Vivere insieme

Intimità e quotidianità nelle convivenze interculturali tra rifugiati e italiani a Parma

Martina Giuffrè

Università di Parma

Chiara Marchetti

Centro Immigrazione Asilo e Cooperazione Internazionale (CIAC)

Indice

Note metodologiche e presentazione della ricerca
Sentirsi a casa: strategie di prossimità
Dalla fatica di vivere insieme a una nuova intimità
Mangiare insieme per “sentirsi a casa”: costruire relazioni nell’intimità della tavola
Dall’emplacement alla comunità di destino: prospettive di futuro
Conclusioni
Riferimenti bibliografici

Abstract. Sharing everyday life contexts between Italian and foreigners represents an important opportunity to build significant new practices of conviviality in the urban space. In particular, while opportunities for meeting and exchange are multiplying in the cities, the most intimate experiences of living together between natives and foreigners, beyond what concerns sentimental and family ties, are not so widespread yet, especially when they concern - for the foreign component- refugees and other forced migrants. Specifically, in this essay we focus on the cohabitation that took place in Parma on the initiative of CIAC association. The two projects provide, on the one hand, the hospitality of refugees in local family’s homes and, on the other hand, the co-housing of young Italians and refugees. During the two years research we used the peer research methodology that involves the protagonists of the two mentioned projects both as co-researchers and interviewees. This approach offers the opportunity to activate reflexivity processes on the forms of reception and living, and to critically rethink concepts at the centre of socio-anthropological debate such as those of intimacy, family, home, intercultural relations, through a privileged observation point starting from the intimate dimension of daily practices (as for example eating and cooking together, sharing domestic space and their care) and projecting outwards into the spaces of the city and beyond.

Keywords. peer research; refugees; home (homing); intimacy; emplacement; commensality

Note metodologiche e presentazione della ricerca

Questo saggio[1] si focalizza sui contesti di condivisione della quotidianità tra cittadini italiani e di origine straniera che rappresentano un’importante occasione per costruire nuove pratiche significative di convivenza nello spazio urbano. In particolare, mentre si moltiplicano nella città le occasioni di incontro e scambio, le esperienze più intime dell’abitare insieme tra autoctoni e stranieri al di fuori di legami sentimentali e familiari non sono ancora così diffuse, soprattutto quando riguardano – per la componente straniera – rifugiati e altri migranti forzati. A partire dalle esperienze di accoglienza integrata e diffusa sviluppate nell’ambito del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) dai primi anni 2000, grazie a cui i rifugiati vengono sin da subito inseriti nel tessuto sociale e abitativo del territorio di asilo vivendo in autonomia in appartamenti residenziali[2], dal 2015 CIAC ha avvertito la necessità di creare le condizioni affinché potessero aver luogo convivenze interculturali più significative, a partire dalla disponibilità di cittadini italiani di condividere lo spazio domestico con dei giovani rifugiati. In particolare, questo contributo si soffermerà sulla più rilevante tra queste esperienze – ovvero il progetto “Rifugiati in famiglia” che prevede l’ospitalità di rifugiati in case di nuclei familiari del territorio, con alcuni accessi a una seconda sperimentazione – “Tandem”, in cui convivono giovani italiani tra i 18 e i 29 anni e giovani titolari di protezione in uscita dai progetti istituzionali di accoglienza.

La ricerca, durata due anni, all’interno della quale si colloca questo intervento è condotta con la metodologia della peer research e coinvolge in qualità di ricercatori e di intervistati alcuni protagonisti dei due progetti citati[3]. La peer research (ricerca tra pari), infatti, è una metodologia molto utilizzata in pedagogia interculturale e in alcuni tipi di ricerca-azione che ha scarsamente dialogato con l’antropologia in questi anni. Se la pratica dialogica e la ricerca co-autoriale sono ormai consolidate nell’antropologia, la peer research, all’interno del metodo etnografico rappresenta invece una novità che riteniamo possa apportare un contributo significativo. Si tratta infatti di una pratica metodologica che consente di coinvolgere nella ricerca, sia nelle fasi di ideazione che di realizzazione, coloro che ne sono anche soggetto. La metodologia che si colloca, dunque, nella prospettiva della partecipazione, dell’azione e dell’empowerment permette di co-costruire i risultati della ricerca, ma anche il procedimento conoscitivo, sia nella fase della progettazione della ricerca che in quella della scelta metodologica. Il ricercatore, in tale contesto, si deve posizionare all’interno della ricerca in modo non gerarchico, mettendo in campo la propria soggettività e la propria disponibilità a raccontarsi ai suoi interlocutori. Ovviamente questa prassi comporta una serie di riaggiustamenti nella fase di ricerca tramite continui confronti e suggerimenti da parte dei propri interlocutori (Giuffrè 2014; 2016).

Abbiamo, dunque, deciso di attuare una metodologia integrata di continui confronti tra le diverse interpretazioni in quell’ottica di fusione degli orizzonti in cui l’antropologo non lavora solo con informatori, ma con co-interpreti capaci di creare conoscenza e discutere opinioni. Tra l’altro, il gruppo finale di ricerca comprende persone con profili biografici e professionali complessi, così che il contributo di ciascuno sia nel realizzare le interviste che nel rielaborare e interpretare i materiali raccolti ha potuto avvantaggiarsi di letture e vissuti – oltre che di competenze – multilivello: nel gruppo di peer researcher ci sono un docente di arabo e mediatore siriano, un giornalista pakistano, un operatore sociale curdo iraniano, un operatore legale somalo e uno studente universitario e mediatore pakistano. Tutti (tranne uno) con alle spalle diverse esperienze alle spalle di accoglienza istituzionale in Italia e non solo. Tutti (tranne uno) con un tempo lungo di almeno cinque anni in Italia, che ha permesso un relativo distanziamento dalla fase di accoglienza, a termine del quale è stato possibile incarnare il ruolo di operatori e mediatori che li ha posti dall’altro lato della relazione di aiuto che avevano esperito durante il periodo di accoglienza. Anche una delle due ricercatrici è allo stesso tempo inserita da anni nei processi di progettazione e attuazione dell’accoglienza integrata e diffusa e conduce attività di ricerca e di co-docenza coinvolgendo i rifugiati in ambito universitario e formativo.

Questo composito gruppo di lavoro ha lavorato insieme per circa due anni, se pur con fasi alterne di maggiore e minore intensità. Il percorso iniziato con il training per formare i ricercatori peer e costruire la griglia delle interviste ha rivelato fin da subito quanto la partecipazione dei rifugiati fosse essenziale per calibrare al meglio i nuclei tematici e i modi migliore per affrontarli.

Questo approccio ci ha offerto la possibilità di attivare processi di riflessività sulle forme dell’accoglienza e dell’abitare, e di ripensare criticamente concetti al centro del dibattito socio-antropologico come quelli di intimità, famiglia, casa, relazioni interculturali, attraverso un punto di osservazione privilegiato che parte dalla dimensione intima e carica di emozioni (Fadlalla 2011) delle pratiche quotidiane (mangiare e cucinare insieme, condividere gli spazi domestici e la loro cura, ecc.) e si proietta verso l’esterno negli spazi della città e oltre.

Sentirsi a casa: strategie di prossimità

Negli ultimi anni gli studiosi della mobilità hanno fortemente riconcettualizzato il concetto di casa, sia come spazio fisico che come spazio simbolico che include «non solo attaccamento territoriale, ma anche aderenza a idee e valori culturali trasportabili» e un «senso di sé, della propria identità» (Al-Ali, Koser 2002: 7). Questa riconcettualizzazione mette in discussione le definizioni classiche di comunità e casa e le loro dimensioni essenziali in relazione ai processi della mobilità contemporanea. In un mondo di migranti, viaggiatori, esiliati il significato di “casa” può mutare radicalmente trasformandosi in un insieme di pratiche, in una ripetizione di usi, stili, gesti, azioni, memorie creando un nuovo modo di essere nel mondo caratterizzato da pratiche e interazioni abituali (Berger 1984). Dobbiamo quindi immaginare che la casa non abbia a che fare con la routinizzazione dello spazio e del tempo, ma con la fluidità e il costante movimento degli individui (Minh-ha 1994).

