso[5], ma era chiaramente laico ed era patrocinato da enti pubblici e privati. Gli organizzatori indossavano, come fattore di distinzione, costumi da ricchi paesani borbonici, per indicare i privilegi e il benessere di cui – inverosimilmente – “i nostri antenati” godevano in passato, e invitavano noi presenti, in abito normale, ad accomodarci per ascoltare la conferenza preparatoria. Il leader carismatico del gruppo, un dirigente della pubblica amministrazione che era oriundo dell’Umbria e si era trasferito in Abruzzo da pochi anni, indossava antichi pantaloni alla zuava, mantello, ciocie in pelle, spillette votive, tascapane in fustagno e cappello a pan di zucchero, il tutto «rigorosamente rifatto sul modello borbonico» (uso sempre i virgolettati perché le espressioni erano così riportate nella locandina dell’evento e nel sito web dell’associazione culturale); era vestito come il manichino di un diorama dei musei etnografici, e parlava con grande decisione, trattandoci come una classe di scolaretti[6]. Egli espose la ragione dell’incontro, cioè “insegnarci le tradizioni”, di cui noi ascoltatori eravamo “profondamente ignoranti”, per “restaurare il grande vaso rotto della tradizione abruzzese”, intesa come un antico monumento da puntellare e bonificare in modo filologico, in un modo che fosse pienamente aderente alla fonte storica, individuata nelle ricerche demologiche di Gennaro Finamore, Giuseppe Profeta, Alfonso M. di Nola ed Emiliano Giancristofaro. Quest’ultimo, in particolare, aveva invitato nei suoi libri e nei suoi documentari televisivi a conoscere e recuperare la tradizione, ma non era stato in grado di indicare come tale recupero dovesse avvenire, per cui il leader aveva ritenuto necessario proseguire la ricerca antropologica per “brevettare una soluzione”.

Oltre la retrotopia: l’uso politico delle tradizioni

Rimasi stupefatta e addolorata: il leader carismatico dichiarava di essere un antropologo culturale, cosa che non era, e delle etnografie sulle tradizioni popolari faceva una rilettura pratica, essenzializzante, estraniante. Aggirando l’antropologia culturale, aveva equivocato tutto il senso della ricerca folklorica, scatenando in me una reazione anti-culturalista. Ma prendersela con il culturalismo non avrebbe aiutato ad affrontare il blackout comunicativo che si era creato tra quelle persone e l’antropologia culturale. La platea seguiva il discorso del leader con entusiasmo e nessuno sollevava obiezioni, anzi tutti applaudivano con forza, auspicando il “ritorno della tradizione abruzzese”. Il sedicente esperto di antropologia invitò le “neo-tradizionaliste” a sfilare perché la platea ammirasse il “costume abruzzese autentico del 1860”. Si trattava di alcune donne di mezza età che, compiaciute della definizione (“neo-tradizionaliste”) con cui il leader carismatico le categorizzava, erano abbigliate in modo identico ai manichini raffiguranti le popolane abruzzesi nel Museo Nazionale di Arti e Tradizioni Popolari di Roma. Quei manichini sono un’espressione museale del 1911, il frutto della politica rappresentativa dei costumi regionali dell’epoca pre-unitaria, lontana dalla realtà dei popolani più poveri (Puccini 2005). Ma ero l’unica ad avere questa visione storica. Il leader, con uno stile da conduttore televisivo, passò la parola ad una “neo-tradizionalista”, che dichiarò di essere laureata in storia delle tradizioni popolari, di essere innamorata di questo campo di studio, di aver molto lavorato con la sarta e il leader carismatico per realizzare la sua copia dell’abito borbonico, di indossarlo con orgoglio malgrado pesasse quasi dieci chili, e di affrontare il disagio “pur di salvare la tradizione”. La platea era in visibilio: tutti scattavano foto con gli smartphone al diorama vivente e alle preziosità iconografiche finalmente resuscitate e personificate. L’esperto concluse che era riuscito per anastilosi a ricostruire non solo i costumi, ma anche i cibi rituali e le formule autentiche del comparatico. Declamò frasi di Frazer sulla potenza esoterica della congiunzione solstiziale e affermò che il gran momento era arrivato, e che per i presenti sarebbe stato un privilegio sottoporsi alla potenza propiziatoria del rito di passaggio.

Questo il protocollo: la coppia improvvisata di compari o comari doveva pronunziare una formula dialettale scambiandosi un mazzetto di fiori dalle virtù magiche, gentilmente steso dalle neo-tradizionaliste che sorridevano, a testa coperta, ingolfate da gonne e sopra gonne, scialli damascati e monili che sembravano usciti dalle teche di un museo. Coi fiori in mano, noi partecipanti, una sessantina, a ritmo di organetto, siamo stati condotti verso un ruscello finto (l’acqua scorreva da un tubo di gomma) e, a due a due, scavallando l’acqua, abbiamo pronunciato la formula con l’aiuto dell’esperto che, come un sacerdote, ci dichiarava compari o comari “per l’eternità”, spruzzandoci di acqua propiziatoria, per una sorta di iniziazione a una nuova vita tradizionalista. L’azione si realizzava con emozione e partecipazione, segno che la risignificazione rituale era efficace dal punto di vista delle aspettative normative del gruppo. Seguirono abbondanti libagioni e allegri saltarelli alla luce delle torce, al suono di musiche realizzate dal vivo, con strumenti artigianali “naturali, privi delle superfetazioni della modernità”. Non mancò un gran finale di canti tradizionali alludenti al sesso e al vino, mentre qualche commensale declamava la sua preoccupazione per la “invasione” di “cinesi, musulmani, omosessuali e africani”, che evidentemente erano percepiti come distruttori del sacro ordine del passato.

L’effervescenza festiva faceva da contraltare alla contraddittorietà dei contenuti. Infatti, il comparatico che era stato stretto in quella occasione era una finzione, e quelli che si sarebbero dovuti considerare “compari” si persero di vista quella stessa sera, ribaltando il senso del rituale che istituzionalizza la relazione per tutta la vita. Alla fine della festa, ognuno se ne andò soddisfatto del suo nuovo set di norme tradizionaliste, tenendo come una bomboniera il suo mazzetto odoroso e propiziatorio, ripromettendosi di ricontattare l’associazione e di seguirne le attività, magari acquistando un “costume abruzzese autentico” da sfoggiare nelle occasioni. Questo S. Giovanni somigliava piuttosto ad un rituale di affiliazione al gruppo, il quale riusciva a realizzare una mistica delle tradizioni richiamando il passato in modo invertito, secondo il copione trasfigurante già rodato con le rievocazioni storiche, che nel contesto osservato hanno registrato un gran successo fin dagli anni Cinquanta. Le persone erano soddisfatte dalle spiegazioni mistiche del leader e si convincevano del reale “ritorno della tradizione”, come si evince dalle interviste raccolte nell’occasione.

«Questa tradizione si era persa e noi l’abbiamo fatta rivivere» (G. P., anni 54, Cepagatti).

«Io nell’associazione tradizionalista sono entrata tre anni fa sottoponendomi al rito del Sangiovanni, oggi nelle feste indosso l’abito tradizionale, anche tu dovresti farlo, visto che sei un’antropologa. Io non tornerei mai indietro, è un viaggio spirituale nel nostro grande passato borbonico» (R. T., anni 55, Pescara).

«Questa tradizione mi ha emozionata, ho sentito la magia del passato impossessarsi di me, sono entrata in un mondo migliore, più semplice, più autentico del nostro» (S. D., anni 39, Pescara).

«Se sei un’antropologa, perché non hai indossato l’abito tradizionale? Perché stavi a guardare, anziché insegnarci a ballare il saltarello? Forse non sei un’antropologa molto esperta, il nostro leader è più bravo» (S. P., anni 44, Spoltore).

