Abitare le resistenze

Il caso del quartiere Aurora a Torino tra immigrazione, lotta per la casa e gentrification

Erasmo Sossich

Ricercatore indipendente

Indice

Introduzione
Valdocco
Ritratto della quotidianità: relazioni inter-etniche nel rione
Il movimento per la casa e l’occupazione del Neruda
La costruzione di uno spazio aperto
Compartimentazione ed etnicità
Strategie di legittimazione e costruzione dello spazio tra decoro e riqualificazione
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. This contribution investigates the action of the Spazio Popolare Neruda, a housing squat where dozens of families of different nationalities cohabit, in the neighborhood of Valdocco. Turin’s district of Aurora (where Valdocco is located) is close to the historical center and focus of rapid gentrification processes; it is also characterized by the historical presence of a high percentage of foreigners and by rapid social change. The article proceeds by analyzing the difficult post-industrial transition of the neighborhood, mainly characterized by the loss of industrial working class identity and by international immigration. The attention is then brought on the use of space made by residents, highlighting how the spatial proximity between the different inhabitants corresponds to a deep social distance. We then proceed with the analysis of the strategies and the practices adopted by the inhabitants of Neruda and the housing rights movement, aimed on the one hand at opposing everyday life segregation through mutual and cultural activities, and on the other hand at claiming housing rights and the right to the city. To conclude the article brings forward the opposition to the urban regeneration policies, deemed as responsible for a selective inclusion and exclusionary operation, however promoted by the combination of rhetorics of participatory governance and urban decorum.

Keywords. Urban anthropology; housing rights movement; gentrification; inter-ethnic relations; militant research.

Figura 1. "The Queen". Foto di un'opera realizzata da Stefania Gallina - Mapu Lab. Il murale fu dipinto sulle mura esterne dello Spazio Popolare Neruda, presso Corso Cirié 7, in occasione della prima Festa d'Estate del quartiere Valdocco, il 16 e il 17 maggio 2018. In seguito l'opera è stata inserita nel catalogo del Museo di Arte Urbana di Torino (MAU). https://mauamuseum.com/works/it-used-to-be/ (Foto tratta dalla pagina Facebook “Le famiglie dello Spazio Popolare Neruda”)

Introduzione

Lo Spazio Popolare Neruda è un’occupazione abitativa situata nel rione torinese di Valdocco, al numero 7 di Corso Cirié. È una struttura di inizio ‘900, dallo stile sobrio e funzionale, ampia al punto da occupare un intero isolato. Si articola tra diversi edifici tra loro connessi, alcuni a un piano, altri a due e tre piani, con un cortile interno e varie terrazze. Sulla facciata vicina al portone, dove i mattoni rossi si alternano alla muratura dipinta di giallo, tra due finestre spicca un murales: ritrae il volto di una donna nera, vestita di rosso. Osserva la strada con sguardo sereno e deciso.

Nell’occupazione convivono una ventina di famiglie di origine marocchina o nigeriana, decine di giovani titolari di diverse forme di protezione internazionale, numerosi studenti fuori sede e lavoratori italiani. Tra questi nessuno è originario di Valdocco.

Tra le famiglie, spesso residenti a Torino da più di 15 anni, c’è chi viveva da anni nella vicina Porta Palazzo, chi in Barriera di Milano, chi alle Vallette o a Mirafiori, ed è stato sfrattato. Tra i più giovani, spesso di origine subsahariana, molti sono arrivati al Neruda cercando ospitalità per qualche notte nella stanza di un amico, di un cugino, di un fratello. Sono quasi tutti arrivati a Torino a partire dal 2011, e molti, dopo essere passati dalla Libia, per un CAS[1] e per l'Ex Moi[2], non se ne sono mai andati dal Neruda. C’è infine chi ha scelto di abitare qui per portare avanti un progetto politico, a volte cambiando città, a volte cambiando solo quartiere. Il presente articolo affronta l’impatto di questa presenza sul rione circostante.

Valdocco, caratterizzato dalla presenza di un’alta percentuale di stranieri e parte del quartiere Aurora, è situato a ridosso del centro e poco lontano dal mercato di Porta Palazzo e da Borgo Dora, un’area al centro di rapidi processi di gentrification (Semi 2015).

Il testo prende le mosse dalla difficoltosa transizione post-industriale del quartiere, segnata in particolare dalla perdita dell’identità operaia e dall’immigrazione internazionale, concentrando lo sguardo sull’utilizzo dello spazio da parte dei residenti, ed evidenzia come alla prossimità spaziale tra i diversi abitanti corrisponda una profonda distanza sociale. Si procede quindi all’analisi delle strategie e delle pratiche adottate dagli abitanti del Neruda e dal movimento per la casa, volte da un lato alla rottura della segregazione nel contesto della vita di quartiere ed alla costruzione di nuove alleanze, dall’altro alla rivendicazione del diritto all’abitare e del diritto alla città. Oltre alle più classiche pratiche del movimento per la casa, quali l’occupazione, il blocco degli sfratti e la negoziazione di soluzioni abitative, viene quindi analizzata l’opposizione alle politiche di riqualificazione. Le presenti riflessioni sul rapporto tra mutamento sociale ed immigrazione si pongono in continuità con la ricerca di campo da me condotta a Torino tra l’autunno del 2017 e l’estate del 2019. Tale ricerca combinava l’osservazione partecipante nell’ambito del movimento per la casa a quaranta interviste semi-strutturate, allo scopo di indagare i processi di integrazione degli immigrati sia nei movimenti sociali quanto tra differenti attori della società civile del capoluogo piemontese. In seguito al mio coinvolgimento nei movimenti urbani che negli ultimi anni hanno contestato l’aggressivo processo di gentrification nell’area di Aurora e Porta Palazzo[3], ho ritenuto utile riflettere sui dati accumulati nel corso della ricerca di campo prestando una maggiore attenzione alle dinamiche di costruzione e trasformazione dello spazio urbano. Il presente articolo è stato quindi elaborato a partire dal draft paper preparato in vista del VII Convegno della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA), svoltosi a Ferrara nel 2019 e dedicato all'antropologia applicata ai territori urbani.