Come afferma Olwig, ci possono essere diversi spazi di identità che i nostri interlocutori possono definire come casa; in un mondo in movimento, la casa diventa «un’arena in cui interessi diversi lottano per definire i propri spazi all'interno dei quali localizzare e coltivare la propria identità» (Olwig 1998: 226). La casa è quindi uno spazio personale di identificazione e relazioni e un dominio contestato, uno spazio in cui vengono eseguite categorizzazioni basate su etnia, classe e genere (Ortner 1991; Olwig 1998). È anche uno spazio abitato da persone di diverse generazioni, generi, classi sociali e orientamenti politici. Da questa prospettiva la casa diventa uno spazio tangibile in cui si svolgono le relazioni reciproche, nonché uno spazio narrativo in cui avvengono i processi discorsivi di identificazione (Giuffrè 2017). Il sentirsi a casa diventa uno spazio discorsivo e concettuale di identificazione, asse centrale nelle relazioni sociali. Un processo emotivamente connotato, un modo di sentire, comprendere e praticare un certo spazio distinto da tutti gli altri, caratterizzato da un contorno di sicurezza, di controllo e familiarità (Boccagni 2017).

Anche se per molti dei nostri interlocutori “fare casa” (homing, nell’accezione di Boccagni)[4] significa principalmente, come vedremo nel corso del saggio, inserirsi in una rete di relazioni sociali con i locali, per alcuni, soprattutto nel primo periodo, significa condividere lo spazio abitativo con persone che possono capire il vissuto, comunicare nella propria lingua, sentirsi rassicurato da un contesto conosciuto, familiare, come nel caso di A.:

Sinceramente da quando sono a Parma sto bene e la mia vita è cambiata… L’episodio più bello è stato quando mi hanno portato per la prima volta in appartamento ed ho saputo che avrei dovuto condividere la casa con altri tre compaesani, perché secondo me poter comunicare è una cosa fondamentale e importantissima, soprattutto per noi rifugiati che abbiamo tanto da dire per sfogarci di tutti i nostri pensieri. Finché sei fuori casa per fare la spesa, per andare in farmacia o in altri posti pubblici basta sapere poche parole in italiano, quindi non c’è bisogno di sapere perfettamente la lingua, ma quando sei nel tuo spazio, in casa, poter comunicare nella propria lingua con chi convivi è molto importante[5]….

La casa come spazio sicuro, dove non sentirsi in pericolo è anche quello che emerge dall’intervista di un altro rifugiato che mette in rilievo come in Italia sia finalmente sicuro, a differenza di quanto avveniva in Afghanistan:

[In Afghanistan] tu non sei sicuro neanche a casa tua. Penso sempre queste cose qua. I pensieri non finiscono mai. Anche di notte ancora adesso faccio sogni brutti sulla mia famiglia, sui miei fratelli, mio padre, mio papà, i miei zii, cugini, sono tutti là. Ma a parte quello, c’è tutto il popolo afgano[6]….

In questo caso, sentirsi a casa significa raggiungere una condizione biografica che si discosta da quella passata e da una condizione negata a un intero popolo che non può sentirsi sicuro a casa propria. Così come nell’intervista a P. che va alla ricerca di un posto dove sentirsi a casa, che equivale a sentirsi sicuro, libero:

Vengo d’un paese dove le genti sono oppresse, personalmente non c’era niente per me lì. Ero ricercato, ci sono delle persone che mi volevano morto. Quindi arrivando qui mi aspettavo a trovare una vita migliore. Cercavo un posto dove mi sentire a casa. Quindi mi aspettavo di trovare tutto questo in Europa. Adoro gli italiani, infatti, tutti sono incoraggiante... Quando sono a Parma mi sento a casa. Alcune persone pensano che hanno bisogno di più, si sentono autorizzati a più da Parma o italiani, ma per me io mi trovo su una buona strada, mi sento come se è qui che devo essere[7].

L’idea di casa può anche risolversi in una “condizione biografica ideale” proiettata nel futuro (Boccagni 2017; Kabachnik et al. 2010) come nel caso di A., che considera la casa una base da cui partire la mattina e rientrare la sera, come prerequisito essenziale per avviare la ricerca di qualsiasi attività, per studiare, laurearsi, costruirsi una vita:

Avevo 23 anni, ero molto giovane e fresco per incominciare e costruire il futuro. Se ad esempio cominciavo da capo a studiare e fare la scuola, oggi avrei finito anche l’università… ma, per iniziare serviva prima avere una base stabile (casa) dove magari hai la possibilità di alzarsi al mattino e andare a cercare la vita e rientrare la sera… se non c’è questo vuol dire che non hai una base, e questo non l’ho trovato in Italia quando sono arrivato. Adesso che ormai sono adulto non penso più a studiare ma la cosa che mi fa preoccupare di più è quella di trovare una stabilità: di casa, di lavoro e famiglia[8].

Come suggerisce Boccagni, «la condizione biografica dei migranti forma un campo privilegiato per analizzare i significati, le funzioni e le trasformazioni della casa, nonché le variabili biografiche, sociali e strutturali da cui essi dipendono» (Boccagni 2017: 60). Perché se «l’idea stessa di casa è apparentemente ovvia per chi abita stabilmente in un luogo, o ne è originario, essa è solo un possibile punto d’arrivo – anziché uno scontato punto di partenza – per l’insediamento, l’inclusione e il riconoscimento dei migranti e dei rifugiati» (Boccagni 2017: 1). Infatti «attraverso l’esperienza dei migranti, in particolare, è possibile studiare le mutevoli basi spaziali del “sentirsi a casa”, in movimento e in contesti societari eterogenei» (Boccagni 2017: 2).

Per questo abbiamo ritenuto fondamentale ricostruire i processi di appropriazione sociale ed emotiva e di (ri)significazione degli spazi urbani e domestici da parte dei rifugiati e i modi in cui essi vivono e rinegoziano il senso di casa come relazione sociale e di prossimità nella vita quotidiana, come sentirsi parte di una comunità inclusiva in cui si costruiscono relazioni sociali significative. Come emerge dall’intervista di M.:

I cittadini italiani… i reggiani, io conosco tanta gente a Montecchio, Reggio Emilia, sono tutti bravissimi… è proprio mi sento come a casa mia non è che […] Conosco tante persone italiane, colleghi di lavoro che mi portano a casa… non mi lasciano mai da solo! Questo per me è importante[9]….

Nell’intervista di H. – alla nostra domanda “C’è un momento in cui ti sei sentito davvero a casa?” - la risposta sul “sentirsi a casa” coincide con un sentirsi pienamente accettato e inserito in un mondo di relazioni significative e appaganti:

Guarda la cosa più bella in vita mia, non dico adesso in Italia, dico in tutta la mia vita è l’anno scorso qua quando ho presentato il mio libro di poesia, era il giorno più bello nella vita mia per vari motivi: erano tutti amici miei ad esempio io recitavo in arabo e la mia collega e amica I. […] recitava in italiano e ha presentato la serata la mia collega E. e mia carissima amica, i musicisti erano miei amici, un gruppo di musicisti abbiamo lavorato tipo un mese insieme a preparare questa serata, erano tutti contenti per me perché presentavo il mio libro di poesie… tutti mi conoscevano insegnante di arabo, mediatore ma di poeta, poesie, di amore… C’era la sala qua sotto e abbiamo messo duecento sedie e la gente si è seduta anche per terra, sui tappeti… e la cosa ancora più bella che non avevo mai immaginato, c’era la fila per chiedermi la dedica sul mio libro, no, e io lì dicevo “no, è il momento più bello che non poteva capitare mai se non ero qua”. Non mi succedeva assolutamente anche se in Siria ero più conosciuto, scrivevo nella mia lingua, non avevo problemi, non avevo bisogno del traduttore, però quel momento… il 28 ottobre 2016 che non dimentico mai, per me è come nascere di nuovo, per me io avevo dimenticato la guerra, in quel momento, ho dimenticato i genitori, per me quella sala lì era il mio mondo, il mio stato, i miei amici, erano tutte cose che davvero nella bellezza dell’esistenza di questa vita trovavo in quella sala lì[10].

