Attraverso la lente delle città depotenziate

Ayşe Çağlar

University of Vienna/IWM, Vienna

Indice

Attraverso la lente delle città depotenziate
Alla ricerca di un vocabolario analitico
Grovigli retorici
Debito, disuguaglianza, impoverimento
Politica polarizzata
In luogo di una conclusione
Bibliografia

Parallelamente[1] all’incremento dei consensi e all’ascesa delle destre, un’attenzione crescente ha interessato il divario sociale, economico e demografico tra agglomerati urbani a crescita accelerata e metropoli, da un lato, e città medio-piccole e zone rurali, dall’altro. Questi luoghi – per i quali si utilizza spesso l’appellativo di “abbandonati”, caratterizzati da stagnazione economica, declino, spopolamento, alti livelli di disoccupazione e radicata povertà – sono spesso rappresentati come il motore del successo delle destre; una sorta di tropo per discutere dell’ascesa del populismo nel dibattito pubblico e in quello scientifico (Hendrickson et al. 2018; Carter 2016; Rodrígues-Pose 2018).

Significativamente però, se le migrazioni occupano uno spazio discorsivo determinante nella rappresentazione dell’avanzata di questi schieramenti politici nelle città economicamente deprivate, limitata attenzione è stata riservata ai migranti stessi e al loro posizionamento nella produzione e ri-produzione del tessuto economico, sociale, politico e affettivo di questi luoghi. Come già sottolineato altrove, a lungo si è trascurato lo studio e l’elaborazione teorica sul posto dei migranti in contesti urbani di diverse dimensioni, al punto che le relazioni e le dinamiche della migrazione continuano ad essere concepite primariamente sulla base di ricerche condotte nelle metropoli e/o nelle città di passaggio e frontaliere (Glick Schiller, Çağlar 2009; Çağlar, Glick Schiller 2011, 2018)[2].

Sorprende questa mancanza per diverse ragioni: sul piano empirico, fin dagli anni ‘90 si è registrata una tendenza crescente all’insediamento dei migranti in città spopolate e in declino, o nelle zone rurali (Jentsch 2007; Kasimis et al. 2003; Kasimis 2010; Pinnila et al. 2008). Inoltre, accanto alla tendenza a stabilirsi sempre più di frequente in queste aree, molte di queste città avvicinano e accolgono attivamente i migranti (e i rifugiati e le rifugiate) nel quadro di politiche di ripopolamento e rivitalizzazione. Mi riferisco in particolare a città che sono parte di reti come Welcome America, un network di amministrazioni locali e organizzazioni non governative attivo dal 2009 il cui motto mette in relazione l’accoglienza dei migranti con l’ambito benessere (Welcoming America n.d.; Jamrisko, Englert 2017; Welcoming Week Across the Rust Belt – WE Global Network n.d.). Diversi esempi di città economicamente e demograficamente precarie che accolgono i migranti in uno sforzo di rivitalizzazione sono riscontrabili in Europa e negli Stati Uniti[3].

Colpisce, inoltre, questa negligenza sul piano teorico-epistemologico perché mette in luce la morsa stringente del nazionalismo metodologico negli studi e nelle politiche urbane delle migrazioni (Glick Schiller et al. 2006; Glick Schiller, Çağlar 2009, 2011; Çağlar, Glick Schiller 2018). Benché le ricerche abbiano ampiamente documentato e discusso le fratture economiche e giuridiche che hanno investito le territorialità nazionali nel quadro della globalizzazione (Brenner 2004; Jessop 1997), gli effetti di tali processi godono di scarsa considerazione. Ugualmente trascurato è lo studio delle diverse possibilità che i migranti hanno di integrarsi nel tessuto politico e sociale di città di diversa scala, diversamente posizionate e collegate nel quadro delle reti territoriali, nazionali e globali. Il dislocamento dei migranti in città continua ad essere il presupposto teorico alla base della dinamica di definizione di queste ultime come luoghi di passaggio o metropoli, come se esistesse omogeneità giuridica, economica, politica tra diversi spazi e territori nazionali (Sassen 2001; Wimmer, Glick Schiller 2002).

A partire da quella che abbiamo definito una prospettiva di ricerca comparativa multiscalare[4], questo articolo si concentra sull’importanza di studi che esplorino la posizione dei migranti nei processi di produzione della città (city-making), in particolare di quegli studi che scelgano la lente delle città economicamente precarie e in declino che abbiamo definito “depotenziate”. Si rinnova qui l’invito a un’analisi multiscalare del coinvolgimento dei migranti nel quadro dei processi di city-making, nonché della governance dei contesti urbani in relazione alle trasformazioni dei processi di accumulazione del capitale e delle geometrie di potere che si sono determinate in specifiche congiunture storiche (Çağlar, Glick Schiller 2018; Çağlar, Glick Schiller forthcoming). Si sottolinea l’interesse di studi che si concentrino sulle dinamiche specifiche generate da una concezione neoliberista dello sviluppo urbano nelle città “abbandonate” e in declino e sull’impatto che questa esercita sui paesaggi sociali, politici e affettivi. Tale approccio si fonda su una concezione degli spazi urbani come ambienti costruiti nelle mutevoli traiettorie di accumulazione di capitale nel tempo. È all’interno di queste strutture e nei processi di formazione del capitale per come sono agiti all’interno di uno spazio e di un tempo definiti che prende forma la relazione tra attori sociali portatori di diversi gradi e tipi di potere – economico, finanziario, e culturale – nel momento stesso in cui le loro soggettività emergono e si trasformano. Pertanto, la posizione dei migranti nelle dinamiche del city-making è fortemente condizionata dai processi di generazione del valore che determinano le opportunità e i vincoli di collocazione dei migranti all’interno del tessuto sociale, culturale, economico e politico della città.