Il mio sconcerto era grande: gli attivisti, convinti di essere antropologi, avevano “recitato” la documentazione demologica al fine di creare un nuovo rito, che dalla memoria collettiva era stato immediatamente riconosciuto e accreditato come “forma nota”, svolgendo una nuova funzione politica. In seguito, infatti, gli attivisti si sono rivelati appartenere ad una sorta di movimento populista neo-borbonico o di riscatto nostalgico del Meridione: un movimento anti-moderno, fondato sull’esaltazione dell’identità e sulla chiusura dei confini.

L’intenso riferimento al passato ed al localismo risultava funzionale a evitare un complicato confronto col presente e col futuro, secondo quel particolare atteggiamento contemporaneo identificato come “retrotopia” (Bauman 2017). Tuttavia, il linguaggio aggressivo praticato con disinvoltura dai protagonisti di questo “ritorno delle tradizioni” ben presto mi convinse che la sola retrotopia non poteva spiegare il fenomeno. D’altronde, la metafora organicistica di questa sceneggiata, definita dagli attivisti come "trapianto" o "innesto" della tradizione, evocava l’espianto di una risorsa da chi non può più servirsene, cioè il sapere librario e archivistico morto, al corpo vivo del coacervo urbano, bisognoso di una linfa culturale che nell’immaginario collettivo inventasse e rinforzasse un’appartenenza politica che però non aveva una funzione patriottica e nazionalistica, come succedeva tra Ottocento e Novecento (Anderson 2009), bensì una connotazione nuova: il sovranismo populista.

È troppo tardi per una restituzione etnografica?

Negli anni Novanta, in Abruzzo, avevo osservato lo sviluppo, tardivo e disallineato rispetto alle altre regioni italiane, di un fenomeno di folk-revival delle danze locali, sicuramente sollecitato dal fermento artistico che si era sviluppato intorno al neo-tarantismo pugliese. Si trattava di incontri formativi (workshop) che, organizzati dagli antropologi insieme alle Pro Loco, si accompagnavano alla pratica ricreativa della danza ed erano condotti in modo riflessivo. I partecipanti apprendevano con gli etnomusicologi e gli etnocoreologi passi di danza come la spallata o il saltarello, senza ricorrere all’uso ideologico dei costumi folkloristici. Quegli interventi indicavano la “perdita delle tradizioni” come un deterioramento, e coltivavano il senso del passato come prolungamento di un sistema imperniato sull’equilibrio ecologico e sociale, sottolineando la disuguaglianza e l’oppressione del ceto subalterno. In quelle campagne “revivaliste”, la prospettiva socialista e marxista controllava le derive identitarie del culturalismo: un esperimento di successo, che però era durato poco. Dove erano finiti gli antropologi che avevano messo in campo il revivalismo? Forse un malinteso senso di colpa post-coloniale li aveva allontanati dal terreno folklorico? Perché i protagonisti del nuovo fenomeno ora dichiaravano di essere “antropologi”? Forse, era stata proprio l’assenza degli antropologi “veri” a generare, in soli dieci anni, quel “revivalismo” alienante e identitarista? Infatti, l’evocazione continua della figura dell’antropologo-leader, con quel travestimento da diorama etnografico, somigliava alla figura del finto-medico che, con la finta infermiera e col camice bianco, amministrava la Kalela dance degli Ndebu, in Rodesia, vigilando sulla “contaminazione simbolica in atto” e sullo “stato di salute della danza” (Mitchell 1956). Come la Kalela dance, anche questo spettacolo metteva in luce i significati politici di nuove forme di tribalismo urbano, ma questo gruppo per accreditare le proprie istanze si serviva della maschera da “antropologo”.

Per comprendere quel groviglio di significati in cui i protagonisti si muovevano liberamente e con regole ambigue e conflittuali, dovevo superare la mera analisi della rappresentazione, e capire il significato simbolico degli attori della pantomima, a partire dalla figura “sovvertita” dell’antropologo, costruttore di muri, di purismo, di barriere in nome di un culturalismo male inteso. Ricordai alcune chiacchierate con i giovani antropologi che negli anni Novanta avevano lavorato ai programmi revivalisti: due di essi avevano nel frattempo vinto rispettivamente un dottorato con assegno di ricerca in MDEA/01 e un concorso da Funzionario per la Promozione e Comunicazione presso il MIBACT. Avevo annotato le loro opinioni e, ora, in ottemperanza del RGPD in materia di trattamento dei dati personali, le riporto sostituendo le loro generalità con nomi di fantasia, in quanto non mi è possibile procurarmi il loro consenso. La presente etnografia, insomma, nasce come etnografia dei processi di patrimonializzazione, ma entra nel campo delle istituzioni politiche, presentando una sintetica etnografia del settore scientifico disciplinare, nella quale i colleghi in questo caso sono “informatori”.

«Le nostre attività di valorizzazione erano focus sulla tradizione, riflessivi ma non troppo critici: abbiamo fatto, in buona fede, culturalismo, in senso lévistraussiano. Era un modo per guadagnare qualcosa e per continuare a fare ricerca, visto che le Pro Loco ci pagavano e visto che la laurea in antropologia culturale non offre molte opportunità di lavoro. Abbiamo lavorato con criterio, abbiamo divulgato il pensiero di Gramsci, di De Martino, espandendo la visione di quelle comunità. Ma ora non è più aria, gli ordinari sono contro il culturalismo. Bisogna andarci cauti. Detto tra noi, è diventato sconveniente lavorare con le Pro Loco» (S. C., Roma).

«Ho realizzato varie campagne per conto del MIBACT, in varie province e regioni: il concetto di cultura ha una vocazione descrittiva, e catalogando, classificando e analizzando ho fatto antropologia culturale, soprattutto perché ho dialogato coi miei informatori. Dopo gli incontri abbiamo festeggiato e ballato, e questo faceva parte del gioco etnografico. Penso di aver fatto un buon lavoro di recupero. Tuttavia ho dovuto prendere una decisione drastica: la carriera universitaria era proibitiva, e in aggiunta a ciò, dopo la svolta post-coloniale mi è mancata la terra sotto i piedi. Ho cominciato ad aver paura di lavorare in campo, per gli accademici ciò che facevo era sbagliato, ma alla gente piaceva. Tutta l’antropologia che ho imparato sul terreno resterà una risorsa personale, visto che nel campo pubblico questo sapere è di difficile applicazione» (G. G., Pescara).

Fare l’antropologo era diventato più difficile e “meno remunerativo” perché, in soli dieci anni, lo studio della cultura si era complicato, emergendo nella sua prospettiva relazionale e reticolare, tra popolarità e intenzionalità, tra localismi, diffusione di massa e ibridazione. I sistemi collettivi di significato hanno smesso di appartenere ai luoghi e si riferiscono ai territori senza una necessità logica, incorporandosi nelle relazioni sociali e nei network di queste relazioni (Hannerz 1998). Però, la visione delle culture popolari si era ormai “patrimonializzata” come BCDEA e continuava a realizzare, nella cittadinanza, un network di prospettive che si incanalava nei mezzi di comunicazione e che, anche in mancanza degli antropologi, sollecitava la riappropriazione popolare dei beni stessi. Quando le campagne etnografiche erano finite, il movimento revivalista, rimasto privo del supporto degli antropologi, aveva continuato a procedere motu proprio, colonizzando le città. La “capitalizzazione” delle tradizioni si svolgeva ora sotto la guida di un finto antropologo e assumeva una funzione pratica, aveva fini logici, economici, turistici e ricreativi, e accomunava strati ampi della popolazione. Il “multiculturalismo” che, negli anni Novanta, sembrava una panacea per gestire la questione della diversità, veniva applicato ora alla politica, e stabiliva muri e confini, si saturava di razzismo etnico.

