Contare il tempo, misurare i corpi

Riflessioni sul protagonismo numerico nel parto ospedaliero

Annachiara Nicodemo


Abstract. The interdisciplinary debate on the effects of medicalisation as experienced by women during pregnancy and childbirth rose during the 70s as part of the reflections of the feminist movement and continued throughout the 80’s with great intensity. A research conducted through direct observation and interviews gives us the chance to partecipate to the debate by questioning the situation of the women hospitalised in public structures of Salta (Argentina). Starting with the premises that bring to the hospitalisation of childbirth which effectively reduce the role of women to that of patients we will explore how certain organisational necessities and at times the arbitrary choices of medical operators substitute women in the decisional process, not recognising them the ability to decide based on how they are feel and on physiological processes. We will especially focus on the effects of labor management when based on protocols which establish the relation between temporal intervals and physical indexes. We will see how time is manipulated during childbirth and how the first contact between mother and child is often delayed to favour bureaucratic necessities. We will also analyse how these phenomena might depend on a particular conception of pain influenced by biomedical rationality. In the end we will underline the risks brought on by a so called humanised assistance to childbirth perpetrated by practices that subordinate women to obstetrical diktats thus favouring an alienation from one’s own feelings and increasing the dependence on medical practices that make the human body virtually indistinguishable form a mere lab specimen.

Keywords: Medicalization, give a birth, pregnancy, obstetrician, time.

Nel crescendo di interventismo medico-tecnologico cui si sta assistendo oggi,

la donna come persona va scomparendo. Le sue reazioni emotive (dolore, ma anche gioia, stupore),

i suoi ritmi, il rapporto particolare che ha con la natura, ma soprattutto

l'energia che dirompe da lei mentre partorisce, il mistero della nascita stessa

si scontrano con una scienza che conosce solo il misurabile, il particolare, l'oggettivo

e che non sa cogliere gli eventi nel loro complesso.

Rosanna Cavaglieri, Il parto in casa come esperienza di integrazione e continuità, 1985

Introduzione

Il dibattito interdisciplinare sugli effetti della medicalizzazione nell'esperienza soggettiva delle donne durante la gravidanza e sulla scena del parto, sorto negli anni Settanta nell'ambito della riflessione femminista, ha cavalcato gli anni Ottanta con gran tumulto (Ehreinreich et al. 1977; Gaskin 1978; Lang 1978; Braibanti 1980; Leboyer 1981; Pizzin 1981; Laget 1982; Campiotti 1983; Cacciari et al. 1985; Oakley 1985; Leavitt 1987; Odent 1989). Sulla base di una ricerca condotta attraverso l'osservazione diretta e la realizzazione di interviste, ci si inserisce sulla scia di tale dibattito per avanzare alcune riflessioni circa la posizione riservata alle donne nel reparto di ostetricia dell'ospedale pubblico materno infantile della città di Salta (Argentina).

Nell'articolo, partendo dalle premesse che reggono l'ospedalizzazione del parto e la conseguente riduzione della donna al ruolo di paziente, si esplorerà come talvolta le esigenze organizzative dell'istituzione e talaltra il comportamento arbitrario dei singoli operatori, facendo presa sulla dimensione temporale, si sostituiscano alla donna nel processo decisionale ed operativo durante il travaglio ed il parto non riconoscendole competenze relative al proprio sentire e ai propri processi fisiologici[1]. In particolare, si rifletterà sulle implicazioni della gestione dei travagli basata su un protocollo che norma la relazione tra intervalli temporali ed indici corporei (centimetri di dilatazione della cervice, posizione del feto rispetto al canale del parto, frequenza delle contrazioni); si vedrà come il tempo venga manipolato nel momento del parto; si mostrerà come il tempo della nascita e dell'incontro venga sottratto alla diade madre-bambino per essere messo al servizio della burocrazia; infine si rifletterà su come esso sia ascrivibile ad una particolare concezione del dolore propria della razionalità biomedica. Si mostreranno infine i rischi che porta con sé un'assistenza al parto che si dica umanizzata benché riproduca pratiche atte a subordinare la donna all'agire ostetrico e a favorire l'alienazione dal proprio sentire confermando così la dipendenza dalle tecniche e dall'intervento medico di un corpo reso inservibile, se non come corpo-specie o corpo-cavia.

Contesto e metodi della ricerca

Questo contributo è parte di una più ampio progetto di ricerca che ha indagato pratiche e discorsi sul parto in alcune comunità indigene del nord della Provincia di Salta (nord dell'Argentina) e nella città di Salta. Tale articolo si riferisce al lavoro di ricerca svolto presso il centro ostetrico dell'Hospitál Público Materno Infantil (HPMI), maggiore maternità pubblica dell'intera provincia che vanta un numero di parti piuttosto alta (8.724 solo nel 2013). È un ospedale scuola che ospita gli specializzandi di diverse aree sanitarie (infermieristica, ostetrica, ginecologia, neonatologia e pediatria). È inoltre una “maternità sicura e centrata sulla famiglia”, ovvero che aderisce ad un paradigma di attenzione alla donna e al bambino, proposto dall'UNICEF e dall'OMS, che incentiva l'allattamento al seno e che individua la famiglia come soggetto protagonista durante la gravidanza, parto e puerperio.

La ricerca di campo è durata quattro mesi in totale (luglio-ottobre 2014). A cadenza diaria sono state realizzate osservazione dirette nel centro ostetrico e nell'area riservata alle donne puerpere ed ai loro neonati e, a cadenza settimanale, ho partecipato agli incontri in occasione dei corsi preparto tenuti dalle ostetriche dell'ospedale. Nel centro ostetrico si affacciano, su un lungo corridoio, un totale di nove stanze individuali, dove la donna affronta sia il travaglio che il parto, ed una stanza di induzione al travaglio, che può ospitare fino a quattro persone. Sullo stesso corridoio vi è un’area di lavoro “amministrativo”, ma anche di sosta, riservata al personale del centro ostetrico, oltre ad una piccola stanza dove lavorano gli addetti alle identificazioni. Più in disparte, vi è “el estar”, cioè un luogo di riposo riservato ai medici ed alle ostetriche di ruolo. L'area riservata ai ricoveri delle donne puerpere si colloca invece al piano superiore rispetto al centro ostetrico. È composta da un totale di trentacinque stanze, ognuna delle quali può ospitare due persone.