Mi concentro in prima istanza sull’utilità della lente offerta dalle città depotenziate per esplorare i paradossi e le frizioni dei processi neoliberisti di rigenerazione urbana. Quindi, propongo uno spostamento del nostro vocabolario analitico dal piano della migrazione/mobilità a quello del dislocamento, nel tentativo di districare l’interrelazione tra le dinamiche di sviluppo urbano e la collocazione dei migranti che rischia di rimanere nell’ombra se si sceglie di usare solo la lente della “mobilità”. Sulla base di quanto osservato a proposito delle dinamiche e degli effetti della rigenerazione urbana in tre città depotenziate, in conclusione, richiamo l’attenzione su specifici paesaggi affettivi plasmati dalle forme neoliberiste della rigenerazione urbana che, in queste città depotenziate, alimentano il sentimento populista anti-migranti.

Attraverso la lente delle città depotenziate

Con l’espressione città depotenziate (disempowered) ci si riferisce a quei contesti urbani caratterizzati da un’economia decimata, dallo spopolamento e quindi dalla perdita di base imponibile. Si tratta di città i cui attori sociali e istituzionali hanno perso potere economico, politico e/o culturale. Sono depotenziate nel senso di accesso ai capitali, agli investimenti, alle risorse umane e al potere nazionale (Çağlar, Glick Schiller 2018)[5]. Sono città che hanno una disponibilità limitata di risorse per i propri residenti, ma che tuttavia non sono città “senza potere”. Al contrario, non solo questi centri hanno goduto di una certa potenza, ma mantengono traccia materiale e memoria del passato – il che facilita la loro capacità di raccontare questo tempo glorioso. Queste città posseggono infrastrutture e ambienti costruiti carichi di memorie, che rimandano tanto al passato potere quanto al successivo declino, all’abbandono e alla perdita. La materialità stessa della perdita è inscritta in questi paesaggi urbani: si tratta di una questione di estrema rilevanza per comprendere gli investimenti affettivi e le disillusioni prodotte dai processi di rigenerazione.

Se è vero che la gran parte delle città deindustrializzate ricade sotto la categoria di città depotenziate, non lo è il contrario. Alcune di queste città erano centri di scambio e commercio, animate da attività culturali, reti religiose e educative; un tempo dotate di potere, si sono successivamente indebolite, ma non possono essere considerate città deindustrializzate in senso stretto, non essendo mai state veramente industriali. Tuttavia, a prescindere dal fatto che il nucleo propulsivo del loro potere fosse industriale o commerciale, la potenza “perduta” si trova inscritta nei panorami urbani tratteggiati dalle fabbriche abbandonate, trascurate e in rovina delle aree industriali, o rivalutato come patrimonio architettonico. Queste iscrizioni materiali sui paesaggi urbani alimentano, da un lato, meccanismi narrativi e immaginari nostalgici di un passato glorioso seguito dal declino e, infine, dal “rinnovamento” e dall’attuale “sviluppo”, dall’altro la rabbia e il risentimento presenti oggi in queste città.

La lente offerta dalle città depotenziate, in particolare da quelle città che hanno adottato specifiche retoriche dell’accoglienza dei migranti, può rivelarsi utile per approfondire le dinamiche, i paradossi e gli effetti di particolari forme di riqualificazione urbana (neoliberista) che hanno prevalso per circa tre decadi. Le contraddizioni, le fratture e le frizioni che si producono in termini di diseguaglianze, disparità e riduzione dei servizi pubblici nei processi di rigenerazione neoliberista degli spazi urbani – attraverso l’aumento dei partenariati pubblico/privati a fronte della contrazione degli investimenti dei governi centrali e dei finanziamenti alle amministrazioni locali e alle municipalità – sono passibili di assumere maggiore visibilità e intensità nelle città depotenziate di quanto non accada in contesti più potenti e meglio equipaggiati in termini di risorse.

Nel corso della ricerca, abbiamo guardato comparativamente ai processi di rigenerazione urbana volti a superare il decadimento economico e sociale in tre città depotenziate e diversamente posizionate dal punto di vista geografico e storico, e alla posizione dei migranti in questi processi. Situate in contesti nazionali altamente differenziati per storie, retoriche, eredità e politiche in materia di migrazioni, le tre città su cui ci siamo concentrate sono Manchester, nel New Hampshire (USA); Halle/Saale in quella che un tempo era la Repubblica Democratica Tedesca, oggi Repubblica Federale Tedesca; e Mardin, in Turchia, sul confine con la Siria[6]. In ognuna di queste città i migranti/le minoranze rappresentavano solo una piccola parte della popolazione: l’8% a Manchester (US Census 2000) e il 3.1% ad Halle (City of Halle 2016). Anche le minoranze e gli sfollati siriani cristiani, rappresentavano solo una piccola frazione della popolazione della regione di Mardin. Tuttavia, nonostante il numero variabile e tutto sommato modesto, i migranti/rimpatriati e le minoranze erano ben presenti e hanno svolto un ruolo importante nei programmi e nelle politiche di rigenerazione urbana a Manchester, Halle e Mardin. In tutte le tre città è stato possibile osservare un chiaro depotenziamento, sebbene i processi di declino, spopolamento e decimazione economica e politica che hanno interessato queste città non abbiano mai seguito traiettorie lineari. Tutte, inoltre, avevano dato avvio a processi di rigenerazione urbana fin dai primi anni 2000.