Insomma, l’antropologia, dopo aver immesso nella società locale i concetti potenzialmente tossici di “identità”, “tradizione” e “cultura”, nel giro di pochi anni se ne era disfatta, dileguandosi e lasciando questi “rifiuti pericolosi” alla mercé degli usi aggregativi locali. E questi concetti, nel caso in questione, sono stati facilmente riciclati come strumenti politici rivendicativi e anche razzisti. Bisognava proporre una “via di fuga”, e Gramsci, che introdusse nel marxismo le nozioni di società civile, di articolazione, di egemonia, di “intellettuale organico” (Gramsci 1975: I, 44; IV, 476; VII, 83; III, 1550), mi venne in aiuto: i gruppi che stavo etnografando avevano bisogno di una restituzione etnografica, di una discussione del loro public folklore, sia pur tardiva: c’era bisogno di un anelito da “intellettuale organico”, anche a scapito della carriera accademica. Bisognava lavorare con le associazioni culturali, e con le Pro Loco, riportando in equilibrio il “culturalismo”.

Confortata da Pietro Clemente e Vincenzo Spera, decisi di proporre al gruppo de “Il ritorno della tradizione” una conferenza divulgativa che spiegasse agli accoliti che non era il caso di definire “antropologiche” quelle attività[7]. La conferenza si tenne nel 2015 col parere contrario del leader carismatico che, vertendo la conferenza sugli “eccessi di cultura”, mi fece giungere intimidazioni in vario modo. Leggemmo insieme brani del testo di Francesco Remotti, Contro l’identità, e indicai gli svantaggi di quella ossessione per la ricostruzione filologica e per la purezza. Cercando di smontare il ragionamento comune, per il quale la tradizione è il passato che persiste nel presente, per una erronea analogia con i processi di filiazione[8]. Il mio approccio fu prudente perché l’anti-tradizionalismo, in condizioni di polarizzazione ideologica, corre il rischio non solo di usare gli stessi strumenti ideologici del tradizionalismo, ma anche di riprodurre gli stessi meccanismi di reificazione e stigmatizzazione della diversità di opinione, secondo quanto accade pure nella contrapposizione tra razzismo e anti-razzismo (Taguieff 1991). Ne scaturirono complicate discussioni e una generale messa in crisi del gruppo, dai quali alcuni membri si dissociarono.

«Io credevo che le nostre attività fossero antropologiche, invece ora ho capito che non c’è nulla di scientifico in quello che abbiamo fatto! Finalmente ho aperto gli occhi» (B. G., anni 57, Chieti).

«Dopo averti ascoltata, il costume borbonico non lo voglio più indossare, rivoglio il mio eskimo e le mie vecchie clark di quando militavo dei collettivi studenteschi a Roma» (A. V., anni 65, Spoltore).

«Io mi sono fidata ciecamente, pensavo che i nostri leader fossero antropologi accreditati. Il costume abruzzese autentico prima lo vedevo come una reliquia, uno strumento magico, mentre ora mi sembra un mucchio di stoffe senza senso e sono davvero imbarazzata per i soldi che ho speso per acquistarlo. Lo donerò a qualche museo di paese, ammesso che lo vogliano, perché è un rifacimento, un falso!» (M. N., anni 56, Chieti).

«Voglio vivere nel presente, ho bisogno di tradizioni e di patrimoni culturali non per sognare un mondo migliore, ma per riflettere e per capire il mondo come esso è, con sano realismo. Penso che leggerò dei libri di antropologia» (D. D., anni 55, Pescara).

Al contrario, altri membri del gruppo rafforzarono la loro posizione di “talebani della tradizione”, come mostrano i seguenti stralci di conversazioni, intrattenute di persona oppure tramite i social network.

«Siamo ariani, eterosessuali e cattolici. Le tue chiacchiere da radical-chic non ci convincono. A me piace l’idea di ricostruire il passato. Qui non passa lo straniero!» (S. D., anni 51, Montesilvano).

«Ognuno a casa sua: qui gli stranieri non li vogliamo» (A. F., anni 59, Spoltore).

«Come fa una donna come te, una madre, una cristiana, a non apprezzare la nostra lotta per proteggere le nostre radici? Che antropologa sei? Gli antropologi dovrebbero proteggere la tradizione, invece tu e quel Remotti la volete distruggere» (A. F., anni 59, Spoltore).

«Gli antropologi ci devono insegnare a distinguere il purosangue dal meticcio. Tu stai sempre dalla parte di ciò che è meticcio, e questo non ci piace» (S. D., Pescara).

Questa raccolta di opinioni, che può sembrare aneddotica, illustra la penetrazione del culturalismo nel senso comune e delinea un quadro di interesse per le tradizioni popolari che è ampio, complesso, multifunzionale e dinamico. Certamente, questo caso di studio non è sufficientemente rappresentativo né dell’Abruzzo, né dei tanti casi europei in cui la capacità aggregativa di comunità locali viene sfruttata dai movimenti identitari e di estrema destra; del resto, il presente saggio non si prefigge di fare un raffronto tra le derive identitariste di realtà nazionali ed europee. L’obbiettivo, infatti, è quello di affrontare questioni specifiche come il culturalismo e i processi di patrimonializzazione alla luce dell’antropologia pubblica. Dobbiamo procedere con gradualità, perché ci stiamo muovendo in una scala ampia e con una visione “politica”.

Nel contesto in oggetto, i gruppi tradizionalisti sono stati attivi soprattutto nei paesi della Valpescara tra gli anni 2001-2017, coagulando un movimento che, abbracciando le posizioni politiche di un generale populismo, appoggiava dapprima il Movimento Cinque Stelle, per poi intrecciarsi, a partire dal 2017, con le posizioni sovraniste della Lega Nord per l’indipendenza della Padania, collegata al movimento Lega per Salvini Premier[9]. Alcuni di questi “tradizional-sovranisti” li ho trovati, sui social network, come attivisti delle pagine Casa Pound e Io sto con Salvini a difesa della Legge Pillon “contro le ex mogli sanguisughe”; li ho ritrovati impegnati anche nell’abolizione della Legge 194 del 1978, definita “assassina di bambini”, o in varie campagne mediatiche contro “i giudici”, “Bibbiano” “la Boldrini” e “le cooperative rosse”[10]. Questo scenario di polarizzazioni culturaliste e di “frammenti indigesti” mi fece preannunciare il successo che la Lega Nord avrebbe avuto in Abruzzo nelle elezioni regionali del 2019, quando invece il Movimento Cinque Stelle era dato per vincente (Giancristofaro 2017: 110-125). Il leader della Lega, infatti, riusciva – e tuttora riesce – ad incarnare in discorsi semplici e pratici la dicotomia netta tra bene e male del ragionamento popolare, ed entrava – e tuttora entra – nel profondo della vita sociale attraverso l’uso costante di riferimenti alla famiglia, alla tradizione, al presepe, al rosario, alla casa, alla festa, ai costumi e ai confini. A tal proposito, oltre alla festa tradizionalista del S. Giovanni, segnalo quelle, ripetutesi fino a pochi mesi fa, di Ognissanti e del Natale Tradizionale, che in modo ancora più esplicito motivano gli spettatori verso una competitività politica, finalizzata a creare forme di polarizzazione concettuale. Infatti, la «festa tradizionale, cattolica e “borbonica” di Ognissanti», viene contrapposta alla festa «nuova, pagana e sacrilega di Halloween» (cito direttamente dai manifesti o dalle interviste sul terreno); il «passato di ricchezza e felicità» viene messo in contrapposizione con un «presente di miseria e degrado»; infine, «il nostro presepe, meraviglioso ricordo della nostra infanzia» viene messo in contrapposizione non solo con “l’albero”, quanto con tutte le possibili innovazioni che nella contemporaneità hanno cercato di ridare un senso al Natale, come la rappresentazione di un Gesù Bambino di colore o la sacra famiglia ritratta nei panni drammatici dei migranti che vanno incontro ad un naufragio senza salvezza. Queste sono le opinioni che ho raccolto sul terreno.