Alla luce delle osservazioni effettuate in una prima fase della ricerca, sono state realizzate poi un totale di 30 interviste aperte: quindici rivolte alle donne puerpere, dieci alle ostetriche e cinque ai medici. L'intento è stato quello di fare chiarezza sulle pratiche osservate fino a quel momento ed indagare più a fondo la cultura del parto ed il vissuto dei professionisti sanitari, e l'esperienza di travaglio e di parto delle donne. Le interviste sono qui numerate e riportate in forma anonima.

Pazienti alla routine ospedaliera

Le pratiche che caratterizzano il dare alla luce il proprio figlio, nuovo membro della collettività, si inseriscono nello specifico “sistema etnonatale” (Jordan 1983) vigente in una determinata epoca e società. Seguendo i suggerimenti che Vuille avanza nella sua analisi sulla medicalizzazione della nascita (2009), comprendiamo a pieno che lo spazio destinato al parto sia quello ospedaliero assumendo che la definizione socialmente condivisa di esso sia quella di un «evento potenzialmente rischioso, che necessita di una sorveglianza costante, per scoprire in tempo qualsiasi anomalia si produca nel corso del travaglio, e prevenire ogni sofferenza fetale attraverso interventi sul corpo materno» (ivi: 75). La concettualizzazione del parto come evento rischioso da monitorare e/o trattare attraverso tecnologie mediche, e la complementare rappresentazione del corpo di donna come fallibile, imprevedibile e bisognoso di una sorveglianza costante è stata, nelle società occidentali ad alto sviluppo tecnologico, la premessa che ha sostenuto la tendenza all'ospedalizzazione massiva e alla conseguente trasformazione della donna in paziente (Cavaglieri 1985).

La partoriente, corpo generativo e bene sociale più che individuale, corpo-specie bersaglio di azioni biopolitiche (Foucault 1978), è nell'ospedale tramutata in paziente nella duplice accezione del termine che da una parte rimanda alla patologia e dall'altra alla passiva attesa. L'assunzione del ruolo di paziente sembra essere condizione necessaria al compiersi della razionalità ospedaliera la quale, per obbedire ad esigenze organizzative e di efficienza interna, si colloca lontana dall'offrire un ambiente caldo ed aperto ad accogliere le istanze individuali di cui sono portatrici le singole donne che, attraverso il travaglio ed il parto, stanno diventando madri. In uno studio che pionieristicamente ha indirizzato il suo sguardo sulle dimensioni sociali del parto, è stato evidenziato come nei reparti maternità «l'organizzazione e la divisione del lavoro ricordano più quelli della fabbrica che della famiglia» (Colombo et al. 1985: 10). Questa caratteristica è stata riscontrata anche nel contesto di ricerca cui questo scritto si riferisce, come si può dedurre dalle parole del ginecologo responsabile degli specializzandi di medicina:

Io rispetto il loro lavoro [delle ostetriche] fino ad un certo punto. Se ho dieci sale e quattro pazienti: parto rispettato, i fiori che vogliono, gli profumiamo l'ambiente. Perché abbiamo il tempo. Se ho pazienti che aspettano, non posso averle lì sedute. Purtroppo non si può che sia tutto il più naturale possibile. In quel caso può essere che si disumanizzi l'ambiente. Quando ci sono parti e bisogna farli mi metto alla pari dell'ostetrica e ti faccio i parti[2].

In conformità con quanto rilevato da Colombo, ossia che «i tempi che scandiscono il procedere sono determinati da una organizzazione data che risponde all'esigenza del mantenimento di un determinato sistema di parto» (1992: 164), da questo discorso si evince come per esigenze di spazio, e dunque di fluidità organizzativa, sia ammissibile che «si disumanizzi l'ambiente». Quando “non c'è tempo” è plausibile allora che una nascita venga affrettata e forzata: l'intervento medico “fa il parto”. Si assiste dunque al paradosso di come il tempo della donna e del bambino siano alla mercé dell'istituzione, piuttosto che il tempo dell'istituzione a loro servizio. Il medico rimarca inoltre che in “regime ordinario”, quando il tempo e lo spazio non mancano, vige una separazione dei compiti tra medici ed ostetriche le quali sono libere di organizzare l'ambiente e di gestire i parti fisiologici[3]. Tuttavia, nel caso ci sia bisogno di liberare stanze, il medico, si sostituisce all'ostetrica nella gestione dei travagli e “fa il parto”, ovvero lo dirige e lo affretta non rispettandone lo svolgersi fisiologico. Viene da notare come la posizione assunta dal medico, che delimita lo spazio del proprio operato in relazione a quello delle ostetriche, manchi totalmente del punto di vista della donna, detta e fatta “paziente”: «credo che negli ospedali non si può sradicare questa forma di dire perché si continua a dare potere al personale, quando si dovrebbe darlo alla donna»[4]. Si sostiene qui che la gestione delle nascite a servizio dell'efficienza organizzativa, che implica una particolare manipolazione del tempo e che detta il dispiegarsi dell'agire ostetrico, sia possibile solo perpetuando, nel linguaggio e nella pratica, una cultura della donna passiva. Infatti, nonostante tutti i professionisti intervistati affermino che «paziente si dice a chi ha una malattia”[5], e ci sia chi ammetta che «trattare la donna come una paziente è una deformazione professionale»[6], attraverso l'osservazione diretta si è rilevato un significativo numero di routine passivizzanti profondamente radicate. Tra di esse si possono annoverare l'abitudine di dare priorità alle informazioni contenute alla cartella clinica a discapito dell'interazione con la donna; il procedere con interventi medici senza autorizzazione e senza fornire informazioni esaustive al riguardo; le continue richieste avanzate alle partorienti («fammi questa spinta», «non mi piangere», «aprimi le gambe») mutano le posizioni dei soggetti in campo producendo un paradossale effetto per cui sembrerebbe che la donna “lavori per” il personale sanitario. Si può allora immaginare che il riconoscimento del ruolo attivo della donna richiederebbe un capovolgimento della struttura istituzionale e delle burocrazie mediche, che oggi come ieri rafforzano l'assoggettamento degli individui (Illich 2004: 274). Il paradigma biomedico, che ha tra i suoi tratti strutturali il riduzionismo biologico ed il considerare il paziente un consumatore passivo ed ignorante (Menéndez 1984), depersonalizza, desessualizza e medicalizza la donna che dà alla luce trasformandola in paziente (Colombo et al.1985) perché possano verificarsi le condizioni necessarie per avere (s)oggetti di lavoro, ovvero soggetti il meno possibile ivi) adattabili e “pazienti alla routine ospedaliera”.