Manchester

A sole cinquantatré miglia di distanza da Boston, Manchester è stata ed è ancora la più grande città del New England settentrionale. Un tempo, la città godeva di fama mondiale come vivace centro di produzione di manifatture tessili, calzature e macchine utensili, che attraeva forza lavoro da diverse regioni e produceva beni esportati a livello globale. Questa posizione di potere si è incrinata a partire dagli anni Trenta del Novecento, quando le locali organizzazioni del lavoro ebbero contezza della vasta portata della crisi provocata dalla grande depressione e i proprietari delle fabbriche iniziarono a trasferire i propri capitali nei territori non sindacalizzati del sud degli Stati Uniti. La lunga linea di fabbriche di mattoni, elegantemente costruite ma abbandonate, svettano ancora oggi nel centro della città a testimonianza del depotenziamento economico che l’ha attraversata a dalla metà del XX secolo. Mentre le immagini della città continuavano a dominare i dibattiti nazionali per via delle prime primarie presidenziali, gli amministratori comunali e la cittadinanza erano consapevoli che la città era ormai ridotta ad un guscio vuoto e deindustrializzato, simulacro del suo glorioso passato. Deprivata della maggior parte delle sue fabbriche e svuotata dalla popolazione già a metà del XX secolo, la città ha raggiunto tassi di disoccupazione considerevolmente più elevati rispetto al resto della regione e dello Stato. Per quanto si siano registrate timide riprese dell’economia regionale, con la rapida crescita dei settori dell’high-tech e della finanza, un’ondata di fallimenti bancari, il crollo di dot.com nel 2000, le conseguenze dell’11 settembre e la recessione economica che ha travolto gli Stati Uniti nel 2008, hanno determinato la crescita della disoccupazione e una definitiva battuta d’arresto dei sogni di reindustrializzazione. All’inizio del millennio il centro cittadino era considerato un centro del crimine, con il suo profilo tracciato delle ciminiere di mattoncini delle fabbriche abbandonate da tempo e dalle vetrine vuote, senza più allestimenti. Le contraddizioni del suo centro in decadenza minarono anche la posizione politica della città alle primarie presidenziali.

Halle

Situata a circa cento miglia a sud-est di Berlino, Halle è stata per secoli un centro di formazione, ricerca scientifica e contatti commerciali di ampia portata. Negli anni della Repubblica Democratica Tedesca (1945-1989) era conosciuta per le vicine industrie petrolchimiche e per la produzione della plastica. L’unificazione della Germania e la conseguente ristrutturazione della governance territoriale portarono alla svalutazione di Halle e alla sua collocazione nella Sassonia-Anhalt, in quella che prima era Germania dell’Est, la cui capitale fu stabilita a Magdeburgo, invece che ad Halle. A seguito dell’unificazione la città perse la gran parte delle imprese e delle fabbriche, sgomberata dai lavoratori statali, dagli impiegati commerciali e dai numerosi professionisti che, una volta perso il lavoro, lasciarono la città. Per i cittadini residenti il senso di perdita fu opprimente, reso ancora più pungente dal centro cittadino deserto, con i quartieri art déco in stile inizio XX secolo e i desolanti edifici abbandonati del vicino centro di Halle Nuestadt, ex città operaia. Ottantamila persone si sono trasferite tra il 1990 e il 2005. Nel 2000, l’11% dei residenti era ufficialmente disoccupato e la percentuale era ancora più alta nel caso della popolazione più giovane; finanche i lavori a basso reddito erano altamente contesi (Löbner 2013). È in questa fase che Halle guadagna la cattiva reputazione di una città “che si rimpicciolisce”, piena di edifici abbandonati e in rovina, secondo una narrazione che la vuole una città pericolosa preda delle bande di giovani neonazisti.

Mardin

Città e insieme regione della Turchia, Mardin è un antico centro urbano la cui “grandezza” non è legata all’industrializzazione, ma alla posizione come centro di scambio, commercio, apprendimento e come centro religioso. La città ha svolto un ruolo rilevante nel quadro delle reti educative di carattere religioso, delle reti artistiche e culturali, cristiane e musulmane. Con lo spostamento delle rotte commerciali Mardin perse il suo potere: la fine dell’impero Ottomano e i genocidi della popolazione armena e dei cristiani siriani nel 1915 hanno significativamente trasformato l’estensione e la composizione della popolazione di Mardin. Un ulteriore ridimensionamento del ruolo politico, commerciale e religioso della città nel contesto regionale si ebbe con l’istituzione dello Stato turco e del confine tra Turchia e Siria, nel 1923. Le trasformazioni demografiche e lo spopolamento proseguirono nonostante le ondate di repressione. L’acuirsi del conflitto tra lo Stato turco e l’insurrezione curda nel corso degli anni ‘80 ha portato da un lato al trasferimento della popolazione benestante residente al di fuori dalla Città Vecchia, dall’altro, al movimento massiccio verso il centro di una massa di popolazione rurale sfollata e diseredata, per lo più curda (Yüksel 2014). La guerra del Golfo, nel 1991 e, successivamente, l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, nel 2003, hanno accelerato il degrado regionale e aumentato il tasso di disoccupazione, che nel 2003 si aggirava intorno al 50% (Collins 2003). Alla fine del XX secolo Mardin era una delle città-regione più povere della Turchia, con una brutta reputazione circa gli alti livelli di disoccupazione, povertà e terrore. Nel 2000 il paesaggio urbano di Merdin era costellato di chiese, monasteri e cattedrali nel deserto, con il vecchio centro cittadino e la sua architettura storica in gialla pietra calcarea in decomposizione. Gli edifici stavano là a imperitura memoria del passato cittadino e a testimonianza della sua perdita di potere.