Come emerge da questa intervista, “fare casa” per i migranti può essere un’esperienza che va oltre i confini tra collettivo e individuale, privato e pubblico in quanto si concentra sul processo di appaesamento nella società ricevente e di negoziazione di spazi di riconoscimento, autonomia, benessere attraverso “successive soglie di domesticità” (Boccagni 2017). In questo senso il “sentirsi a casa” è un processo situazionale, contestuale, relazionale che ha a che fare con il sentirsi “accettati”, parte di una comunità, in una rete di relazioni sociali e che può variare molto in diversi momenti della vita della persona.

I significati connessi al “sentirsi a casa” e al “fare casa” risultano particolarmente centrali nell’esperienza dei rifugiati, che secondo alcuni studiosi sono per l’appunto accomunati dall’aver “perso la casa”:

Perdere la casa [home, n.d.r.] non implica solamente la perdita conscia della ‘casa di famiglia’ con tutti i suoi valori materiali, sentimentali e psicologici, ma è un tipo di perdita di carattere più fondamentale e primario, e crea un disturbo (che chiamiamo nostalgic disorientation) che si avvicina molto ad un senso generale di insicurezza ontologica […], il senso profondo di un gap, una cesura, un buco, un’assenza, una mancanza di fiducia nella propria stessa esistenza e, conseguentemente, nella propria “lettura della vita” che conduce ad un particolare tipo di “congelamento” (Papadopoulos 2002: 16; trad. di Chiara Marchetti).

Il perdere la casa per i rifugiati rappresenta, dunque, una cesura profonda con la “casa” di prima: a differenza di molti altri migranti per i quali – dati i contesti di partenza e le condizioni diverse del migrare – non si verifica una rottura col luogo d’origine, per i rifugiati spesso il concetto di casa si espande includendo anche la terra di arrivo. Si attivano, così, processi transnazionali dell’abitare, sentendosi a casa in quel terzo spazio dislocato territorialmente che mette insieme relazioni affettive e pratiche che si dispiegano tra il luogo di immigrazione e il luogo d’origine o persino nel viaggiare (Giuffrè 2017).

Analizzare i modi in cui i rifugiati si sentono a casa ci permette di ricostruire i percorsi soggettivi dell’integrazione e gli effetti delle politiche migratorie, le percezioni dei vissuti della vita comunitaria e dei percorsi di accoglienza, offrendoci uno spaccato importantissimo per valutare i processi messi in atto dai diversi paesi di accoglienza. Come fa notare Boccagni,

il sentirsi (o meno) a casa e la possibilità di ‘accasarsi’ rimandano soltanto in apparenza a questioni ovvie, intime o private. Si tratta in realtà di processi aperti e conflittuali, di forte rilevanza pubblica, centrali per le applicazioni e le implicazioni pratiche degli studi urbani, ben al di là della eventuale distinzione tra popolazioni maggioritarie e minoranze (Boccagni 2017: 66-67).

Ricostruire nell’esperienza della migrazione forzata l’involucro connesso al significato di casa è fondamentale nei processi di settlement ed emplacement, oltre che nella resilienza dei rifugiati; allo stesso tempo – come emerge bene in tutte le interviste realizzate nell’ambito della ricerca e dal confronto con i peer researchers – l’aver avuto come costante del proprio percorso migratorio esperienze di segregazione, violenza, coabitazione forzata con sconosciuti (sia nell’estremo dell’esperienza libica, ma anche nei grandi centri di accoglienza in Italia e persino, se pur in maniera più limitata, all’interno degli appartamenti dell’accoglienza diffusa) assegna un valore particolare alle convivenze interculturali con italiani, in particolare all’interno di nuclei familiari già esistenti.

Dalla fatica di vivere insieme a una nuova intimità

Nell’esperienza della migrazione forzata è ricorrente la costrizione a condividere la propria quotidianità, fin negli aspetti più intimi e personali, con altre persone che non sono né familiari né amici. Ciò avviene nei campi profughi e nei centri di transito nei paesi più vicini a quelli di origine e spesso lungo tutta la rotta che conduce all’agognato luogo di asilo. La permanenza all’interno di un campo è uno degli elementi centrali di quello che Shahram Khosravi chiama processo di “profughizzazione” e che nella sua autoetnografia Io sono confine descrive con poche efficaci parole, riferendosi al suo ingresso in un campo di accoglienza per rifugiati in Svezia: «Il processo di “profughizzazione” inizia appena si mette piede in un campo. […] Nessuna delle mie esperienze passate – la fustigazione, il carcere, un anno di vagabondaggi “illegali” – era riuscita a privarmi della mia dignità. È stato il campo a togliermela» (Khosravi 2019: 128).

La convivenza stretta tra sconosciuti, anche se non necessariamente negativa e ostile, è tuttavia faticosa, in particolare quando gli spazi sono angusti, le risorse scarse e le prospettive incerte. L’esperienza di una promiscuità forzata, organizzata e controllata da uno stratificato sistema governamentale, facilmente intacca il nucleo fondante la dignità personale, con un impatto profondo e duraturo sull’identità e il senso di sé. La testimonianza di Behrouz Boochani, curdo in fuga dall’Iran per motivi politici e detenuto per anni nell’isola di Manus dal governo australiano, restituisce con forza il vissuto della convivenza forzata dalla quale non c’è scampo in nessun momento della giornata:

Non c’è modo di sfuggire agli altri, non si può trascorrere nemmeno un singolo istante senza percepire la presenza di un’altra persona. […] C’era sempre qualche “mosca” che mi entrava nelle orecchie, qualche persona che mi infastidiva. Mi entrava in un orecchio, faceva un giro nella mia testa a riposo, usciva dall’altro orecchio, faceva un giro fuori e poi rientrava, per andare a zonzo ancora una volta nella mia testa. Erano molte le mosche che facevano di continuo di questi giri: era una tortura costante (Boochani 2019: 143).

Se questa esperienza di promiscuità e assenza di spazi intimi e privati è drammaticamente evidente nei campi e nei grandi centri di accoglienza, non si può dire che sia del tutto estranea nemmeno nei luoghi deputati all’accoglienza diffusa, che sono per lo più appartamenti e centri di piccole dimensioni (Marchetti 2016). La fatica di vivere insieme con persone non scelte, accettata transitoriamente come in qualche modo inevitabile e comunque preferibile rispetto all’assenza di assistenza o alle condizioni di segregazione esperite in altri contesti, alla lunga produce un senso di distacco, impedisce il radicamento e il raggiungimento di quel benessere e senso di sé necessari per proiettarsi nel futuro. Nelle parole di uno degli interlocutori:

Dove abitavo prima ero con altre dieci persone… Non voglio mai lamentarmi della cosa, solo voglio dire le cose come vanno… In quella casa in strada Mercati dove abitavo [appartamento in co-housing post-accoglienza istituzionale, n.d.r.] c’erano tante persone… forse anche un po’ praticanti sulla religione, sulle opinioni, alcune cose che io non credevo. Addirittura mi dava fastidio, però siccome non avevo altre possibilità, per forza dovevo restare lì[11].

Le precedenti forme di accoglienza sembrano accomunate dal senso di sospensione che deriva dal sentirsi “ospiti”, quindi continuamente sospesi sulla soglia di un’accettazione condizionata. E ciò avviene nonostante le esperienze siano profondamente diverse tra loro e con gradi di autonomia e libertà individuale che vanno da un minimo nei campi, nelle connection houses e nei centri di detenzione amministrativa, a un massimo negli appartamenti del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). Come ha sottolineato la sociologa Anne Gotman, l’ospitalità è sempre provvisoria, ha un inizio e una fine, è un tempo e uno spazio di attesa (Gotman 2001). La testimonianza di un rifugiato che compara la sua esperienza proprio in uno SPRAR, in una situazione di micro-accoglienza in appartamento, con il diventare “uno della famiglia” all’interno del progetto “Rifugiati in famiglia” rende bene l’idea di questa differenza radicale:

E poi eravamo come ospiti, devo dire. Eravamo proprio come ospiti. Facevamo fatica anche a capirci tra noi perché eravamo diversi dall'altro nella lingua, nella cultura, nella religione. […] Adesso non ero più ospite, ero proprio come uno della famiglia. Quindi questa era proprio la differenza fra la prima accoglienza in SPRAR e la seconda accoglienza con una famiglia[12].

