Convivere con l’alterità: i legami, gli spazi e il lockdown

Selenia Marabello

Università di Bologna

Indice

Introduzione
Vesta: (dal)la parte di chi apre le porte
Case e famiglie: praticare le forme, disegnare i confini
“Far casa” al nuovo arrivato: gli spazi, gli oggetti e le soglie
La sfida del lockdown
Conclusioni
Bibliografia

Abstract.  In exploring a project named Vesta, which aims at giving a temporary ‘home’ to the unaccompanied minors migrants involving committed Italian families, we shed light on the ideas and representations of ‘living together’ by autochthonous and migrants. Yet, considering the current pandemic measures of containment – social distancing and isolation at home – we analysed how the lockdown challenged the cohabitation among young migrants and their recipient’s families. Observing domestic spaces and family ideas we investigated how the lockdown and sickness representations contributed to mould and re-elaborate symbolic and social meanings given to ‘the living together’.

Keywords.  Temporariness; Unaccompanied minor migrants; COVID-19’s lockdown; cohabitation.

Introduzione

Miriam Ticktin (2017) nel numero monografico di Social Research sulle forme di alterità invasiva, discute le rappresentazioni mediatiche, politiche e scientifiche di un mondo sempre più in pericolo. Il pericolo di invasione da parte di agenti patogeni e virus che, con la complicità di salti di specie e riscaldamento globale, producono e diffondono idee sulla necessità, da parte degli stati nazione di sorvegliare, isolare, frenare, combattere “l’altro”. L’incipit dell’articolo evidenzia come coloro che attraversano i confini, migranti e rifugiati, metonimicamente rappresentati con gli sbarchi sulle rive del Mediterraneo, sono la forma più riconoscibile, circolante e sovra-rappresentata di alterità. L’arrivo è consistentemente descritto con metafore belliche (invasione, lotta ai trafficanti etc.) o, in alternativa, importate dal mondo naturale (flussi, sciami, ondate etc.) e le prassi di gestione dei migranti risentono, anch’esse, di una visione volta a separare, distinguere (migranti economici, forzati, vulnerabili etc.) con un’accoglienza organizzata su una pluralità di fasi temporali (sbarco, hub, prima e seconda accoglienza) e spaziali (i diversi territori, contesti e condizioni di permanenza). Questa logica di separazione, oggettivata nello spazio, istituisce una distanza che libera gli attori sociali implicati dal nominarla e dal misurarla celando il potere che è in gioco nel distanziarsi, creando proprio una frattura in cui il legame sociale – senza contrapposizione, dialettica o riconoscimento – scompare (De Leonardis 2013).

In quest’articolo[1] la distanza e i legami ri-disegnati nel progetto Vesta[2], che coinvolge alcune famiglie di italiani nell’accoglienza di minori stranieri non accompagnati e neo-maggiorenni, sono posti sotto la lente analitica osservando le rappresentazioni su relazioni familiari, spazi domestici e alterità. In particolare si rifletterà sui significati attribuiti alla convivenza tra migranti e autoctoni analizzando come gli spazi domestici siano esperiti e narrati.

Le politiche italiane di governo delle migrazioni, in particolare quelle degli ultimi quattro anni, definite aggressive da gran parte degli intervistati, sono state l’elemento dirimente per aderire al progetto o, quantomeno, richiedere le prime e necessarie informazioni per parteciparvi. La crisi migratoria nel Mediterraneo, la chiusura dei porti e il progressivo restringimento dei diritti dei migranti sono stati i fattori che hanno motivato questa scelta di accoglienza. La ri-articolazione temporanea dello spazio domestico che, nelle narrazioni, è spesso del tutto sovrapposto a quello familiare, permette di intravedere le pratiche e le rappresentazioni sui confini spaziali, culturali e politici oltre che sullo stato con cui questi co-abitanti si imbattono con un accesso differenziale. Lavoro, documenti e passaporto sono terreno di esplorazione per le famiglie italiane che, attraverso, il supporto ai giovani con cui abitano, scoprono le peripezie burocratiche, gli ostacoli concreti ai processi d’inclusione lavorativa e le condizioni limitate di esercizio della mobilità nazionale e internazionale.

Le case, pur essendo il luogo dell’intimità e della memoria, contribuiscono a elaborare idee di relazionalità parentale (Carsten 2004); lo spazio abitativo non rimane estraneo né alle forze storiche né alle distinzioni sociali che vengono naturalizzate sino ad apparire ineluttabili. Alla luce di queste riflessioni, la co-abitazione – nel contesto bolognese – tra giovani migranti minori non accompagnati o neo maggiorenni e famiglie, permette di intravedere come lo spazio domestico sia immaginato, intriso di storie personali e plasmato per agire nel tempo storico contingente e attraversato da eventi imprevedibili come la pandemia da COVID-19. La tensione, posta sulle case e sui suoi abitanti da misure stringenti di contenimento di un virus sconosciuto e la costruzione socio-simbolica del rischio (Douglas 1996; Ligi 2012) ha sfidato le pratiche di convivenza tra migranti e autoctoni? Come i concetti di reciprocità e immunità (Napier 1992, 2015), riconfigurando la prossimità, vengono costruiti e percepiti?

Questo contributo, in cui si presentano i primi dati emersi di una ricerca ancora in corso, si basa su otto audio-video interviste condotte nel periodo aprile-maggio 2020, e hanno coinvolto i componenti di quattro diverse famiglie ospitanti diverse per età, localizzazione territoriale (centro/provincia della città), organizzazione familiare (famiglia nucleare co-residenziale, famiglia mono-genitoriale transnazionale) e le referenti, con ruoli di gestione e supervisione, dell’organizzazione promotrice del progetto. La audio-video-interviste, che hanno avuto ciascuna una durata di circa un’ora e mezzo, sono state condotte dalle autrici insieme a una studentessa impegnata nella tesi di laurea[3] che ha intervistato singolarmente i ragazzi ospiti migranti. La metodologia di ricerca ha inevitabilmente risentito dei vincoli di distanziamento sociale e del tempo dell’urgenza che ha imposto alle autrici di sperimentarsi con tecniche di ricerca per loro inedite, se pur ben consolidate in campo antropologico (Horst, Miller 2012; Pink et al. 2016). Nell’avvio di un terreno di relazioni on-line, proprio con l’intento di far emergere voci di campo arginando le difficoltà, legate a norme, prescrizioni di legge e tutela della salute, le informazioni, cui si fa qui riferimento, provengono dalle conversazioni e video-interviste con gli abitanti delle case Vesta, che hanno liberamente scelto di partecipare, e sono stati triangolati con le narrazioni di chi ha operato ed è in grado di ricostruire memoria dell’intervento progettuale nella sua evoluzione e complessità e, non da ultimo, con i dati emersi nell’attività di formazione destinata alle famiglie da una delle due autrici[4] che ricopre un doppio ruolo in ambito accademico e professionale. Le riflessioni, qui proposte, sono l’esito di un incipiente ma fertile dialogo tra dibattiti inerenti il campo delle migrazioni, gli spazi della casa e del fare famiglia e le sfere di pertinenza dell’antropologia medica con l’obiettivo di cogliere, nella trasversalità dei temi e concettualizzazioni, i significati attribuiti alle convivenze con persone sconosciute in spazi domestici. Le misure predisposte nel contesto italiano per il contenimento del virus COVID-19 sono state colte, dalle autrici, per analizzare se e come l’evento epidemico – ancora in corso nella scrittura di quest’articolo – così come le emozioni che filtrano il rischio di contagio (Lupton 2013) avessero prodotto un impatto sulla rappresentazione della convivenza. Pur ponendo il fuoco su un intervento destinato a giovani migranti, l’analisi interroga l’indiscutibile dimensione applicativa del progetto, ma verte su questioni teoriche più ampie mirando a rilevare le forme del legame sociale, le rappresentazioni dello spazio familiare/domestico, la percezione della virulenza e dell’alterità.

Vesta: (dal)la parte di chi apre le porte

Il 2016 è l’anno in cui 25.846 Minori Stranieri Non Accompagnati[5] hanno varcato, via terra e via mare, i confini del nostro stato: più del doppio rispetto all’anno precedente[6]. L’Emilia-Romagna, con i suoi 289 posti dedicati all’accoglienza all’interno del circuito SPRAR[7], è la seconda regione d’Italia con la più alta percentuale di MSNA (15 percento del totale nazionale) – dopo la Sicilia, terra di approdo (29, 9 percento)[8] – e nella quale si sperimentano interventi dedicati a fornire risposte innovative al fenomeno migratorio.