              

Nelle tre città considerate il passato glorioso e la perdita del potere si trovavano iscritti negli ambienti costruiti, nei palazzi e nelle aree abbandonate. All’inizio del nuovo millennio tutte avevano intrapreso uno sforzo sistematico di riposizionamento nella rete di relazioni economiche e culturali locali, nazionali e globali. L’obiettivo perseguito era creare/rinnovare da un lato le infrastrutture, dall’altro quelle espressioni della vitalità cittadina che potessero consentire di attrarre aziende e finanziamenti internazionali. Era necessario intervenire sull’immagine negativa delle città: terrore e povertà a Mardin, razzismo ad Halle, e disdicevole abbandono a Manchester. Tutte hanno adottato retoriche narrazioni positive dell’accoglienza dei migranti.

Nel quadro della ristrutturazione economica neoliberista, le città che hanno adottato un approccio imprenditoriale si sono trovate a giocare un ruolo cruciale come fonti, ancor prima che luoghi di accumulazione. Le capacità d’impresa sono state rivalutate e riscoperte al fine di accrescere i profitti e per l’accumulazione di ricchezza (Harvey 2002; Smith 2002). Favorire il processo di accumulazione degli/negli spazi urbani implica in effetti un intervento sostanziale sull’ambiente costruito (Swyngedouw et al. 2002); pertanto, nel tentativo di rendere le città più attraenti, gli amministratori e i tecnici incaricati hanno concepito lo sviluppo urbano innanzitutto come rigenerazione degli edifici abbandonati e fatiscenti del centro.

Nell’analizzare lo sforzo compiuto da queste città per rilanciare le proprie economie e riposizionarsi come attori “globali” – o almeno farne dei centri di servizio nel tentativo di superare la stagnazione in cui erano cadute – abbiamo avuto modo di osservare chiaramente proprio quei processi di accumulazione del capitale che Harvey (2005) ha definito “accumulazione per spoliazione”. In particolare, entravano in gioco le espropriazioni legate alla rigenerazione urbana e ai ricollocamenti che ne derivavano. Come è emerso dalle nostre ricerche, nel tentativo di rilanciare queste economie cittadine, le élite politiche e imprenditoriali non hanno esitato a mobilitare i poteri locali e i finanziamenti regionali già destinati a rafforzare gli interessi commerciali attraverso partenariati pubblico/privati.

Si è fatto quindi ricorso ai meccanismi tipici dell’urbanistica neoliberista: erogazione di sussidi pubblici allo sviluppo privato, ad esempio incentivi fiscali e sussidi economici volti a favorire gli interessi individuali e aziendali invece che pubblici, o anche attraverso la disponibilità di “beni comuni”, ossia di terreni pubblici concessi alle imprese che intendessero installarvi progetti di rinnovamento urbano a prezzi inferiori ai prezzi di mercato. Il dislocamento sociale che risulta dalle espropriazioni innescate da tali processi, come accaduto altrove, ha accresciuto le disuguaglianze e le condizioni di precarietà dei cittadini migranti come dei non-migranti. L’effetto dei dislocamenti si è evidentemente ripercosso sulle città depotenziate in modo più drastico di quanto non sia avvenuto nelle città dotate di sufficienti risorse.

Alla ricerca di un vocabolario analitico

L’analisi dei processi di city-making in rapporto alla presenza migrante, e degli effetti dello sviluppo urbano sui residenti (migranti e non-migranti) in tre città depotenziate ci ha poste di fronte all’esigenza non solo di adottare di una prospettiva multiscalare, ma anche di rifocalizzare la nostra lente da un’ottica centrata sulla mobilità a una centrata sui dislocamenti (Çağlar, Glick Schiller 2018; Çağlar, Glick Schiller forthcoming; Çağlar 2016, 2018). Vale la pena sottolineare che il nostro approccio influisce e conta, così come conta il modo in cui restituiamo le vite e le esperienze dei migranti nelle città. L’invito a rimodulare il nostro vocabolario analitico in favore della mobilità si è configurato infatti come un invito a riconoscere l’autonomia delle migrazioni (De Genova 2017; Mezzadra 2011) e l’agency dei migranti. Tuttavia, nonostante l’importanza di mettere in luce la capacità d’azione e mobilità di queste persone[7], l’utilizzo di questo concetto nell’analisi delle migrazioni e delle dinamiche migratorie risulta problematico perché strettamente legato alla forma dello stato-nazione.

Lo Stato occupa spesso un ruolo centrale nella definizione e istituzionalizzazione di ciò che rientra nella “mobilità”, di quali forme e pratiche possono essere rese visibili all’interno di specifici regimi di mobilità e quali invece devono restare invisibili (Glick Schiller, Salazar 2012). Non tutte le persone che si muovono sono migranti (ad es. gli espatriati), al contrario, molti di coloro che sono definiti migranti non si sono mai mossi (ad es. le cosiddette seconde o terze generazioni di migranti). La lente della mobilità, di conseguenza, è incorporata nei regimi politici dello Stato nazione al punto che ciò che viene selezionato ed esposto come mobilità dipende dalle dinamiche di potere che si determinano in una certa congiuntura storica. Lo Stato non solo definisce, ma acquisisce il suo ruolo proprio nell’individuazione di un determinato tipo di mobilità, quella transfrontaliera, come determinante nell’esperienza dei migranti e per la loro agency, oscurando di fatto tutte le altre forme di mobilità e immobilità che caratterizzano le vite delle persone[8].