Questa discontinuità non è per nulla scontata, dal momento che si potrebbe supporre che il senso di estraneità in una famiglia italiana possa essere addirittura superiore rispetto a quella vissuta nella convivenza con altri stranieri rifugiati. D’altra parte, le parole di M. sembrano confermare le riflessioni di Michel Agier quando afferma che il “familiare” non si ferma alla famiglia: «c’è ulteriore familiarità nelle sfere di confidenza che di dispiegano attorno a sé» (Agier 2020: 43). Ed è proprio attorno a questa “parentela rappresentativa” (Bourdieu 2005) che si riconosce e ricostruisce la soggettività del rifugiato, che smette di essere ospite e straniero e diventa familiare. Senza per questo dover cedere a un eccesso di identificazione e annullamento delle differenze[13].

Completamente diverso da ciò che compie la classica accoglienza istituzionale che, pur con diverse declinazioni, rievoca e al contempo ricrea incessantemente la categoria di “rifugiato”, quella etichetta burocratica (Zetter 1991; 2007) che sembra annullare le differenze e costruire una categoria non solo amministrativa ma anche sociale. Mentre i rifugiati esperiscono quotidianamente l’unicità della loro esperienza, e allo stesso tempo la fatica di vivere tra diversi, le istituzioni non sembrano riconoscere questa individualità. Nell’esperienza quotidiana dei rifugiati la categoria del “rifugiato” non ha un particolare significato euristico né tanto meno biografico: l’essere tutti rifugiati non annulla le differenze di lingua, religione, opinione, cultura, abitudini.

Evidentemente il processo di spersonalizzazione che si compie a ogni passaggio e permanenza in un campo lascia sempre – per fortuna – uno scarto. La spoliazione delle identità individuali in favore di una comune identità burocratica non si compie mai del tutto, nonostante il tentativo perpetrato dal campo di standardizzare e uniformare esperienze e identità. Un processo descritto già da Goffman rispetto alle istituzioni totali, nelle quali l’ingresso è subordinato alla perdita del “corredo per la propria identità”, quell’insieme di proprietà personali che caratterizzano la propria facciata. Per questo,

la procedura di ammissione può essere definita come una sorta di perdita e di acquisto, dove il punto centrale sia fissato sulla nudità fisica. La perdita indica naturalmente una spoliazione di ciò che si possiede. […] Una volta che l’internato sia spogliato di ciò che possiede, l’istituzione deve provvederne un rimpiazzamento che tuttavia consiste in oggetti standardizzati, uniformi nel carattere ed uniformemente distribuiti (Goffman 2003: 48-49).

Dei rifugiati come persone, come attori sociali dotati del proprio corredo d’identità, secondo Bauman, non restano che ombre:

Avendo abbandonato o essendo stati cacciati dal loro precedente ambiente, i profughi tendono a essere spogliati delle identità che quell’ambiente definiva sosteneva e riproduceva. Da un punto di vista sociale, essi sono degli zombie: le loro vecchie identità sopravvivono in gran parte come spettri – ossessionando in modo ancor più penoso le notti poiché invisibili alla luce del giorno (Bauman 2003: 110).

Gli scritti di Goffman e di Bauman gettano una luce fortemente pessimistica sulla possibilità dei soggetti di mantenere le loro identità a fronte del potere istituzionale. Ma le testimonianze raccolte nella ricerca e quelle dirette dei peer researchers, così come altri racconti etnografici e interviste a rifugiati e rifugiate (Pinelli 2011), sembrano piuttosto mostrare che l’agency e la soggettività delle persone non vengono del tutto annullate, il processo di “profughizzazione” non si compie mai fino in fondo e anziché avere uomini e donne “piatti”, bidimensionali, come gli abitanti di Flatlandia del romanzo fantastico di Edwin Abbott Abbott, ci troviamo sempre di fronte a soggetti tridimensionali che ogni giorno imparano cosa nascondere e cosa mostrare, cosa raccontare e cosa tacere, come resistere alla fatica di vivere tra diversi sotto uno stretto controllo istituzionale. Ancora una volta Boochani descrive con plasticità questo continuo fronteggiamento tra l’azione dell’istituzione e la resistenza del soggetto:

E poi viene chiamato il mio numero: Meg45. Un po’ alla volta, ma inesorabilmente, dovrò abituarmici. Dal loro punto di vista, non siamo altro che numeri. Dovrò dimenticare il mio nome. Quando chiamano il mio numero, mi rimbombano le orecchie. Cerco di usare l’immaginazione per attribuire a quel numero senza significato un significato nuovo. Ad esempio: Signor Meg (Boochani 2019: 111).

Nonostante le strenue e creative attività e tattiche di resistenza, l’aver esperito spesso per molti anni (e nel caso della maggioranza degli interlocutori già in giovanissima età) situazioni di convivenza forzata non sempre positiva condiziona fortemente l’atteggiamento che si ha nei confronti di nuove esperienze, tanto più se si prospetta di condividere lo spazio privato e dell’intimità, così frequentemente violato e negato. Ne consegue spesso un prevedibile senso di cautela e diffidenza verso l’altro che può essere portato come parziale giustificazione della paura – ricorrente nel racconto di molti – connessa anche all’inizio di una convivenza in casa di italiani.

La paura del diverso sembra qui assumere sfumature nuove rispetto a quanto esperito nei campi e nei centri di accoglienza, perché si connette in modo ancora più profondo a un sentimento ambivalente nei confronti di una possibile nuova intimità, per molti inattesa, in un contesto fitto di relazioni intime e calde quale è quello famigliare. Come si può evincere dai seguenti estratti di due diverse interviste:

La prima cosa che pensavo era la paura, perché avevo paura, perché c’era la lingua che non lo sapevo e poi come dobbiamo fare per comunicare e anche se loro mi avrebbero accettato... C’erano tutte queste cose che avevo in testa e poi dopo, piano piano, abbiamo visto, ho visto che non era proprio così. Abbiamo iniziato il progetto, abbiamo condiviso tante cose, nuove cose, con loro bimbi, è stata veramente una cosa molto molto bella[14].

Quando venivo da loro avevo molto paura! ahahahah… perché siccome sono persone straniere e che sei nella loro casa… Adesso non c’è la paura, non ho trovato offese da nessuno, mi hanno aperto tutto, mi hanno detto che la casa è mia e mi fanno sentire come uno della famiglia, faccio tutto quello che si deve fare nella casa; in cucina, pulizia, lavoretti ecc.[15].

La fonte della paura finisce però spesso con l’essere il suo stesso antidoto. I timori, infatti, si affievoliscono fino a scomparire proprio quando ci si rende conto di non essere più visti come “rifugiati” ma come “persone”. «Mi fanno sentire come uno della famiglia» significa che c’è la libertà di essere chi si è e di partecipare alla pari degli altri membri della famiglia – pur con la propria individualità e libertà – alla gestione stessa della vita e degli spazi domestici. Spesso, infatti, il sentirsi a casa e a proprio agio in queste nuove relazioni discende da piccole pratiche quotidiane di condivisione dell’intimità: vivere insieme, giocare con i bambini, fare i lavori di casa, cucinare. Ovvero rivivere gli spazi domestici dando nuovi significati condivisi tra tutti, anche dai nuovi arrivati. Non a caso altre ricerche svolte nei centri di accoglienza collettivi mettono in evidenza come tra le mancanze di cui i rifugiati soffrono maggiormente ci sia l’assenza di autonomia nei loro spazi domestici: nella gestione del tempo e delle sue regole, nella possibilità di usufruire della cucina e di prepararsi il cibo, nel mantenimento dei legami familiari e amicali, sia nella prossimità che nella lontananza (Rainisio 2015).