Proprio nel 2016 nasce a Bologna – città che accoglie 152 MSNA per lo più in comunità alloggio e gruppi appartamento – un progetto dedicato all’accoglienza in famiglia[9], denominato “Vesta”, ideato dalla Cooperativa Camelot[10] per rispondere a due diverse necessità, così come ci racconta Bianca, “volto storico” di quest’esperienza:

B.S.: Diciamo che il tutto prende il via da due diverse istanze: in primo luogo il grande tema dei neomaggiorenni che, da un giorno all’altro, si trovavano ad affrontare un cambiamento di “status”: non più minori da tutelare ma improvvisamente adulti, con tutto ciò che questo comportava a livello di sistema di gestione e presa in carico. In secondo luogo una richiesta che arrivava direttamente dalla società civile bolognese. In più occasioni, a diversi livelli ed in contesti più o meno connotati a livello “ideologico”, sia cattolici che laici per intenderci, era emersa la necessità di occuparsi di questi ragazzi, di impegnarsi in prima persona. Questa era una sorta di risposta ad alcune delle celebri dichiarazioni dell’allora Ministro dell’Interno [Angelino Alfano, n.d.a.], alcuni titoli di quotidiani, il famoso claim “prendili a casa tua questi profughi”…[11].

Come si evincerà anche dalle interviste riportate nel secondo paragrafo, la retorica che accompagna, oggi come allora, il fenomeno migratorio da una parte e la necessità di offrire risposte agli stessi vuoti istituzionali del sistema di accoglienza dall’altra, sono i punti di partenza di questa progettualità, dove un’esigenza formale si incontra e si intreccia con concezioni localmente determinate della cittadinanza, dei valori civici e religiosi, del senso di appartenenza a una comunità, della solidarietà e dell’aiuto (Dei 2008).

In questo quadro storicamente e geograficamente situato – dove una peculiare cultura sociale si esprime tramite l’idioma della partecipazione attiva, dell’altruismo e delle economie morali della prossimità – le forme organizzate di solidarietà rappresentano l’interfaccia più importante tra “spirito del dono” (Mauss 1923-24) e istituzioni (Godbout 2002), permettendo di riadattare il principio arcaico del dono maussiano agli assemblaggi sociali non omogenei del contesto di ricerca in cui, ad esempio, la categoria del dare è rivolta a sconosciuti all’interno di uno spazio privato, così come esplicita una delle nostre interlocutrici di ricerca:

L.T.: Perché accogliere uno sconosciuto in casa è un’avventura…[12].

Il terzo settore sta al centro di questo scambio, facendosi dispositivo pratico di organizzazione e negoziazione dello spazio intersoggettivo, tanto pubblico quanto privato. Esso si colloca in una costante tensione tra spirito del dono e logica del welfare di comunità, in una dinamica di superamento dell’accezione universalistica ed economicista di quest’ultimo (Dubois 2014), cercando di riconfigurarne gli usi socio-politici locali e i loro effetti posti in essere dalla società civile e dalle istituzioni:

D.D.: Abbiamo sempre creduto che occuparsi dell’accoglienza fosse un lavoro che deve essere svolto da professionisti formati e con competenze specifiche, non qualcosa che fosse relegato al mondo del volontariato proprio perché la migrazione, per come si è configurata in questi anni, porta con sé tanti correlati, giuridici e psichici per citare i macro, molto importanti che, come tali, devono essere gestiti e trattati. È necessaria un’azione continua di advocacy, sia con le comunità che con gli enti che le governano[13].

Dalle parole di uno degli ideatori del progetto si evince la necessità di sviluppare una mediazione di sistema – tramite funzioni di servizio professionali[14] – da declinare nelle specifiche esigenze delle comunità di accoglienza che nelle politiche nazionali. È così che Vesta si inscrive nelle maglie dell’istituzione SPRAR, strutturando percorsi di accoglienza per MSNA e neomaggiorenni, attraverso un doppio binario: da una parte la soggettivazione della relazione tra accolto e accogliente/i e, dall’altra, la promozione di relazioni intersoggettive come leva per innescare sul territorio processi virtuosi di inclusione. Quest’ultimo risulta uno degli aspetti più innovativi dell’intero processo ed una costante dei territori che l’hanno sperimentata[15].

In merito al primo punto, la soggettivazione della relazione – intesa qui come la partecipazione degli attori sociali nella produzione del significato delle loro esistenze (Moore 1994; Quaranta 2018) – può essere considerata, allo stesso tempo, una strategia esistenziale e uno strumento di governance che aiuta a riformulare le ipotesi sul funzionamento della collettività e delle istituzioni (Biehl, Good, Kleinman 2007): questo dispositivo permette quindi di stimolare una riflessione sull’agency individuale e di comunità. Appare evidente come il progetto Vesta, già dal suo nome, evochi un immaginario simbolico che ha a che fare con l’intimità del focolare domestico ma anche con la dimensione “plasmante” della sua rappresentazione: come ricorda Ovidio «Vesta non ha nessuna effige, come non ne ha neppure il fuoco»[16]. Le accoglienze in famiglia seguono le traiettorie, i tratti e le fogge di coloro che compongono queste esperienze: come il fuoco, le soggettività implicate si muovono in reticoli multiformi dei quali è possibile indagare gli intrecci fra influenze peculiari, cognizione, responsabilità morale e azione (Biehl, Good, Kleinman, 2007). Ogni percorso viene strutturato alla luce delle peculiarità e inclinazioni personali, rispondendo a criteri di desiderabilità reciproci:

L.T.: Io ho conosciuto il progetto perché sono amica di un’altra famiglia accogliente e all’inizio non ero partita con l’idea dell’accoglienza vera e propria, pensavo più ad un affiancamento o tutoraggio… Perché accogliere uno sconosciuto è un’avventura… Poi ad una festa a casa della mia amica ho conosciuto questo ragazzo [lo chiameremo B.T., n. d. r.] e da allora ho capito che era più semplice di quello che potesse sembrare… Tempo dopo la mia amica mi ha confessato che il “suo” ragazzo, alla fine della festa le ha detto: secondo me L. se lo prenderebbe B. [ride][17].

M.M. [ragazzo accolto]: Molti dei miei amici della comunità mi dicevano che andare in famiglia era difficile, ma poi ho conosciuto la mia e ho capito che andava bene, per me andava bene[18].

L’intervento dell’équipe di progetto vede nella fase di match uno dei momenti più importanti del proprio operato, così come racconta una delle professioniste coinvolte:

A.C.: Delle volte è davvero lampante chi potrebbe accogliere chi: conosciamo molto bene i ragazzi e attraverso la formazione riusciamo a conoscere anche le famiglie. In alcuni casi ti rendi conto immediatamente, in altri si deve scavare più a fondo… Noi facciamo un lavoro di comunicazione continua, con le famiglie e i ragazzi, questa è la parte più complessa forse del nostro lavoro, ma anche la più affascinante credo… Delle volte tu pensi di aver trovato la combinazione perfetta, ma poi magari non è così. Magari dopo i primi incontri, di solito ci vediamo a pranzo a casa dei candidati all’accoglienza o andiamo al bar, se non si va avanti si deve trovare una strada alternativa[19].

Inizia quindi il rituale di conoscenza reciproca che, come messo in luce dagli stralci di intervista citati, può rivelarsi «più semplice di quel che potesse sembrare», più o meno «lampante», «che può andar bene». Il percorso segue delle tappe ben precise rispetto a modalità, tempistiche e dispositivi di regolamentazione: solo dopo l’incontro e la condivisione delle regole dell’accoglienza – che prendono corpo nella sottoscrizione di una convenzione fra ente titolare, ente gestore, cittadini e beneficiari – può essere avviato il periodo di vicinanza, che ha una durata variabile a seconda dell’esperienza che si è scelto di intraprendere: come ricordava prima la nostra interlocutrice di ricerca, «non ero partita con l’idea dell’accoglienza vera e propria, pensavo più ad un affiancamento o tutoraggio»[20].

Questo processo dialogico che coinvolge istituzioni, enti del terzo settore, cittadini e migranti non è scevro di complessità: la combinazione valutata come “perfetta” potrebbe non funzionare quando la materialità dei corpi e dei vissuti si fa immanenza in uno spazio pubblico – come “il bar” – o già privato, come un “pranzo a casa”. L’inganno del corpo (Pandolfi 2003) emerge in maniera preponderante nelle fasi iniziali, come ci raccontano le professioniste impegnate nel progetto, chiamate a svolgere quel ruolo di mediazione tra spirito del dono e spazi intersoggettivi che si fanno quotidianità:

L.B.: Soprattutto all’inizio siamo chiamate, a decodificare continuamente i messaggi tra accolto ed accoglienti. È difficile molte volte capire come si muovono due corpi di sesso diverso all’interno di uno spazio unico. Non sempre si capisce subito come una persona possa condividere, in maniera generosa, i propri spazi personali. L’ambiguità del corpo diventa palese[21].