«Basta con queste pagliacciate del Gesù africano e delle coperte per i migranti, Gesù era bianco e non era un profugo, i radical chic stanno strumentalizzando il presepe per far entrare i negri e per realizzare la sostituzione etnica in Italia» (F. I., anni 71, Pescara).

«Ci sono italiani che rovistano nella spazzatura per mangiare, mentre gli intellettuali dei miei stivali si preoccupano di togliere i crocifissi nelle scuole per non offendere i musulmani» (S. L., anni 63, Chieti).

«Dobbiamo uscire fuori dall’Europa e rifare il Regno delle Due Sicilie, il significato politico del nostro costume borbonico è anche questo: ci armeremo di schioppi e forconi contro gli africani e i “sinistri” che distruggono le nostre radici» (G. G., anni 58, Civitella del Tronto).

«Papa Francesco sta distruggendo la Santa Romana Chiesa. Siamo lefebvriani e tradizionalisti, il nostro gruppo mira a restaurare il costume, con la messa in latino e le donne a capo coperto» (V. T., anni 59, Campobasso).

«L’Europa e le Nazioni Unite hanno distrutto l’economia italiana, i cinesi portano le malattie, e i radical chic approvano la procreazione degli omosessuali! Rivogliamo il Duce e la sovranità nazionale!» (S. P., anni 70, Spoltore).

«Gli africani sbarcano tutti palestrati, con gli abiti firmati e i telefonini di ultima generazione, prendono 35 euro al giorno mentre noi facciamo fatica a mandare avanti le famiglie» (F. S., anni 48, Chieti).

«Evviva i “piddioti”, ci hanno regalato oltre venti milioni di clandestini, bravi gli “accoglioni”» (E. B., anni 46, Vasto).

«Prima gli italiani, prima gli abruzzesi» (S. U., anni 66, Chieti).

Le feste neo-borboniche, forti del riferimento storico alla vicenda di Civitella del Tronto (ultima roccaforte borbonica ad arrendersi all’unità nazionale nel 1861), tuttora si intrecciano ai proclami sovranisti e rappresentano, agli occhi delle persone sconcertate e insoddisfatte, il baluardo difensivo di una tradizione ideologizzata, rafforzata dal richiamo autonomista-libertario. Le immagini, circolando sui social media, consentono la permanenza del tempo effimero della festa con nuove finalità politiche e si mescolano, sulle bacheche e sui profili, con vignette sessiste, omofobe, antizigane e antisemite: strumenti semplici che consentono di confermare in modo attuale i vecchi temi della cultura popolare, come il potere economico delle lobby ebraiche sul mondo, l’inferiorità della donna, la diffusione di epidemie da parte degli stranieri “untori”, la necessità di un uomo forte al comando. Le immagini e gli slogan veicolano un mondo romantico, idealtipico, da realizzare attraverso soluzioni facili (autodifesa armata, incarcerazione immediata, Ital-exit dall’Europa, rimpatrio di massa, castrazione chimica, lavori forzati); per questo, hanno un impatto immediato su chi cerca una soluzione che possa spiegare in modo ordinato le difficoltà quotidiane.

Il sovranismo, del resto, ha bisogno di un nemico per meglio mobilitare i suoi accoliti e partigiani, e questo nemico è soprattutto interno. Anche se ispirato dal rifiuto per i fattori internazionali, il nemico dei sovranisti è il sistema di principi, regole e valori che hanno governato lo Stato, o la città, negli anni precedenti. Per esempio, per il sovranismo italiano, incarnato nel partito politico Lega Nord, il detestato “sistema da abbattere” comprende la democrazia rappresentativa, i diritti delle minoranze, la parità tra uomo e donna, l’apertura ai generi non eteronormativi, il diritto all’aborto, alla salute, all’educazione, all’asilo politico. Questo si evince dalla irritazione popolare per il politically correct.

«Gli immigrati, i carcerati, i disabili sono un peso per tutti, basta con le ipocrisie. Hai idea di quanti miliardi ci costano? E io devo lavorare per mantenere questa gente qui?» (A. P., anni 61, Lanciano).

«Sì, sono razzista, e allora? È forse un reato? Non voglio che le africane vengano a sgravare in Italia» (S. D., anni 47, Chieti).

«Per tradizione, la donna è inferiore, è fragile e non può fare le cose che fa l’uomo. È scritto nella Bibbia, punto. Voi “sinistri” avete montato la testa alle donne e avete distrutto la famiglia!» (S. A., anni 72, Chieti).

«A me scoccia che una coppia gay possa usufruire dei diritti che hanno le coppie normali. Non è giusto, io non voglio pagare le tasse per questa gente qui. Voi professoroni campate alle spalle dei contribuenti, ma quando governeremo finalmente tacerete» (S. P., anni 68, Spoltore).

Per una sorta di resistenza verso i cambiamenti, i movimenti tradizionalisti e sovranisti, facendo leva sulle “tradizioni” intese come “ritorno al passato”, cercano di rovesciare il sistema dei diritti civili e sociali conquistati negli ultimi cinquant’anni, auspicando che un uomo forte al comando ripristini una situazione antecedente alla “concessione” dei diritti civili, visti come causa di disordine sociale e di impoverimento economico. Tuttavia, sul piano internazionale, i partiti sovranisti non riescono a creare un’unica agenda, dato il loro appello alla primazia di ogni singolo gruppo, e si limitano a condividere sia la volontà di superare la democrazia rappresentativa per inaugurare l’era della democrazia diretta per cui ogni comunità ha il diritto di autoproclamare il proprio “autogoverno”, sia la volontà di sciogliere i patti instaurati con le organizzazioni internazionali (specie quelli delle Nazioni Unite), nella convinzione che si tratti di accordi che garantiscono diritti a chi non li merita, a scapito di chi li merita per una superiorità ascritta[11].

Un programma politico di “culturalismo responsabile”

La mia restituzione etnografica (tardiva) sulle tradizioni e sul ritorno delle tradizioni ebbe un bilancio abbastanza fruttuoso e, nonostante sia stata condotta con una certa improvvisazione, in alcuni attori sociali produsse forme di riflessività, se non di etnocentrismo critico. Tra le sfide dell’antropologia di oggi, c’è la decostruzione del culturalismo (Bromberger 2014): ma come intervenire sugli usi aggressivi dell’identità se ci priviamo dello strumento culturalista? Significherebbe riprodurre gli stessi meccanismi di reificazione e stigmatizzazione della diversità di opinione.

Le istituzioni internazionali, ovvero le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa, hanno da tempo preso coscienza della capacità aggregativa e socializzante che le tradizioni esercitano oggi: un’arma a doppio taglio che ha già mostrato la sua pericolosità scatenando sanguinosi conflitti. Per questo, le Nazioni Unite, tramite l’UNESCO hanno promosso, nel 2003, la “Convenzione internazionale per la salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale”, ratificata oggi da quasi duecento Stati del mondo, tra cui l’Italia. Si tratta di uno strumento che spinge i gruppi e le comunità che si identificano nelle loro tradizioni a praticare l’etnografia, ovvero a partecipare all’etnografia condotta dagli antropologi, qualora essi vogliano iscrivere le loro tradizioni in Liste del patrimonio. Per sollecitare queste prassi etnografiche, il sistema degli Stati-Parte della “Convenzione del 2003” ha istituito la Lista rappresentativa (LR), la Lista di salvaguardia urgente (LSU) e il Registro delle buone pratiche di salvaguardia (RBP). Le Liste sono strumenti operativi “temporanei” per le comunità e i governi: i processi di inventariazione partecipativa dei beni (si tratta di fatto di “campagne etnografiche”) vengono formalizzati in dossier che gli Stati-Parte inoltrano alle Commissioni della “Convenzione del 2003”. L’atto finale, cioè l’iscrizione in una delle tre Liste, convalida a livello della Convenzione internazionale un elemento che è già stato selezionato come patrimonio nazionale dallo Stato-parte, secondo una gerarchia della progressività del riconoscimento (dal piccolo al grande). L’inclusione di un bene culturale nella Lista avvicina il bene culturale agli altri beni della Lista stessa, creando una catena di immagini transnazionali che collegano i patrimoni dell’attore collettivo detto “umanità”[12]. L’inclusività del progetto è testimoniata dal fatto che, dal 2003 ad oggi, oltre 500 elementi sono stati iscritti, e solo un elemento è stato cancellato dalla Lista, il Carnevale di Aalst, per aver per due volte realizzato manifestazioni pubbliche di antisemitismo[13]. Insomma, perché nessun gruppo venga emarginato, o si auto-emargini, o aggredisca, o sfrutti le culture diverse, o si faccia sfruttare, la “Convenzione del 2003” obbliga gli Stati-Parte (la Convenzione è un patto tra governi) a realizzare politiche riflessive sulle tradizioni e sulle culture, le quali passano necessariamente attraverso l’etnografia e il dialogo interculturale.