Ecco perché, pur entrando in spazi domestici ignoti e con regole non scritte preesistenti – superata la soglia della paura – ciò che i rifugiati apprezzano di più è la possibilità di condividere la vita della casa attraverso una pratica quotidiana, con un meccanismo di prove ed errori che introduce a un livello maggiore di partecipazione e autonomia. Come dice SW., un rifugiato afghano che ha vissuto per più di un anno presso una famiglia italiana: «perché non è facile quando vai in una famiglia che non conosci, non ti conosci neanche. Poi ti presenti, poi vivi con loro, è un'altra cosa…[16]». Sulla stessa lunghezza d’onda è anche l’intervista di S.: «Forse non è proprio con le parole, ma con la pratica, con le cose che facevano loro, io potevo accorgermi da loro che forse quello che facevo io era sbagliato, d’ora in avanti forse è meglio questo… Se avevo dubbi, sempre potevo chiedere[17]». La partecipazione in casa – con il procedere nel tempo dell’accoglienza in famiglia – prelude a una fase in cui persino le regole e le norme preesistenti possono a un certo punto essere messe in discussione: per usare la metafora della tavola evocata da El-Mafaalani, si può arrivare non solo a essere ammessi a tavola, ma anche a decidere insieme che “torta” mangiare e quali regole della tavola seguire (El-Mafaalani 2019: 43-44). E questo processo non è esente da conflitti e continui aggiustamenti che però avvengono in uno spazio di relazione protetto, in cui non si arriva a una reciproca distruzione o annullamento.

L’approssimazione gli uni agli altri, l’abbattimento delle barriere e delle paure, la ridefinizione delle regole rappresentano un percorso bidirezionale: non avviene solo da parte dei rifugiati nei confronti della famiglia che li accoglie, ma anche viceversa. E ancora una volta è un processo che può avere luogo solo nella quotidianità, nella condivisione di piccole pratiche quotidiane che a un certo punto fanno scattare un cambiamento destinato a durare nel tempo. L’accesso a una nuova intimità, che supera i tradizionali steccati dell’alterità e persino il concetto di ospitalità, si legge bene nelle parole di un rifugiato che ha vissuto l’esperienza di accoglienza in famiglia:

La più grande, l’altro giorno, ha fatto un disegno della famiglia e lei mi ha messo dentro, che è stata una cosa veramente bellissima, che all’inizio con lei facevo molta fatica perché lei era un po’ difficile come carattere e poi alla fine ci siamo trovati bene e poi è lei che mi ha voluto, mi ha accettato. Il maschio e la più piccola mi hanno accettato prima subito dopo del mio arrivo, ma lei faceva ancora molta fatica con tutte queste cose... e io sono riuscito a capire lei [la più grande, n.d.r.], che non accettava la novità, perché non si è abituata. Poi alla fine mi ha accettato e poi ha fatto questo disegno dove ci sono anche io e era molto emozionante e ho reagito anche con delle lacrime… [si è emozionato mentre raccontava questa parte dell’intervista, n.d.r.].

Mangiare insieme per “sentirsi a casa”: costruire relazioni nell’intimità della tavola

Tra tutte le pratiche quotidiane quelle relative al cibo, al cucinare e al mangiare insieme assumono una particolare centralità[18].

Il cibo può essere considerato un fatto sociale totale[19] perché chiama in causa moltissimi aspetti della vita dei gruppi; in particolare nei contesti migratori il cibo ha un ruolo sociale, identitario e affettivo perché ha spesso il potere di far sentire i migranti “a casa”: gli odori, i sapori, i colori familiari dei piatti della propria cucina, riducono la sensazione di estraneità provata nella nuova terra rafforzando il senso di appartenenza e il legame simbolico con la propria (Giuffrè 2019).

L’importanza attribuita al cibo, soprattutto nella prima fase dell’accoglienza, è evidente in questa intervista a N., che pone l’accento sul difficile processo di adattamento fisico e psicologico a sapori diversi da quelli cui si è abituati:

Mi sono sentito davvero felice perché i nostri problemi si riducono, ma ancora non abbiamo trovato il cibo che ci piace. Inizialmente è difficile mangiare cibo italiano e avevano solo un cuoco italiano. Avevano un menu diverso per ogni giorno […], ma gli ingredienti che usavano per cucinare non sono quelli che vengono usati nel nostro paese. Quindi inizialmente non ci piaceva il gusto perché non eravamo abituati a questi cibi e affrontiamo difficoltà a digerirlo e non siamo in grado di mangiarlo. In questo modo la nostra salute è diminuita inizialmente, ma con il tempo eravamo più abituati. Ma devo suggerire una cosa che nominano quegli cuochi che sa qualcosa del cibo internazionale in questi progetti o nel campo[20].

Scegliere cosa mangiare spesso è un fattore importantissimo del “sentirsi a casa” come emerge da quest’altra intervista di A.: «A Bologna vivevo con seicento persone, quindi c’erano tante difficoltà, per esempio non potevo scegliere cosa mangiare o quando uscire, mentre a Parma abito in una casa con tre persone. Posso uscire ed entrare quando voglio e mangiare quello che mi piace[21]».

Il cibo tipico del proprio paese rientra anche nei progetti futuri, a coronamento di un percorso biografico di successo e di integrazione nel luogo d’immigrazione, come si deduce dalla testimonianza di A.: «Vorrei imparare bene la lingua, integrarmi, conoscere meglio il territorio e infine prendere la patente. In poche parole, vorrei essere pronto per affrontare il futuro. Mi piacerebbe in futuro avere un mio piccolo ristorante per preparare il cibo tipico del mio paese[22]».

Il mangiare insieme rappresenta, in molti contesti migratori, un momento fondamentale nella costruzione di prossimità: necessario cioè a entrare in relazione non formale con gli altri e a far sì che questi si aprano a relazioni di intimità/familiarità; la relazione di intimità si innesca, dunque, proprio grazie alla commensalità. Molti antropologi hanno evidenziato il forte nesso tra cibo e parentela in diversi contesti dove hanno svolto le loro etnografie, mostrando il legame tra il divenire parente e la condivisione di cibo, che secondo Sahlins (2014) crea “mutualità dell’essere”, nel senso di una condivisione della vita dell’altro e una identificazione che sarebbero alla base del rapporto di parentela. Tra gli esempi più rinomati vi è quello riportato dall’antropologa Weismantel (1995), che sottolinea, parlando della comunità di Zumbagua sugli altopiani dell’Ecuador, che si considerano “famiglia” coloro che mangiano insieme (“stesso cibo”, “stessa carne”); allo stesso modo si appartiene al gruppo di eoliani emigrati in Australia solo dopo aver condiviso lo stesso cibo alla stessa tavola (Giuffrè 2019). Simonetta Grilli fa notare come «la condivisione del cibo – il latte materno o il cibo cucinato nello stesso focolare o coltivato sulla terra degli antenati, oppure semplicemente consumato insieme nella medesima abitazione – è un modo per costruire la sostanza della parentela» (Grilli 2019: 122). Il mangiare insieme, sedendo alla stessa tavola e condividendo anche i rituali dei pasti, i discorsi, le posture, insomma, quella che Vito Teti (2011) chiama “la sacralità dei pasti”, è il modo più immediato per diventare uno di loro e per creare le condizioni di una condivisione di intimità in cui l’empatia sia un elemento fondamentale (Giuffrè 2019). Pitt Rivers faceva notare come in Andalusia l’azione del mangiare insieme fosse talmente intima da rendere necessaria la trasformazione di uno straniero in ospite, e che questo avvenisse attraverso l’invito a condividere il cibo:

L’azione di mangiare in comune presuppone un grado di intimità maggiore del semplice fatto di trovarsi insieme, dunque mangiare in presenza di uno straniero sarebbe in contrasto con questo sentimento. Dello straniero bisogna allora fare un ospite, cambiamento di status che si effettua durante la formalità dell’invito a condividere il cibo (Pitt Rivers 1977: 165).

La condivisione di cibo diventa dunque in molti contesti la modalità primaria nella costruzione di relazioni, una sorta di rito di passaggio durante il quale si crea quella “communitas” in senso turneriano, dove ruoli, differenze, gerarchie vengono accantonate in nome di un sentimento di appartenenza comune. Secondo Carole Counihan (2009), infatti, parlare di cibo e attorno al cibo delle proprie vite (food centered life history) consente di abbattere i dislivelli di status. Nei contesti migratori lo spazio della commensalità può diventare un luogo privilegiato di osservazione di relazioni di inclusione e di esclusione, di processi identitari e di appartenenza, funzionando in molti casi anche come “facilitatore” narrativo (si racconta spesso di sé mangiando) e dispositivo mnemonico, che permette di unire anche a livello discorsivo i due mondi di appartenenza, quello d’origine e quello di immigrazione, legando ricordi e memorie e riconnettendoli in un gioco di continui rimandi tra mondi lontani (Giuffrè 2019; Di Pasquale 2011; Christie 2008). Consumare e condividere cibo diventa così una pratica cruciale nel processo di appaesamento nel contesto di accoglienza.