A.C.: Devo dire che possono essere individuati proprio due stili diversi: i rapporti che si sviluppano nella famiglie “classiche” sono tendenzialmente votati ad un coinvolgimento più forte proprio perché gli spazi della casa sono pensati per stare insieme, mentre invece quelli che definiremo relazioni di “co-inquilinanza”, dove c’è una maggiore indipendenza diciamo, sono più sfilacciati, ma non per questo meno intensi ovviamente[22].

Corpi fisici e spazi riproducono, rinforzano e sottendono modalità relazionali di non sempre immediata decodifica da parte di coloro che hanno sperimentato forme di coabitazione diversa, tanto nel contesto di provenienza quanto nella prima accoglienza:

M.M.: [ragazzo accolto]: «Da noi è diverso, si vive tutti insieme, tutta le famiglie… Anche in comunità, sei sempre con qualcuno, qui ho la mia camera [ride]»[23].

L’individualizzazione dello spazio è una delle peculiarità di Vesta: uno dei requisiti fondamentali per potersi candidare è, infatti, quello di disporre di una “stanza privata” da dedicare all’accoglienza.

A.C.: Questo per noi è un requisito di base, fondamentale. La logica è quella di garantire la privacy e di non riprodurre la promiscuità della comunità. È un modo per i ragazzi anche di sperimentare uno spazio fisico ed emotivo “privato”. Per molti è proprio la prima volta. Una specie di rifugio. Un rifugio per un rifugiato… Che poi, se ci pensi oggi, appare una scelta quasi profetica, perché gli spazi, divisi così, hanno anche permesso di gestire situazioni che potevano rivelarsi delle bombe…[24].

La necessità di differenziare le condizioni materiali dell’accoglienza di questi giovani migranti rispetto a quelle delle comunità alloggio – con le loro criticità (Börjesson, Forkby 2020) – viene configurata nei termini di una nuova soglia di vita da oltrepassare, attraversare, in cui mettersi al sicuro: sia per chi è accolto, ma anche per chi apre le porte. È il terreno – materiale e simbolico – in cui prende forma la matrice intersoggettiva della relazione: un campo definito in cui le persone che vi si muovono hanno la possibilità di agire e costruire un proprio universo di senso, di porre in essere pratiche di addomesticamento e di appaesamento (Meloni 2014), come vedremo nei paragrafi a seguire.

L’irruzione della pandemia da COVID-19 sulla scena dell’accoglienza e le indicazioni che hanno contribuito ad alimentare e costruirne la dimensione sociale – isolamento, interruzione della prossimità e delle relazioni di vicinanza – hanno fatto di questa scelta, come dice la nostra interlocutrice di ricerca, qualcosa di “profetico”.

Case e famiglie: praticare le forme, disegnare i confini

Se pur al centro di molteplici prospettive disciplinari nel campo più pertinentemente antropologico le case sono state osservate come spazi di produzione e riproduzione economica e familiare, nell’organizzazione e iscrizione simbolica degli habitus e delle identità di genere (Bourdieu 2003). Negli anni Novanta del Novecento gli studi sugli spazi domestici (Douglas 1991) si sono rinvigoriti aprendo un dibattito più ampio su spazi, identità e relazioni (Miller 2001) e che più propriamente, incrociando gli studi sul consumo e quelli sulla cultura materiale, hanno individuato l’ambito che è stato definito delle culture domestiche (Meloni 2014).

Nella riflessione antropologica contemporanea le case non possono che esser lette e analizzate nel loro rapporto con la storia, la mobilità e i processi socio-politici di più ampia portata che attraversano lo spazio intimo delle relazioni familiari (Carsten 2004, 2018; Grilli 2014, 2019; Di Silvio 2015). Le migrazioni, nelle scienze sociali, sono state ampiamente connesse agli spazi domestici e transnazionali osservando le catene di cura e il lavoro salariato (Parreñas 2001a, 2001b; Ehrenreich, Hochschild 2004) così come le forme di vita nelle famiglie transnazionali (Bryceson, Vuerola 2002; Zontini 2010; Coe 2013).

Le case del progetto Vesta, riproponendo idee su famiglia, spazi individuali di casa e forme di relazionalità che fanno perno sulla co-abitazione di giovani – uomini immigrati – e autoctoni – adulti di diversi generi e generazioni – vengono analizzate per rileggere forme inedite di rappresentazione della convivenza che rendono porosi i confini dello spazio domestico (Meloni 2014).

S.T.: Era mattino, facevo colazione con la radio accesa. Era già tempo che arrivano barconi e quando ho sentito che era possibile ospitare nella propria casa un rifugiato ho pensato che dovevo far qualcosa. Ho subito contattato la cooperativa che gestiva il progetto per informarmi meglio e ci ho pensato. Ne ho discusso con mia figlia, che non vive più con me e non lavora in Italia, lei non era d’accordo con questa mia idea, era preoccupata[25].

Il mezzo più comune per venir a conoscenza del progetto è stato l’ascolto della radio. Quasi tutte le donne intervistate hanno detto di aver pensato e discusso con figlie, mariti e compagni della loro scelta che, però, andava nel segno dell’urgenza di far qualcosa di concreto su una situazione per loro ingiusta e intollerabile. Dar disponibilità a ospitare nella propria casa era un modo di contrastare, nelle loro parole, una politica aggressiva nei confronti dei migranti.

Nell’intervista a una coppia eterossessuale che ospita M.M. entrambi i componenti della coppia rilevano, con toni e modalità diverse, che la loro implicazione in questa esperienza è profondamente politica.

R.V.: Io ho pensato che dovevo proprio far qualcosa… casa nostra è stata sempre molto aperta… ad amici in difficoltà, mio fratello che per un periodo ha vissuto qui dopo la separazione… eravamo abituati a convivere con persone nella nostra casa e, dunque, quando ho sentito alla radio di questa possibilità ho subito cercato notizie sul web e poi l’ho proposto al mio compagno. Non ci sono state particolari discussioni, eravamo d’accordo e siamo andati al primo colloquio[26].

F.S.: [il compagno di R.V.] Io penso che noi non abbiamo fatto niente di straordinario, abbiamo accolto e supportato un ragazzo che arriva da un’esperienza difficile e ritengo che sia “straordinario” vedere tutto quello cheabbiamo visto tutti i giorni per mesi attraverso le notizie sugli sbarchi, sui morti, o la decisione di chiudere i porti e non fare proprio niente[27].

L’impatto mediatico sulle migrazioni e il sentimento di urgenza nel fare si coniuga a idee sulla giustizia, sulla convivenza e sulla forma data alla propria famiglia e alla propria casa, che vengono risemantizzate per renderle lo spazio privato in cui prendere posizione e agire in uno scenario, come quello delle migrazioni, che pur avendo un impatto locale, nazionale e globale, nelle rappresentazioni veicolate rimane perlopiù nazionale.

Casa e famiglia, nelle conversazioni con le persone intervistate, sono spesso sovrapposte, talvolta scambiate.

F.S.: Noi vogliamo che la nostra famiglia sia davvero aperta, che non si chiuda su uno schema che tutti sviluppiamo intorno ai figli, alla routine e anche per questa ragione abbiamo sempre aperto la nostra casa a chi tra gli amici, per un periodo di tempo, ne avesse bisogno[28].

L.T.: Dalla nascita delle nostre due bambine non viaggiamo più molto e allora abbiamo pensato di far entrare il mondo in casa, di farlo entrare davvero in un momento in cui vedevamo che i confini italiani si chiudevano. Anche dei nostri cari amici hanno fatto la stessa scelta. Adesso B.T. è arrivato solo a gennaio, ancora direi che non è parte della famiglia ma stiamo bene, spero che lo diventeremo per lui anche se è già sposato e spera di riuscire a ricongiungere sua moglie[29].

I due estratti di intervista, pur sovrapponendo famiglia e casa, ci propongono idee sulla temporaneità dell’ospitalità e su come lo spazio fisico della casa venga immaginato e plasmato (Pink 2004; Pink et al. 2017) nella storia personale. L’aspirazione “all’imparentamento” di L.T. che introduce l’idea di un giovane ospite che, a differenza di altri non è un singolo individuo, ma già coniugato nel paese di origine è, invece, ben presente in altre interviste dove, per esempio, viene detto al giovane ospitato, con ironia dai “fai dei bambini così divento una nonna”. L’idioma della parentela nelle case Vesta, diviene un elemento di riflessione comune nei gruppi di supervisione ma ciò che emerge, anche tra i primi dati di questa ricerca, non si limita a indicare appellativi parentali attribuiti ad alcuni ruoli specifici e persone come quello di “mamma” che, tra le interviste, è stato un elemento ricorrente per definire il grado di vicinanza raggiunto (o da raggiungere) ma, piuttosto, prova a indagare come questo idioma, utilizzato dagli “autoctoni”, divenga un modo di ri-articolare i confini e le idee sulla famiglia.

