Razzisti per natura, antirazzisti per cultura

Note critiche per un’antropologia pubblica e antirazzista

Francesco Bachis

Università di Cagliari

Indice

Razzismi e antirazzismi
La vergogna dell’Italia: etnografia di una diretta Facebook
Razzisti per natura: etnografia di un dibattito pubblico
Per un’antropologia pubblica e antirazzista
Riferimenti bibliografici

Abstract.  In the last decades, the anthropological debate about new racism and cultural fundamentalism reshaped the reflection on discrimination practices and hate speech. However, anthropology seems to have difficulty considering racism and anti-racism as research objects and thus fails to claim its role as a public and anti-racist discipline. Based on the use of digital ethnography as a form of redefinition of ethnographic practice, this article aims to reflect on the implicit and explicit forms of naturalization of the otherness in online hate speech and in antiracist discourses. In doing so, I will examine two “failures” of antiracist practices. 1) a live streaming on Facebook by the Italian newspaper La Repubblica that in the summer of 2017 followed a demonstration for the right to housing that take place after the eviction of asylum seekers and refugees from via Curtatone in Rome; 2) A public debate to which I took part together with a journalist and a migrant from Senegal on July of the same year in Sardinia (Italy). The article aims to reflect on the limits of public anthropology as an antiracist practice and on its ability to contrast hate speeches and new forms of racialization. Finally, the paper suggests that assuming the racist and antiracist common sense from a Gramsci’ perspective as a field of investigation and intervention of anthropology can offer a more effective position for a public and antiracist anthropology.

Keywords.  Hate Speech; Antiracist Common Sense; Antiracist Anthropology; Naturalization; Digital Ethnography.

Agosto 2017[1]. Squilla il telefono, è Maria Paola, una amica di vecchia data, una militante antirazzista con la quale spesso ho partecipato a iniziative sulle migrazioni. In più occasioni, come antropologo e come attivista, sono intervenuto a dibattiti, ricerche, manifestazioni promosse dalla sua associazione, impegnata da anni coi migranti in Sardegna. Pesano in questa frequentazione i miei studi, ma anche il modo con cui gli antropologi vengono percepiti a livello di senso comune antirazzista: degli “specialisti” in diversità. Come se nella tensione tra identico e diverso che anima la disciplina (Angioni 2011) fosse sempre il secondo elemento a essere considerato preminente, a lasciare il segno nella mente di chi con “gli altri” ci lavora quotidianamente.

«Sta succedendo un casino». Nei giorni precedenti avevamo discusso a lungo dei fatti di piazza Indipendenza, a Roma, dello sgombero di via Curtatone, della recente stretta in materia di accoglienza e gestione dei flussi imposta dal ministro degli interni Marco Minniti. «Vai sulla pagina Facebook di Repubblica, c’è una diretta del corteo di Roma. La gente è uscita fuori di testa. È roba che ti riguarda». Immagino scontri, cariche, violenze, la replica di quanto accaduto nei giorni precedenti (Vereni 2017; Hung 2019). Appena accedo al video vengo investito dal suono di percussioni, dai volti sorridenti di donne eritree, da un bambino con la maglia della nazionale di calcio italiana. «Ma di che parli?», replico spazientito. «Guarda la colonna di destra, a fianco al video, è una vergogna», risponde Maria Paola. La lettura dei primi commenti in tempo reale mi immerge in una carica di violenza difficile da sopportare.

Qui siete fuorilegge e ospiti non graditi (Andrea). Salite su un barcone e andatevene tutti in Africa (Sara). Fuori dai coglioni!!! (Diana). Devono essere ributtati tutti in mare... o essere rinchiusi in uno zoo (Max). Acchiappateli con una rete, ora che sono in tanti e non scappano... e poi buttarli a casa loro (Andrea). Bestie, dovete tornare nella stalla, in attesa della macellazione, cioè casa vostra (Marco). Lancia fiamme; tutti dentro i forni; siete un branco di scimmie (Danilo). A quale tribù appartengono? (Vittoria). Ci stanno mangiando vivi (Michele). Negli anni Trenta tale squallore non sarebbe mai iniziato (Giancarlo). Pulire l’Italia da centri sociali e negri [sic] (Gianluca). Fucilarli tutti per non educarne nessuno (Alby). Gliela darei una casa ma in un campo di concentramento (Giacomo) (La Repubblica 2017).

Nonostante l’abitudine, la mole di quei commenti mi spinge per un attimo a ritrarre lo sguardo, a lasciare i commentatori alle loro parole d’odio, a rifuggire dal mezzo, i social network, come un terreno in cui le regole del gioco, di per sé stesse, rendono impossibile qualsiasi forma di interlocuzione, forse persino qualsiasi tentativo di comprensione. Tempo perso insomma. Le flebili risposte al linguaggio d’odio, il loro tentativo di argomentare in contrasto con insulti, minacce, proposte di deportazione o sterminio di massa, sembrano perdersi nel vuoto. Mediamente i commenti pro-rifugiati son lunghi tre o quattro volte tanto quelli d’odio. Spesso, a pendolo, rispondono con violenza alla violenza. «Io gli rispondo», replica Maria Paola, «non possiamo lasciar passare queste robe. Ora chiudo che voglio avvisare altri compagni».

A Partire dall’uso della digital ethnography come forma di ridefinizione della pratica etnografica (Miller, Slater 2000; Horst, Miller 2012; Pink et al. 2016), e dall’assunzione dei social network come terreno di ricerca (Bonilla, Rosa 2015; Biscaldi, Matera 2019) in questo articolo intendo riflettere sui processi di naturalizzazione dell’altro, nelle forme del fondamentalismo culturale che si giustappongano a pregiudizi e linguaggi d’odio di matrice biologista (Stolcke 1995; Bachis 2018) e in alcune pratiche discorsive antirazziste. Per fare questo prenderò in considerazione forme diverse di comunicazione e di dibattito pubblico, reale e “virtuale”. A tal fine prenderò in esame due “fallimenti” delle pratiche antirazziste: l’analisi di una “diretta” Facebook di Repubblica che ha seguito, nell’estate del 2017, la manifestazione per il diritto all’abitare convocata dopo lo sgombero dei richiedenti asilo e rifugiati in via Curtatone a Roma e un dibattito pubblico con un giornalista e un migrante dal Senegal al quale ho preso parte nel luglio dello stesso anno. Obiettivo dell’articolo è offrire un contributo alla riflessione sui limiti dell’antropologia pubblica come pratica antirazzista e sulla sua operabilità in funzione di contrasto del linguaggio d’odio e delle nuove forme dei processi di razzizzazione[2].

Razzismi e antirazzismi

Talking Culture: New Boundaries, New Rhetorics of Exclusion in Europe di Verena Stolcke (1995) può essere letto non solo come un “classico” dell'antropologia sul razzismo e le retoriche di esclusione ma anche come momento d'accesso al dibattito su neo-razzismo. Infatti, pur essendo stata la critica serrata del determinismo razziale tra le ragioni fondanti dell’antropologia e nonostante l’eredità boasiana abbia contribuito alla sua (auto)narrazione come scienza “antirazzista” (Anderson 2019), la disciplina sembrava aver scontato per lungo tempo un paradossale ritardo nell'assumere razzismo e antirazzismo come oggetti e terreni propri di indagine (Sanjek 1994; Mullings 2005).