Il concetto di dislocamento, al contrario, ci permette di districare la serie di processi interrelati messi in ombra dalla lente della mobilità. Il passaggio da una prospettiva centrata sulla mobilità a una prospettiva centrata sul dislocamento ci consente di guardare ai movimenti dei singoli o di interi gruppi in relazione ad altri processi, in particolare agli espropri derivati dal depauperamento dei mezzi di sussistenza, o alle guerre. Se il concetto di mobilità non tiene conto delle connessioni tra questi processi, quello di dislocamento ci permette di posizionare i migranti e le dinamiche migratorie in relazione ad altri processi di ristrutturazione urbana e del capitale. Una trama interpretativa incentrata sugli espropri e i dislocamenti ci aiuta a mettere a fuoco le intricate relazioni tra i processi di riproduzione del capitale a partire dalla rigenerazione urbana, le disuguaglianze e la collocazione dei migranti. In questo modo abbiamo potuto mettere a fuoco e analizzare come processi apparentemente indipendenti siano strettamente connessi e come tali connessioni siano evidenti anche tra luoghi e istituzioni di varia scala (Miraftab 2014). La trama interpretativa che abbiamo scelto di adottare determina non solo ciò che sveliamo e ciò che invece celiamo, ma la semantica stessa della distinzione, del pensare la differenza, le connessioni e i domini di comunanza e socialità tra i residenti. Anche i non-migranti, d’altra pare, sono soggetti ai processi di dislocamento ed espropriazione nel quadro delle dinamiche del capitale e in particolare delle dinamiche di rigenerazione urbana delle città.

Questo scenario consente di apprezzare non solo le interdipendenze tra questi processi, ma anche la condizione condivisa di precarietà che ne deriva e che influenza la vita dei molti residenti (migranti e non-migranti). In altri termini, accanto a persone con background migratorio che hanno scelto la mobilità e hanno lavorato per costruirsi una nuova vita, possono essere inclusi tra gli sfollati anche quanti “sono rimasti” e che si definiscono “nativi”. L’analisi della “accumulazione per spoliazione” e dei processi di dislocamento che ne conseguono ci consente di esplicitare le forze che entrano in gioco tanto nella crescente spinta al movimento delle persone entro e oltre i confini statali, quanto nell’incremento della mobilità sociale verso il basso e della rabbia di quanti sono rimasti – in città, nella regione, nel paese – ma si sentono sempre più “esclusi” o “lasciati indietro” “a casa propria”[9]. In questo modo è possibile analizzare i processi, gli attori e le battaglie di riposizionamento di una città attraverso la rigenerazione di spazi urbani, di segmenti di popolazione e di istituzioni, intesi come processi interdipendenti che plasmano e danno forma alla collocazione dei migranti. Migranti e non migranti si trovano così ad essere collocati all’interno degli stessi processi di trasformazione, al di là della divisione tra “nativi” e “stranieri”. Nel clima di crescente ascesa del populismo risulta quindi particolarmente importante superare i dualismi della differenza generati dagli immaginari nazionali che dominano i discorsi pubblici. Dicotomie come quella migranti/nativi rappresentano spesso gli elementi costitutivi delle prese di posizione antagoniste proprie dei discorsi populisti (Laclau 2005).

Multiscalare

Aver adottato una prospettiva multiscalare ci ha consentito di mettere insieme contesti diversi che si intersecano e sono connessi da forme reticolari di potere diversificate e localmente articolate. Le città che abbiamo osservato erano infatti organizzate nel tempo e nello spazio entro reti e relazioni multiple che comprendevano le connessioni tra città, istituzioni, infrastrutture e attori su scala diversa. In questo senso, il termine multiscalare va inteso qui come “una scorciatoia per rendere conto di sfere pratiche socio-spaziali che sono in relazione tra loro e all’interno delle gerarchie che si producono nelle reti di potere” (Çağlar, Glick Schiller 2018: 8). Questo tipo di analisi ci ha consentito di interrogare insieme l’intersezione di diversi network (locali, regionali, nazionali e globali) di produzione dello spazio che non erano tra loro correlati né annidati all’interno di una gerarchia fissa. Inoltre, l’analisi congiunturale ci ha permesso di ricostruire come e perché certe traiettorie politiche, certe forme di governance, alcuni gruppi istituzionali e attori di varia scala – più o meno prossimi o distanti – si incontrino e si intersechino nel quadro di particolari congiunture spazio-temporali[10]. L’analisi congiunturale ha fatto emergere le intersezioni reticolari da cui si generano nuovi assemblaggi di vita politica, economica e culturale e nuove forme di legittimazione e contestazione (Çağlar, Glick Schiller forthcoming).

Quando parliamo di city-making ci riferiamo alle relazioni di potere attraverso cui attori diversi acquistano valore e conquistano, perdono o mantengono risorse, influenzando le più ampie dinamiche di governance territoriale della città su un piano multiscalare (Çağlar, Glick Schiller forthcoming). Ci riferiamo quindi ai molteplici processi, tra loro interconnessi, e alle relazioni tra sviluppo urbano e ricollocamenti come parte del tentativo di accumulazione di ricchezza e potere che le città attuano in particolari congiunture. In ciascuna delle città studiate i migranti venivano coinvolti nei processi di rigenerazione urbana in qualità di attori e soggetti, entrando a far parte delle reti finanziarie, culturali, commerciali e politiche e delle reti multiscalari che annettono/connettono la città ai flussi finanziari. Contribuendo a costruire e dipanare le reti di potere di una pluralità di istituzioni, i migranti sono divenuti city-makers.

Grovigli retorici

Due intricate retoriche dell’accoglienza caratterizzavano tutti i tre contesti indagati: da un lato una narrazione migrant-friendly, dall’altro una prospettiva più interessata alle dinamiche del capitale. Significativamente, mentre le retoriche compiacenti nei confronti del capitale e delle corporation si traducevano in una pletora di programmi e incentivi finalizzati ad attrarre denaro e investimenti, la retorica dell’accoglienza dei migranti non è risultata in programmi concreti né sono stati corrisposti incentivi o finanziamenti. Mentre le retoriche dell’accoglienza si arrestavano sul piano discorsivo, gli incentivi a favore del capitale si concretizzavano in politiche di sussidio, riduzione fiscale, esenzione dai contributi commerciali e societari, disponibilità di risorse pubbliche (beni comuni e finanziamenti) concesse alle aziende al di sotto dei prezzi di mercato.