S.T.: Ho vissuto tre anni con R.A., lui è una persona estremamente dinamica e ci siamo trovati in sintonia. È molto più giovane, ha una storia difficile e ha perso i suoi genitori da piccolo, io so che non potevo esser sua madre… sono stata davvero molto attenta per cercare di “non diventarlo”; non avrebbe fatto bene a lui e neanche a me. Io sono già madre di una persona più grande di lui e quell’esperienza mi ha guidato anche nella relazione con R.A.…. sto per esempio pensando a cose banali, quando ho dovuto accordarmi con lui sulle uscite, sull’avvisare o sulle informazioni che avrei voluto avere sui luoghi che frequentava. Io penso che oggi abbiamo costruito una relazione di amicizia solida: ci capiamo, abbiamo delle cose in comune, per esempio il modo di vivere i sentimenti. Se io ho cercato di star molto attenta a non fare la madre è anche vero, però, che non posso non notare come sia stato bene con i miei genitori anziani, che vivono in un’altra città. In particolare quando mio padre si è ammalato, ed io cercavo di andare nei fine settimana R. cercava di venire con me. Per R., impegnato tra scuola serale e lavoro, il fine-settimana era il momento in cui poteva vedere anche gli amici ma, invece, cercava di esserci e venire con me. Non posso dimenticare il suo amorevole accostamento a mio padre, quest’uomo anziano e malato. I miei genitori stavano così bene con R. che non avrebbero più voluto lasciarlo andare. Ha costruito tanti legami, con mia figlia, con i miei genitori; io non sono, non posso e non ho voluto esser sua madre ma non posso dire che non faccia parte della mia famiglia. Vivevo da sola con lui perché tutti gli altri vivono altrove, i miei genitori in un’altra ragione, mia figlia in Inghilterra e mio fratello in un altro continente, ma R. è riuscito a creare dei legami con tutti noi.[30]

Questo lungo frammento d’intervista ci propone un’idea di famiglia in cui, a fronte di una co-abitazione mancata o intermittente, tra tutti i componenti della famiglia descritta, si rielabora la centralità del legame e della relazione nel tempo. R.A. diventa parte della famiglia allargata e pluri-dislocata sebbene, nelle rappresentazioni della nostra interlocutrice, la relazione di filiazione “inventata” se pur presente come elemento plausibile (divario d’età, asimmetria di condizioni, status e ruolo nel progetto Vesta) è espressamente elisa dal linguaggio così come dalle pratiche. Eppure, del tutto consapevoli, dell’attenta distanza che l’interlocutrice voleva porre all’attenzione sul portato emotivo e valoriale della relazione materna, il frammento ci restituisce la complessità e dis-articolazione delle categorie che Joao de Piña Cabral (1989) individua nell’unità di convivenza (la casa), la famiglia (l’unità primaria) e la sussistenza (l’unità di consumo). Nell’esperienza concreta che ricombina e interseca queste categorie descrittive, seguendo anche l’indicazione di Simonetta Grilli (2014), l’attenzione, in questo articolo, si sposta sui modi con cui le persone, coinvolte e partecipi di un disegno specifico come quello di Vesta – che ricombina forme e idiomi sociali su famiglia e casa – immaginano, praticano e attribuiscono significati al convivere nello spazio domestico e, nelle parole di S. T., allo stare insieme nell’unità primaria (Grilli 2014: 473) che si realizza e fuoriesce dal confini della casa. L’unità primaria, narrata da S.T., che si struttura nella qualità relazionali e nel tempo condiviso, di malattia, di cura o di vacanza, oltrepassa i confini delle case con periodi di convivenza intermittenti in diversi territori e contesti e racchiude tutte persone adulte in cui R. è il più giovane. L’unità di sussistenza e quella di co-residenza si sovrappongono ma, anche in questo caso, non perfettamente: il progetto riconosce un contributo per la permanenza dell’ospite, R.A. ha un reddito da lavoro e S.T., che lavora anch’essa, ha la responsabilità della casa in cui, nonostante la distanza, permane uno spazio esclusivo della figlia di quest’ultima, anch’essa autonoma in termini di reddito. La casa, dunque, tiene traccia dell’unità primaria minima lasciando uno spazio alla figlia ormai autonoma e altrove, ma non coincide del tutto né con l’unità di sussistenza né con la casa. Lo spazio esclusivo della figlia che vive altrove, nel tempo quotidiano di convivenza di S.T. e R., è stato abitato in momenti di particolare necessità legati a eventi di salute o per un bisogno di spazio temporaneo e dedicato qual è quello della preghiera. Se la casa è lo spazio simbolizzato che oggettivizza le relazioni (Di Silvio 2015) la casa di S.T. racconta di una relazione solida di filiazione che mantiene una stanza esclusiva, uno spazio individuale per R. A. e una disponibilità a vivere, ad eccezione della stanza privata di S.T., tutti gli spazi della casa in modo fluido, temporaneo e libero pur mantenendo spazi individuali.

“Far casa” al nuovo arrivato: gli spazi, gli oggetti e le soglie

R.V.: Quando è arrivato M. M. ho liberato spazio nella stanza per lui, ma la stanza era già pronta per gli ospiti, abbiamo aggiunto una televisione e provato a lasciar più spazio, ho tolto un mobiletto basso che intralciava. Era già venuto qui a casa, ci eravamo conosciuti qui. Era venuto a pranzo un paio di volte e poi ha deciso che andavamo bene per lui […ride][31].

S.M. [Antropologa, si rivolge al ragazzo ospite M. M.]: Mi racconti della prima volta in cui sei entrato nella casa dove stai abitando? Cosa ti ha colpito? Come hai scelto questa casa?

M.M.: Era bello, erano gentili, avevo una stanza per me. Ho pensato che era il posto giusto quando ho visto i bambini che giocavano[32].

Il tema della scelta, avvenuto su un primo abbinamento proposto dall’organizzazione, tra gli intervistati/e è narrato solo come una scelta da parte dei giovani ospiti.

Lo spazio costruito della casa o la descrizione delle azioni per far casa al nuovo arrivato, oggetto parziale dell’intervista, sono state le informazioni più difficili da ricavare. Gli studi antropologici sulle case, ben evidenziando il carattere intrusivo della ricerca etnografica negli spazi privati (Miller 2001) si sono dotati di strategie metodologiche volte a cogliere, nella distanza e grazie alle riprese video, la ripetitività delle azioni che contraddistinguono l’abitare (Pink 2004: 29), che in questa ricerca, più interessata a cogliere le rappresentazioni e i significati attribuiti alla convivenza tra migranti e autoctoni, non sono stati utilizzati. La stanza interamente dedicata all’ospite, così come richiesto dal progetto Vesta, era per lo più già disponibile tra gli intervistati/e che hanno alternato racconti su piccoli gesti di cura e preparazione legati agli ambienti – tinteggiatura della stanza, acquisto di scrivanie e lampade per lo studio – a gesti più legati a “far” lo spazio fisico che implicava svuotare armadi, mobili e cassetti per il tempo – più o meno lungo – di ospitalità a cui ci si preparava. Mentre lo spazio fisico, nelle interviste, emergeva con difficoltà i racconti sul “far spazio” nelle relazioni familiari allargate (nonni, zii, e talvolta amici) abbondavano, dedicando particolare attenzione al menu che era stato studiato e preparato con accortezza affinché potesse soddisfar tutti i commensali tra cui il nuovo arrivato. Il cibo, nelle interviste, è ripetutamente emerso come terreno di ri-composizione di idee, pratiche differenti, ruoli e routine oltre che veri e propri gusti. Ricomporre il ricettario familiare escludendo il più possibile la carne di maiale, ri-adattare, nel mese di Ramadan e non solo, gli orari oltre che la tipologia di cibi consumati per “far spazio” al nuovo arrivato, erano elementi evidenziati e di cui tenere conto nel lavoro di riproduzione domestico – già colmo – per gran parte delle donne intervistate. Le routine legate alla preparazione dei pasti, le idee sul cibo e sulla convivialità a tavola, narrate come ricercato momento di scambio delle idee oltre «che di coordinamento e conclave» per usare le parole di Mary Douglas (1991) sono state oggetto di ri/accomodamenti e tentativi di rendere più accessibile la cucina, che però è rimasta, perlopiù nelle mani di chi ha dato l’ospitalità.

F.S.: Ho proprio invitato M. M. a farci assaggiare qualcosa di quel che gli piaceva e ci ha preparato una cena. Le cose che ci ha preparato erano buone ma ho imparato a farle io, quando ha cucinato sembrava che in cucina avessero messo una bomba… c’era fumo ovunque. Ho pensato e detto… va bene, continuo a cucinare io[33].