Il dibattito intorno al neo-razzismo nasce da una critica serrata (Guillaumin 1972; O’Callaghan, Guillaumin 1989) ad alcuni classici dell'antirazzismo – a partire da Lévi-Strauss (1967, 1984) – e giunge a un primo livello di sistematizzazione nella sociologia marxista inglese dei primi anni Ottanta (Barker 1982). Si inizia a riflettere su una forma di discriminazione più subdola e meno legata alle categorizzazioni biologiche, legata alla sconfitta storica del razzismo “classico” e alla crescente presenza di migranti nelle metropoli europee (Miles 1987). Come ha notato Robert Miles (1993) è in questa fase che vengono elaborate alcune delle nozioni chiave del dibattito successivo. L’individuazione di due matrici, l’una gerarchica che trova la sua “legittimazione” nella nozione di “razza”, l’altra differenzialista che si “apre” a quella di “cultura”, scaturirà con Pierre-André Taguieff (1994) nel modello formalizzato di due “razzismi” distinti o, con Micheal Wieviorka (1993) nello spazio di azione di due differenti logiche. Se questa stagione di studi evita «l’implication que le racisme contemporain [soit], par définition, un phénomène nouveau ou “postmoderne”» (Miles 1992: 115-116), essa apre al pericolo della “inflazione concettuale” e della “moltiplicazione dei razzismi”: il rischio, cioè, della perdita di una visione d’insieme del fenomeno (Miles, Brown 2003: 57-86).

Dall’uscita di La force du préjugé (Taguieff 1987), l’esistenza di due razzismi è diventata progressivamente parte del senso comune antirazzista europeo. La prima forma, caratterizzata da un approccio gerarchico alla diversità, è solitamente accompagnata da un discorso di subordinazione naturalistica che viene espresso secondo una differenza di razza; la seconda è legata a una differenziazione culturalista. Quest’ultima non sembra stabilire esplicite gerarchie tra le diversità umane e spesso si riferisce alla differenza in termini di “cultura”, “etnia”, “religione”, concetti mutuati in maniera diretta o indiretta dalla riflessione antropologica. Attorno a queste parole si costruiscono semplificazioni totalizzanti e chiuse che ne spingono il significato in prossimità della nozione di razza (Wikan 1999; Gallissot, Kilani, Rivera 2001).

Analogamente al permanere dell’esclusione in un’epoca di messa in questione della “discriminazione affermativa” (Brown 2003), questo “adattamento” non implica di per sé una forma di edulcorazione dei risultati concreti delle pratiche: le “razze” continuano a “funzionare”. Il principale effetto è “la messa sotto scacco dell’antirazzismo” (Taguieff 1994). Il neo-razzismo incamera una serie di elementi fondamentali delle retoriche attraverso cui l’antirazzismo classico lo combatteva e genera degli “anticorpi”. In questa condizione l’antirazzismo tende paradossalmente a utilizzare le medesime “argomentazioni” del razzismo differenzialista (ad es. la “difesa” e “promozione” della diversità) trasformandosi nel suo “doppio”. Affondando le radici in un universalismo eurocentrico “a una dimensione” (Burgio 2001), l’antirazzismo continua a proporre politiche di esaltazione della diversità culturale in tempi in cui la metamorfosi del discorso razzista verso una “promozione” (sebbene subordinata) della differenza permette una rimodulazione delle pratiche di esclusione a partire da alcuni elementi della critica antirazzista.

Questo dibattito aveva contribuito a chiarire il retroterra ideologico delle nuove destre (Taguieff 1993; Crépon 2006, 2008) e, allo stesso tempo, delle pratiche e delle ideologie di contrasto al neo-razzismo, riconducibili a quelle che Stoczkowski ha chiamato “due cosmologie”: l'una orientata dalla «apertura illimitata all'altro come valore salvifico», l'altra mossa dalla necessità di limitare l'apertura per evitare la «dissipazione della diversità e la distruzione della creatività» (Stoczkowski 2007: 42).

Verena Stolcke sostiene che la mancata legittimazione della presenza di stranieri si serva di un processo di naturalizzazione che non riguarda la diversità ma l'atto stesso del rifiuto. Nel fondamentalismo culturale «essendo l'etnocentrismo parte della natura umana, il rifiuto dell'altro è esso stesso naturale» e dunque essendo l'umanità organizzata secondo entità discrete chiamate “culture”, è “naturale” che esse entrino in conflitto. Se le dottrine razziste si presentano come variazioni di un ceppo unico, «per riconciliare un’idea condivisa di umanità con le concrete forme di dominio» (Stolcke 1995: 8), il fondamentalismo culturale assume come centrale una opposizione “naturale” tra straniero e cittadino.

La mia ipotesi è che anche una parte dell’antirazzismo abbia introiettato questa concezione della diversità, impiegando nella categorizzazione dell’altro razzista una forma di “naturalizzazione” del razzismo (specie quando questo utilizza linguaggi di matrice biologica) e una “culturalizzazione” dell’antirazzismo, rivendicato come capacità di liberarsi di una concezione arretrata e “non evoluta” della diversità stessa. Cercherò di mettere alla prova questa “naturalizzazione” del razzismo nelle pratiche di comunicazione digitale e nei dibattiti pubblici, tanto nei discorsi di misconoscimento dell'altro quanto nella difesa o rivendicazione dei suoi diritti.

La vergogna dell’Italia: etnografia di una diretta Facebook

Il 19 agosto 2017, in via Curtatone a Roma, la polizia sgombera un edificio abitato dal 2013 da nuclei familiari sfrattati e senza casa, principalmente rifugiati politici etiopi ed eritrei. Si tratta di una esperienza che da quattro anni cerca di rispondere alla distribuzione diseguale delle risorse sull’“integrazione” attraverso la pratica dell’autorganizzazione e della creazione di strutture autonome che passa per l’occupazione di edifici abbandonati (Hung 2019). Tra i residenti, stando ai dati del comune di Roma, 107 sono “soggetti fragili” da ricollocare: anziani, famiglie e disabili (Angeli 2019). Il 24 la polizia interviene violentemente, con cariche e idranti, contro una parte degli occupanti sgomberati che dormivano nella adiacente Piazza Indipendenza. Sin dalle prime fasi della vicenda, i fatti suscitano polemiche politiche e una sovraesposizione mediatica. La polizia, una parte della stampa e alcuni partiti politici accusano i rifugiati di violenza. Fa particolare scalpore il lancio di oggetti dalle finestre del palazzo. ONG, movimenti per la casa e occupanti accusano la polizia di gravi atti di violenza contro i rifugiati. Un video del quotidiano online Fanpage riporta i momenti di una carica successiva allo sgombero, in zona Stazione Termini, nel quale un dirigente della polizia dice ai suoi sottoposti: «se tirano qualcosa spaccategli un braccio» (Fanpage.it 2017). Medici Senza Frontiere denuncia il ferimento di tredici persone, la maggior parte donne (Medici Senza Frontiere 2017). L’UNHCR esprime «profonda preoccupazione per l’uso della forza che poteva essere evitato se fossero state individuate tempestivamente […] soluzioni alternative» (UNHCR 2019). In risposta alle violenze della polizia, il 26 agosto occupanti e movimenti di lotta per la casa romani[3] organizzano una manifestazione contro gli sgomberi e per il diritto all’abitare.

Il quotidiano la Repubblica segue la manifestazione con una “diretta video” di tre ore trasmessa su Facebook. I commenti alla diretta sono qualche migliaio e ben presto si producono conflitti tra sostenitori e oppositori delle ragioni dei manifestanti. I secondi utilizzano spesso forme di stereotipizzazione dell’alterità che pescano a piene mani dal razzismo di matrice biologista e da quello culturalista.

Uno degli aspetti etnograficamente stimolanti di una diretta Facebook è la possibilità di replicare la visione con i commenti in tempo reale. In questo modo è possibile riconnettere video, audio e testi ripercorrendo in maniera dinamica le interazioni tra i commentatori secondo l'andamento della diretta stessa. Da questo punto di vista è praticabile su questo oggetto multimediale quella che Claudine De France (1979) chiamava la “visione differita”: un’analisi etnografica di un artefatto audiovisivo che permette di metterne in luce la multidimensionalità e i diversi livelli sensoriali, in questo caso sia audiovisivi che testuali.

Sin dall’apertura della diretta i commenti evocano una opposizione tra “selvaggio” e “civilizzato”. Ciò che è messa in questione è la legittimità dell’azione e delle parole dei manifestanti, così come quelle di chi li sostiene. Si punta a delegittimare l’altro sostenendo che, per la condizione in cui si trova, non abbia il diritto di richiedere alcunché. Allo stesso modo, questa postura mette in dubbio le posizioni di chi viene considerato a favore dell’apertura delle frontiere, della libertà di circolazione o anche semplicemente di politiche meno dure in materia di migranti e diritti.