Protagonismo numerico...

L'ospedale moderno ha sviluppato una propria cultura dell'efficacia, dell'efficienza e del tempo (Kitzinger 1980). Nonostante il reparto materno-infantile in cui è stata svolta la ricerca aderisca al modello del parto umanizzato sancito da una legge nazionale della Repubblica Argentina[7], la cultura organizzativa privilegia il criterio dell'efficienza, di cui il tempo è il primo indicatore, a discapito di altri che garantirebbero l'umanizzazione della nascita nel contesto istituzionale.

Il disciplinamento nel ruolo di paziente, analizzato nel paragrafo precedente, è condizione necessaria perché la “economia organizzativa” possa compiersi attraverso la presa dei corpi, supinamente analizzati, manipolati e quindi resi docili (Foucault 1993) nella dimensione temporale del mettere al mondo che, in relazione ad indici corporei, è stata normalizzata e normata dalla razionalità biomedica. Lo stesso Foucault, analizzando il disciplinamento in ambiente militare, ha messo in evidenza come la gestione dei tempi nel corpo e del corpo sia un fattore portante dell'assoggettamento degli individui: «Il tempo compenetra i corpi e con esso tutti i controlli minuziosi del potere» (ivi: 165).

In accordo con quanto sostenuto in Fisiologia della nascita (Bestetti et al. 2014), si rifiuta il presupposto che esista un “tempo universale” che possa essere indicatore assoluto del “normale” procedere di un travaglio. Si considera invece che il tempo del travaglio accompagni una “normalità variabile”, essendo «espressione della sintesi, unica per ogni persona, di tutti i fattori che determinano e costituiscono il processo della nascita» (ivi: 34). Contrariamente a tale posizione, è un “tempo universale” quello evocato e chiamato in causa per standardizzare l'evolversi del travaglio e per giustificare l'interferenza medica che, quando innecessaria, priva le donne ed i bambini dell'esperienza di una nascita autonoma e sana, attiva e fisiologica. Essa dovrebbe invece essere vegliata da professionisti che riescano ad «abitare il tempo nell'attitudine di un a venire, senza la presunzione di possederlo in una totale oggettività, cogliendo il dinamismo della nascita anche quando sembra che nulla accada» (ivi: 30).

L'adesione al protocollo ospedaliero, che incastra gli avvenimenti fisiologici del travaglio e del periodo espulsivo in intervalli temporali rigidamente definiti, deresponsabilizza e depotenzia tanto il personale sanitario quanto la donna la quale, davanti alla supposta conoscenza medica del tempo del travaglio, non ha bisogno di ascoltarsi, né di esprimersi, trovandosi infine quasi impossibilitata nello scegliere se accettare o meno un determinato intervento o esame sul corpo. Per quanto riguarda il personale sanitario vediamo come, se in altri “sistemi etnonatali” intuito e coinvolgimento personale sono validi strumenti delle ostetriche (Jordan 1997), essi sono invece esclusi dalla pratica ospedaliera la quale, abbracciando il “tempo universale”, concede ai professionisti una sorta di “economia psichica”, coerente con la “economia organizzativa” perseguita, che fa sì che essi possano affidarsi a rigidi schemi prescindendo dall'unicità della donna che si trovano davanti.

... nel travaglio

Rendere l'ostetrico padrone del tempo nel soprapparto, senza incidere, ecco l'obbiettivo che raggiunsi colla dilatazione meccanica rapida.Luigi Maria Bossi, Il mio metodo di parto artificiale rapido nelle cliniche e a domicilio, 1905 Per molte persone qui dentro il parto è solo una questione meccanica. Quando un collo dell'utero si dilata si parla di centimetri, ma stanno succedendo molte cose nella vita psicologica ed emozionale della donna... cose che influenzano quell'apertura[8]. E., Ostetrica

Il tempo del travaglio è quello dell'apertura del corpo, è il limen nel rito di passaggio alla maternità. Le contrazioni si ripetono e la donna è presa nel movimento ritmico e ad intensità crescente che accompagna l'esperienza psicocorporea del diventare madre. Nel contesto ospedaliero studiato a molte donne non viene data la possibilità di vivere, cavalcare, immergersi nel tempo dell'apertura del proprio corpo per dare alla luce una nuova vita, perché subiscono un susseguirsi di pratiche mediche routinarie rispetto alle quali non si chiede loro opinione né consenso e che, non dando tempo al tempo, le spodestano dalla padronanza di se stesse. Ad esempio, nonostante la dilatazione del collo dell'utero che si verifica nel travaglio sia un fenomeno psico-biologico-funzionale a carattere oscillatorio che dimostra una grande variabilità intersoggettiva (Barcellona et al. 2013; Bestetti et al. 2014;), essa viene disciplinata attraverso pratiche ostetriche sulla base di un protocollo, il partogramma, che stabilisce gli intervalli di tempo entro i quali la di; latazione cervicale deve progredire. I tempi previsti non sono univoci, infatti, mentre il partogramma previsto dall'OMS e quello consigliato dal Ministero della Salute della Repubblica Argentina normano l'aumento della dilatazione di due cm ogni quattro ore, nell'ospedale in questione è stato adottato un protocollo che prevede “normale” una dilatazione cervicale di due cm ogni due ore. Ciò comporta che il procedere della dilatazione, e quindi l'evolversi del travaglio, debba essere controllato ogni due ore attraverso delle esplorazioni manuali della cervice, denominati tatti vaginali.