A Manchester, Halle e Mardin la rigenerazione urbana ha preso forma a partire dalla forte dipendenza dai finanziamenti pubblici, inizialmente molto deboli in queste città. I progetti di rigenerazione erano spesso trainati da partenariati pubblico/privati e resi possibili da finanziamenti multiscalari. Vale la pena sottolineare l’efficacia di queste politiche in termini di attrazione di capitali aziendali e privati e di investimenti internazionali. In particolare, nei tre contesti osservati, la rigenerazione ha riguardato principalmente il perfezionamento della rete infrastrutturale e il rinnovamento dei centri cittadini. Nonostante le dimensioni relativamente ridotte, la popolazione migrante/rifugiata è stata significativamente coinvolta in questi processi, entro cui ha giocato il doppio ruolo di agente e target dei progetti, delle retoriche e delle dinamiche di ricostruzione dei centri urbani come delle strategie di rivalutazione dei beni e delle proprietà immobiliari. La presenza dei rifugiati, ad esempio, è stata determinante per l’accesso ai programmi federali, incluso il programma per lo Sviluppo Urbano e l’Edilizia Abitativa che a Manchester ha reso possibile la ristrutturazione delle strutture fatiscenti del centro città (Çağlar, Glick Schiller 2018). Anche a Mardin, la presenza di migranti e rifugiati ha consentito l’accesso ai fondi federali come alle sovvenzioni sovranazionali elargite dall’UE che si sono rivelate cruciali per lo sviluppo del centro cittadino.

Debito, disuguaglianza, impoverimento

Nonostante il successo di queste città e la loro capacità di attrarre capitali nazionali e internazionali, i flussi di denaro in entrata nelle casse pubbliche non hanno subito variazioni rilevanti. Al contrario, i progetti di rigenerazione hanno prodotto un’ulteriore contrazione delle risorse destinate ai servizi pubblici, già pesantemente provate dalla riduzione della spesa per le amministrazioni locali da parte del governo centrale in nome del neoliberismo e dell’austerity (Hart 2016). I fondi federali e sovranazionali sono stati incanalati nello sforzo di ricostruzione andando a riempire le casse di sviluppatori, società multinazionali e partenariati pubblico/privati. Il denaro pubblico è andato ad accrescere i capitali aziendali con la scusa che ciò avrebbe attratto nuovi imprenditori e investimenti aziendali, precedentemente scoraggiati dalla cattiva reputazione della città. Pertanto, nell’implementazione dei progetti di rigenerazione urbana, ciascuna delle tre città si è trovata a dipendere dai fondi e dal debito pubblico. In effetti, nel caso di Manchester, Halle e Mardin, il debito pubblico cittadino è cresciuto drasticamente dopo un decennio di progetti urbani incentrati sulla crescita economica e ciò ha evidentemente inciso sulla disponibilità di finanziamenti locali per i servizi, dalla scuola ai trasporti. Così pensata e attuata la rigenerazione urbana ha contribuito all’accumulazione di ricchezza da parte dei privati e non all’accesso ai servizi pubblici per i migranti come per i non-migranti residenti nelle tre città. (Çağlar, Glick Schiller, forthcoming). Sconcertante lo scarto che si è prodotto tra le retoriche dell’accoglienza e l’effettiva basilare disponibilità dei servizi rivolti alla popolazione migrante presente in ognuna delle tre città.

Poco più di un decennio di rigenerazione urbana ha fatto sì che queste città si posizionassero tra le prime cinque nelle classifiche dei rispettivi paesi per consistenza del debito pubblico (Çağlar, Glick Schiller 2018). Per fare solo un esempio tratto dal contesto di Mardin: tra il 2003 e il 2015, il volume delle esportazioni è cresciuto del 150%. Il settore edile, insieme all’industria turistica e del patrimonio, è diventato il motore trainante dell’economia locale e i prezzi degli immobili si sono triplicati. Nonostante il flusso di capitali, il debito cittadino è drasticamente cresciuto a causa della ritrazione di denaro pubblico da parte degli sviluppatori e la città non ha nemmeno potuto pagare la sua squadra di calcio.

Nel tentativo di riposizionare le proprie città depotenziate, gli amministratori e i leader locali hanno fatto ricorso alle strategie neoliberiste di rigenerazione urbana adottando retoriche e politiche volte a valorizzare segmenti della popolazione, i fasti del passato e i siti più attrattivi. In queste città, infatti, i processi di rigenerazione sono stati strettamente connessi agli incentivi di rivalutazione di proprietà, siti, storie locali, e strati della popolazione. I migranti e le minoranze storiche hanno acquisito valore all’interno dei processi di rivalutazione, affermandosi come city-makers e divenendo attori del riposizionamento delle città. Tuttavia, questo modello di rigenerazione urbana ha prodotto un incremento del debito e delle disuguaglianze, preparando il terreno su cui hanno attecchito la polarizzazione politica e il populismo anti-migranti. Inoltre, ne è risultato un aumento del costo della vita, compresi i costi degli alloggi, e il mancato incremento nei livelli di occupazione. A dispetto delle ristrutturazioni e dell’afflusso di un certo ammontare di capitali aziendali, in tutte le tre città si è assistito alla crescita delle disparità, della povertà, delle espropriazioni e dei dislocamenti.