È il caso di Gigi che, appena pochi secondi dopo l’avvio della diretta, apostrofa come “selvaggi” e “primitivi” i manifestanti e recupera una partizione dell’altro basata sul colore della pelle per tracciare una implicita suddivisione tra europei (bianchi e vittime) e africani (neri e carnefici).

Un branco di selvaggi primitivi stupra una turista polacca davanti al marito e finisce di “sfogarsi” su un transessuale[4]. Dov’è la Boldrina? Dove sono le femministe? Dove sono i “difensorideidiritticiviliacomando”? (Gigi, 0:09[5]).

Tra i commenti sono molto presenti le forme di denotazione ascrivibili al confine tra umano e animale in cui appare chiara la matrice razzista classica. Sembra talvolta di rileggere, su un piano ben più radicato e violento, i temi raccolti dalle ricerche di Paola Tabet negli anni Novanta (Tabet 1997). I partecipanti alla manifestazione, in quanto africani o afrodiscendenti sono definiti come «bestie» (Francesco, 23:54); secondo Dario, tra loro «manca l’orango» (7:43); Eva li definisce «scimmie di merda» (24:14); Giampaolo li invita a tornare a casa loro: «Scimmie go home» (20:19). L’insieme composito e festante del corteo evoca in Marco un giardino zoologico: «è arrivato lo zoo in città» (11:55).

Questi discorsi, presenti nel corso di tutta la diretta, non sembrano avere soltanto la funzione di costruire un altro “bestializzato”. La matrice coloniale della costruzione dell’africano come umano “più naturale” o animale, contrapposto al bianco civilizzato e pienamente umano, costituisce anche una delle basi di proposte latu sensu “politiche”. L’espulsione o il ritorno “in Africa” dei partecipanti alla manifestazione è mosso anche dal loro carattere “bestiale” e dal fatto che il luogo della “natura”, contrapposto al luogo della “cultura” sia il loro “posto giusto”. Così Max scrive che i manifestanti «devono essere ributtati tutti in mare... O essere rinchiusi in uno zoo» (1:12:22). Marco sostiene che debbano «tornare nella stalla, in attesa della macellazione, cioè casa vostra» (58:12). Aura fa discendere la necessità di rimandarli “a casa loro” dalla loro mancata “evoluzione”, il loro posto al mondo è l’Africa, un luogo più vicino alla natura: «rimandateli a casa... nelle loro capanne, ’sti parassiti, non evoluti!!!» (10:12). L’opposizione sembra nutrirsi di un più generale contrasto tra “ambienti” e mondi differenti. Di qui “casa nostra”, di là la “giungla”: «siamo in Italia o nella giungla?» (Gilberto, 30:16).

Nei commenti sembra riemergere un repertorio razziale evidentemente non del tutto “sopito”, un «motore spento» che si riattiva (Tabet 1997) e torna utile nel definire l’altro una volta che si passi dal discorso d’odio ai razzismi quotidiani che punteggiano le cronache in misura sempre più crescente (Naletto, Andrisani 2009; Lunaria 2017)[6]. Così Claudia si chiede se «siamo in Italia» e se «i bianchi sono turisti» (8:05); Vincenzo vuole che vadano via «i negri [sic]» (1:01) mentre Andrea li considera «negri [sic] di merda» [tutto in maiuscolo] (16:12). Recuperando una classica argomentazione di matrice (post)coloniale per cui i colonizzati non possono essere dotati di una agency propria, prendere la parola e agire autonomamente (Spivak 2004), Giovanni evoca una “teoria del complotto”. Mentre uno degli organizzatori della manifestazione parla al megafono spiegando le ragioni della protesta si chiede: «Ma da chi è pagato questo bastar... bravissimi i piddini che stanno mettendo i negri [sic] contro gli italiani» (4:24).

L’enfasi sul colore della pelle dei manifestanti e l’interpretazione della loro presenza richiamano un insieme di significati connessi all’eredità coloniale. L’Africa diviene così un “paese” con specifiche caratteristiche che vengono evocate per spiegare e interpretare quanto accade. «Sono uno dei paesi più ricchi a livello di minerali», scrive Tiziano, «se ancora oggi dopo anni sono sottomessi ci sarà un motivo!» (14:54). L’Africa è “la casa” in cui i migranti devono “tornare”: «Zulù, zulù, zulù! A casa vostra!» (Franco, 8:47); un continente misterioso in cui le persone vivono nelle capanne e si spostano a dorso di cammello: «Questi dove abitavano? Nelle capanne? Bene, allora avete diritto ad una capanna» (Paolo, 2:48); «Gommoni e tornate fra i cammelli» [in maiuscolo] (Vito, 22:18). Il fuoco sembra una delle “soluzioni” più diffuse tra i commentatori: «Fate fuoco… e vai di griglia… tutto carbone» (Martin, 10:40); «Dategli fuoco» (Roberto, 0:38). «Fate l’antilope alla brace» (20:31), scrive Tiziano, mentre il video riprende un giovane eritreo che parla al megafono. Lo sgombero subito dai manifestanti non è sufficiente per Roberto: «Basta sgomberarli: bruciamoli!».

Sembra di intravvedere qui un passaggio in più rispetto al modello della «tautologia della paura» di Alessandro Dal Lago (1999: 71-75). La produzione dell’emergenza non richiama semplicemente una catena di “responsabilità” degli attori politici istituzionali e le loro “mancanze”, ma lascia emergere una “spontaneità” della cittadinanza, senza che si attivi l’intermediazione degli imprenditori politici del razzismo (Balbo, Manconi 1992; Rivera 2003). Le iperboli di questa diretta Facebook sembrano collocare il linguaggio d’odio come immediato retroterra del “passaggio all’atto” delle azioni di singoli o gruppi: “dire qualcosa”, dirlo con quel linguaggio, è già un rendere possibile il “fare qualcosa”. Così Giacomo “propone” di usare i «forni crematori» (35:01).

Nel corso della diretta si attiva una contrapposizione tra i detrattori dei manifestanti e chi critica il loro linguaggio e le loro posizioni. Si tratta quasi esclusivamente di un contrasto dell’hate speech basato sulla valutazione delle posizioni altrui. Pochi commenti entrano nel merito delle richieste e delle rivendicazioni di chi manifesta. Pochissimi esprimono approvazione “politica” per quanto si vede e si sente nel video. In linea di massima i commenti sono attestati sul senso di umanità nei confronti di chi manifesta, raramente di appoggio della piattaforma politica di rivendicazione del diritto all’abitare.

In alcuni passaggi questo posizionamento si concretizza in un appello all’umanità dei manifestanti (“bianchi”) che «spendono il loro tempo per gli altri» (Antonello, 4:59). In altri casi si gioca una contrapposizione tra gli “odiatori da tastiera” che insultano i manifestanti e gli italiani “veri” che, ad esempio nel commento di Alino, sono «quelli che accolgono, quelli che hanno dignità e rispetto della vita umana […], quelli che rispettano la diversità e ne colgono la ricchezza […], che credono nella solidarietà e nella integrazione». Questi sono contrapposti ai «fomentatori d’odio», «miserabili», «furbi» e «parassiti» che «ritengono che lo stato debba fornire loro un reddito ed una casa» e «riversano la propria frustrazione sugli ultimi» (Alino, 11:52).

La principale denotazione utilizzata è quella di “razzista” e il tema dominante è l’ignoranza: chi è razzista è ignorante perché non ha compreso come funziona il mondo, è “fermo” a un’interpretazione “istintiva” della diversità. Così Filomena si stupisce della quantità di espressioni esplicitamente razziste e del linguaggio violento dei commenti: «Aooooo, ma quasi tutti quelli che commentano stanno fori??? Che gran massa de ‘gnoranti… razzisti» (27:02). Luisa stigmatizza i «commenti vergognosi di gente ignorante!» (33:50). L’ignoranza diviene segno di una “arretratezza” del Paese: «Se gli italiani sono quelli che commentano ora, siamo proprio messi male… quanta ignoranza» (Sauro, 13:24). L’accusa ricorrente è quella della “divisione tra poveri”: «beceri, ignoranti e razzisti. I padroni saranno contenti di voi» (Laila, 15:09).