Da una parte si può comprendere la necessità di riferirsi al partogramma nella pratica ostetrica collegandola alla più ampia tendenza difensiva della medicina. Alcuni medici hanno infatti riferito che affidarsi alle linee guida, per quanto non si confacciano alle esigenze ed alle specificità individuali delle donne, li fa sentire maggiormente tutelati legalmente di fronte ad eventuali complicazioni. C’è però da aggiungere che l'osservazione di campo ha rivelato che gli esami vaginali ed altri interventi ostetrici spesso anticipano i tempi regolamentati dal partogramma ed accelerano il corso del travaglio al di là delle indicazioni del protocollo ospedaliero. Tale arbitrarietà nell'operare spiega in parte perché, in occasione dei controlli prenatali e del corso preparto, venga suggerito alle donne di presentarsi in ospedale in fase di travaglio più avanzato possibile, infatti “se una donna arriva qui con quattro [cm di dilatazione] si ha il tempo di farle di tutto”[9]. Si deduce che il non prendere in considerazione le necessità delle partorienti può dipendere, oltre che come visto nel paragrafo precedente, da fattori di natura organizzativa (numero delle stanze e delle pazienti), e dalla normatività medica indicata nel partogramma (avvolta pur sempre da un'aurea di arbitrarietà se si assume l'unicità dello svolgersi di ogni travaglio), anche da altre variabili che concernono più strettamente la sfera dell'individualità di ciascun operatore, come ad esempio lo stile di lavoro (più o meno interventista, più o meno alla ricerca della relazione) e, nel caso degli specializzandi, le necessità di apprendimento che prendono i modi di vere e proprie competizioni.

Al riguardo è interessante soffermarsi sulla lavagna che occupa l'ingresso del reparto maternità sulla quale sono segnalate le informazioni relative alle dieci stanze destinate alle “pazienti”[10]. Essa risulta essere un punto di attenzione nevralgico nella gestione dei travagli e dei parti, nonché luogo simbolico di contesa tra i vari specializzandi i quali scrivono il proprio nome al fianco, talvolta sopra, a quello della donna che stanno seguendo per impedire che altri possano “fare il parto” al loro posto. La lavagna è la prima cosa che le ostetriche guardano quando entrano in reparto per valutare l'andamento dello stesso e al suo cospetto vengono prese decisioni ed effettuate valutazioni. Un'ostetrica afferma: «ad alcuni dà fastidio vedere che la lavagna è piena, che la donna sta con otto [di dilatazione] e non le si abbia rotto il sacco amniotico. Gli manca la pazienza, si fanno prendere dall'ansia»[11]. Il fattore ansia, che alimenta il bisogno di controllo dello svolgersi dei processi fisiologici, frequentemente porta ad interventi immotivati e all'accelerazione del travaglio. Entrare nel tempo della nascita, «nei suoi ritmi spesso imprevisti», infatti è difficile (Bestetti et al. 2010: 142) e «solo la pratica ti dà la sicurezza di sapere se devi aspettare o non devi aspettare”[12]. Si ipotizza che il “potere del fare» (Colombo 1992: 173) svolga una funzione contenitiva e «regolativa dell'ansia» (Bestetti et al. 2014) configurandosi come un tentativo di dominare il tempo e di sovrastare la complessità degli eventi. Il riempirlo e saturarlo di interventi risponde invece ad una specificità della pratica medica la quale, in continuità con l'ostetricia di fine '800 che, come descritto nella citazione in apertura del paragrafo, voleva interferire ed appropriarsi del tempo di apertura del corpo creativo della donna con metodi e strumenti meccanici, oggi continua ad esprimersi con l'azione e l'iniziativa (farmacologica e non) «anche quando la situazione richiederebbe piuttosto un rapporto di ascolto e di interazione» (Colombo et al. 1985: 35).

La qualità della relazione è nella prassi trascurata tanto che una donna racconta: «non c'era nessuno della mia famiglia con me quindi volevo che ci stesse sempre qualcuno, anche solo scrivendo nella cartella. Venivano diversi di loro e mi controllavano. Ma meglio così che stando sola...». Dal racconto di questa donna possiamo notare come in mancanza di un sostegno regolativo delle emozioni e degli affetti, pur di non rimanere da sola, ha dovuto accettare di esistere esclusivamente come paziente (attraverso la sua cartella clinica) e come corpo (da controllare). Eppure l'importanza del rapporto che si stabilisce con chi accompagna la donna, così come la complessità delle variabili in gioco durante il travaglio, è riconosciuta dai professionisti intervistati i quali sanno che «se non si tiene in considerazione la parte emotiva, può fallire tutto il travaglio»[13] e che può influenzare l'andamento del travaglio «aprire la porta in continuazione, accendere le luci quando sono spente, gli esami vaginali quando non si è stabilita una connessione con la paziente» [14]. Anche il susseguirsi degli esami tattili, piuttosto dolorosi ed invadenti tanto da poter allarmare la donne e così inibire l'evoluzione del travaglio, dimostrano la tendenza degli operatori a cercare la legittimità del proprio operato soprattutto nella dimensione interventista trascurando quella che si potrebbe definire la parte più umana, ovvero relazionale ed emotiva, dell'evento nascita. Nei fatti il travaglio viene ridotto dalla cultura ospedaliera ad una prestazione meccanica che si esprime in indici normati e misurabili (susseguirsi delle contrazioni e dilatazione del collo dell'utero nel tempo), correggibili e controllabili dall'intervento ostetrico (uso dell'ossitocina, di prostaglandine, rottura del sacco amniotico), mentre allontana la complessità umana dell'esperienza del diventare madre: «Ciò che accade e che questa parte [meccanica] prende il posto anche della parte censurata, si amplifica e diventa tutto» (Colombo 1992: 171).

... nel parto

Anche la fase espulsiva ha una durata variabile essendo garante del suo svolgersi non il tempo bensì il benessere del nascituro. Il tempo in questa fase, che nel vissuto dei professionisti appare accelerato e sembra assumere caratteristiche di urgenza, è parzialmente restituito alla donna che ha il grande compito di impiegare tutte le sue forze per spingere il bambino fuori da sé. “Parzialmente” perché non è inconsueto che alla donna, tra le «parole del parto» (Giacomini 1985: 49) che le sono rivolte e le esortazioni («spingi! Bravissima! Ci sei quasi! Dipende solo da te!»), ci siano anche richieste di collaborazione («su! Tieniti le gambe!», «Collabora!», «Chiudi la bocca!», «Aiuta le bambine [infermiere]») congruenti a quell'agire che vuole la donna paziente al servizio dell'istituzione ospedaliera, piuttosto che il contrario. Anche in questa occasione la donna si trova in una posizione subordinata rispetto agli operatori e viene guidata sulla base di quello che “serve alle ostetriche” perché il parto vada a buon fine: «spingi e non gridare! Il bambino non esce dalla bocca! Il rumore non mi serve!». La contraddizione lampante è che:

[…] si chiede alla donna di essere attiva, di partecipare alla nascita di suo figlio, ma la situazione rigidamente medicalizzata attraverso le procedura rovescia la partecipazione in pura adesione alle prescrizioni del personale. (Colombo et al. 1985: 120).