L.T.: Noi la sera mangiavamo sempre in modo leggero, adesso che è arrivato B. T. devo cucinare e proprio in questo periodo è in Ramadan e devo dire che è più difficile, perché devo ovviamente preparare qualcosa di più e io mi sono dovuta ricalibrare proprio nel far la spesa nel pensare cosa preparare, ma mi piace che le persone stiano bene, cucinare cosa gli piace quindi sto cercando di capire se posso fargli dei piatti diversi con i suoi sapori con il burro d’arachidi, ma è arrivato solo a gennaio… gli ho proposto di cucinare da solo, ma ancora non l’ha fatto[34].

La cucina nella storia dell’abitazione, «pur prestandosi a molti usi e interpretazioni, simbolici quanto funzionali, che l’hanno reso spazio di lavoro, ghetto servile, o culla familiare» (Forino 2019: xv) nella sua traiettoria di cambiamento graduale dello spazio tra persone (servitù, ruoli di genere), spazi (da ampi a sempre più compressi e/o uniti alle zone soggiorno) tra consuetudini alimentari e attrezzature tecnologiche o meno, è storicamente il luogo di rappresentazione del focolare domestico (de Piña Cabral 1989; Sarti 2003). Nelle case Vesta, pur nell’esiguità dei racconti, lo spazio della cucina rimane perlopiù nelle mani della famiglia ospitante, altri spazi comuni della casa come le zone del soggiorno, esemplificate metonimicamente, con il divano sono oggetto di negoziazioni per farsi spazio soprattutto tra i giovani ospiti e i figli piccoli – quando presenti – della coppia genitoriale ospitante[35].

Quando è arrivato B. T. lavorava tanto, lo vedevamo poco. Dopo cena aveva cominciato a sedersi sul divano. Se c’erano le bambine si spostava accanto, si sedeva da un’altra parte. Finalmente, qualche giorno fa, dopo il suo periodo di auto-isolamento in camera [coincidente con il lockdown n.d.r.] l’ho visto disteso sul divano. Non c’era nessuno in quel momento sul divano… avrebbe potuto distendersi in camera ma è andato proprio sul divano e ci si è adagiato…ho pensato che finalmente si sente un po’ a casa[36].

Il divano, nei racconti emerge come vero e proprio luogo di negoziazione del confine corporeo, come in questo caso, ma anche come luogo di condivisione, dove poter vedere insieme dei film che potessero dire qualcosa delle persone che abitano la casa. Anche nel caso di B. T., che abita da poco con la famiglia ospitante, il divano è diventato protagonista di un momento particolare dedicato esclusivamente agli adulti: la sera del 25 aprile, non potendo uscire di casa per le misure di contenimento epidemiologico e venendo quindi a mancare un momento di celebrazione condivisa, percepita come rilevante da un punto di vista identitario, gli è stato proposto di vedere un film sulla resistenza in Italia. Raccontarsi per conoscersi, nelle storie personali e più collettive è visto come un momento importante dove scoprirsi – se non accordarsi – per convivere oltre che co-abitare la stessa casa.

Il racconto del sé personale, come è acclarato nelle interviste anche in relazione alla formazione proposta da Vesta e al percorso di supervisione delle famiglie, ha bisogno di tempo e potrebbe non arrivar mai davvero e in forme del tutto compiute. Anche in questo caso, nella relazione di co-abitazione lo sforzo è teso a far spazio ai racconti e alle esperienze che, però, sono spesso temute. Gli studi di Nguyen (2010) hanno già analizzato come i dispositivi confessionali e l’esser capaci di parlare di sé siano veicolo di partecipazione al gruppo di riferimento, ma cosa succede quando la testimonianza su eventi traumatici, di cui all’oggi abbiamo frammenti di notizia rischia, paradossalmente, di estraniare colui con cui si abita rendendolo vittima ma anche “altro” per eccellenza? Raccontare il trauma e l’esperienza in uno spazio di convivenza è spesso un confine che solo talvolta è valicato. In questa sede l’attenzione si sposta sulla percezione del confine personale nello spazio domestico. Lo spazio di narrazione dell’esperienza è un confine particolarmente sentito come inviolabile, le paure e le emozioni, che potrebbero derivare da quell’ascolto, sono affermate nelle interviste come qualcosa di ignoto, misterioso e molto difficile da governare nello spazio domestico. La paura di questo confine è ovviamente ancor più sentita da chi ha appena avviato le relazioni di convivenza. Ma quanto l’idea di far spazio a quest’esperienza traumatica personale è parte dell’immaginato modello familiare prescrittivo (Wright 1991) che ci si è dati nel fare famiglia nella società italiana e divenire parte del progetto Vesta?

Come racconta una delle nostre interlocutrici:

L.B.: Una cosa che dico sempre è che per sentirsi accolti e per accogliere, non è necessario svelarsi, si può accogliere stando, senza per forza andare verso. L’immagine iniziale che molte persone hanno è che il trauma e il racconto dell’esperienza correlata siano sinonimi di intimità. Legarsi nella sofferenza sembra l’unica strada, qualcosa che li avvicina. Ma non può essere questo l’unico modo. È il legame di unicità che rende possibile la relazione[37].

“Stare con” e stare tra: spazi, confini, liminarità e relazioni. L’attenzione alla soglia individuale del giovane ospite è particolarmente sollecitata nelle famiglie ospitanti che nella co-residenza ridefiniscono i confini interni, legati al tempo (quando si cena, quando si esce, tempo lavoro/studio) e allo spazio individualizzato qual è quello della stanza dedicata che, talvolta nei racconti, diviene anch’essa invalicabile. Il tema dell’intoccabilità della stanza varia molto in base al tempo vissuto dell’ospitalità, alle regole introiettate o negoziate su chi debba pulire quell’ambiente o, ancora, se nell’idea di casa vi siano confini netti e spazi che possono esser vissuti e attraversati più liberamente di altri.

L’idea di casa si plasma nel tempo di vita di chi la abita, nelle relazioni che vi sono e negli spazi destinati al corpo, alla sessualità o, più in generale, all’intimità relazionale. E così se emerge con insistenza come le porte dei bagni, per accogliere un giovane estraneo, debbano necessariamente chiudersi, vi è da parte di alcune famiglie la disponibilità, se non l’invito, a ospitare anche le amiche dei giovani co-abitanti conferendo uno spazio di dicibilità sulle relazioni intime e sull’amore.

R.V.: Ricordo che quando ci preparavamo all’idea di ospitare un ragazzo per un tempo lungo ho pensato: ma come potrò litigare con il mio compagno? Non abbiamo mai pensato di dover chiudere una porta per discutere. Adesso dopo un anno e mezzo posso dire che è uno di famiglia ormai…con il mio compagno riusciamo benissimo a litigare davanti a lui [sorride…].

Il “sentirsi parenti” che R. V. conferisce alla relazione con M. M. consente di perdere il confine di espressione del conflitto che può trovare anch’esso spazio ma conferma, come casa e famiglia si sovrappongono rendendone plastici alcuni confini interni. I confini interni però rispondono non solo alle gerarchie di genere e generazionali introiettate ma anche a quelli ri-tracciati nel patto con il progetto Vesta dove lo spazio individuale della stanza dell’ospite è ben descritto. Ma se la soglia della stanza è tracciata e, in parte condivisa, gli oggetti ordinari e domestici, trasformati in cose, possono colmare la distanza e abitare anche quel luogo.

Investiti di affetti, concetti e simboli che individui, società e storia vi proiettano, gli oggetti diventano cose, distinguendosi dalle merci in quanto semplici valori d’uso e di scambio (Bodei 2009: 22). […] Noi investiamo intellettualmente e affettivamente gli oggetti, diamo loro senso e qualità sentimentali, li avvolgiamo in scrigni di desiderio o in involucri ripugnanti, li inquadriamo in sistemi di relazione, li inseriamo in storie che possiamo ricostruire e che riguardano noi e gli altri (Bodei 2009: 23).

Le cose, dunque, oltre ad assumere senso e qualità sentimentali sono al centro di sistemi di relazione che, negli spazi d’abitazione condivisi tra giovani immigrati accolti e adulti autoctoni accoglienti, divengono relazioni stratificate e asimmetriche tra chi disegna quello spazio e lo ri-adatta per trovare nuovi spazi di convivenza. Le famiglie ospitanti rispondono, al contempo, ai bisogni reali o percepiti dei giovani adolescenti con cui co-abitano e alle regole e procedure dell’organizzazione della forma pattuita di accoglienza.

La stanza per l’ospite nel tempo della convivenza si riempie di oggetti tecnologici come televisioni, consolle per i giochi elettronici, vestiti, computer sino a renderla uno spazio dove poter trascorrere il tempo libero, sperimentare giochi e rompicapo, connettersi con amici e persone che vivono altrove (Madianou, Miller 2012). Se questo accade, con più frequenza, in famiglie dove ci sono bambini piccoli, dove l’arrivo del giovane ospite si configura come una ri-articolazione della genitorialità temporanea, se non surrogata, di un adolescente che arriva da altrove, gli oggetti acquistati insieme e personali sono vettori di relazione.