L’intervento pubblico nel settore del patrimonio immateriale ha strutturato comunità ampie e ha sollecitato, tramite la riflessione antropologica, l’orchestrazione “politicamente corretta” della diversità culturale. Questo intervento politico si sostanzia oggi in una forma precaria di razionalizzazione delle relazioni sociali, un esercizio di strutturazione del campo di azione adatto a “dirigere la condotta altrui” (Foucault 1989). Questo “governo a distanza”, contrariamente ad altre forme di governo, cerca di non schiacciare la capacità di azione dei suoi soggetti, ma piuttosto la riconosce, e agisce su di essa attraverso una profusione di tecniche e programmi di collegamento. Il progressivo riconoscimento degli attori in gioco (gli antropologi come “esperti”, le comunità come “portatrici di patrimonio”, le associazioni culturali come “fattori di organizzazione” e le istituzioni del patrimonio come “referenti ufficiali”) realizza quella proliferazione dei centri di potere che consente l’estensione, anche all’ambito culturalista, della governamentalità. Insomma, la macchina amministrativa messa in campo dalla Convenzione del 2003 va ben oltre una visione estetica o “etnicizzante” delle culture e dei patrimoni, perché realizza l’idea di cultura come insieme specifico di strumenti per agire sul sociale nell’obiettivo di realizzare forme di pacificazione e di rispetto ambientale. Insomma, il concetto di cultura come formazione storica si è intrecciato a forme “larghe” di governamentalità (Hafstein 2015).

I professionisti coinvolti dalla “Convenzione del 2003” sono soprattutto gli antropologi culturali che, tramite le Organizzazioni Non Governative e il terzo settore, collaborano con le comunità, i gruppi e le persone per salvaguardare i beni trasmessi oralmente che siano «compatibili con gli strumenti esistenti in materia di diritti umani e con le esigenze di rispetto reciproco fra comunità, gruppi e individui nonché di sviluppo sostenibile» (art. 2.1). Il sistema delle Liste del patrimonio immateriale è, allo stato attuale, il meno costoso e il più efficace per bilanciare le tensioni, per responsabilizzare le “comunità portatrici di tradizioni” e per sollecitarle a rispettare la diversità culturale. Attraverso l’etnografia e la negoziazione, la “macchina della Convenzione” vuole impedire la mercificazione e gli usi impropri (misappropriation) di beni che, essendo collettivi e costantemente trasmessi tra gruppi e generazioni, dimostrano la loro fragilità e manipolabilità: è quanto è successo nelle zone di recente urbanizzazione della Valpescara, dove le tradizioni dei paesi sono state letteralmente “copiate” e proposte in chiave mercantile. Per raggiungere l’obbiettivo, le comunità che si candidano per l’iscrizione in una Lista devono riflettere e seguire «norme di condotta riferite a comportamenti accettabili o inaccettabili per una società o comunità, non necessariamente da un punto di vista giuridico, ma da una prospettiva umana o culturale»[14]. Insomma, la Convenzione impone, sostanzialmente, l’uso del buon senso. Nel superamento del diritto a favore dell’etica è fondamentale il ruolo dell’antropologo, impegnato nel dialogo con persone appartenenti a contesti culturali che rispondono a codici di comportamento diversi. Vasti livelli della popolazione si sono appropriati di innovativi strumenti di rivendicazione, mediazione, tutela della privacy, registrazione del copyright e promozione di interessi minoritari (Hafstein 2015, 2018), e questo processo di emancipazione popolare si svolge con la mediazione degli intellettuali, soprattutto antropologi.

In Italia, un’analisi approfondita della questione è stata fatta, tra gli altri, da Fabio Dei, che sottolinea il culturalismo del programma politico del 2003 (Dei 2018). Le Liste (così come le schedature e i dossier ministeriali) realizzano un’inventariazione, un’oggettivizzazione, istituzionalizzazione e mondializzazione della memoria popolare e della sua soggettività intrinseca. Musealizzare e istituzionalizzare elementi specifici di una cultura è un processo che contiene, di per sé, incongruenze: l’astrazione e la decontestualizzazione di un elemento si accompagnano allo strattonamento dei significati e, nonostante le norme internazionali forniscano in merito all’heritage definizioni aperte e incentrate sulla comunità portatrice, «l’approccio patrimoniale, che oggi ha in buona parte sostituito quello demologico, è scarsamente interessato al popolare, cioè al rapporto tra differenze sociali e culturali; di più, si distanzia nettamente dal (…) nucleo dell’intelligenza antropologica, vale a dire lo studio della cultura nelle sue dimensioni più quotidiane, implicite e diffuse» (Dei 2018: 247-248).

Dei però sottolinea la vivacità e la ricchezza di prospettive della «antropologia dei processi di patrimonializzazione», ed il fatto che essa esplora il campo nuovo della “società civile”, a differenza di quanto tende a fare la demologia, la quale si chiude ed incentra sullo studio delle “comunità” (Dei 2015, 2018: 247-248).

Il programma politico del 2003, come sistema di “governamentalità culturalista”, tenta di attivare processi di autocoscienza e riflessività nella popolazione, accelerando il ripensamento epistemologico e partecipativo col quale la demologia italiana, come ogni forma di ricerca antropologica, deve confrontarsi. Infatti, la demologia, nelle società complesse si è trovata “fuori luogo” e il dibattito è ancora in corso: si tratta di una questione importante, perché la demologia connota l’antropologia italiana in chiave disciplinare[15]. Mi pare perciò che la demologia si stia spontaneamente convertendo in una prospettiva ampia e moderna che si occupa di folklore contemporaneo e di processi di patrimonializzazione, i quali si svolgono a livelli ampi e stratificati e sono osservabili in chiave politica, proprio perché esplorano l’uso stesso della parola “tradizione”: un po’ come stiamo facendo in questo saggio, che riflette antropologicamente anche sulle istituzioni e sugli stessi antropologi. Il case-study che abbiamo presentato dichiara che il folklore è un mare magnum dove non tutto è cosciente, non tutto è patrimonio culturale (Clifford 2007): qualcuno degli informatori, dopo aver riflettuto, si è vergognato di aver “patrimonializzato” il rifacimento degli abiti popolari ottocenteschi, e ha declassato ciò che prima riteneva essere reliquia degna di un museo. Qualcun altro, come vedremo nel prossimo paragrafo, si è scagliato contro i processi di patrimonializzazione, vedendoli come uno “spossessamento” e una perdita di controllo sulle tradizioni. Insomma, il folklore resiste, talvolta crea forme patrimoniali, e ragionarci sopra non è tempo perso, anzi: comprendere il funzionamento di questo «agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita» consente di incidere sui processi storici (Gramsci 1975: IV–2312). Perciò è fondamentale che i gruppi e le persone fruiscano del lavoro etnografico, scegliendo se patrimonializzare, cosa patrimonializzare, e perché patrimonializzare.