Politica polarizzata

Due sono gli effetti principali che risultano dalle dinamiche della rigenerazione urbana e che producono opportunità e sfide per la collocazione dei migranti nelle tre città osservate. A fronte della contrazione delle entrate, della dissipazione delle risorse, del fallimento dei servizi pubblici e della crescita delle disuguaglianze e del debito pubblico, le due opposte retoriche dell’accoglienza hanno giocato un ruolo di prim’ordine, ponendo le basi per una politica polarizzata. La peculiare combinazione di retoriche a favore dei cittadini stranieri, che mirano ad attrarre imprese e imprenditori internazionali, con retoriche a favore del capitale mobilitate in nome della riqualificazione urbana hanno spianato la strada alla crescita del razzismo. In prima linea nelle retoriche dell’accoglienza, i migranti e gli stranieri sono progressivamente divenuti il capro espiatorio che consente di spiegare gli “effetti” delle dinamiche espropriative della rigenerazione, delle crescenti disuguaglianze, in particolare del drenaggio delle risorse e della mancanza di servizi pubblici per i residenti. L’aumento delle disuguaglianze, che hanno acuito le contraddizioni e le faglie di questo modello di sviluppo urbano neoliberista con il depauperamento dei fondi e dei servizi pubblici, ha reso i discorsi sui migranti e sull’accoglienza un terreno fertile per l’ascesa delle politiche populiste anti-migranti.

Tra gli effetti di “spossessamento” di questo modello di rigenerazione urbana le intricate retoriche dell’accoglienza hanno incanalato la rabbia popolare e il risentimento di quei movimenti attraverso l’accostamento razzista di “migranti” e “nativi”. Certo, le facciate degli edifici fatiscenti, delle infrastrutture che portavano memoria delle glorie del passato e del centro cittadino sono state ristrutturate grazie ai fondi stanziati; alcuni di questi luoghi abbandonati e malconci che ricordano il passato potere e la sua perdita sono stati ripristinati e messi in funzione, aumentando le speranze dei residenti sul miglioramento delle loro condizioni di vita e su un possibile ritorno in auge delle loro città. Tuttavia, nonostante le trasformazioni e i miglioramenti dell’ambiente costruito, le ristrutturazioni, la rimessa a lucido e il rifornimento delle vetrine, i residenti ne sono usciti ulteriormente impoveriti, privati dei servizi pubblici a fronte di una crescita delle diseguaglianze che vanno ad alimentare quello che Hage definisce un senso di “rigida immobilità” (Hage 2009). Opponendosi all’idea che una qualche forma di movimento immaginario o percepito sia un presupposto di vivibilità, Hage sostiene che le persone che avvertono un senso di immobilità esistenziale, o che sentono che la loro vita non si muove allo stesso ritmo degli altri o del proprio ambiente sperimentano un sentimento e una sensazione di rigidità (Hage 2009). Rigidità che è plasmata e modellata nell’attesa che qualcosa di sgradevole – come l’inaridimento delle condizioni di vita e l’impotenza – abbiano termine. La combinazione tra un ambiente costruito in parte migliorato e rinnovato, in particolare nei centri cittadini, e la crescita dell’impoverimento a Manchester, Halle e Mardin infliggono questa sensazione di rigida immobilità delle/nelle proprie vite.

Tuttavia, a fronte del senso di immobilità esistenziale e del capro espiatorio rappresentato dai migranti in quanto “responsabili” degli effetti delle dinamiche espropriative prodotte dalla rigenerazione urbana, della riduzione dei servizi pubblici e dell’accresciuto senso di rigidità che alimentano il populismo di destra, abbiamo rilevato come queste città depotenziate fornissero ai migranti/rifugiati opportunità di inserimento nella politica locale e nelle mobilitazioni per la giustizia sociale in favore di politiche più inclusive. In effetti, aver indagato la posizione dei migranti nei processi di produzione della città in contesti di scarsità di risorse ci ha dato accesso a nuove informazioni circa le diverse opportunità di collocazione emerse per loro in questi contesti, soprattutto in termini di inserimento nelle politiche locali e nelle reti della socialità tra residenti nelle città.

L’impotenza di queste città ha quindi contribuito all’apertura di uno spazio locale di agibilità politica per i migranti e i rifugiati, per quanto non siano state investite risorse di alcun tipo per la fornitura di servizi rivolti alla popolazione migrante, né tanto meno a beneficio dei servizi e delle attività dal basso, a carattere etnico/religioso messe in campo dalle comunità. Tuttavia, in modo beffardo, proprio la scarsità di risorse e di programmi votati all’istituzionalizzazione di qualsiasi tipo di differenza (etnica, religiosa, culturale) ha aperto ai migranti, ai rifugiati e ai nativi la possibilità non solo di costruire forme di socialità basate sulla condivisione (interpretata innanzitutto a partire dalla comune condizione di precarietà), ma anche di entrare nella politica locale portando istanze più ampie di giustizia sociale, che vadano al di là delle politiche identitarie, verso la non differenziazione tra migranti/non-migranti.

È interessante notare che, in Germania, uno dei primi membri del Parlamento dalla pelle nera (che in realtà era arrivato come rifugiato dal Senegal) è stato eletto ad Halle (non a Francoforte o a Berlino). Manchester (e non a New York) ha eletto il secondo cittadino musulmano in una legislatura statale degli Stati Uniti, e la prima sindaca siriana cristiana in Turchia è stata eletta a Mardin, non ad Istanbul o ad Ankara. Significativamente, nessuno di loro è stato eletto sulla base delle politiche o dei collegi elettorali comunitari distinti su base etnica, religiosa o per la presenza della popolazione nera, ma sulla base di politiche improntate alla giustizia sociale e storica e alla lotta alle disuguaglianze nelle rispettive città (Çağlar, Glick Schiller 2018).