Il tema della vergogna attraversa trasversalmente i commenti. Per i detrattori sono gli italiani che difendono i manifestanti che dovrebbero “vergognarsi” e ancor più gli italiani che partecipano al corteo. Per Gina questi sono la «rovina dell’Italia» (5:45); Francesco si rivolge direttamente a chi solidarizza con gli sgomberati: «italiani che siete in piazza non vi vergognate?» (13:58). L’accusa qui si configura come elemento che mette in forse l’ordine nazionale delle cose (Malkki 1995), il confine tra “noi” e “loro” attraversato da chi “tradisce” la propria appartenenza: «Ma sbaglio o ci sono tanti pseudo italiani in questa commedia? (Raffaele, 30:53); «Espatrio immediato agli Italiani traditori della Patria» (Nazzareno, 27:31).

Al contrario, i sostenitori e i solidali interpretano questo confine come una frontiera tra chi è consapevole e capace di cogliere l’umanità insita nell’altro e chi non ha questa capacità, in quanto razzista e ignorante: «La gente che sta facendo commenti razzisti, xenofobi e quanto altro si dovrebbe vergognare di più di chi l’altro giorno[7] ha trattato come delle bestie quelle persone [in maiuscolo] (come tutti noi) durante lo sgombero» (Giacomo, 21:29).

Altri interventi si contrappongono ai detrattori della manifestazione secondo una linea di demarcazione basata sulla “civiltà”: «ma finitela con questi commenti razzisti indegni di un paese civile...e vergognatevi» (Maddalena, 25:35, tutto in maiuscolo). Il razzismo viene individuato come spia dell’inciviltà del Paese: «Il fascismo razzista di quest[i] commenti ci mostra il baratro dell'Italia in cui stiamo cadendo. Basta!!» (Chiara, 32:36). In altri casi si risponde con lo stesso tono: «Avete rotto il cazzo, brutti fascisti e razzisti...» (Fabio, 29:36).

Alcuni, contrapponendosi ai manifestanti, muovono da una presa di distanza dal razzismo come fenomeno esecrabile (Tabet, Di Bella 1998; Aime 2015) per paragonare la presenza e l’attivismo dei migranti a una malattia che contagia l’Italia: «Non sono razzista... ma quanto sta accadendo in questo paese non mi piace per niente!!! Sembra una brutta Leucemia!!» (Teresa, 35:43).

La dinamica del conflitto appare più chiara se si passa dalle denotazioni all’analisi della diretta a partire da momenti chiave. Alla generale opposizione tra detrattori e solidali si affianca talvolta l’emersione di specifici temi sui quali si concentrano i commenti.

Intorno al minuto 16 la camera si aggira intorno ai manifestanti, ancora fermi nel luogo di concentramento del corteo. Si avvicina lentamente a un uomo col megafono, che spiega le ragioni della manifestazione a un gruppo che gli si fa attorno. Quasi subito i commenti si concentrano sulla lingua.

«Ma dove è a Mogadiscio?!» (Antonella, 16:41); «Televideoooo[maiuscolo]» (Andrea, 17:01); «Ma che cazzo [maiuscolo] blateri Muslim, e applaudono pure» (Sandro, 17:40); «In Italia si parla italiano!» (Ines, 17:20); «Ma come cavolo parla questo, non si capisce nulla, si capisce solo lui» (Luna, 18:44).

La diversità linguistica del locutore sembra produrre una mancanza di “legittimità” delle sue ragioni e della sua stessa presenza in Italia. Ma anche quando il video ritrae un giovane eritreo che spiega al megafono le ragioni della manifestazione, i commenti si concentrano sul diverso registro linguistico e sulla “correttezza” del suo italiano.

La camera continua ad aggirarsi tra i manifestanti. C’è una grande partecipazione di italiani ma anche molti gruppi migranti. Si legge su uno striscione: “La lotta per la casa non ha confini”. In lontananza qualche tamburo. «Senti che musica… siamo in Uganda», commenta Tiziano (18:39).

In lontananza si avverte la voce di un giovane, la camera si avvicina.

Stiamo cercando un posto dignitoso, una casa per tutti. […] Grazie ai romani che siete venuti con noi a manifestare per la giustizia, a marciare con noi per avere un posto dignitoso. Camminiamo tutti insieme e otteniamo il risultato perché siamo in tanti e uniti per lo stesso idea e richiesta. Grazie (19:12-19:36).

Il suo è un italiano corretto, con qualche lieve inflessione. Ciononostante, Ondina commenta: «Sei in Italia e parla italiano» (19:36). Il giovane prosegue il suo intervento: «Noi non siamo violenti, chiediamo solo un piccolo gesto dignitoso». Marco utilizza gli stereotipi di matrice coloniale sull’italiano degli africani: «L’Afriga londana vi aspetta» (23:43). Rinaldo commenta: «Togliete il megafono a quella merda» (21:32). «Siamo tutti uguali», prosegue il giovane al megafono. «Non tutti uguali», scrive Erminia (21:58).

Sebbene il corteo sia organizzato dai movimenti per la casa, attivi a Roma trasversalmente da anni sia con nativi che con migranti, molti denunciano una mancata mobilitazione per dei manifestanti per i diritti degli italiani.

Così Salvatore:

Vorrei [sapere] che diritto alla casa hanno questi clandestini che vengono in Italia e pretendono tutto gratuito[.] [P]erché non si rivolgono ai governi dei loro paesi e come mai questi pagliacci dei centri sociali non alzano un dito quando vengono sfrattati gli italiani[.] [B]uffoni vergognatevi (21:52).

Il giovane al megafono chiede libertà per i rifugiati arrestati. La folla acclama in maniera ritmata: «Libero! Libero! Libero!». «Siete liberi di tronare a casa vostra», commenta Salvatore (23:38). Gli slogan proseguono, il giovane “chiama” al megafono e i manifestanti rispondono a ritmo, battendo le mani: «Casa per tutti! Casa per tutti! Siamo rifugiati! Siamo rifugiati!». «Siete scappati dal vostro paese che avere problemi. Per venire in Italia a far problemi. Scimmie di merda» (24:14), commenta Eva, migrante anch’essa, ma dalla Romania. Francesco segue con gli stereotipi sull’uso dell’italiano da parte degli africani: «Ggaasaaaa x dudddddiiii» (24:25).

Compare un bimbo con la maglietta dell’Italia, tenuto sulle spalle da un giovane africano. Dietro di loro sventola la bandiera rossa del movimento contro gli sfratti. «Vogliamo vivere come i romani!», grida il giovane al megafono, e la folla risponde ritmando lo stesso slogan. «Sotto una casa! Sotto un tetto! Sotto una doccia!». Risponde Luca: «Ma andate a fanculo, gassa per dduddi...» (25:07). «Pretendono la casa. Vogliono vivere come i romani. Fuori dai coglioni [maiuscolo]», scrive Gianni (26:40). La camera stringe e si sofferma sui volti dei partecipanti: «Vogliamo la casa! Vogliamo il diritto!». «Roba da matti», scrive Charly, «questi piano piano vogliono tutto» (26:13). «Il mondo ci appartiene!», gridano i manifestanti. «Il mondo vi appartiene ma no[n] l’Italia» (Giovanni, 26:18). Il giovane passa il microfono al bambino con la maglietta dell’Italia: «Vogliamo la casa!». Volti sorridenti rispondono agli slogan. «Vergognatevi e tornatevene a casa vostra!!!», commenta Lucia (26:25).

