Editoriale

Roberta Altin

Università di Trieste

Siamo giunti al secondo numero di Antropologia Pubblica in uscita nel 2020, anno che resterà nella storia per la pandemia da Covid-19, con conseguente lockdown, isolamento e distanziamento sociale. In parallelo alle ultime febbrili revisioni per la chiusura in tempo utile di questo numero fervono infatti i lavori di organizzazione per l’VIII convegno della SIAA, Fare in tempo. Cosa dicono gli antropologi sulle società dell’incertezza, che si terrà a Parma (2-6 dicembre 2020), ma che prevede di effettuare la totalità degli incontri in programma da collegamento remoto. Pure la redazione della rivista di Antropologia Pubblica ha continuato in questi mesi indefessa a lavorare tramite un costante scambio di email, video-incontri online, chat e telefono, nonostante le difficoltà del momento condivise da tutte/i, con il risultato di costruire un numero 2/2020 denso di interventi, approfondimenti, ricerche e nuove piste di dibattito e confronto, grazie ad un sempre più affiatato gioco di squadra editoriale che ha portato la rivista ad una fase di maggiore consapevolezza e maturità.

Ayşe Çağlar, ospite indimenticabile nell’ultimo convegno SIAA svoltosi a Ferrara 2019, apre questo numero con una rielaborazione della sua lecture Through the looking glass of disempowered cities, tradotta in italiano da Carolina Vesce. Il tema dell’intreccio fra città, migranti, spazi di abbandono e di rifunzionalizzazione crea la cornice teorica perfetta per introdurre la prima parte tematica Spazi di convivialità. Convivere e co-abitare con migranti in Italia, che propone una selezione degli interventi discussi nel panel del convegno a Ferrara 2019 curata da Selenia Marabello e Bruno Riccio. L’analisi multiscalare della città si dispiega nei vari articoli comparando gli spazi di prossimità nei condomini (Vietti), l’intimità della convivenza (Giuffrè e Marchetti) o del co-housing (Bosis) fra migranti e italiani all’interno dei progetti di accoglienza. Spazi e tempi che diventano condivisi nel lockdown (Marabello e Parisi), conflittuali (Sossich) o contesi attraverso strategie di resistenza messe in atto da residenti del posto e stranieri per ottenere una qualche forma di abitazione (Caciotti); emergono scenari urbani compositi dove si sperimentano nuove pratiche di condivisione e socializzazione, non sempre facilmente visibili, ma che possono tuttavia indicare forme sperimentali di accoglienza e di convivenza possibili.

Nella sezione dei Report di ricerca, uno spazio riservato ai rapporti più stringati e operativi, frutto di osservazione e/o sperimentazione sul campo, in questo numero troviamo un caso studio di Ivan Severi sui caffè storici torinesi candidati nelle Liste Unesco come esempio di percorso di patrimonializzazione; una ricerca-azione che ha applicato strumenti antropologici nel percorso educativo verso il benessere di adolescenti (Andrea Cellini) e, infine, un’indagine etnografica online svolta durante il lockdown da Covid-19 sulle chiese cristiane cinesi.

Nella rubrica Conversazioni Stefania Pontraldolfo e Bruno Riccio intervistano Saverio Krätli, direttore della rivista Nomadic Peoples, oltre che consulente e ricercatore freelance nel contesto dello sviluppo internazionale, che ha sviluppato una competenza specialistica nell'interfaccia fra pastori, scienza e politiche nell'Africa subsahariana.

Nello spazio dedicato agli Interventi troviamo un articolo di Francesca Privitera, architetta con esplicita volontà di stabilire un dialogo interdisciplinare (che è parte costitutiva della missione di Antropologia Pubblica) che analizza il legame tra la forma dello spazio architettonico e urbano e le pratiche di inclusione sociale, riprendendo il filo del discorso aperto nella parte iniziale di questo numero, ma estendendolo all’analisi della città interculturale come spazio ibrido concreto. Il secondo intervento riporta un altrettanto interessante caso di spazio ‘ibrido’: una consulenza di antropologia applicata richiesta a Berardino Palumbo da una compagnia multinazionale specializzata in produzione di macchine da cantiere; a partire da questo inusuale caso di lavoro su committenza l’autore riflette su possibili riconfigurazioni dei percorsi etnografici.

Entriamo così direttamente nel cuore del Dibattito finale, che propone un tema fondamentale e fondante per questa rivista: a partire dalla pubblicazione del carteggio fra Tullio Seppilli e Antonino Colajanni scritto alla vigilia del primo convegno e dell’atto di fondazione della SIAA a Lecce nel dicembre 2013, quali sono ruoli, funzioni e obiettivi dell’Antropologia applicata? Mara Benadusi introduce e contestualizza lo scenario storico, accademico e scientifico, i protagonisti con le loro diverse attese e interpretazioni dell’antropologia applicata e pubblica in Italia. Seguono quindi gli interventi di molti padri fondatori della SIAA quali Leonardo Piasere, Giovanni Pizza e Alessandro Simonicca, oltre che del Presidente della SIAC Ferdinando Mirizzi i quali ripercorrono le tappe iniziali del percorso dell’antropologia pubblica con uno sguardo da presente etnografico che si (e ci) interroga sui prossimi passaggi, compiti, alleanze e direzioni comuni da prendere per ri-applicare l’antropologia nel contesto italiano. Il carteggio si rivela così un formidabile trigger per scuotere e rivitalizzare la folta comunità scientifica e professionale che si è raccolta in questi sette anni attorno alla SIAA e alla rivista, costruendo una comunità di pratiche e di intenti comuni. Nell’anno della pandemia su scala globale, nulla sembra più attuale dei temi discussi nel dibattito per ripensare all’atto di fondazione finalizzato a dare un senso sempre più cogente della ricerca antropologica come conoscenza strategica volta al miglioramento della vita sociale e pubblica.