S.T.: Quando è arrivato aveva solo una sportina. Mi aspettavo tante valigie, proprio come quando tornano dai viaggi i nostri figli. Quando è arrivato qui era in Italia già da tempo e, invece, aveva davvero poco con sé. Dopo qualche settimana siamo usciti insieme e gli ho proposto di andare a comprare dei vestiti, mi ha portato in un magazzino che conosceva. Era incerto. Pensavo che fosse imbarazzato, ma quelle merci non erano di buona qualità allora gli ho proposto di andare a vedere in un altro negozio. Ora che mi ci fai pensare, ricordo perfettamente: entrava nel camerino di prova con quattro pantaloni, cinque camicie, poi ricominciava, provava e sceglieva. Abbiamo svaligiato il negozio [ride…] era così contento[38]!

Gli studi di Daniel Miller (1987; 1998; 2008) hanno permesso di aprire un dibattito proficuo tra gli studi di cultura materiale e le teorie del consumo e i processi di oggettivazione. Nel solco di questi studi nello spazio domestico di convivenza tra giovani immigrati e adulti autoctoni gli oggetti o “le cose” divengono condensati di relazioni, legami e conflitti. Le cose e gli oggetti, che in filosofia hanno proprietà diverse, in ambito antropologico evidenziano il carattere inscritto del soggetto che nella scelta, nello scambio o nell’accumulo compie processi di oggettivazione del sé che, nel caso specifico, assemblano – nella convivenza tra migranti e autoctoni – idee di famiglia e genitorialità.

La sfida del lockdown

La gestione dell’epidemia da COVID-19 ha messo in campo, a livello globale e locale, misure volte a regolare i comportamenti sociali, limitare e sorvegliare la mobilità delle persone e irrigidire confini non solo nazionali. I tempi diversi del propagarsi epidemico e le differenti decisioni istituzionali hanno comunque fatto perno, in varia misura, su una prospettiva coloniale di gestione epidemica in cui la malattia è controllata spazialmente limitando gli agenti patogeni, le persone e, da ultimo, i beni (Bashford 2004). Nel processo di forte contenimento della mobilità, la casa, nella stratificazione dei discorsi pubblici, scientifici e mediatici, è divenuta il luogo dove le persone, in un’etica della responsabilità collettiva, dovevano permanere. Permanenza negli spazi abitativi, distanziamento sociale e igiene delle mani sono state le prescrizioni ricorrenti in Italia della cosiddetta Fase 1, ovvero quella del lockdown, normata con misure straordinarie da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Seguendo le indicazioni di Biehl (2016), pur nei limiti contingenti del fare etnografico, si è cercato di riflettere sull’epidemia e «sulle politiche di salute globale con una lanterna etnografica» (Biehl, Petryna 2013), provando a osservare le interpretazioni e i processi di iscrizione familiare e sociale di eventi globali come la pandemia (Marabello, Parisi 2020). Le traiettorie seguite da queste esperienze vitali mettono in luce una relazione inversamente proporzionale tra temporalità dell’accoglienza – più o meno prolungata – e addomesticamento della distanza imposta: al crescere della prima la seconda scompare e viceversa, sino al grado di separazione massima in cui la vicinanza parentale si “fa” attraverso oggetti dematerializzanti della dimensione corporea – smartphone, tablet, piattaforme digitali – il cui fine è quello di rispondere alla necessità di costruire alleanze (Miller, Horst 2014; Meloni 2014) in un momento extra-ordinario. La profondità della relazione è direttamente connessa al concetto di prossimità – emotiva e spaziale – e, soprattutto, a quello di immunità dal contagio e dalla contaminazione. Come suggerisce Napier (1992, p. 179) – riprendendo l’etimologia latina della parola immūnis, che descrive la libertà da certe forme di interazioni sociali – essere “immuni” ha a che fare tanto con forme di reciprocità sociale quanto con gli stati corporei, i quali, a loro volta, sono essi stessi estensioni di forme di reciprocità di sociale. Come dicevamo, minore è il tempo di accoglienza, maggiore la rinegoziazione dei processi di “appaesamento” dei corpi all’interno degli spazi:

L.T.: Quando B.T. è stato messo in cassa integrazione è stato un problema: non è più uscito dalla sua stanza, per giorni. Vive in questa casa da fine gennaio, e da marzo siamo in lockdown, tutti a casa ventiquattro ore al giorno.

Eravamo davvero preoccupati e abbiamo pensato che cosa avremmo potuto proporgli. Noi non abbiamo la televisione e allora B.T., con l’aiuto di mio marito, è riuscito a riparare un computer che è stato messo in camera sua e abbiamo fatto l’abbonamento a Netflix. Poi B.T. Ha trovato un vecchio amplificatore, l’ha aggiustato e lo ha portato in camera. Non parlava molto. Prima di uscire in giardino ci ha messo dei giorni, forse perché vedeva che noi lo vivevamo di più.

Visto quel che stava accadendo e che lui è molto sportivo, ho pensato di regalargli dei pesi che, però, non arrivavano mai… ha re-inventato una panca per fare degli esercizi. La sua camera è diventata, in qualche settimana, un mini-appartamento[39].

Nell’estratto emerge una percezione dello spazio che si raddoppia ovvero la stanza-miniappartamento che, come ben descrive Forino, disegna un luogo atto a “coltivare l’interiorità” una stanza nella stanza che trova, nella storia dell’architettura, diverse forme per pensare micro-spazi rispetto alla casa che lo ospita (Forino 2014: 353). D’altra parte l’assemblaggio di oggetti – recuperati e acquistati – e la possibilità di vedere programmi dentro uno spazio domestico, volutamente privato della televisione, descrive in modo pregnante quel che scriveva Miller in Teoria dello Shopping: gli oggetti sono strumenti che servono a creare relazioni d’amore tra soggetti piuttosto che un vicolo cieco materialistico (Miller 1998: 168).

Le cose che possono riempire il tempo, percepito come vuoto, dentro una singola stanza e i tentativi di coinvolgere l’ospite nelle attività di ripristino e cura della casa così come nel tempo trascorso in giardino è stato interpretato, dagli intervistati, attraverso idee di confine. Confini interni della casa e superabili o da rispettare nelle relazioni. La stanza diventava un luogo sempre più individualizzato quasi un’estensione corporea del suo ospite, un esempio concreto è dato dalla grande libreria della casa ubicata nella stanza che era paventata e vissuta dalle persone ospitanti come inaccessibile. Eppure nonostante la porta della stanza fosse divenuta una soglia non più attraversabile le proposte, per riempire il tempo vuoto, tendevano a moltiplicarsi.

La cura della casa – ri-tinteggiare pareti e cancelli, riparare divani o computer – raccontava non solo il tempo occupato ma, piuttosto, le frizioni e le ricomposizioni intorno al fare insieme che performava lo spazio di convivenza e del far famiglia. Il tempo libero e ri-organizzato tra i diversi spazi della casa e del giardino di pertinenza era un modo di segnare, nuovamente, la condivisione delle idee sul tempo/spazio familiare sul riposo, sulla commensalità e/o il tempo piacevole trascorso insieme.

Casa e famiglia, che già, nelle interviste si sovrapponevano nell’esperienza del lockdown è stato ulteriormente rinsaldato sino a ridefinirne i confini dell’immunità dal potenziale contagio:

R.V.: Io lavoro da casa con le bambine, il mio compagno, appena ha potuto, è andato a lavorare. Mi sono ri-organizzata con delle tabelle per il tempo dei compiti, del lavoro e del gioco. M. M. gioca molto con i bambini che, letteralmente “lo scalano”… è andato a lavorare e solo da qualche settimana è rimasto qui a casa. Ora che mi ci fai pensare non ho preso alcuna precauzione tra M. e i bambini o noi, ovviamente non entra nessuno a casa neanche i nonni; ma al fatto che M. andava a lavoro non ci ho mai pensato come un problema[40].

Intorno alla famiglia nucleare di cui M.M., nel tempo è diventato parte, si ridisegna il confine della casa e nel lockdown dell’immunità del nucleo. Il contagio che nelle norme e prescrizioni riguarda tutti gli individui, possibili vettori, nelle prassi assume contorni più larghi che contengono familiari e conviventi. Nel racconto di R.V. la percezione del rischio tiene traccia del nucleo convivente e disegna la pelle della comunità (Douglas 1996) intorno alla casa immaginata nella sua interezza come spazio fisico, emotivo e di convivenza. L’esperienza del lockdown ri-disegna nella rappresentazione del rischio l’unità primaria. Se il contagio da COVID-19, un virus ignoto, che nei discorsi scientifici e politici sulla salute pubblica hanno collocato il pericolo nell’estrema facilità di propagazione attraverso gesti consueti di parola e contatto ravvicinato tra singoli corpi, nella percezione e ri-assestamento delle prescrizioni la dimensione culturale ed emotiva di chi rappresenti il pericolo (Lupton 2013) è, anche nel frammento d’intervista, del tutto evidente. D’altra parte l’invisibilità dell’agente patogeno e dei segni di malattia, pur rinvigorendo come necessarie le misure di distanziamento sociale iscritte anche in orizzonti morali di etica nei confronti di componenti fragili della società, in particolare anziani e persone con patologie croniche, hanno trovato forme di ri-assestamento particolari nelle case di Vesta.