I meccanismi della patrimonializzazione mondializzata, in cui la “salvaguardia” somiglia ad un dispositivo egemonico-educativo, hanno una funzione “emancipatoria” tanto quanto le singole etnografie. Le etnografie sono insufficienti a loro stesse, ma ognuna di esse riesce ad essere utile, e insieme migliorano la vita delle persone e della collettività; nello stesso modo, gli elementi delle Liste sono il risultato di etnografie, possono non piacere ad altri antropologi, ma qualcuno ne trae forme di riflessività. Gli antropologi guardano con sospetto l’uso pubblico della “universalità” del patrimonio culturale, in quanto dietro questa visione si potrebbe nascondere uno strumento persuasivo attraverso il quale l’Occidente riesce a controllare e a “normalizzare” le periferie del mondo. Tuttavia, i processi di patrimonializzazione, essendo processi di scala, si realizzano in più livelli: essi consentono all’antropologo (e alla stessa comunità protagonista delle singole ricerche) di osservare i fatti attraverso una distanza ravvicinata, di estendere lo sguardo, di mettersi a una distanza intermedia, e di valutare i processi nel loro insieme, fino a farne una “panoramica”. L’aspetto locale, nazionale e internazionale dei processi di patrimonializzazione è fondamentale per un’antropologia dei mondi complessi, che non può più limitarsi alla “visione organica” e di “scala unica” individuata nella monografia sugli usi e sui conflitti interni del singolo villaggio, allo sguardo del singolo studioso. Gli individui sono parte di vari universi sociali, e il loro comportamento va osservato nei diversi livelli culturali cui appartengono, da quello della singolarità individuale, a quello delle comunità, a quello delle reti trans-locali. È questo approccio plurale, questo fare continuamente la spola tra il ‘piccolo’ e il ‘grande’, a caratterizzare, a mio avviso, lo studio che parte dal folklore e arriva ai patrimoni e a tutto ciò che le persone ritengono essere “culturale”.

La “regressione” dal patrimonio: comunità e antropologi preferiscono il folklore?

Ritengo particolarmente utile analizzare la questione patrimoniale attraverso l’antropologia delle istituzioni politiche e giuridiche, la quale ci aiuta a comprendere l’antropologia di oggi, e anche ad individuare l’antropologia di cui le istituzioni, le comunità e le persone hanno bisogno.

In Italia, gli strumenti politici per la valorizzazione e la salvaguardia dei BCDEA e del PCI (Patrimonio Culturale Immateriale) sono elencati nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio e ricadono tra le competenze del MiBACT e, in modo specifico, dell’IPCI (Istituto Centrale per il Patrimonio Culturale Immateriale che, fino al 2019, si chiamava ICDE, cioè Istituto Centrale per la Demo-etno-antropologia); l’Istituto impiega un numero scarno di funzionari DEA, volenterosi e impegnati su più fronti. Il lavoro antropologico è presente, sempre in modo scarno, anche nelle Soprintendenze, nell’Istituto Centrale per la Catalogazione (ICCD-MiBACT) e in alcuni inventari regionali (si pensi alla Regione Lombardia, con il suo Registro delle eredità intangibili, REIL)[16].

Le istituzioni nazionali, anche per effetto delle politiche internazionali sul patrimonio, hanno dunque realizzato strumenti imperfetti e soggetti a scarsissime dotazioni finanziarie, ma che, essendo basati su obbiettivi e metodi ‘antropologici’, cercano di incanalare i processi di conoscenza e responsabilizzazione attraverso metodi che sempre più recepiscono la teoria della “partecipazione collettiva al patrimonio culturale”[17]. Certamente, nel campo del patrimonio tanto lavoro si perde in operazioni burocratiche, ma la questione patrimoniale non si può generalizzare come una forma di “essenzializzazione culturale”: in merito a ciò, ho reperito opinioni esemplari tramite la nethnography, approfittando del fatto che quanti si occupano dei processi di patrimonializzazione sollevano, di tanto in tanto, sui social network questioni relative all’heritage o alle Liste UNESCO (dette impropriamente così, in quanto si tratta di Liste di cui sono responsabili gli Stati-Parte di ogni Convenzione). Di questi estemporanei confronti, alcuni intellettuali, anche antropologi, hanno osservato che gli strumenti politici non dovrebbero mescolare la cultura popolare coi beni culturali, perché vano è il tentativo di educare le comunità[18]. Ovviamente non possiamo pensare che si tratti di una posizione generalizzata. Tuttavia, è curioso che anche alcuni membri dei gruppi tradizionalisti, una volta soddisfatta la curiosità di conoscere in cosa consista l’iscrizione di un bene in una Lista, hanno espresso sconcerto verso questo strumento, condannandolo senza mezzi termini e rispecchiando una posizione di orientamento liberista e anti-statalista.

«Le tradizioni ognuno deve usarle come vuole, nel suo interesse. Perché bisogna registrarle in un inventario nazionale? Ognuno può farne commercio, se ritiene. Io farei pagare il biglietto: chi vuole vedere la processione, paga. E poi perché il referente deve essere il Comune? Non accetto regole né dallo Stato, né dall’Europa, né dalle Nazioni Unite, né dagli antropologi. Nel caso nasca un conflitto per la gestione delle tradizioni, vince il più forte» (G. G., anni 58, Civitella del Tronto).

«Per me è assurdo che l’UNESCO chieda ai portatori di tradizioni di essere pacifisti e ambientalisti. Le tradizioni sono sangue, violenza, vino, gerarchia, le donne devono stare a casa, ci vuole un po’ di sano razzismo, qualche rissa. Non siamo educabili e ne siamo orgogliosi (ridendo)» (S. D., anni 47, Chieti).

«Questa storia di Greta, dell’ambientalismo, del pacifismo, non ci piace: vogliamo essere liberi di scannare un animale a mani nude e mangiarcelo senza il giudizio di nessuno, come vuole la tradizione (ridendo)» (S. A., anni 72, Bucchianico).

«Le Liste UNESCO sono fatica sprecata, qualche anno fa ci era venuta l’idea, ma poi ci siamo detti, chi ce lo fa fare? Le tradizioni sono nostre e non vogliamo condividerle. Le tradizioni degli altri non ci interessano. L’antropologo non capisco che tipo di lavoro è. Tu dici che serve a registrare i nostri diritti, ma è inutile, perché se qualcuno copia una nostra tradizione e ne ricava un profitto indebito, siamo capaci di difenderci da soli» (G. F., anni 47, Chieti).

La necessità di patti internazionali che proteggessero la diversità culturale si manifestò negli anni Settanta con un vocabolario rivendicativo: con il linguaggio antropologico di allora, gruppi e governi dei Paesi in via di sviluppo chiesero alle Nazioni Unite di frenare la mercificazione culturale, l’appropriazione indebita di oggetti, musiche e danze, segno della predazione occidentale e di una transculturazione non spontanea, perché di matrice egemonica (Hafstein 2015). In breve, chiedevano che la proprietà intellettuale dell’arte popolare fosse preventivamente riconosciuta e registrata a nome dei Comuni, delle collettività, a beneficio dei reali portatori. Oggi che il sistema di salvaguardia è stato realizzato tramite una serie di misure di riconoscimento culturale e tutela del copyright collettivo, a macchia di leopardo subentra invece il rifiuto verso le forme pubbliche di riconoscimento, viste come una forma di “spossessamento” e di riduzione dell’iniziativa privata. Lo stesso lavoro degli antropologi viene talvolta percepito come una inutile ingerenza.