La camera raggiunge un gruppo di giovani che danza e suona delle percussioni. «E intanto suonano e ballano[,] che schifo», commenta Francy (28:47). «Sti brutti beduini... fuori dalle palle», prosegue Luciano (28:59). Una giovane italiana balla al centro del capannello formato dai musicisti: «Ci mancava solo la sgallettata a ballare» (Vittoria, 29:39); «Ma i mariti de ste donne... Non riesc[ono] a soddisfarle[?]» (Nazzareno, 30:01). La sua comparsa lascia emergere le continuità tra razzismo e sessismo come pratiche del potere (Guillaumin 2020). Se il corpo nero è il corpo animale per eccellenza, il corpo femminile è oggetto di controllo ed esercizio del potere maschile.

La diretta prosegue per quasi tre ore. Il ritmo dei commenti va lentamente scemando. L’attivarsi del conflitto tra sostenitori e detrattori dei manifestanti lascia trasparire una difficoltà di fondo nel contrasto al razzismo. Il richiamo alla civiltà, all’educazione, a un sapere “corretto” contrapposto a uno scorretto sembra velleitario se non fallimentare. Le rivendicazioni dei migranti escono dal campo del conflitto per divenire lo sfondo di uno scontro giocato su altri piani. Quello morale, «un orizzonte culturale radicato nell’Occidente» che affonda le radici nel messaggio evangelico (Vereni 2017), appare votato all’impotenza. Quello politico parrebbe perdente in partenza: i commentatori sembrano non avere le parole per dire le cose, ogni volta che i protagonisti sono “gli altri”. Resta forse lo spazio per un intervento nel senso comune che si faccia carico del razzismo come dispositivo di potere solo in parte coincidente con idee, pratiche e linguaggi dei razzisti. Un razzismo che forse non è (più) “senza razzisti” (Bonilla-Silva 2018) ma che pervade comunque le strutture profonde delle filosofie spontanee. Il ruolo dell’antropologia, in questo campo, passa necessariamente attraverso l’analisi dell’altro (definito come “razzista”, “ignorante”, “incivile”, “violento”) ma anche attraverso una impietosa interrogazione sul noi (autodefiniti come “antirazzisti”, “civili”, “educati” e “consapevoli”). Che idea di razzismo e di antirazzismo ha chi lotta quotidianamente a favore dei migranti e per una gestione diversa delle migrazioni?

Razzisti per natura: etnografia di un dibattito pubblico

Siamo in Sardegna, durante uno di quei festival che popolano l'Isola per tutta la stagione estiva. Gli argomenti spaziano dalla letteratura alla musica, dal cinema al cibo. Spesso sono occasione per discussioni su temi di attualità, anche politica. Talvolta intere edizioni sono dedicate a questioni che hanno provocato dibattiti nel Paese. Nell'estate del 2017, fresche le polemiche sugli sbarchi e sull'onda delle controversie attorno alle politiche del ministro Minniti, uno dei principali festival letterari della Sardegna organizza un incontro su migranti e comunicazione. Vengo invitato in quanto antropologo delle migrazioni.

Ci troviamo in un ampio parco, incorniciato da ulivi, con un centinaio di persone davanti al palco. Gli organizzatori sono stati chiari: vogliamo interventi “divulgativi” sui diversi modi di raccontare le migrazioni. A me chiedono di parlare di come la stampa e i mass media producano e veicolino stereotipi sui migranti.

Il contesto sarebbe quello di una conversazione a tre. Lamine, mediatore culturale, griot e poeta originario del Senegal, una figura nota e attiva nella politica culturale della città di Cagliari, dialogherà con me e con un giornalista che da anni si occupa del rapporto tra stampa e migranti. Michela, l'amica che mi ha invitato al festival, poco prima di salire sul palco mi chiede di coordinare l’incontro, devo fare anche un po' gli onori di casa. Ho partecipato a molte edizioni del festival, in varie vesti, ma la cosa un po’ mi stupisce. Ho preparato degli appunti ma la scaletta inevitabilmente salta per il ruolo che mi hanno affidato. Ne verrà fuori un dialogo quasi a due, tra me e il giornalista, con qualche intervento più strutturato da parte di Lamine.

Durante il mio intervento introduttivo, il giornalista mi interrompe più volte per puntualizzare alcune questioni tecniche sulla Carta di Roma[8] che evidentemente devo aver semplificato troppo. Ha un fare piuttosto deciso, a tratti irruento. Non faccio in tempo a definire quel documento come un testo nato come “protocollo deontologico” nel 2008 per stabilire delle linee guida per le notizie concernenti richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti, che mi interrompe per specificare che dal 2016 fa parte del Testo Unico dei Doveri del Giornalista. Al di là della precisazione e del tentativo di bloccare quella che deve aver avvertito come una invasione di terreno, pesa forse nell’irruenza la necessità di ribadire il carattere vincolante di quel documento. Un vincolo, tuttavia, che non sembrava aver sortito grandi risultati nel limitare il linguaggio d’odio e i titoli sensazionalistici e fuorvianti da parte della stampa e dei media o nell’invertire sensibilmente i frame narrativi[9].

Quando tocca a lui, il giornalista parla del mutamento di clima che si è avvertito negli ultimi mesi nei confronti dei migranti. Dice che i fenomeni politici e sociali che abbiamo di fronte sono un’altra cosa rispetto al passato. Non siamo più di fronte al vecchio razzismo degli anni Novanta/Duemila. Quello, dice, era un razzismo contro il diverso, contro ciò che non si conosceva e si temeva potesse mettere in discussione la distribuzione delle risorse. Per separare il razzismo di oggi da quello di ieri usa una distinzione tra “migranti economici” e “rifugiati” che, a partire da categorizzazioni centrate sulla naturalizzazione di confini statuali o sovranazionali (ad esempio quelli dell’Unione Europea), incasella storie e traiettorie di vita complesse secondo schemi talvolta troppo rigidi. Fino a qualche anno fa, sostiene, avevamo davanti un razzismo contro i “migranti economici”, esecrabile, certo, ma diverso rispetto alla situazione in cui ci troviamo ora[10]. I richiedenti asilo hanno diritto a essere accolti “a prescindere” e le politiche portate avanti dal governo Gentiloni rischiano di fomentare il razzismo. Il giornalista raccoglie un applauso del pubblico, in larga parte d'accordo con quanto dice, e anche il mio assenso. Ho l’impressione di trovarmi, però, in un’area protetta, un luogo “giusto” e necessario certo, ma alla fin fine uno spazio in cui tutti sono d’accordo, non tanto sulle politiche migratorie e sul giudizio nei confronti delle ultime direttive, quanto sul dichiararsi orgogliosamente e pubblicamente antirazzisti. Il suo è un intervento che mette in chiaro sin dal linguaggio da che parte della barricata è giusto stare, in che modo, in quali forme e in che contesti si possa e si debba rivendicare la propria etica dell’accoglienza.

In paese c’era uno SPRAR[11], all’epoca. I rapporti dei richiedenti asilo e dei rifugiati con i paesani sono stati tutto sommato buoni, mi dicono. Ma dei migranti sembra esserci solo una flebile traccia tra il pubblico, in piazza. Ancora una volta, come in altre occasioni, mi trovo a parlare di loro, persino con loro ma non per loro. Né per loro né per la gran parte della popolazione del paese che accoglie il festival, che pure sembra essere partecipe e coinvolta nelle varie attività. Non lontano dal palco, fuori da un bar, un gruppo di ragazzi locali beve e parla ad alta voce. Penso che la vera battaglia da condurre, probabilmente, è là, non sul palco, e che l’unanimismo degli applausi ai nostri interventi non smuova di molto la cappa costruita quotidianamente dal linguaggio d’odio, dalle formule stereotipate con cui, giorno dopo giorno, si riproduce un senso di paura per i migranti, nelle diverse forme in cui la legge li ha incasellati.