Sia le famiglie ospitanti che i giovani, ospitati e co-abitanti, hanno fatto esplicito riferimento a esperienze pregresse dal forte impatto emotivo, come il viaggio – con i suoi correlati traumatici – e altre epidemie vissute. In considerazione delle provenienze – tutti gli intervistati sono originari da diverse aree del continente africano – e della giovane età, il riferimento, più volte esplicitato, era l’epidemia di Ebola e le misure di quarantena. La gravità dell’epidemia di Ebola e la sua fine costituivano un evento, personale e/o retorico, per stemperare la gravità di quanto stava avvenendo in Italia che, nelle parole degli interlocutori di ricerca, si nutriva di fantasie e racconti, sui traumi e le condizioni del viaggio migratorio, assemblando e sovrapponendo cornici di interpretazione del rischio.

S.T.: Lui da qualche mese è andato a vivere da solo: ha un lavoro, studia la sera per prendere il diploma, era arrivato il momento di separarci, ma non ci siamo mai lasciati. In questo momento così difficile lui mi aiuta molto, mi dà molta spinta, perché ha piacere di prendersi cura di me, credo [ride]. Siamo tutti congelati, lui è molto rigido, ha preso molto seriamente il lockdown, non è mai uscito. Cerchiamo di incoraggiarci a vicenda, lui mi dice sempre: dai non preoccuparti per me, ho passato l’Ebola, il deserto, il viaggio in mare, cosa vuoi che sia il COVID [ride]. E così ci diciamo “facciamo uno zoom di famiglia, che voglia di andare a mangiare una pizza”, le cose che si dicono tutti… Perché il nostro è un legame di accoglienza reciproca, non l’ho accolto in casa io, ci siamo accolti insieme, sono io ad aver riempito e allargato la mia rete [41].

Questo ultimo stralcio d’intervista riprende un’ulteriore accezione del concetto di immunità: quella che denota la libertà da certe forme di interazione sociale (Napier, 1992). Quando il percorso di inter-azione all’interno dello spazio abitativo si interrompe – “da qualche mese lui è andato a vivere da solo” – le soggettività in gioco che si costruiscono mediante una relazione di “accoglienza reciproca” dell’alterità, assumono una forma dematerializzata: in tempi di distanziamento sociale – “siamo tutti congelati” – il legame creato permette di pensarsi attraverso circostanze e vissuti emotivi condivisi articolati attraverso l’idioma della cura, una connessione profonda capace di rendere esperienze esterne insopportabili – “ci incoraggiamo a vicenda, non preoccuparti per me” – addomesticandole mediante un legame interno mai interrotto: “era arrivato il momento di separarci, ma non ci siamo mai lasciati. Ci siamo accolti insieme. Che voglia di andare a mangiare una pizza, le cose che si dicono tutti.”

Conclusioni

Nel corso di questa analisi situata e contingentata dei significati e delle prassi del coabitare tra giovani migranti e autoctoni, l’attenzione è stata posta sulle forme in cui spazio domestico, famiglia e alterità – sfidate dalle misure di contenimento dell’epidemia di COVID-19 – sono state assemblate e rappresentate. Con una lanterna etnografica (Biehl 2016), si è cercato di mettere in luce come le modalità di soggettivazione della relazione di accoglienza riconfigurino tempi, spazi, prassi e termini attraverso i quali l’alterità visibile – giovani provenienti dall’Africa sub-sahariana – vive quella invisibile – un virus del quale ancora poco si conosce – condividendone, almeno in parte, le medesime retoriche di rappresentazione sociale. Le narrazioni raccolte evidenziano come le case siano strutture porose, luoghi in cui si costruiscono processi di inclusione, alleanze e relazioni all’interno di orizzonti culturali domestici che, per scelta attiva dei suoi abitanti, si fanno finestre sul mondo allargando l’habitat di significato (Hannerz 2001) di chi vi si muove. Il continuo scambio dialogico fra interno ed esterno – metaforico, simbolico ma anche materiale – ha subito una battuta di arresto con l’avvento dell’emergenza sanitaria: il movimento di spontaneità nel farsi prossimo si deve piegare alle regole del distanziamento sociale, riconfigurando i termini dell’intero percorso migratorio. Se, da una parte, la chiusura dei confini esterni ha portato con sé una iper-attivazione all’interno degli spazi domestici – che vengono riconfigurati dalla co-presenza di tutti i suoi abitanti impegnati nelle più disparate attività – dall’altra, l’iper-isolamento – decretato da indicazioni normative specifiche e pervasive – ha dato modo di sperimentare nuove forme di apertura: della memoria, individuale e collettiva, e delle modalità di farsi vicini. Le case Vesta, infine, divengono luogo di intersezione tra le esperienze vitali e le relazioni che contribuiscono a mettere in scena nel più ampio contesto storico e socio-politico nel quale sono situate e così incorporano, in modo inedito, le relazioni fra stato, parentela e soggettività (Carsten 2018).

Bibliografia

Bashford, A. 2004. Imperial Hygiene: A Critical History of Colonialism, Nationalism and Public Health. New York. Palgrave Macmillan.

Biehl, J. 2016. Theorising Global Health. Medicine Anthropology Theory. 3 (2): 127-142.

Biehl, J., Good, B., Kleinman, A. 2007. Subjectivity. Ethnographic Investigation. Berkeley. University of California Press.

Biehl, J. Petryna, A. (eds.). 2013. When People come first: Critical Studies in Global Health. Princeton. Princeton University Press.

Bodei, R. 2009. La vita delle cose. Laterza. Bari.

Börjesson, U, Forkby, A. S. 2020. The concept of home – unaccompanied youths voices and experiences, European Journal of Social Work, 23 (3): 475-485.

Bourdieu, P. 2003. Per una teoria della pratica con tre studi di etnologia cabila. Milano. Raffaello Cortina.

Bryceson, D. F., Vuorela, U. (eds). 2002. The Transnational Family: New European Frontiers and Global Networks. Oxford. Berg.

Carsten, J. 2004. After Kinship. Cambridge. Cambridge University Press.

Carsten, J. 2018. House-lives as ethnography/biography in Social Anthropology 26 (1): 103-116.

Carsten, J., Hugh Jones, S. (eds). 1995. About the House. Lévi-Strauss and Beyond. Cambridge. Cambridge University Press.

Coe, C. 2013. The Scattered Family. Parenting, African Migrants and Global Inequality. Chicago. Chicago University Press.

Dei, F. 2008. «Introduzione. Il dono del sangue tra realtà biomedica, contesti culturali e sistemi di cittadinanza» in Il Dono del sangue. Per un’antropologia dell’altruismo. Dei F. Aria M. Mancini G.L. (a cura di) Pisa. Pacini: 9-40.

De Leonardis, O. 2013. Altrove. Sulla configurazione spaziale dell’alterità e della resistenza. Rassegna Italiana di Sociologia 3: 351-378.

de Piña Cabral, J. 1989. L’héritage de Maine: Repenser les categories descriptives dans l’étude de la famille en Europe. Ethnologie Française 19 (4): 329-340.

Di Silvio, R. 2015. Affetti da Adozione. Uno studio antropologico della famiglia post familiare in Italia. Roma. Alpes.

Douglas, M. 1991. The idea of Home: a Kind of Space. Social Research, 58 (1): 288-307.

Douglas, M. 1996 [1992] Rischio e Colpa. Il Mulino. Bologna.

Dubois, V. 2014. The Economic Vulgate of Welfare Reform: Elements for a Socioanthropological Critique. Current Anthropology 55 (S9): 138-146.

Ehrenreich, B, Hochschild, A. 2004 [2002] Donne globali. Tate, Colf e Badanti. Milano. Feltrinelli.

Forino, I. 2014 La stanza nella stanza: l’arredamento come inclusione o raddoppiamento dello spazio domestico. Lares 80 (3): 435- 468.

Forino, I. 2019. La cucina. Storia culturale di un luogo domestico. Torino. Giulio Einaudi.

Godbout, J. T. 2002. L’actualité de l’Essai sur le don. Sociologie et sociétés, 26 (2): 168-178.

Grilli, S. 2014 Case, cibo e famiglia. Pratiche dell’abitare e della relazionalità parentale. Lares (80): 3, pp. 469-490.