Durante la ricerca si è assistito anche a parti in cui veniva indotto un senso di inadeguatezza e colpevolizzazione, riscontrato poi nelle interviste alle donne, essendo rimarcata l'insufficienza delle spinte e il dolore provato dal bambino: «Spingi che il tuo bambino può soffocare! Se tu soffri, lui più di te!». Questo tipo di gestione del parto colloca coloro che lo assistono ben lontano da alcune delle funzioni che dovrebbero svolgere: comprensione, ascolto, contenimento e centratura dell'ambivalenza emotiva. Il momento del parto è caratterizzato da una profonda ambivalenza che vede la compenetrazione di sensazioni e vissuti opposti come ad esempio il voler lasciare andare il bambino e volerlo trattenere, la coesistenza di dolore e gioia, il lambire i territori del dare alla vita mentre si provano dei “dolori di morte”, il sentirsi profondamente fragili e contemporaneamente forti. Quella del parto risulta quindi essere un'esperienza apicale che può soggiogare la donna, darle un senso di impotenza e inadeguatezza, così come rafforzarla e nutrire l'autostima. Ad esempio, una donna racconta:

Non facevo la forza giusta perché ero nervosa. Pensavo che non potevo. Non ascoltavo i dottori. Mi avevano fatto molte iniezioni, però non so... so che ero nauseata. E poi c'era una persona che mi spingeva da sopra. Sembra che era per aiutare[15].

Si può ipotizzare che il nervosismo non fosse esclusivamente un fattore intrapsichico, quanto il risultato anche del contesto e dell'uso di farmaci, che hanno controindicazioni troppo spesso taciute. La spinta a cui fa riferimento la donna è la manovra di Kristeller[16], la quale nonostante non sia raccomandata dall'OMS ed i suoi benefici non siano validati scientificamente, viene utilizzata perché funzionale nell'accelerare la nascita. Ma guardando al di là delle controindicazioni mediche, è una manovra che porta con sé implicazioni psicologiche relative alla padronanza e al controllo sulla nascita del proprio figlio, che la testimonianza a seguire può illuminare:

Ci sono delle donne che hanno difficoltà a lasciare andare il bambino… la donna di stamani spingeva benissimo, poi quando le abbiamo detto che il bimbo stava uscendo lei si è fermata, e tratteneva, diceva “non posso, non posso”. Fino a quando il suo corpo... le fu impossibile frenarlo... e dovette lasciare andare il bambino. Io avrei potuto stimolarle il perineo, farle un Kristeller, però ho preferito che lo facesse da sola. Ho pensato che doveva avere il suo tempo per separarsi, da sola. E l'ha fatto sola. Quando lo doveva fare[17].

L'uso del forcipe è un'altra pratica, non priva di serie controindicazioni, che sottrae alla donna la possibilità di sperimentare il proprio potere generativo. Una gestione della nascita, alla quale ho assistito, agli antipodi di quella appena esposta, è quella di una giovane donne, alla terza gravidanza, che stava affrontando le contrazioni affiancata da suo marito. La sua stanza si trovava proprio affianco della lavagna già menzionata e di tanto in tanto io mi affacciavo timidamente incuriosita ad osservare attraverso l'oblò quella donna in travaglio. La donna, per le sue caratteristiche (giovane, al terzo figlio e in buona salute) fu però eletta da un medico per far esercitare la sua specializzanda all'uso del forcipe. Al di qua della porta, laddove io sostavo, osservavo, ascoltavo, il medico e la specializzanda decidevano quali interventi praticare e con che tempi. In primo luogo somministrarono ossitocina, spiegando però alla donna che le sue contrazioni non erano abbastanza forti. Successivamente all'applicazione della flebo la specializzanda si allontanò per andare a cena lasciando che il farmaco facesse effetto. Effetto che si tradusse velocemente in espressioni di dolore ed in contrazioni visibilmente diverse da quelle che la donna sperimentava prima della somministrazione del farmaco. Al suo ritorno, dopo all'incirca mezz'ora, la specializzanda andò a chiamare il medico. Entrarono allora nella stanza e, dopo un esame vaginale che confermava una dilatazione tale da permettere un uso agevole del forcipe, prepararono i ferri con i quali, procedendo per tentativi ed errori (il forcipe le scivolò più volte dalle mani), la specializzanda estrasse il bambino dal corpo della donna. Non si trattò di una procedura agevole e il neonato fu immediatamente ricoverato in neonatologia. Ricovero causato, a detta delle ostetriche e degli altri specializzandi lì presenti, dall'uso del forcipe.

La donna, da me intervistata due giorni dopo il “parto” quando ormai il bambino era fuori pericolo, ovviamente ignara dell'essere stata oggetto di un'esercitazione, mi raccontò ciò di cui l'avevano convinta: l'intervento medico era stato necessario perché il bambino non era posizionato bene e, solo attraverso l'uso del forcipe ed il successivo intervento del neonatologo, il suo bambino era salvo. Queste procedure, arbitrarie quanto illegali, oltre a mettere in pericolo di vita la diade madre-bambino, hanno restituito a questa donna un'idea d'imperfezione e di disfunzionalità del proprio corpo secondo quel processo di “medicalizzazione della vita” che tende a mistificare e ad espropriare il potere dell'individuo di guarire sé stesso e di modellare il proprio ambiente (Illich, 2004).

... alla nascita

L'esistenza di un periodo critico per lo stabilirsi del vincolo affettivo tra madre e neonato alla nascita è stata dimostrata fin dagli anni '70 (Klaus et al. 1976). Garantire la vicinanza e l'intimità per favorire l'instaurarsi del bonding neonatale è un principio teoricamente abbracciato e sostenuto nella maternità dove questa ricerca è stata svolta. La tutela di questo legame trova come ostacolo la gestione routinaria del tempo che segue la nascita, un tempo pieno di azioni, produttivo, contraddistinto da un'ansia di agire, spesso autolegittimante e non basata sulle evidenze scientifiche (come già visto nel caso della manovra di Kristeller, dell'uso dell'ossitocina sintetica). Sulla gestione dell'incontro della diade madre-figlio alla nascita nello spazio istituzionale, un'ostetrica, in occasione di un corso preparto, spiega alle presenti che «l'attaccamento ideale si ha solo quando in reparto c'è un solo neonatologo che corre di qua e di là e che arriva da voi dopo mezz'ora dal parto», avviene quindi nell'assenza degli addetti ai lavori.