Lamine legge alcune poesie, parla di umanesimo africano, di cooperazione come elemento centrale nel rapporto tra le diversità. Sembra essere un po’ a disagio, man mano che emerge tra gli altri due protagonisti della serata una certa diversità di vedute. Inframmezza i nostri dialoghi serrati con interventi più brevi, parla delle sue esperienze a Cagliari. Ha in mano un libro di poesie di Léopold Sédar Senghor. Lo sfoglia e recita qualche verso al microfono. La sua lettura termina con un forte applauso del pubblico. Il giornalista ci tiene a valorizzare la performance: «ha tradotto all’impronta dal francese, eh». Non posso fare a meno di pensare che il posizionamento di Lamine, l’essere lui un migrante, un griot, un poeta e un mediatore culturale abbia inciso su questa sottolineatura.

A un certo punto del dibattito il giornalista tenta di dare una spiegazione un po' più generale del razzismo. Dice che è «naturale avere paura del diverso», che è scontato «anche provare odio». Se vediamo qualcosa che non conosciamo «ne abbiamo naturalmente paura». «È frutto della civiltà il fatto che noi riusciamo a tollerare e apprezzare ciò che non ci appartiene». In quella parola «civiltà» sembra echeggiare una contrapposizione tra stadi di “evoluzione”: primitivo, barbaro e civile. Mi verrebbe da suggerirgli: «Dunque sono gli “uomini primitivi”, i barbari, gli incivili che si scontrano per questa diversità?». Ma il mio interlocutore è meno ingenuo di quanto mi possa sembrare: ha ben chiaro quale sia il portato profondo della nozione antropologica di “cultura”, sebbene, come altri[12], trascuri quanto si sia andati avanti nel dibattito e quanto stia stretta agli antropologi, oggi, una formulazione che riduce la diversità umana a un mosaico di culture. E tuttavia, da lì in avanti, il suo intervento inizia a prendere una piega che lo conduce verso un sottile slittamento esotico/evoluzionista, verso foreste, tribù e nomadi. E, spostandosi in direzione dell’Europa, verso il Medioevo, una sorta di pattumiera delle origini in cui tendiamo a mettere tutto ciò che non ci piace del “nostro” mondo. Penso che la connessione mentale sia quella del primitivo con la clava, quello che è più vicino alla natura. È lui che “naturalmente” è portato a nutrire un certo sospetto verso l’umanità altra. E un “razzista europeo”, bianco e occidentale, in questa concezione, è un po’ più vicino a quell’uomo primitivo (o a quello medievale) di quanto lo siamo noi, “antirazzisti bianchi” che abbiamo raggiunto (o dobbiamo sforzarci di raggiungere) un grado di “civiltà” più alto, un “livello di evoluzione” che consenta di staccarci dal “razzismo naturale” che si proverebbe dinnanzi a ciò che non si conosce.

Il dibattito si fa più animato. Il pubblico attorno, e anche gli organizzatori, se ne accorgono. È raro che non si sia tutti d’accordo, in queste occasioni. O almeno che non si finga di esserlo. Non resisto a interloquire in maniera un po’ più accesa. Rispondo, riprendendo il discorso di Lamine, che è anche l'empatia e la cooperazione che ci fa uomini e donne, che si impara ad amare come si impara a odiare il diverso, ma senza l'apertura non saremo probabilmente l'animale che siamo. Fatico a tenere il passo. Il pubblico rumoreggia e parteggia per il giornalista. La tentazione di rifugiarmi negli specialismi mi sembra per un attimo una via di fuga praticabile, anche se non del tutto onesta. Una fugace citazione manualistica, forse un goffo ricorso al principio di autorità, e mi rendo conto quasi subito che si tratta di un ricovero comodo ma precario. Per quale ragione dovrebbe darmi retta, se neanche io son convinto di quanto il senso comune “colto” pensa sia o debba essere l’antropologia, e cioè che il suo ruolo sia quello di ritagliarsi il posto di “scienza del diverso”? Non abbiamo passato gli ultimi quarant’anni a cercare di uscire da questo equivoco, a individuarne e decostruirne le eredità e il non detto coloniale? Ma non è forse per questo che ci si rivolge a un antropologo (solo per caso, in questa occasione, più o meno specialista del tema) quando si vuol parlare di diversità culturale, migrazioni, razzismo?

Provo a intervenire con alcune altre suggestioni molto generali. Ricordo che per una fase lunghissima della storia umana siamo stati nomadi o seminomadi. Animali uguali a noi, incontrando un altro gruppo di loro simili, concepivano la diversità in maniera differente da quella che a noi occidentali sembra oggi “naturale”, persino quando si trattava di riconoscere nell’altro una diversità fisica o somatica. Forse questi nostri simili non avrebbero saputo rispondere alla domanda “di dove sei”, e certo avrebbero pensato in maniera a noi poco comprensibile alla domanda “da dove vieni”. Il giornalista mi interrompe: «chissà che cosa gli facevano, agli altri gruppi, quando li incontravano nella foresta», e lascia intendere qualche forma di violenza truculenta. Dalla platea si ride di gusto.

Tempo scaduto, lasciamo il palco. Mentre scendo Michela si avvicina. «Come è andata?». «Bah, secondo me male». Rientrando a casa mi viene in mente l’articolo di Verena Stolcke: rifletto sul fatto che l'idea che veicolava il giornalista non deve essere così lontana da quella di larga parte del senso comune democratico e inclusivo. I razzisti sono sempre gli altri, quelli che non hanno raggiunto il livello di “civilizzazione” di noi aperti, accoglienti, democratici, inclusivi, civili e possibilmente bianchi. E poi si è razzisti per natura e dunque solo i migliori, quelli che riescono a innalzarsi sopra la bestialità dell'umano – concepita come condizione generale e “primitiva” – possono aspirare a essere qualcosa di diverso, forse a essere pienamente e culturalmente umani.

Un’argomentazione del genere è riscontrabile anche in un articolo pubblicato poco più di un anno dopo sulla rubrica L’amaca di Michele Serra, che il giornalista tiene ormai da decenni su “Repubblica” (Serra 2018). Lo spunto è un fatto avvenuto il 21 ottobre 2018, su un treno Frecciarossa Milano – Trieste. Una donna trova il suo posto accanto a una studentessa di origini indiane. Le dice di andarsene perché «io vicino a una negra [sic] non mi siedo». La madre della ragazza denuncia il fatto con un post su Facebook e molti media riportano la notizia e numerosi commenti. Sulla stampa cartacea e online la maggior parte degli interventi solidarizzano con la ragazza e stigmatizzano – spesso come “razzista” – l'atteggiamento della signora. Altri insistono sul fatto che non si tratti di una forma di razzismo ma di “stupidità”, presente allo stesso modo tra “bianchi” e “neri”. Serra parte da una affermazione simile.

Il termine “razzista” è del tutto inadeguato a definire la signora […]. Per umiliare così ferocemente, e così malamente, una persona mai vista prima, essere razzisti non basta. Bisogna essere veramente stronzi: ovvero bisogna avere, ben al di là delle proprie opinioni politiche, una caratura umana inferiore al minimo sindacale (Serra 2018).

Al di là dell’ironia dell’autore, è interessante l'interpretazione che egli fornisce di un atto razzista che usa il colore della pelle come marcatore del processo di razzizzazione: da un lato, quasi en passant, la definisce una «opinione politica»; dall’altro si concentra sulla “differente umanità” della protagonista, «inferiore al minimo sindacale». Il seguito chiarisce meglio l'argomentazione.

Serra, infatti, riflette più sul “non razzista” che sul razzista in sé. Esso viene posto all'interno di un processo di vera e propria “acculturazione” (nel senso di acquisizione di una data formazione o educazione), che gli consente di evitare una naturale propensione all'atteggiamento razzistico. «Ognuno di noi cova in seno debolezze, errori, aggressività, pregiudizi. Anche per questo (anzi, proprio per questo) coltiviamo la buona educazione: per tenere a bada lo stronzo che è in noi» (ibidem). L’autore sembra recuperare una parte della riflessione sul carattere strutturale del razzismo, evitando di ridurlo a una mera opzione ideologica. Si utilizza qui l’idea della pervasività delle categorie razziste – ovvero del razzismo dei non razzisti – per piegarla a una nuova “naturalizzazione”.