Diversi rifugiati nominano esplicitamente la condivisione dei pasti – nel nucleo ristretto o nella famiglia allargata – come momenti cruciali della vita insieme. Afferma ad esempio A.: «Sono nel primo periodo dell’accoglienza, ma già vedo che è una famiglia molto buona, mi rispettano tutti, mi trattano bene e ci stiamo capendo bene. Parliamo tra noi, mangiamo insieme[23]».

Il parlare che identifica l’entrare in relazione significativa con l’altro viene spesso accostato al mangiare: si parla mentre si mangia, si mangia mentre si parla:

Nella casa sono con il nonno della casa, suo figlio e con la sua famiglia (ha moglie e due figli, nipoti del nonno), e un’altra sua figlia. Per dormire, condivido l’appartamento con il nonno, mentre per mangiare vado su dalla famiglia di suo figlio. Il più grande dei nipoti attualmente non vive con noi, fa l’università a Torino e non c’è spesso con noi… di solito il secondo nipote e i suoi genitori è con loro che spendo molto tempo per mangiare e per chiacchiera[24]….

Anche quando i piatti preparati non sono i preferiti, risulta chiaro che un’apertura alle abitudini culinarie delle famiglie ospitanti è un passo necessario non solo per mostrare rispetto e gratitudine, ma anche per entrare maggiormente in intimità:

Certo che mangiare la pasta non era tanto preferibile, ma mi sono adattato perché dobbiamo adattarci... prima non sapevo cucinare e poi trovarsi in casa e dire: “no, io non mangio questo o quello” non va bene. Quindi devi mangiare quello che trovi e che è pronto. Perché dire “mi piacerebbe mangiare questa e non quella”, no! Perché non è anche giusto che loro fanno già qualcosa poi... “no no, quello non mi piace, io voglio quello là”: non è bello e rispettoso[25].

I pasti dei giorni di festa assumono poi un valore ancora più elevato e vengono riconosciuti come un vincolo da rispettare non solo per non offendere chi si è mostrato tanto generoso da ospitarti, ma anche per entrare davvero a far parte della famiglia. Ci racconta ad esempio M.: «E ogni domenica andavamo ai pranzi, ci invitavano e non dovevo assolutamente mancare»[26].

O per continuare a farvi parte, come mostra la testimonianza di uno dei peer researchers che dopo un periodo di accoglienza in famiglia in un’altra città si è trasferito a Parma, continuando a mantenere un legame molto forte con i membri della famiglia che lo avevano ospitato:

[La mamma] mi diceva che sei un mio figlio, come Tommaso […]. Ho trovato come una mia famiglia, adesso sto con loro benissimo, mi chiamano anche, e anche io. Sono andato lo scorso anno a Natale lì con loro, anche quest’anno devo andare lì per forza perché mi hanno chiamato [risate, n.d.r.] “vieni qua per Natale”. Ho trovato una famiglia di due fratelli e poi una mamma[27].

È proprio in questo senso che la rottura della commensalità, del rituale del mangiare insieme viene vissuto da uno dei nostri interlocutori come una cesura vera e propria nella costruzione della relazione con l’altro: se mangiare insieme porta alla costruzione di relazioni sociali significative, il rifiuto di sedere alla stessa tavola rappresenta la rottura di relazioni già consolidate. Nelle parole di R. il conflitto è evidente:

Più difficile per me ehm… con italiani per me difficile non c’era perché già conosco l’italiano, la religione diciamo uguali, come mangiano mangio anche io ehm… come bevono bevo anche io… Con i musulmani, quella roba qua, io non ci vado per esempio se vado in un posto… nel 2013 mi hanno mandato in un posto ehm... come si chiama quel posto in cui danno da mangiare a Parma? […] Caritas… io andato lì a mangiare, c’era un amico ehm… diciamo amico… c’era lo stinco, mi hanno lasciato tutti da solo in un tavolo e loro sono andati via, e io ho detto: cos’è ti schifi? Mi ha dato fastidio proprio, non mi è piaciuto! […] Non mi è piaciuto perché eravamo insieme ad un tavolo con altri e stavo mangiando lo stinco di maiale, io già sapevo che era maiale ehm… ma loro non mangiavano, erano musulmani, mi hanno lasciato da solo tutti. […] Quello mi ha dato fastidio tantissimo perché in un tavolo, quattro persone, ci vai a mangiare insieme però se mangia una cosa che piace a te e che loro non mangiano, sei sporco perché mangi questo qua. […] Adesso se li vedo per strada non saluto neanche, no, non è che non saluto ehm… ma non siamo più amici perché non mi piacciono le persone così[28]….

Dall’emplacement alla comunità di destino: prospettive di futuro

Proprio a partire dalle pratiche quotidiane relative al cibo e ad altre dimensioni si attivano anche, nel tempo, processi più profondi e radicati che vanno a toccare il senso delle relazioni, della famiglia, dell’identità, propria e altrui. Alcuni dei nuclei che emergono in modo più ricorrente nelle interviste rivolte a rifugiati che hanno vissuto l’esperienza di accoglienza in una famiglia italiana o di convivenza in Tandem riguardano proprio il tema della famiglia in chiave trasversale e longitudinale: è come se il fatto di entrare in un contesto di relazioni familiari, in una home, da un lato permettesse di evocare e di risintonizzarsi con l’esperienza della famiglia di origine e dall’altro alimentasse e autorizzasse una proiezione verso il futuro, l’immaginazione e il desiderio di costruirsi una propria famiglia.

Questo percorso interiore e sociale ha molto a che fare che con quello che viene chiamato processo di emplacement (Bjarnesen, Vigh 2016): se già Appadurai segnalava come il concetto stesso di località è innanzitutto relazionale e contestuale, piuttosto che scalare o spaziale (Appadurai 2012), studi successivi hanno enfatizzato attraverso il termine emplacement uno spostamento concettuale dallo spazio inteso come luogo allo spazio come processo di attaccamento socio-affettivo, come «una vasta e intricata complessità di processi sociali e interazioni sociali a tutti i livelli dal locale al globale» (Massey 1994: 115). Seguendo questa accezione, il trovare e ricreare legami affettivi e caldi in un contesto domestico può contribuire a far evolvere l’esperienza di displacement verso un’esperienza di emplacement. In questo percorso tutt’altro che lineare è abbastanza ricorrente che venga innanzitutto richiamato alla memoria il vissuto primario nella famiglia di origine, a cui ci si riconnette. Come rievoca il peer researcher M. in uno dei nostri scambi: «A stare con una famiglia mi sono sentito molto... anche all’epoca, quando ero con i miei. Mi sono ricordato quando ero con i miei genitori, i miei fratelli e mi sono sentito come vivere in una famiglia. Che è molto diverso quando vivi da solo o quando vivi con altri»[29].

La famiglia di origine non è solamente rievocata, ma spesso viene anche aggiornata direttamente sulla nuova situazione di convivenza. I genitori rimasti in patria vengono informati e partecipano in modo indiretto ma molto intenso dei vissuti dei loro congiunti lontani. Al punto che qualcuno ritiene di raccontare solo in parte i dettagli della convivenza con italiani, per non suscitare ingiustificate preoccupazioni, come è accaduto sempre a M:

Quindi i miei mi dicevano nelle prime settimane: “Tutto sta andando bene? Cosa hai visto di nuovo? Cosa hai trovato di non buono?” Io dicevo: “tutto bene, nessun problema”. E forse non vedevano bene la cosa, però dopo che gli ho raccontato che va tutto bene, che non c'è problema... Dovevo dire che anche io mi sentivo come di essere in famiglia. Poi pian piano... Certe cose che magari a loro davano un po' di preoccupazione, non le dicevo mai[30].