Quando il bambino nasce, l'identificatore-testimone legge l'orologio e annuncia l'ora esatta a gran voce. Il tempo in cui il neonato viene lasciato con la madre ed è ancora attaccato al cordone ombelicale, tempo prezioso per un primo ri-conoscimento, varia a seconda della sensibilità e volontà degli operatori presenti. Chi taglia il cordone, talvolta avventatamente quando ancora sta pulsando sangue e quindi ossigeno, intervento che potremmo ricondurre a quella tendenza che ha cavalcato la medicalizzazione del nascere denominata in letteratura “inflazione ostetrica” (Chalmers 1985), consegna il bambino al neonatologo che lo visita e ne acquisisce i dati: lo mette su una bilancia e lo pesa, gli allunga una gamba per misurarlo in lunghezza, lo incorona con un metro per prendere la misura della circonferenza del cranio. Il bambino passa poi nelle mani dell'identificatore che, macchiandogli i piedi di inchiostro, ne rileva le impronte. Restituito il bambino alla madre, procede con la compilazione dei moduli e alla rilevazione della impronte digitali della madre[18]. Risulta chiaro che questo tempo, che dovrebbe essere di intima vicinanza, viene sottratto alla diade madre-bambino per essere ceduto a prassi che «annullano la magia»[19], che rispondono al principio di efficienza organizzativa dell'istituzione, ancora una volta prioritario rispetto alle esigenze dei destinatari della stessa.

Si manifesta in tutta la sua (in)comprensibilità l'irrazionalità della razionalità ospedaliera quando, nei parti in cui la fisiologia della nascita è stata violata, si devono cucire le ferite prodotte dallo strappo dei tessuti o dall'episiotomia[20]. Se infatti la razionalità organizzativa dell'istituzione vorrebbe ridurre i tempi dell'assistenza nella sua totalità, risulta però che non rispettando la fisiologia del travaglio e del periodo espulsivo, i tempi dell'assistenza si allungano notevolmente nella presa in carico del corpo nel post-partum. Non rispettare la fisiologia[21] aumenta infatti le probabilità che i tessuti si lesionino e che si faccia ricorso all'episiotomia. In entrambi i casi è necessario un tempo importante, successivo alla nascita del bambino, perché le ferite possano essere suturate. Ed allora non sembra che il richiamo alla logica organizzativa sia sufficiente a spiegare tale gestione affrettata dei travagli e delle nascite, e si afferma qui l'esigenza di esplorare più a fondo le logiche molteplici che sottendono tale incongruenza.

L'esperienza di una giovane ostetrica permette di passare alle implicazioni pratiche di quanto fin qui esposto. In un'intervista ha infatti raccontato di aver assistito ad un parto che era stato, senza ragionevoli motivi clinici, affrettato tormentosamente dalla sua responsabile, la quale aveva prima proceduto con la dilatazione manuale del collo dell'utero e successivamente aveva effettuato l'episiotomia. La responsabile, ritiratasi dalla scena del parto, l'aveva poi lasciata a ricucire questa donna. L'ostetrica in questione affermava di essersi sentita come “in una macelleria, stavo cucendo della carne”[22]. Una donna, in maniera complementare, racconta sofferente che mentre la ricucivano si era sentita “un pezzo di carne”[23]. La stessa ostetrica protagonista di questa storia, mi ha raccontato che le era stato imposto un turno di punizione per essersi trattenuta con una donna dopo il suo parto. Agli specializzandi di ostetricia e ginecologia viene infatti impedito di trattenersi con la donna e il bambino perché devono affrettarsi ad inserire nel data-base dell'ospedale i dati di quella nascita. Un ritardo nello svolgimento di questo compito è seguito da una punizione (un turno di guardia non pagato). Vediamo qui come anche in questa fase la prassi organizzativa disincentiva lo stabilirsi della relazione tra presi in cura e personale sanitario. Quasi a volere insegnare che dopo che è nato il bambino e la donna ha partorito, dopo essere stati assolti i compiti sui corpi, non rimane più niente da fare.

Tempo e dolore

La questione del dolore è centrale nelle idee, nelle paure e nelle fantasie che ruotano attorno al parto, nonché nella sua gestione in relazione alla variabile tempo. Convinzione condivisa tra i professionisti intervistati è che quanto meno durino i dolori del parto meglio è per la donna. Tale valutazione si traduce nella pratica dell'accelerazione dei travagli attraverso la somministrazione dell'ossitocina sintetica [24] o nel forzare il periodo espulsivo attraverso l'uso del forcipe, la manovra di Kristeller, l'episiotomia ed altre tecniche manuali per tirare fuori il bambino dal canale del parto. Il criterio della durata del dolore prevale su altri, quali l'intensità e la significazione possibile dello stesso.

A contraddire questa ipotesi sono, oltre alle voci delle donne ascoltate, i dati di una ricerca condotta a Cambridge nel 1974 nella quale alle donne a cui venne somministrata ossitocina era chiesto cosa ne pensassero prima e dopo il parto. La percentuale delle donne primipare il cui giudizio era negativo aumentava dal 45% per cento prima al 74% dopo il parto. Tra le multipare le cifre erano del 64% prima e del 69% dopo. Le donne adducevano molte ragioni della sgradevolezza di quel metodo: la velocità del travaglio impediva al corpo di assuefarsi alla nuova situazione di modo che le contrazioni risultavano essere più dolorose, diminuiva l'importanza della nascita come esperienza perché la velocità rendeva il momento del parto più difficile da accettare, la rapida successione delle doglie conduceva al panico impedendo di controllare il proprio ritmo respiratorio (Macfarlane 1980). Una donna intervistata si fa testimone di qualcosa di simile «le contrazioni sono la cosa peggiore, ma ancora di più quando usano l'ossitocina, perché ti vengono più rapide e più forti. Ti rigirano»[25]. Posizione interessante è quella di Lamaze che «apre una breccia nella medicalizzazione del tempo» (Le Breton 2010: 200) mostrando come la fisiologia non sia l'unica causa del dolore che è invece influenzato da molteplici fattori di natura ambientale. Egli ravvisa nella passività davanti a tecniche applicate al proprio corpo, nell'essere privata delle risorse personali e disarmata davanti al personale medico, la vera fonte della sofferenza. Lamaze, fautore di un metodo psicoprofilattico che favorisce che la donna sia lucida ed attiva durante il travaglio, sostiene che assumere un ruolo attivo nel mettere al mondo il proprio figlio trasformi il «dolore ambiguo da fonte di sofferenza in fortemente significativo all'interno della storia personale» (Le Breton 2010: 202). Questa posizione non è lontana da quella di Illich che sostiene che vi sia un rapporto diretto tra mantenimento della salute e capacità di rimanere responsabili del proprio comportamento nella sofferenza. Illich nota come il dolore sia diventato oggetto di controlli da parte del medico al punto che sia egli stesso a decidere quali sono i dolori autentici, quali hanno una base somatica e quali una psichica, quali sono immaginari e quali simulati (2004: 141). Una donna in un'intervista lamenta di aver sperimentato tale presunzione:

Io so che loro sanno. Però non tutti gli organismi sono uguali. “Io ho mio figlio che viene così e a me non fa male come lei mi dice che mi deve far male”. Loro non capiscono che tutti gli organismi sono diversi. È come che quello che loro hanno studiato è così per tutti. Non è così. Lei mi stringeva il ventre e io le ho detto “mi fa male”, e lei mi dice “come ti fa a fare male lì, ti deve far male più giù”[26].

Se come sostiene Illich (2004) la cultura rende tollerabile il dolore integrandolo in una situazione carica di senso, si vede però come la cultura biomedica concettualizzi il dolore del parto come un qualcosa di innecessario, superfluo, e quindi auspicabilmente eliminabile e potenzialmente accorciabile nella durata attraverso le sue tecniche, in conformità con un sistema di pensiero, emerso anche durante le interviste ai professionisti sanitari, che dà una grande importanza al prodotto del parto, ovvero al bambino sano, e poco alla qualità del processo che la diade madre-bambino attraversano (Schmid 1992). Il processo risulta invece essere molto importante e carico di significato per questa donna, il cui travaglio era stato indotto, che spiega: «volevo che i dolori venissero soli, e che il bambino lavori, che non mi affrettassero insomma... io volevo che il bambino da solo rompesse il sacco. Non volevo che mi affettassero»[27].

Conclusioni: a chi appartiene il parto?

Il tempo è la vita del corpo. Il tempo non è, ma si fa. Il tempo non appartiene al parto ma al corpo della donna nel suo rapporto con i fattori intrinseci ed estrinseci del parto. Giovanna Bestetti, Anita Regalia e Roberta Spandrio, Fisiologia della nascita. Dai prodromi al post-partum, 2014 Comprender que el parto es un proceso involuntario que pone en juego estructuras arcaicas, primitivas, mamíferas del cerebro nos lleva a rechazar esta idea preconcebida según la cual la mujer puede aprender a dar a luz. No se puede ayudar a un proceso involuntario, sólo se puede procurar no perturbarlo demasiado. Michel Odent, El bebè es un mamifero, 1990

Se le necessità organizzative dell'istituzione, le linee guida di un protocollo, o l'ansia di un operatore possono dettare il tempo di una nascita, risulta legittimo chiedersi: a chi appartiene il parto? Nel linguaggio adottato in ospedale la donna non partorisce ed il bambino non nasce. Il parto è dei professionisti, letteralmente “fatto dai professionisti”. È infatti all'ordine del giorno sentir dire ad un medico o ad un'ostetrica “ho fatto il parto”, domandarsi tra professionisti “quanti parti hai fatto?”, o in alternativa ascoltare la forma impersonale del “si è fatto il parto della 8?”, “si fa il parto della stanza 7!”. Ma allora quando la donna partorisce? Quando il bambino nasce? La donna, nel linguaggio, proprio non c'è, mentre il bambino esiste nell'ordine di una mancanza. A tale mia osservazione un medico commenta:

Il linguaggio smaschera molte cose. Quello che uno dice non è un caso. In questa opera di teatro il primo attore non è il medico. È la mamma. Noi solo stiamo nel retroscena. Questo lo sappiamo ma non ce lo abbiamo dentro. Quando lo avremo dentro per davvero, allora non diremo più “ho fatto il parto”, diremo che lei ha fatto il parto. Oggi, noi ancora ci crediamo i primi attori[28]

L'ospedalizzazione totale del parto ha tolto la donna dal centro dell'evento, per sostituirla con il medico che agisce secondo le proprie modalità, atte naturalmente a giustificarne l'indispensabile presenza. La gestione e la conduzione del parto ha in particolare tolto alla donna la certezza di essere adeguata a far nascere un bambino solo con le sue risorse, iniziando così una dipendenza dalla figura del medico e dalla macchina come uniche garanzie per un buon esito del parto. (Colombo et al. 1985: 36)

Oggi, alla luce di questa ricerca, mi sembra necessario mantenere un approccio critico davanti a un modello di parto umanizzato che, sotto nuove ingannevoli spoglie, vuole perpetrare il dominio sul potere generativo della donna dandole continue prove della sua ignoranza e della sua inadeguatezza, non fornendole informazioni necessarie, medicalizzando il travaglio, catturandola nel tempo e nel linguaggio. Un accaduto mi sembra emblematico per spiegare come questo dominio si realizzi nel “bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale”. Dal diario di campo:

Il pianto si sente dal corridoio. V., l'ostetrica, mi dice di entrare con lei nella sala parto da cui proviene. C'è una signora, M., che attaccata alla flebo con l'ossitocina, sola, è piegata dal dolore. V. le fa coraggio, le prescrive di camminare e va via. Rimango al fianco di M., lei non smette di piangere e quando arriva la contrazione si irrigidisce tutta. Torna V., le dice “apri la bocca”. La donna la apre e lei le somministra delle gocce. “Cos'è?” chiede M. “sono fiori. Servono per tranquillizzarti”. “E questa cos'è?” continua M. riferendosi alla flebo. “Ossitocina, serve per le contrazioni” risponde l'ostetrica. Poi va via.

Nell'aspirare all'umanizzazione della nascita le ostetriche stavano introducendo l'uso dei fiori di Bach nel reparto. Ma dal resoconto si vede come l'estratto floreale sia somministrato alla pari di qualsiasi altro farmaco, senza informare, senza cercare consenso, senza relazione. Questa scena prova che una vera umanizzazione del parto non può risultare dalle tende colorate o dalla stanza individuale. Né dai fiori di Bach. Anche, probabilmente, ma non solo. Essa non può, invece, prescindere dal restituire alle donne il parto riconoscendo il ruolo che spetta loro, quello di soggetti cognitivi e decisionali. Il ruolo di protagoniste.