Grilli, S. 2019. Antropologia delle famiglie contemporanee. Roma. Carocci Editore.

Hannerz, H. 2001. La diversità culturale. Bologna. Il Mulino.

Horst, H. A. Miller, D. 2012. Digital Anthropology. London & New York. Berg.

Ligi, G. 2012. Antropologia culturale e costruzione del rischio. La Ricerca Folklorica, 66: 3-17.

Lupton, D. 2013. Risk and emotion: towards an alternative theoretical perspective. Health, Risk and Society 15 (8): 634-647.

Madianou, M., Miller, D. 2012. Migration and New Media. Transnational Families and Polymedia. London. Routledge.

Marabello, S., Parisi, M. L. 2020 “I told you the invisible can kill you”: Engaging Anthropology as a Response in the Covid-19 Outbreak in Italy. Human Organisation 79 (4).

Mauss, M. 1923-24. Essai sur le don: forme et raison de l’échange dans le sociétés archaïques. Annèe Sociologique II (1) (trad. it. 2002. Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Torino. Giulio Einaudi)

Meloni, P. 2014. Introduzione. L’uso (o il consumo) dello spazio domestico. Lares 80 (3): 419-438.

Moore, H. 1994. A Passion for Difference. Cambridge. Polity Press.

Miller, D. 1987. Material Culture and Mass Consumption. Oxford. Basil Blackwell.

Miller, D. 1998. Teorie dello Shopping. Roma. Edizioni lavoro.

Miller, D. 2001. Home Possessions: Material Culture behind the Closed Doors. Oxford. Berg.

Miller, D. 2008. The Comfort of Things. Polity Press. Cambridge.

Miller, D, Horst, H. A. 2014 [2005]. Dalla parentela alla connessione. Telefoni cellulari e reti sociali in Jamaica, in Cultura materiale. Oggetti, immaginari, desideri in viaggio tra mondi. Ciabarri L. (a cura di). Milano. Raffaello Cortina: 157-182.

Napier, D. 1992. Foreign Bodies: Performance, Art, and Symbolic Anthropology. Berkeley. University of California Press.

Napier, D. 2015. Immunity as Information, or Why the Foreign Matters. Somatosphere Science Medicine Anthropology http://somatosphere.net/forumpost/immunity-as-information-or-why-the-foreign-matters/

Nguyen, V. K 2010. The Republic of Therapy: Triage and Sovereignty in West Africa’s Time of AIDS. Durham. Duke University Press.

Pandolfi, M. 2003. Le arene politiche del corpo. Antropologia 3: 141-154.

Parreñas, R. S 2001a Mothering from a distance: Emotions, Gender and Intergenerational Relations in Filipino Transnational Families, Feminist Studies, 27 (2): 361-390.

Parreñas, R. S. 2001b Servants of Globalisation. Women, Migration and Domestic Work. Stanford. Stanford University Press.

Pink, S. 2004. Home Truths. Gender Domestic Objects and Everyday Life. Oxford. Berg.

Pink, S. Horst, H. A. Postill, J., Hjorth, L., Lewis, L. Tacchi, J. 2016. Digital Ethnography. Principles and Practice. Los Angeles. Sage.

Pink, S., Leder Mackley, K., Morosanu, A., Mitchell, V., Bhamra, T. 2017. Making Homes. Ethnography and Design. London. Bloomsbury Academic.

Quaranta, I. 2018. Le traiettorie teoriche del corpo fra ordine e disordine sociale. Dada Rivista di antropologia post globale, 2: 7-22.

Riccio, B., Tarabusi, F. 2018. Dilemmi, mediazioni e opportunità nel lavoro di accoglienza rivolto a rifugiati e richiedenti asilo: un’introduzione. Educazione Interculturale. Teorie, Ricerche, Pratiche 16 (1): 1-9.

Ticktin, M. 2017. Invasive Others: toward a contaminated world. Social Research: An International Quarterly 84 (1): xxl-xxxiv.

Sarti, R. 2003 [1999]. Vita di casa. Abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna. Roma-Bari. Editori Laterza.

Zontini, E. 2010. Transnational Families, Migration and Gender. Moroccan and Filipino Women in Bologna and Barcelona. Oxford. Berghan.

Wright, G. 1991. Prescribing the Model Home. Social Research 58 (1): 213-225.



[1] Sebbene questo lavoro sia frutto di un dialogo e della collaborazione tra le due autrici in tutte le fasi di produzione ed elaborazione dei dati, si possono attribuire i paragrafi 1, 3, 4 e 5 a Selenia Marabello e 2, 6 e 5 (parti relative all'immunità) a Maria Luisa Parisi. Ringraziamo i revisori anonimi per i commenti e le indicazioni.

[2] Promosso dal Comune di Bologna e CIDAS.

[3] La tesi di laurea, i cui dati non sono oggetto di quest’articolo, è in svolgimento presso l’Università di Bologna e prevede di raccogliere e analizzare il punto di vista dei migranti-ospiti.

[4] Maria Luisa Parisi è stata docente a contratto di Antropologia Medica presso l’Università di Bologna e di Modena e Reggio Emilia. Attualmente si occupa, per la cooperativa CIDAS (Bologna) di progetti di accoglienza e presa in carico dedicati a migranti con disagio psichico e sanitario. Il suo mandato professionale non è in contrasto con l’imparzialità richiesta dalla presente ricerca.

[5] Fonte: Dipartimento per le Libertà civili e l'Immigrazione del Ministero dell’Interno, “Cruscotto statistico giornaliero, 31 dicembre 2017”, p. 8 (http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/cruscotto_statistico_giornaliero_31_gennaio_2017_1.pdf)

[6] Vedi nota 5.

[7] Rapporto Annuale SPRAR – Sistema Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, Atlante SPRAR 2016, p. 18 (https://www.siproimi.it/wp-content/uploads/2017/06/Atlante-Sprar-2016-2017-RAPPORTO-leggero.pdf)

[8] Vedi nota 7, p. 28.

[9] La prima esperienza italiana del genere è “Rifugio Diffuso Accoglienza in Famiglia” che, dal 2008, a Torino, si occupa di affidamento famigliare; dal 2015 il progetto è inserito nella rete SPRAR. In Emilia-Romagna le prime sperimentazioni sono negli SPRAR di Parma e Fidenza con il progetto “Rifugiati in famiglia” di CIAC Onlus. Per un approfondimento sul tema si rimanda agli atti del convegno organizzato da CIDAS e UNHCR il 19/12/2018 a Bologna dal titolo: “A Casa Nostra. Esperienze di Cittadini e Cittadine Accoglienti nell’ambito delle progettualità SPRAR” https://www.progettovesta.com/wp-content/uploads/2019/07/A-casa-nostra_atti-convegno.pdf

[10] Oggi CIDAS, ente gestore per la Città Metropolitana di Bologna di progetti dedicati alla seconda accoglienza di MSNA, adulti, nuclei famigliari, soggetti con vulnerabilità sanitaria/mentale e LGBT.

[11] Intervista 19/05/2020 condotta da Maria Luisa Parisi.

[12] Intervista 07/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[13] Intervista 18/05/2020 condotta da Maria Luisa Parisi.

[14] Per un approfondimento sul tema si rimanda a Riccio B. e Tarabusi F. 2018. Dilemmi, mediazioni e opportunità nel lavoro di accoglienza rivolto a rifugiati e richiedenti asilo: un’introduzione.

[15] Cfr. “A Casa Nostra. Esperienze di Cittadini e Cittadine Accoglienti nell’ambito delle progettualità SPRAR” https://www.progettovesta.com/wp-content/uploads/2019/07/A-casa-nostra_atti-convegno.pdf

[16] Ovidio, Fasti, VI, vv. 258, BUR, 1998.

[17] Intervista 07/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[18] Intervista 06/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[19] Intervista 29/04/2020 su piattaforma web condotta da Maria Luisa Parisi.

[20] Ad oggi Vesta ha in essere i percorsi di accoglienza in famiglia, affiancamento famigliare, tutela volontaria e affido.

[21] Intervista 06/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[22] Intervista 29/04/2020 su piattaforma web condotta da Maria Luisa Parisi.

[23] Intervista 06/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[24] Intervista 29/04/2020 su piattaforma web condotta da Maria Luisa Parisi.

[25] Intervista 07/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[26] Intervista 06/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[27] Intervista 06/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[28] Intervista 06/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[29] Intervista 07/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[30] Intervista 07/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[31] Intervista 06/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[32] Intervista 06/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[33] Intervista 07/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[34] Intervista 07/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[35] Intervista 07/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[36] Intervista 07/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[37] Intervista 08/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[38] Intervista 07/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[39] Intervista 07/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[40] Intervista 06/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.

[41] Intervista 07/05/2020 su piattaforma web condotta da entrambe le autrici.