In luogo di una conclusione

Un’analisi multiscalare e circostanziata che mostri le complesse, intricate e paradossali incursioni del city-making di impianto neoliberista nelle città depotenziate ci permette di osservare alcuni fenomeni controintuitivi. Infatti, nonostante le città economicamente travagliate vengano spesso rappresentate come terreni di coltura delle destre, quanto abbiamo rilevato sugli effetti espropriativi di un preciso modello di rigenerazione urbana sollecita una riflessione sulle dinamiche specifiche che alimentano le politiche populiste anti-migranti e sulle diverse forme di solidarietà tra gruppi in nome della giustizia e dell’inclusione sociale. Oltre ai movimenti alimentati dalla rabbia e dal risentimento di destra, chiaramente basati sull’antagonismo e sulla separazione del campo discorsivo del “noi” e del “loro”, i soggetti migranti hanno svolto un ruolo cruciale per l’emersione dei movimenti e delle politiche improntate a un’idea di giustizia sociale che superi questo dualismo.

Il divario tra la materialità delle trasformazioni urbane e gli effetti sociali e politici della rigenerazione urbana neoliberista scava un solco nel complesso paesaggio affettivo di queste città. La decadenza delle infrastrutture e l’abbandono dell’ambiente costruito che caratterizza le tre città depotenziate cui ho fatto riferimento vengono generalmente rappresentati come segni tangibili del progresso interrotto o di un futuro che non si è mai realizzato (Boym 2011). Spesso, la relazione con questi ambienti abbandonati e decadenti è restituita in termini che evocano desiderio e nostalgia. È il paradosso del rinnovamento urbano neoliberista posto in essere attraverso gli espropri, il dislocamento dei residenti (migranti e non-migranti) e le temporalità dissociate degli ambienti fisici e sociali che in queste città depotenziate hanno posto le basi per il successo delle politiche anti-migranti, ancorate alla delusione e all’impotenza più che alla nostalgia e al desiderio del passato. La lente delle città depotenziate ci offre quindi una prospettiva che apre nuovi spazi d’osservazione per problematizzare categorie come quella città “abbandonate” quali terreni di coltura del populismo, in favore di un’analisi più sfumata dei meccanismi differenziali dello sviluppo urbano in città che configurano diversi paesaggi affettivi e relazioni di potere.

Costruire la solidarietà tra residenti di diversa estrazione sociale ed economica, di varia formazione politica e con status legali diversi ha rappresentato una delle sfide principali per quanti puntavano su visioni alternative della società e della vita urbana. Se quest’eterogeneità dei retroterra, delle forme di socializzazione e degli interessi crea tensioni e frizioni ci offre, al tempo stesso, la possibilità di stabilire spazi di condivisione (fondata sullo spossessamento e il dislocamento) improntata al superamento della tolleranza sulla base di affetti e aspirazioni condivise dagli abitanti delle città, indifferentemente migranti o non-migranti. Ciò nonostante, abbiamo potuto portare alla luce queste forme di solidarietà “inattesa” solo nel momento in cui abbiamo scelto di adottare un nuovo vocabolario e una prospettiva multiscalare. Siamo quindi state in grado di vedere queste dinamiche combinando quella prospettiva a un’analisi congiunturale capace di mettere a fuoco le reti di relazione che connettono attori, istituzioni, organizzazioni, aziende, corporations e discorsi nello spazio, in forme e con diverse gradazioni di potere.

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[1] La traduzione dall’inglese è stata curata da M. Carolina Vesce; la traduttrice ha scelto di usare il termine “depotenziate” per l’inglese disempowered per cercare di restare più vicino possibile all'uso che nell'originale ne fa l’autrice; per lo stesso motivo è stato scelto di non tradurre i termini city-making e city-makers.

[2] Per una discussione delle basi epistemologiche e delle conseguenze metodologiche di ricerche e analisi teoriche sull’interazione tra migranti e città nei contesti urbani di confine si veda Glick Schiller, Çağlar 2009. Fin dall’inizio degli anni 2000 gli studiosi si sono concentrati sulla presenza di migranti in contesti identificati come “città di piccole dimensioni” o “città secondarie”, per quanto le implicazioni teoriche e metodologiche di queste ricerche abbiano raramente mosso l’interesse degli studiosi di migrazioni.

[3] Sebbene alcune di queste città possano sovrapporsi con quei contesti che si identificano o sono identificati come “città dell’accoglienza”, “città rifugio” o “città solidali”, queste ultime non sono necessariamente città in declino, o comunque non associano il ruolo attivo nell’accoglienza a una possibile via d’uscita dal declino.

[4] Questo articolo si basa sul quadro empirico, materiale e teorico sviluppato in Glick Schiller, Çağlar 2011; Çağlar, Glick Schiller 2018, forthcoming.

[5] È importante sottolineare la necessità di distinguere le città in base al loro posizionamento nelle reti del potere più che in termini di estensione piccola, media o grande. L’estensione, per quanto connessa al potere, non sempre ne è un indicatore. Se ci sono città potenti piccole, medie e grandi, ci sono anche grandi città che non detengono un ammontare di potere politico, economico e culturale proporzionato alla loro estensione.

[6] La popolazione totale delle tre città era così ripartita: Manchester 110.229; Halle 238.32; Mardin 156.660.

[7] Nel sottolineare la centralità degli atti di mobilità dei migranti, i sostenitori della prospettiva della “autonomia della migrazione” prendono giustamente le distanze da quelle ricerche in cui prevale una logica sedentaria basata sugli insediamenti.

[8] Per ulteriori approfondimenti si vedano Çağlar 2016, 2018.

[9] Enfasi della traduttrice.

[10] Sulla prospettiva relazionale comparativa e multiscalare si veda Çağlar, Glick Schiller forthcoming; sull’analisi congiunturale si vedano Hall 1979: 197; Clarke 2014; Glick Schiller 2018.