Si è dunque creata una sorta di polarizzazione che vede convergere antropologi e non-antropologi sul diritto delle comunità di “resistere” alle politiche patrimoniali, che sarebbero intrusive e inutili. Insomma, può stare tranquillo chi tra gli antropologi si è preoccupato per quella che solo pochi anni fa poteva sembrare una “overdose patrimoniale” (Bromberger 2014) causata da un’antropologia tendenzialmente demologica, collaborativa e culturalista (Palumbo 2018): i processi di patrimonializzazione sono fragili e precari, e impalcature patrimoniali che sembravano grandi e solide vengono rapidamente spazzate via da nuove correnti popolari ed egemoniche, interessate a fare del patrimonio usi elitari e demagogici, mercantili ed egemonici, in ogni caso autonomi e di difficile osservazione.

Questo fenomeno di “regressione patrimoniale”, di arretramento dalle implicazioni della patrimonializzazione che viene messo in atto tanto dell’antropologia, quanto delle comunità, corrisponde forse alla riduzione delle risorse collaborative. Dal timore – alquanto diffuso tra gli accademici – che l’antropologia italiana sia troppo provinciale, demologica e culturalista, può sortire l’effetto pericoloso di allontanare gli etnografi da alcuni terreni, proprio da quei terreni provinciali e regionali dove si manifestano le tensioni identitarie che l’antropologia stessa ha contribuito a creare, abbandonando a sé stesso il concetto di “cultura”. Al contrario, laddove sono stati messi in campo, i processi di patrimonializzazione, lungi dall’essere una panacea, possono contribuire a fluidificare le tensioni, a mediare i conflitti, ad aprire nuove opportunità, a raccordare strati popolari alle istituzioni che, percepite dagli strati popolari come lontane e indifferenti, hanno invece bisogno di un feed-back urgente, di una riconnessione alla base. Ma perché si realizzino, questi processi di “patrimonializzazione a partecipazione antropologica” necessitano di un incentivo morale, di un riconoscimento di valore che dagli accademici stenta ad arrivare: ma sarebbe ingenuo da parte mia criticare le critiche senza inquadrarle in una dinamica più ampia.

La critica, infatti, è originata da una contrapposizione posturale: da un lato ci sono gli intellettuali accademici che sono in grado di guadagnare, rispetto al campo, il distacco sufficiente a denunciare le derive del culturalismo. Dall’altro lato, ci sono gli antropologi non accademici, che appunto svolgono la professione (anche free lance, ovvero precaria) di “esperto nella salvaguardia e valorizzazione delle comunità socio-culturali locali, delle minoranze nazionali, dei gruppi transnazionali” e di “esperto nella conservazione e gestione di patrimoni demoetnoantropologici”. Il terzo fattore è rappresentato dal terreno, ovvero le comunità, i praticanti, i “portatori”, gli stakeholders, per i quali le “etnografie classiche”, ovvero gli studi sulla loro cultura, rappresentano un serbatoio oggettivo di temi di riflessione più o meno “buoni da pensare”, più o meno adatti a fungere da binario per un movimento culturale dal basso che tende appunto alla patrimonializzazione.

Purtroppo, il terreno separa radicalmente gli antropologi accademici da quelli non accademici. Questi ultimi, infatti, apprezzano molto la prima categoria, quella degli antropologi accademici e critici, di cui sono stati allievi, e la vedono come una sorta di “egemonia illuminata” che, però, per la stessa natura “sporca” del lavoro etnografico che fanno, non potranno mai eguagliare. Le condizioni sono insomma profondamente diseguali. Le professionalità demoetnoantropologiche, incardinate nei ruoli più o meno stabili del funzionario del MiBACT, del curatore dell’ecomuseo, dello schedatore tecnico o del coordinatore di un progetto, vengono accusate di essere “troppo partecipative”, intrappolate della cultura che descrivono o che salvaguardano per specifico mandato lavorativo. Io, pur essendo accademica, mi sento più vicina a questa categoria che non alla “egemonia illuminata” perché, pur apprezzando alcuni aspetti dell’anti-culturalismo, ritengo che neppure un antropologo “nativo”, pur rivendicando la sua cultura accanto ai suoi specifici stakeholders, possa mai mantenere una “postura interna” o “troppo essenzializzante” nell’osservare i processi di patrimonializzazione. I processi di patrimonializzazione, infatti, si dispiegano su molti livelli e coinvolgono più comunità e contesti, anche in frizione tra di loro; insomma, la postura interna viene facilmente disorientata dalla complessità dei processi in gioco, e dal fatto che l’osservazione è necessariamente multisituata. In aggiunta a ciò, l’asimmetria esistente tra osservatore e osservato è ineliminabile, essendo il presupposto dello stesso sguardo antropologico (Asad 1973: 17). Insomma, il lavoro antropologico promosso dalla “Convenzione del 2003” sembra rileggere l’asimmetria del lavoro antropologico alla luce del nesso che si crea tra la volontà di sapere e il potere: un nesso che carica l’antropologo di responsabilità.

Dopo aver esperito in campo gli effetti del culturalismo allorquando esso viene “abbandonato a sé stesso”, ho scelto di osservare empiricamente le diverse forme del culturalismo che, nelle loro manifestazioni esclusiviste e “patologiche”, non sembrano “curabili” con l’anti-culturalismo, ma forse con un uso elastico e intelligente del culturalismo. Il concetto di cultura è solo una prospettiva, ed è sufficientemente ambivalente da sostenere sia discorsi ordinati e teorici, sia discorsi appassionanti ed emancipatori. Guardato come uno strumento, il concetto di cultura ha effetti diversi a seconda delle modalità del suo uso, e la sua utilità varia, sostanzialmente, a seconda della capacità degli utilizzatori di connettersi alla società a cui appartengono.

Oltrepassare la frattura retorica tra culturalismo e anti-culturalismo

Il presente saggio, attraverso un’etnografia multisituata, realizza una “antropologia dell’antropologia”, e finisce col sottolineare i rischi della separazione tra la produzione teorica di antropologia e quella degli operatori che sono in campo grazie agli strumenti della “patrimonializzazione”. In conclusione, come è possibile criticare profondamente l’idea di cultura e l’uso di questa idea, quando l’obbiettivo dell’antropologia è quello di educare un pubblico vasto alle questioni relative alla cultura?

La posizione culturalista viene accusata di essere conservatrice e retrospettiva, di essenzializzare le identità culturali secondo modalità emozionali ed intuitive, vicine alle discipline estetiche e letterarie, ma di questo dibattito, di queste etichette, di questi timori a “stare in campo”, nulla trapela nella società. Nella società, il termine “culturalismo” e l’epiteto “culturalista” – che tra antropologi sono divenuti quasi infamanti – non vengono mai adoperati dagli “esperti nella salvaguardia e valorizzazione”, né dagli “esperti nella conservazione e gestione di patrimoni demoetnoantropologici” che lavorano nel terzo settore o nel settore pubblico (Ministeri, Assessorati, Archivi ed Inventari). Insomma, alla luce dell’antropologia applicata, l’epiteto “culturalista” o la locuzione “fare culturalismo” sono formule artificiali, frutto di un processo di contrapposizione retorica tra “antropologi teorici”, che spingono la pratica antropologica alla riflessione, e “antropologi pratici”, che appunto riflettono, dialogano, dibattono, e sono in misura minore coinvolti nell’elaborazione teorica.

Mi auguro che la contrapposizione tra posture (postura culturalista vs. postura anti-culturalista, o anche partecipativa vs. critica) non abbia creato uno spartiacque artificioso, essenzializzante e ahimè “solido” tra antropologi “scadenti” e antropologi “bravi”, aggravando in Italia una crisi disciplinare che mi pare sia stata già dichiarata ed approfonditamente analizzata (Palumbo 2018). La creazione di una logica binaria e oppositiva mi sembra intrinsecamente estranea al progetto antropologico che, anziché disperdere le proprie energie e imporre agli antropologi una scelta alternativa e radicale (essere un culturalista o un anti-culturalista), potrebbe invece concentrarsi sull’osservazione e sul confronto della molteplicità delle forme di rivendicazione presenti sul terreno, aprendo varchi per un maggior coinvolgimento della disciplina nella sfera pubblica, nel mondo del lavoro, nell’analisi e nell’indirizzo delle politiche sociali e culturali del nostro Paese. Lo stesso Palumbo, nelle sue importanti ricognizioni intra-disciplinari, evidenzia la necessità di un aggiornamento curricolare che richiederebbe una modifica sostanziale dell’assetto, troppo teoretico, dei percorsi di studio (Palumbo 2018).