Prosegue l’autore: «Il sistema di inibizioni e di convenzioni che la società ha sviluppato nei millenni, dalle caverne ai Frecciarossa, non è un dettaglio formale: è convivenza sostanziale» (ibidem). È dunque nell’acquisizione di una certa “civilizzazione” che sta la possibilità di liberarsi da questo “razzismo naturale” insito nell'uomo e superato solo attraverso una prospettiva che richiama esplicitamente l'evoluzionismo. Il conseguimento di questa capacità è ciò che fa di un “uomo delle caverne” un civile antirazzista e un attore della “convivenza”. «Ed è proprio per questo che ogni sbrego inflitto a questo prezioso e antico tessuto solleva scandalo, e mette paura. Non è tanto il razzismo, a preoccupare» (ibidem). Il «prezioso e antico tessuto» si configura come una forma evoluta di civiltà, frutto del dipanarsi di una specifica parte del divenire storico che è riuscita a superare la “naturale propensione” dell'uomo a essere razzista. «Quello», il razzismo, «c’è sempre stato, come i tanti morbi endemici del genere umano» (ibidem).

Emerge qui una sottrazione esplicita e piena dei processi di razzizzazione allo spazio del moderno: il razzismo è un fenomeno naturale, e perciò stesso sottratto al divenire storico. La visione del razzismo come “malattia” che si bassa su una naturale e ancestrale pulsione umana all’odio dell’altro da sé (un “morbo endemico”) lo sottrae innanzitutto alla modernità. L’invenzione della razza e la nascita del razzismo, invece, sono due processi del tutto interni alla modernità, inconcepibili senza alcune sue caratteristiche peculiari. Sono il risultato, da un lato, della risposta delle nuove classi in ascesa allo “scandalo” dell'eguaglianza a partire dalla Rivoluzione Francese (Burgio 1998; Losurdo 2000), dall’altro, dei dispositivi di dominio prodottisi e ri-prodottisi nei tempi lunghi della costruzione dell'altro (Gliozzi 1976, 1990), attraverso lo “scarto” dell'incontro colombiano (Todorov 2002) e il colonialismo (Fanon 1996). Il dato interessante che emerge tanto dal dibattito pubblico sulle migrazioni quanto dallo scritto di Michele Serra, tuttavia, non è tanto l'innervarsi della convinzione dell'eternità del razzismo nel discorso antirazzista. Non è semplicemente un problema di distanza da una acquisizione storiografica e antropologica. Questa sottrazione del razzismo alla modernità (che è anche una sottrazione all’Occidente) reca con sé una concezione meramente volontaristica delle pratiche di contrasto. L’antirazzista è un umano che ha acquisito – per educazione o per tradizione – il «prezioso tessuto» della civiltà. È come se, paradossalmente, questo antirazzismo avesse assorbito le riflessioni sul “disimparare” il razzismo, sul razzismo “diffuso” e strutturale per leggerlo come una caratteristica non già di una specifica epoca storica e di un modello sociale ma della stessa umanità: sottratto allo spazio del moderno esso rappresenta la quintessenza ultima dell'animalità dell'uomo (e dunque, in una prospettiva del genere, la sua naturalità). Esso sarebbe superabile esclusivamente attraverso un processo di “civilizzazione” che ci renda un po’ «meno stronzi» di quanto ci ha fatto madre natura. Ciò pone un problema capitale all’antropologia pubblica perché investe non solo l’idea che si ha di razzismo ma quella che si ha di cosa si debba fare per contrastarlo.

Per un’antropologia pubblica e antirazzista

Scrive Piero Vereni commentando i fatti di Via Curtatone e Piazza Indipendenza:

La condizione di rifugiato si è completamente opacizzata nel calderone emotivo del timore dell’invasione e dell’ingestibilità dell’emergenza. La “cultura” che si è sedimentata è povera di contenuti oggettivi ma ricca di pulsioni emotive razionalizzate. […] Spero che si possa aprire ancora uno spazio di ragionamento condiviso per provare a cambiare quel che ormai è diventata la visione naturalizzata di una questione di mero ordine pubblico (Vereni 2017).

I commenti alla diretta Facebook che ho preso in esame lasciano emergere questa «visione naturalizzata» e le forme di contrasto interne sembrano flebili e poco efficaci nel mettere in discussione i presupposti impliciti delle categorie razzizzanti. Se è vero che il “posizionamento” degli attori sociali, il fatto che si tratti in questo caso non di atti pubblici e concreti ma di commenti “virtuali”, deve spingere a non considerare immediatamente sovrapponibile ciò che si scrive sui social network e ciò che si dice (e fa) nella vita quotidiana, tuttavia il carattere pervasivo del mezzo nelle nostre vite quotidiane consente di individuare delle linee di tendenza generali “anche” per il “mondo reale”. Inoltre, nel dibattito su migranti e comunicazione, così come nel testo di Serra, affiora un’altra forma di naturalizzazione: l’idea che il razzismo sia naturale e ovvio e che il suo contrasto passi esclusivamente o prioritariamente attraverso strumenti “educativi” e “civilizzanti”. Questa «visione naturalizzata» delle cose rende molto complessa l’interlocuzione e l’intervento per l’antropologia: pone in definitiva il problema di rovesciare uno schema di ragionamento che vede nel rifugiato o nel migrante “naturalmente” un nemico. All’interno dei materiali che ho analizzato sembrano emergere elementi di un «coacervo indigesto» che sottende i processi di razzizzazione, una forma di “filosofia spontanea” che si nutre non solo della retorica del rifiuto ma anche della convinzione (diffusa ben oltre il campo “razzista”) che la paura del diverso sia in una certa misura “più naturale” dell’empatia, della curiosità e del mutuo aiuto e che questi siano sentimenti e pulsioni “culturalmente” acquisiti più dell’odio.

Da questo punto di vista, la costruzione di una antropologia pubblica efficacemente antirazzista non può limitarsi alla denuncia del linguaggio discriminatorio e gerarchizzante, alla denuncia delle semplificazioni della complessità culturale e alla lotta alla loro riduzione a una rete di contrapposizioni statiche e naturali. Intanto perché la pervasività e la natura strutturale e strutturante del razzismo come dispositivo renderebbe questa impostazione piuttosto inefficace, riproducendo un approccio “culturalista”. Dall’altro perché l’auto-narrazione della disciplina come una scienza antirazzista (Anderson 2019) si basa proprio sulla promozione/invenzione di concetti che sono successivamente diventati parte del senso comune in termini ambivalenti, talvolta trasformati in strumenti di discriminazione/separazione (“etnia”, “cultura” etc). Il senso comune delle “comunità di sentimento” (Appadurai 2014) che si producono all’interno delle relazioni (anche) digitali veicola al suo interno un culturalismo che si nutre di nozioni antropologiche malamente intese, anche quando utilizza i linguaggi più espliciti del razzismo di matrice biologista.

Il principale terreno di intervento pubblico dell’antropologia mi sembra possa essere invece quello dell’assunzione piena del “senso comune” (“razzista” e “antirazzista”) come proprio oggetto di ricerca e di una postura «pedagogica» che intenda l’antropologia come «modello di impegno critico con il mondo» (Herzfeld 2006: XV). Da questo punto di vista, contrastare l’odio significa innanzitutto trovare le strade per nuove interlocuzioni e produrre modelli di dialogo che promuovano una maggiore consapevolezza del neorazzismo e del fondamentalismo culturale: prima di tutto tra gli “antirazzisti”. E ciò vuol dire non rinunciare a farsi carico della portata politica e situata del sapere antropologico. Se ciò si può sostenere per l’intera disciplina, nel caso specifico significa provare ad aprire «spazi di ragionamento condiviso» all’interno di un senso comune pervasivamente ancorato da un lato all’idea che respingere l’altro sia giusto e naturale, dall’altro all’idea che sia naturale ma sbagliato.