In altri casi sono i genitori stessi a dare la “benedizione” non solo rispetto al trasferimento in una famiglia italiana, ma anche e soprattutto rispetto al legame che si va instaurando con i membri della famiglia ospitante. Significativa a questo proposito è la testimonianza di un altro rifugiato peer researcher: «Mio papà mi ha detto: “S., le cose che tu non sei riuscito, che non hai fatto per noi come genitori, se le fai per queste persone che sono vicino di te, renditi conto che è la stessa cosa che dovevi fare per noi come genitori»[31].

Il confronto con una famiglia reale, l’immersione nelle relazioni intime e protettive che vengono spesso date per scontate da chi non ha mai vissuto l’esperienza dello sradicamento, può tuttavia alimentare un senso di inadeguatezza e di frustrazione che deriva dal confronto tra la propria condizione attuale e quella desiderata. Nelle parole di Sw., uno dei nostri interlocutori rifugiati:

Io voglio vivere tranquillo, insieme con una famiglia… come fanno qua… A me mi mancano perché io ogni tanto li vedo gli italiani che escono fuori con la mamma, con la famiglia, con la ragazza, con i parenti, chiacchierano… Per me queste cose qua non ci sono, sono da solo, sono cose che tutti vogliono… A me manca tantissimo, io sono una persona, non sono un animale[32].

Ma i legami significativi costruiti all’interno di una famiglia italiana possono anche aiutare a proiettarsi nel futuro, ad avere la forza di andare avanti e di trovare una fiducia in sé stessi e nelle proprie potenzialità. F. nella sua intervista ripercorre e nomina a uno a uno i membri della famiglia che lo hanno accolto.

Perché loro mi hanno dato un’affezione che avevo perso; l’affezione di una mamma, l’affezione di un padre, l’affezione di una sorella e anche di un fratello e l’affezione che mi hanno dato… quando mi hanno detto “guarda che qua non sei straniero!” È una cosa che mi dà più forza e che mi dà sempre la voglia di andare avanti. Loro mi hanno fatto capire tante cose nella vita, mi hanno fatto conoscere tutti i loro amici e per me è la mia famiglia adesso[33]!

L’affetto – “affezione” – che ha ricevuto ha smantellato il senso di estraneità e gettato le basi per sentire una nuova appartenenza, un nuovo emplacement che sembra stimolare la partecipazione e la proiezione verso il futuro: non sentirsi più straniero vuol dire far parte di una comunità più estesa della famiglia e proprio questa consapevolezza permette finalmente di “guardare avanti”. Quello che si vive all’interno della famiglia è infatti molto importante per stimolare un atteggiamento pro-sociale che esce dai confini delle appartenenze e delle ristrette identità etniche: l’aver ricevuto cura, affetto e fiducia incondizionati da qualcuno che non è un tuo “compaesano”, induce a riprodurre o a impegnarsi ad adottare lo stesso atteggiamento verso terzi, anche sconosciuti. Uno dei peer researcher usa queste parole per descrivere questo processo:

Trovi gente che non sono un tuo parente, un tuo compaesano, non hanno la tua mentalità, la tua opinione, però ti vogliono bene, non ti giudicano, cercano sempre di sostenerti. È bello quello, veramente. Spero che un giorno riuscirò… la stessa cosa lo trasmetto pure io, soprattutto per persone che appena arrivano hanno bisogno[34].

Quando ci si sente oggetto di fiducia e investimento incondizionato, così come avviene nei veri rapporti significativi, diventa quasi scontato reinvestirsi in un impegno verso il bene comune, riconoscendosi una responsabilità che va al di là del proprio benessere e della propria soddisfazione individuale. Questo atteggiamento è evidente nelle parole di P., rifugiato nigeriano peer researcher che ha trascorso un periodo di accoglienza in SPRAR e un anno di vita in un appartamento di Tandem, per poi approdare a un lavoro stabile come operatore sociale nella stessa associazione che lo aveva inizialmente accolto:

È stato come un riconoscimento, una fiducia per me come dalla mia famiglia: “guarda che noi ci fidiamo di te, crediamo che tu possa fare qualcosa di buono”. Oggi lavoro, non è soltanto perché ho bisogno soldi e tutto, però è come una responsabilità che mi è stata data dalla mia famiglia. Quindi quando ho incontrato il nostro direttore e tutto, insieme con i colleghi, mi ha dato opportunità di continuare il mio lavoro di attivismo… gli incontri con le scuole e tutto[35]….

Un impegno verso il bene comune che si rivolge in modo indiscriminato non solo verso altri migranti e rifugiati, ma verso tutti coloro che mostrano un bisogno, attivando una restituzione che moltiplica ed espande quanto si percepisce di aver ricevuto. In questo senso ci sembra significativo riportare due brani di intervista a F. e B.:

Ci sono delle volte che con l’assistenza pubblica distribuiamo dei pasti vicino al centro alla stazione per le persone che dormono in strada. È un’esperienza molto bella e poi ci sono anche delle volte che vado a Langhirano a fare sempre volontariato in case di riposo che è anche una cosa che ti fa sentire utile e dare il tuo tempo per aiutare agli altri[36]….

Come immagino il mio futuro in Italia non te lo so dire. Ma se mi chiedi qual è il mio desiderio ora qui, ti risponderò semplicemente che vorrei costruirmi una nuova vita in pace con tutti e farmi una famiglia, contribuire in maniera positiva nella società in cui abito e dimostrare che ogni terra può essere la tua terra quando ti dà amore e tu lo ridai[37].

E non è forse un caso notare che questa proiezione positiva verso l’esterno e questo senso di responsabilità condivisa verso gli altri, senza limiti né confini, ha la stessa matrice delle motivazioni che hanno spinto molte delle famiglie ad accogliere un rifugiato: come emerge dalla ricerca di Ghebremariam Tesfau (2020) e da una più ampia ricognizione dei diversi progetti di accoglienza domestica in Italia (Marchetti 2018), le famiglie italiane – nel raccontare del come e del perché sono arrivati ad ospitare – non mettono in campo una definizione di appartenenza come nazionalità, ma anzi enfatizzano una “cittadinanza” per shared fate, una comunità di destino (Van Gunsteren 1998; Williams 2003: 230). La stessa comunità di destino che ora condividono, alla pari, con i rifugiati.

Conclusioni

La co-ricerca che abbiamo svolto assieme ai rifugiati ci ha permesso di ripensare in modo critico le forme dell’accoglienza e dell’abitare, ricostruendo dal punto di vista dei rifugiati gli effetti delle politiche dell’asilo in Italia, attraverso la ricostruzione di vissuti e percorsi soggettivi del “sentirsi a casa”. Il fatto che molti dei peer researcher avessero vissuto anche in prima persona le esperienze del co-abitare con gli autoctoni, partecipando ai progetti del CIAC, ci ha permesso di rilevare la dimensione più intima di questa esperienza di condivisione. Focalizzandoci sulla dimensione intima delle pratiche quotidiane, dalla costruzione di relazioni sociali significative e di stima reciproca alla condivisione degli spazi della casa e dei pasti, abbiamo ricostruito i percorsi di “appaesamento” dei rifugiati nella società ricevente e la centralità del “fare casa” come variegato processo relazionale, situazionale e contestuale, un percorso sociale e interiore che ha a che fare con quell’emplacement che sprona la partecipazione e la proiezione verso il futuro, l’immaginazione e il desiderio di una vita soddisfacente e “fatta di relazioni” in Italia, e che dà vita a un impegno verso il bene comune e a processi di restituzione significativi.