Agire antropologicamente vuol dire spingere la pratica antropologica ben oltre la letteratura scientifica e ben oltre le sue forme consolidate di impegno “contro il sistema”: l’antropologia può agire con efficacia e responsabilità anche “dentro il sistema”, cioè nelle istituzioni, con effetti consistenti (Cornwall 2018). Un simile impegno può contrastare, se non invertire, il progressivo declino della pertinenza pubblica della disciplina.

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[1] Solo per fare un esempio, Marshall Sahlins, come tanti altri illustri accademici, collaborò con l’UNESCO prendendo parte alla Commissione “La Nostra Diversità Creativa”, 1996, consultabile sul sito www.unesco.org.

[2] Negli anni Settanta, l’Abruzzo e il Molise furono oggetto di varie campagne etnografiche e di catalogazione di oggetti, feste e altri beni culturali “volatili”, che talvolta unirono la musealizzazione dei beni alla restituzione etnografica con le comunità portatrici. La restituzione etnografica dipendeva dalla postura degli antropologi. Gli antropologi che ho osservato (Alfonso M. Di Nola, Emiliano Giancristofaro, Ireneo Bellotta) privilegiavano gli aspetti magici e religiosi di una cultura subalterna adusa alla sofferenza e all’adattamento di classe, e dedicavano molte energie alla restituzione. Nei piccoli paesi ormai in fase di spopolamento e abbandono, alcune feste patronali erano in dismissione e gli antropologi, giustamente, ne parlavano come della perdita di una “risorsa morale”, di un “valore culturale”.

[3] La ricerca di Emiliano Giancristofaro (Lanciano, 1938) si è svolta in sintonia con l’emergere dell’interesse nazionale verso le forme di espressione del mondo popolare; debitore di Alfonso M. Di Nola per quanto concerne la postura, e di Alberto M. Cirese per quanto concerne la tecnica di documentazione, ha incarnato nel suo contesto la figura dell’intellettuale rovesciato, nel suo definirsi “manovale della ricerca folklorica” (Giancristofaro, 2018).

[4] I risultati più ampi di questa osservazione sono contenuti in un volume, Il ritorno della tradizione, del 2017. A tale testo si rimanda per una più ampia casistica di interviste, ricavate dall’osservazione sul terreno e tramite il web.

[5] I rosari in legno erano stati realizzati da un falegname; le ventole (ventagli) avevano varie forme ed erano state ricavate incollando su un manico di legno la fotocopia a colori, su carta antichizzata, di santini otto-novecenteschi.

[6] Il sito web dell’associazione culturale non è più visibile per le vicissitudini del gruppo, il quale si è scisso in gruppi diversi. La documentazione informatica della presente indagine è conservata nel mio archivio.

[7] Nel 2013, per evitare gli equivoci sulla figura dell’antropologo e per richiamare l’attenzione sulla sua deontologia e formazione professionale, sono intervenute norme nazionali come la Legge n. 4 (Disposizioni in materia di professioni non organizzate). Ho menzionato le leggi a vari gruppi, in modo che vedessero con qualche perplessità i sedicenti “antropologi”.

[8] Traducendo il processo in termini logici, si tratta invece di un figlio, ovvero il presente, che genera il proprio padre, il proprio passato, per un meccanismo di “filiazione inversa”: la tradizione, insomma, è «un processo dinamico in cui il presente riconosce una paternità culturale in una parte del suo passato» (Lenclud 1999: 123-124).

[9] Il sovranismo non è il giovane erede del vecchio nazionalismo di destra. Il sovranismo infatti accoglie al suo interno temi cari sia alla destra (le dispute sui confini, l’ostilità nei confronti di migranti), sia alla sinistra (le rivendicazioni contro le politiche europee, viste come la lunga mano del capitalismo finanziario globale). Entrambi i tipi di sovranismo scelgono il protezionismo economico e dei confini per tutelare al meglio gli interessi del popolo a cui fanno riferimento. In Italia il sovranismo è incarnato soprattutto dalla Lega, che in Abruzzo ha vinto le elezioni regionali del 2019.

[10] Ho osservato da parte degli attivisti una comunicazione pubblica che sovente ospitava espressioni di razzismo, antisemitismo, antieuropeismo e sessismo, assieme a resistenze per la conoscenza scientifica, incarnata nel «professoroni» e negli «scienziati dei miei stivali». Il sessismo si esercitava con la complicità delle stesse donne dei gruppi, le quali disprezzavano alcune politiche donne soprattutto in quanto donne (tra i bersagli preferiti, c’era appunto Laura Boldrini).

[11] Per cultura legittimata al comando e al privilegio, gli intervistati annoverano i residenti da più generazioni, gli individui di genere maschile, i cattolici, gli eterosessuali. È, questo, il significato dello slogan contemporaneo “prima gli italiani” o “prima gli abruzzesi”.

[12] Il carattere di “compresenza” rende le Lista un insieme di differenze in cui ogni elemento rappresenta la totalità; la somma dei singoli elementi non è presentata come un fine, ma come un mezzo per perseguire la conoscenza e il dialogo interculturale. Per questo, la rappresentatività di tutte le aree del mondo e di tutte le tipologie di patrimonio immateriale è fondamentale per la legittimità della Convenzione del 2003 che è un progetto ispirato alla concezione illuminista secondo la quale il patrimonio è di tutti e di nessuno.

[13] La decisione di cancellare l’elemento, presentato dal Belgio nel 2010, è stata presa il 13 dicembre 2019 dal Comitato Intergovernativo degli Stati-Parte della Convenzione, riunito a Bogotà.

[14] Si veda il sito www.ich.UNESCO.org, alla sezione Ethics and ICH.

[15] Nel 2015, un fascicolo della rivista Lares è stato dedicato al dibattito sul futuro della demologia come scienza.

[16] Nella presente sede è impossibile approfondire il discorso, che presenta innumerevoli varianti regionali e di livelli, per cui si rimanda ad opere generali che contengono saggi di antropologi e giuristi del patrimonio, come Salvati, Sciolla 2015, e Pinton, Zagato 2017.

[17] La politica della partecipazione collettiva al patrimonio viene sollecitata da un ulteriore strumento, la “Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società” (Consiglio d’Europa, 2005), sottoscritta dall’Italia nel 2013; la legge di ratifica è stata approvata dal Senato nel 2019 (con i voti contrari della Lega e l’astensione dei senatori di Forza Italia) ed è attualmente in fase di esame alla Camera. A differenza delle Convenzioni internazionali proposte dall’UNESCO, non è giuridicamente vincolante, e ha un valore di “orientamento” per le politiche culturali dei paesi dell’Unione Europea. Per quanti obietteranno che questi livelli politici non interferiscono con le politiche locali, specifico che in Abruzzo il Comune di Fontecchio ha recepito all’unanimità questa Convenzione nel 2017 con un atto amministrativo interno.

[18] «L’UNESCO andrebbe sciolta. In subordine, bisogna farla finita con questa pagliacciata dei patrimoni» (G. R.). «È tutto sbagliato: concetti, modalità, procedure, obiettivi. E se qualcuno continua ad adoperarsi per catechizzare le comunità al verbo UNESCO, peggio per lui» (D. V.). «Gli antropologi dovrebbero scappare a gambe levate, invece che vestire i panni dei purificanti del popolo. In questo quadro desolante, l’antropologo si è ridotto a fare l’assistente sociale di lusso» (S. G.). Ho reperito le opinioni su Facebook in data 17/12/2019.