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[1] Ad esempio, come mette in evidenza l’ostetrica Verena Schmid, nonostante durante il travaglio la donna percepisca il bambino al suo interno muoversi “come un uragano”, questa esperienza diretta non la sottrae in determinati contesti alla pratica del monitoraggio continuo, esame che fornisce informazioni circa la vitalità del bambino (attraverso misure come la frequenza cardiaca dello stesso) costringendola però all'immobilità. L'idea che la donna non sia in grado di comprendere ciò che le succede può essere riprodotta oltre che nelle pratiche, come nell'esempio appena riportato, nei discorsi. Ad esempio, in occasione di un incontro di preparazione al parto offerto dall'ospedale e da me frequentato in qualità di osservatrice, un'ostetrica spiegava ai presenti che «la donna in travaglio è incapace di intendere e di volere». (http://verenaschmid.eu/articoli/la-donna-al-centro-le-implicazioni-per-la-pratica-ostetrica. (Sito internet consultato il 20/03/2016).

[2] Intervista n° 13. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 15/09/2014 con F., medico ginecologo.

[3] I medici trascorrono la maggior parte del loro tempo in una amplia stanza con televisore e cucinino che si chiama “el estar” (letteralmente, “lo stare”). Sono impegnati prevalentemente nei parti cesarei ed entrano nel reparto dove si trovano le dieci stanze individuali di travaglio e parto quando si presenta qualche complicazioni o se devono seguire da vicino gli specializzandi.

[4] Intervista n° 4. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 07/09/2014 con C., ostetrica.

[5] Intervista n° 7. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 23/09/2014, con E., ostetrica.

[6] Intervista n° 12. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 02/09/2014 con U., medico ginecologo.

[7] Legge nazionale 25.929 del 2004 non ancora recepita a livello di tutte le singole provincie della Repubblica. Nel caso della Provincia di Salta non era stata regolamentata nel periodo in cui la ricerca si è svolta, trovando invece regolamentazione nell'ottobre 2015 attraverso il decreto 2035/15. È conosciuta come “Ley de Parto humanizado” ed è volta alla tutela dei diritti della donna, del neonato e dell'intera famiglia. Prevede, per esempio, che siano date informazioni sui differenti tipi di intervento a cui una donna può essere sottoposta durante il processo di parto; ad essere trattate nel rispetto della propria individualità e dei propri tempi biologici e psicologici; ad essere considerata come persona sana e quindi in condizione di essere protagonista del proprio parto; a non essere sottomesse a pratiche il cui scopo sia di ricerca o esercitazione; a scegliere da chi essere accompagnata durante il travaglio, il parto e il postpartum; di poter muoversi liberamente e scegliere la posizione in cui partorire; che sia garantito l'attaccamento neonatale e che la madre non sia separata dal suo neonato se non per motivi clinici.

[8] Intervista n° 7. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 23/09/2014, con E., ostetrica

[9] Intervista n° 4. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 07/09/2014 con C., ostetrica.

[10] Nome e cognome della donna, numero di parti precedenti, dilatazione del collo dell'utero, ora dell'ultimo tatto vaginale, stato della membrana, altre osservazioni (in generale relative agli interventi effettuati).

[11] Intervista n° 2. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 30/08/2014 con E., ostetrica.

[12] Intervista n° 5. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 09/09/2014 con S., ostetrica.

[13] Intervista n° 11. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 16/09/2014 con F., medico.

[14] Intervista n° 5. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 15/09/2014 con B., ostetrica.

[15] Intervista n° 25. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 25/08/2014 con M., donna puerpera di 21 anni.

[16] Manovra ostetrica che consiste nell'applicare, durante il periodo espulsivo e in concomitanza con la contrazione, una pressione, con le mani o anche con l'avambraccio, dalla parte più alta dell'utero verso il basso. È una prassi frequente seppur non sia stata sostenuta da evidenze scientifiche ed è fortemente sconsigliata perché associata alla rottura dell'utero e a complicanze neonatali.

[17] Intervista n° 8. Realizzata presso l'HMPI di Salta il 01/09/2014 con E., ostetrica.

[18] Dato interessante è che 8 donne su 15 non ricordavano di quando gli erano state prese le impronte. La schedatura avviene infatti subito dopo il parto, invadendo la donna quando è in uno stato di forte sconvolgimento psico-emotivo.

[19] Intervista n° 22. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 18/09/2014 con R., donna puerpera di 27 anni.

[20] Incisione del perineo che viene effettuata per ampliare l'apertura vaginale, il cui ricorso dovrebbe essere limitato a situazioni di urgenza in cui si riscontrino alterazioni del benessere del feto (Belizan, Carroli 2012).

[21] Si fa riferimento a prassi quali l'imporre posizioni, come quella litotomica, non adatte alla naturale discesa del feto lungo il canale del parto; la somministrazione di ossitocina sintetica che stressa i tessuti a causa di contrazioni più forti in intensità di quelle scaturite dall'ossitocina endogena; l'affrettare il periodo espulsivo con la dilatazione manuale, ovvero forzando manualmente il collo dell'utero.

[22] Intervista n° 7. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 23/09/2014 con E., ostetrica.

[23] Intervista n° 22. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 18/09/2014 con R., donna puerpera di 27 anni.

[24] L'ossitocina è un ormone normalmente prodotto da donne e dagli uomini. Il suo coinvolgimento nella motilità uterina fa si che venga utilizzato per indurre o accelerare il travaglio. È anche coinvolto nei processi di regolazione affettiva, tanto da essere chiamato “ormone dell'amore”.

[25] Intervista n° 19. Realizzata presso l'HMPI di Salta il 27/08/2014 con A., donna puerpera di 28 anni.

[26] Intervista n° 23. Realizzata presso l'HMPI di Salta il 05/09/2014 con F., donna puerpera di 25 anni.

[27] Intervista n° 19. Realizzata presso l'HMPI di Salta il 27/08/2014 con A., donna puerpera di 28 anni.

[28] Intervista n° 12. Realizzata presso l'HPMI di Salta il 02/09/2014 con U., medico ginecologo.