La domanda che sembrano suggerirci i due sketch etnografici, che sono a tutti gli effetti due “fallimenti antirazzisti”, è quali possano essere le tracce che nel senso comune permettono di trovare un punto d’ancoraggio rispetto alla riflessione antropologica sui processi di razzizzazione contemporanei. In che termini, cioè, un sapere specialistico che ragiona su dispositivi e pratiche di esclusione possa provare a diventare parte del senso comune di chi, per le ragioni più diverse, si oppone concretamente a quegli stessi dispositivi e a quelle pratiche, riorientando la disciplina come una concreta pratica antirazzista che si fa carico della sua postura politica. Ciò significa, prima di tutto, fare i conti pienamente con la propria «modestia» disciplinare (Herzfeld 2006: XV): una maggior consapevolezza della differenza quantitativa e non qualitativa tra saperi antropologici e senso comune (razzista e antirazzista).

Da questo punto di vista, un terreno fertile di riflessione sembra fornirlo una prospettiva gramsciana che riprenda la nozione di "istinto"[13], uno degli elementi individuati dall’intellettuale sardo come possibile “punto di passaggio” della “filosofia della prassi” nel senso comune al fine di permettere il superamento dell’apparente opposizione “qualitativa”. Questa nozione, declinata come «acquisizione storica primitiva ed elementare» formatasi «attraverso l’esperienza quotidiana» (Gramsci 1975, Q3 §48: 330-331), in Gramsci è elaborata (così come, poco oltre, lo «spirito di scissione», Q3 §49: 332-333) sul piano della “coscienza di classe”. Le tracce di questo “istinto” possono tuttavia leggersi anche su un livello più ampio, umano nel senso più elementare possibile: una acquisizione e una consapevolezza storicamente stratificate di empatia e cooperazione. Indagare queste tracce può contribuire a offrire un orizzonte di pratica al lavoro antropologico su razzismi e antirazzismi nel senso comune, nella misura in cui da un lato delimita uno specifico campo di ricerca etnografico (la ricerca sul senso comune razzista e antirazzista) e dall’altro utilizza «l’istinto» come “varco” per il passaggio dei saperi antropologici sull’identico e il diverso. Ciò contribuirebbe all’emersione del carattere “culturale” e storicamente stratificato delle pratiche e delle retoriche razziste, ma anche all’individuazione delle tracce potenzialmente feconde di un “istinto” (in senso gramsciano) antirazzista. La pratica etnografica nel quotidiano dei soggetti razzizzanti e razzizzati, la sua diffusione come strumento di indagine e intervento sociale, la postura “politica” di una nuova antropologia antirazzista possono essere gli strumenti più adeguati per provare a invertire la tendenza alla naturalizzazione del razzismo e alla simmetrica culturalizzazione dell’antirazzismo.

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[1] L’articolo riprende un intervento al VI convegno della Società Italiana di Antropologia Applicata (Cremona, 13-15 dicembre 2018). Altri materiali sono stati presentati in occasione del primo convegno della Società Italiana di Antropologia Culturale (Roma, 8-10 novembre 2018). Ringrazio i referee anonimi di Antropologia pubblica per i preziosi suggerimenti e Filippo Lenzi Grillini per aver letto e commentato la bozza dell’articolo. Tutti i nomi utilizzati sono pseudonimi. Per i riferimenti alla diretta Facebook sono stati utilizzati i nomi di profilodegli utenti, fatta salva l’omissione del cognome. L’intervento sui commenti si è limitato all’aggiunta di segni di interpunzione e al completamento di alcune parole (tra parentesi quadre), esclusivamente nei casi in cui il mantenimento dell’originale avrebbe reso il testo di difficile comprensione.

[2] Si preferisce qui utilizzare questo termine piuttosto che l’ormai più comune “razzializzazione” non tanto perché ci si voglia concentrare su «gli effetti materiali e psicologici delle discriminazioni razziste su alcuni gruppi e soggetti» (Mellino 2011: 57), ma per sottolineare il processo di produzione sociale della diversità bio-morale che, nonostante la “culturalizzazione” del razzismo, definisce ancora l’uso concreto delle nozioni sostitutive di “cultura”, “etnia”, “religione” etc. (cfr. Wikan 1999; Bachis 2018).

[3] Sui movimenti per la casa e contro gli sfratti a Roma si vedano almeno Mudu 2014; Vereni 2015; Di Feliciantonio 2017.

[4] Il riferimento è a un fatto di cronaca avvenuto a Rimini alla fine di agosto del 2017.

[5] Indicherò il minutaggio della diretta al quale è stato postato il commento.

[6] Si veda, a questo proposito, il database online aggiornato ad agosto 2019 dall’associazione Lunaria che segnala una crescita notevole delle violenze verbali, delle discriminazioni, delle violenze fisiche e dei danni contro le proprietà e le cose a sfondo razzista: www.cronachediordinariorazzismo.org (sito internet consultato in data 01/12/2019).

[7] Il riferimento è agli scontri seguiti allo sgombero dello stabile occupato.

[8] La Carta di Roma è il nome con cui è comunemente noto il Protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti, redatto dalla Federazione Nazionale della Stampa e dall’Ordine dei Giornalisti nel 2008, con lo scopo di fornire linee guida per gli operatori dell’informazione ai fini di una più corretta descrizione di fatti che riguardano migranti. Dal 2016, con il recepimento nell’articolo 7 del codice e con l’inserimento del glossario come allegato 3, è parte del Testo Unico dei Doveri del Giornalista Cfr. (Carta di Roma s.d.).

[9] La stessa Associazione Carta di Roma, nata nel 2011 per dare attuazione al protocollo deontologico per una informazione corretta sui temi dell’immigrazione, sottolinea questo aspetto nel suo report del 2019: «Una struttura narrativa […] chiusa e rigida impedisce la costruzione di una contro-narrazione: tutte le voci principali partecipano al frame egemonico, che descrive l’immigrazione come un luogo di conflitto tra le cosiddette élite dominanti e il popolo che cerca di tutelare la propria identità. Le poche interviste che cercano un racconto alternativo dell’immigrazione, fuori da questo schema […] appaiono del tutto marginali» (Barretta 2019: 7).

[10] Vale la pena qui di far cenno al problema della rigida distinzione tra migrazioni economiche e migrazioni “forzate” che ha pervaso questo come tanti altri discorsi antirazzisti sulle retoriche e le politiche dell’esclusione. Se da un lato discernere tra le diverse condizioni è forse politicamente utile per richiamare governi e autorità ai doveri di rispetto della legalità internazionale, talvolta rischia di contribuire a riprodurre ciò che è stato definito come “umanitarismo metodologico”: una rappresentazione dei rifugiati come vittime passive (Castañeda et al. 2016) e dunque perciò contrapposte al migrante “economico”, dotato di agency e per ciò stesso soggetto “attivo”. Questa postura si riconnette all’idea del fondamentalismo culturale come elemento cardine dell’esclusione contemporanea: una “naturalizzazione” del razzismo che passa necessariamente per la “naturalizzazione” dell’appartenenza, ovvero come “ordine nazionale delle cose” (Malkki 1995).

[11] Il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) è stato istituito in Italia nel 2002 e gestisce, sotto il coordinamento nazionale dell’ANCI, i progetti di accoglienza, di assistenza e di integrazione di richiedenti asilo e rifugiati a livello locale.

[12] Ad esempio, Ernesto Galli della Loggia (2020).

[13] In un passo del Quaderno 3, Gramsci si interroga sul rapporto tra “spontaneità” e “direzione consapevole”, discutendo su un piano politico il problema del “passaggio” della filosofia della prassi nei sentimenti “spontanei” delle masse e chiedendosi se e come possa avvenire questo passaggio. Questi sentimenti son definiti «“spontanei” nel senso che non dovuti a un’attività educatrice sistematica da parte di un gruppo dirigente già consapevole», ma si formano «attraverso l’esperienza quotidiana illuminata dal “senso comune” cioè dalla concezione tradizionale popolare del mondo» (Gramsci 1975, Q3 §48: 330-331). L’“istinto” è qui una «acquisizione storica primitiva ed elementare», non un fatto biologico (cfr. Cirese 1976: 113 e sg.).