Interessante a questo proposito la nozione di cittadinanza come “comunità di destino” che incoraggia le persone a sviluppare affiliazioni a tutti i tipi di gruppi sia locali (“tradizionali”) che globali e che ci porta a rinegoziare lo stesso concetto di accoglienza. Dove gli individui – autoctoni e non – sono tutti insieme chiamati a riconoscere che «ogni individuo sulla terra deve avere almeno un luogo (territorio, Stato, comunità) in cui può godere dei diritti di cittadino». E questo luogo «non può che essere quello in cui egli si trova, in cui è stato “pro-gettato” dalla storia, dalla politica, dall’economia: where he/she belongs» (Balibar 2004: 152; in corsivo nell’originale). Questa nuova consapevolezza ci mette tutti su uno stesso piano, riducendo le asimmetrie tra chi accoglie e chi è accolto, tra chi è qui da sempre e tra chi è appena arrivato. Tratteggiando una diversa concezione di cittadinanza fondata sull’interdipendenza. Ancora nelle parole di Balibar:

per gli individui e i gruppi che la storia progetta continuamente in condizioni nuove impreviste (sebbene essi apparentemente non cambino “posto” e “radicamento”), il problema della cittadinanza consiste nel fatto che essi: pur non potendo separare la loro sorte, possono non intendersi più spontaneamente, in virtù di una cultura, di credenze o interessi comuni. Essi devono trovare da se stessi le condizioni di possibilità per questa intesa, poiché non saranno loro date a priori (Balibar, 2004: 156; in corsivo nell’originale).

Si è lontani qui da una accezione di cittadinanza come un lungo processo a ostacoli per dimostrare il «merito» di accedere alla comunità nazionale (Marchetti 2020). Appare invece come un processo bidirezionale e di co-costruzione di una nuova arena, di nuove forme di appartenenza e di cittadinanza agita, cui “vecchi” cittadini italiani e “nuovi” cittadini di origine straniera sono chiamati a partecipare alla pari.

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[1] Sebbene il saggio sia il frutto del lavoro congiunto delle due autrici possiamo attribuire i paragrafi a Martina Giuffrè i paragrafi 2 e 4 e a Chiara Marchetti i paragrafi 3 e 5. Introduzione e conclusioni sono state scritte a quattro mani.

[2] Per un approfondimento sull’evoluzione del sistema in accoglienza in Italia, cfr. Marchetti 2016. Per i più recenti sviluppi successivi all’introduzione della Legge 132/2018, cfr. Marchetti, Molfetta 2019.

[3] In particolare, i peer researchers che hanno co-costruito la ricerca con noi sono: Mursal Moalin Mohamed e Salah Mohammadi (che hanno vissuto in una famiglia italiana), Arif Khan e Apollos Pedro (che hanno partecipato a “Tandem”), oltre ad Afzaal Khan e Hisam Allawi. Nonostante diversi tentativi, non siamo riuscite a coinvolgere in qualità di peer researcher nessuna donna rifugiata. Anche per questa ragione (oltre che per la prevalenza statistica di uomini nei progetti di accoglienza per rifugiati) la dimensione di genere e il punto di vista delle donne rifugiate non sono potuti diventare oggetto di approfondimento specifico. Inoltre, avendo scelto l’approccio della peer research, che ha rappresentato un canale d’accesso nelle relazioni tra intervistatori e interlocutori rifugiati, abbiamo volutamente tralasciato il punto di vista degli autoctoni, con i quali si perdeva “il vantaggio” della metodologia utilizzata. La ricerca è stata inserita nel Piano di Ateneo per i rifugiati dell’Università degli Studi di Parma ed è stata realizzata grazie al contributo della Fondazione Cariparma attraverso il Bando Lotta alla povertà, edizione del 2017.

[4] Per homing Boccagni intende quella «tendenza biografica ad ‘accasarsi’: l’insieme di processi attraverso cui un dato soggetto, individuale o collettivo, vede e comprende la casa secondo determinati criteri sociali e culturali, per lo più impliciti; la percepisce e la ‘coltiva’, come esperienza relazionale ed emotiva; orienta le sue pratiche sociali in modo da dare un certo senso di casa ai propri ambienti di vita quotidiani, alla luce della sua traiettoria biografica, delle risorse di cui dispone e dei vincoli esterni» (Boccagni 2017: 65. Cfr. Boccagni 2018).

[5] Intervista ad A., curdo iracheno, raccolta da H.A. a Parma, in data 7/2/2019.

[6] Intervista ad A., afghano, raccolta da C.M. e M. G. a Parma, in data 8/11/2017.

[7] Intervista a P., nigeriano, raccolta da Af.K. a Parma, in data 28/11/2019.

[8] Intervista a Y., somalo, raccolta da M.M. a Parma, in data 20/6/2018.

[9] Intervista a M., somalo, raccolta da C.M. e M. G. a Parma, in data 2/11/2017.

[10] Intervista a H., curdo siriano, raccolta da C.M. e M. G. a Parma, in data 13/11/2017.

[11] Intervista a S., curdo iraniano, raccolta da C.M. e M. G. a Parma, in data 23/11/2017.

[12] Intervista a M., somalo, raccolta da C.M. e M. G. a Parma, in data 2/11/2017.

[13] In questo ci sembra di poter cogliere un processo simile a quello recentemente descritto da Francesco Remotti che, portando a compimento la sua critica ai fondamenti dell’ossessione identitaria, sottolinea la maggiore pertinenza empirica e teorica di un modello che si fonda su un misto di somiglianze e differenze (SoDif), aprendo così la strada alle pratiche di convivenza (Remotti 2019).

[14] Intervista a F., camerunense, raccolta da M.M. a Parma, in data 10/11/2019.

[15] Intervista ad A., somalo, raccolta da M.M. a Parma, in data 10/6/2018.

[16] Intervista a SW., afghano, raccolta da S.M. a Parma, in data 15/9/2019.

[17] Intervista a S., curdo iraniano, raccolta da C.M. e M. G. a Parma, in data 23/11/2017.

[18] In questo lavoro sono stati anche valorizzati i materiali autobiografici e video prodotti attraverso da un progetto di documentazione correlato, ovvero l’Atlante dell’ora di cena (documentario e web doc) che si è focalizzato proprio sui momenti di intimità e di convivialità – il pasto insieme – all’interno di dieci esperienze di convivenza interculturale tra cui i progetti Tandem e Rifugiati in famiglia, che sono al centro dell’analisi proposta in questo paper (www.atlantedelloradicena.it).

[19] Per “fatto sociale totale” Mauss si riferisce a un aspetto che coinvolge la pluralità complessiva dei livelli sociali di un gruppo attraverso il quale diviene possibile interpretare dinamiche apparentemente di natura diversa, come quelle sociali, economiche, culturali, ponendosi come perno delle relazioni tra gli individui e gruppi, e coinvolgendo forme di scambio caratterizzate dalla reciprocità e fortificando le relazioni sociali (Mauss 2002).

[20] Intervista a N., pakistano, raccolta da Ar.K. a Parma, in data 3/5/2018.

[21] Intervista ad A., iracheno, raccolta da S.M.. a Parma, in data 13/5/2018.

[22] Intervista ad A., curdo iracheno, raccolta da H.A. a Parma, in data 7/2/2019.

[23] Intervista ad A., somalo, raccolta da M.M. a Parma, in data 10/6/2018.

[24] Intervista ad A., somalo, raccolta da M.M. a Parma, in data 10/6/2018.

[25] Intervista a F., camerunense, raccolta da M.M. a Parma, in data 10/11/2019.

[26] Intervista a M., somalo, raccolta da C.M. e M. G. a Parma, in data 2/11/2017.

[27] Intervista ad A., pakistano, raccolta da C.M. e M. G. a Parma, in data 12/10/2017.

[28] Intervista a M., iraniano, raccolta da S.M. a Parma, in data 25/5/2018.

[29] Intervista a M., somalo, raccolta da C.M. e M. G. a Parma, in data 2/11/2017.

[30] Intervista a M., somalo, raccolta da C.M. e M. G. a Parma, in data 2/11/2017.

[31] Intervista a S., curdo iraniano, raccolta da C.M. e M. G. a Parma, in data 23/11/2017.

[32] Intervista a SW., afghano, raccolta da S.M. a Parma, in data 15/9/2019.

[33] Intervista a F., camerunense, raccolta da M.M. a Parma, in data 10/11/2019.

[34] Intervista a S., curdo iraniano, raccolta da C.M. e M. G. a Parma, in data 23/11/2017.

[35] Intervista a P., nigeriano, raccolta da C.M. e M. G. a Parma, in data 8/11/2017.

[36] Intervista a F., camerunense, raccolta da M.M. a Parma, in data 10/11/2019.

[37] Intervista a B., siriano, raccolta da H.A. a Parma, in data 18/10/2019.