Intendo concludere questa introduzione con una riflessione sul senso di questa ricerca e della pratica antropologica rispetto alla prassi, contribuendo così al confronto ed alla discussione sul tema che ha caratterizzato fin da subito la Società Italiana di Antropologia Applicata (Palmisano 2014).

La presente ricerca è stata concepita fin dal principio come parte integrante di un’azione politica, e quindi di una produzione collettiva, finalizzata alla messa in rete di diverse competenze e prospettive, in rottura con una tradizione abituata ad attribuire alla figura dell’intellettuale una voce privilegiata nell’analisi critica dell’esistente. Nell’esperienza di chi scrive, militanza politica e ricerca sono intimamente intrecciate, in particolare, considerando che chi scrive ha vissuto diversi mesi all’interno dell’occupazione Neruda.

Nonostante la ricerca antropologica in Italia si sia negli ultimi anni sempre più spesso orientata allo studio dei fenomeni di partecipazione politica (Boni 2006; Collettivo RicercAzione 2013; Matera 2015; Apostoli Cappello 2017; Armano 2020), la ricezione e la restituzione di tali ricerche all’interno dei movimenti sociali è limitata, e più ristretta ancora è la ricezione delle precedenti ricerche orientate in questo senso, presenti in particolare tra i cultural studies inglesi e nei post-colonial studies (Mellino 2012). Tale disgiunzione tra ricerca e pratica militante si riflette tanto nell’assenza di una vera e propria antropologia politica dell’immigrazione (Capello, Cingolani, Vietti 2014), quanto nell’assenza di una cultura politica antirazzista che condivida riferimenti teorici comuni.

Sviluppare e diffondere una discussione teorica su questi temi è quindi un passaggio necessario tanto alla trasformazione radicale dell’esistente, al fine di contribuire ad orientare l’azione collettiva dei movimenti antirazzisti, quanto alla comprensione delle trasformazioni che già si stanno verificando. Se osservate tramite lo spettro dei fenomeni migratori (Agamben 2005; Mezzadra 2004, 2017; Mellino 2011, 2012; Sassen 2015) categorie quali cittadinanza, sovranità, stato e nazione, sono investite oggi di nuovi significati. Tale trasformazione investe anche le categorie marxiane: di fronte al problema del conflitto sociale in una società sempre più globalizzata, diversa e divisa, dove genere e razza definiscono i criteri differenziali attraverso cui i soggetti entrano in rapporto con la propria forza lavoro, le migrazioni ci portano a ripensare le categorie dell’organizzazione del lavoro, della divisione internazionale del lavoro, del conflitto tra capitale e lavoro, della lotta di classe (Mezzadra 2017). Infine, un’analisi del mutamento urbano che non prenda in considerazione le attuali forme di messa a valore dello spazio è altrettanto impensabile ( Harvey 2008; Rossi, Vanolo 2015; Semi 2015; Brenner 2016). Si tratta quindi di applicarsi allo studio del “capitalismo postcoloniale” nella sede della “città postcoloniale” europea, nel suo spazio proteiforme e spezzato (Mellino 2012).

Figura 2. Lo Spazio Popolare Neruda, il rione Valdocco ed il quartiere Aurora evidenziati sulla mappa di Torino (immagine elaborata dall’autore).

Valdocco

Valdocco è un quadrilatero dagli isolati disposti a scacchiera, delimitato a nord da Corso Regina, a est da Corso Principe Oddone, a Sud dal fiume Dora Riparia ed ad ovest dal complesso di edifici dell’Ospedale Cottolengo e dal cimitero di San Pietro in Vincoli, che segnano il confine con le aree di Borgo Dora e del Balon. Situato poco lontano dal centro fa parte, come il resto di Aurora, dello spazio pericentrale di Torino (Semi, Tonetta 2019).

Durante i miei primi anni a Torino non conoscevo le origini del quartiere, né sapevo che il Neruda fosse stato, fino ad un recente passato, una scuola tecnica, costruita nel 1922 allo scopo di formare i tecnici e gli operai qualificati delle vicinissime industrie conciarie torinesi. Mentre studiavo nei caldi e moderni locali della biblioteca civica Calvino, non sospettavo che essa sorgesse dove una volta si estendevano le storiche Concerie Durio (Balocco 2009).

Non sapevo che lungo lo stesso viale dove oggi si trova il Neruda gli 800 operai delle Officine Rasetti lanciavano i primi scioperi del marzo 1943. Vedevo le case basse e discontinue, vedevo la pianta quadrata delle vie, vedevo famiglie italiane e straniere, i pochi negozietti di prossimità, i vecchi bar ornati dai calendari dei carabinieri, i forni arabi, i minimarket aperti fino a tarda ora da giovani ragazzi bangladesi e signore nigeriane, il discount dove facevo la spesa incontrando puntualmente gli altri occupanti. Vedevo le scolaresche che sciamavano per le strade al finire delle lezioni, in fuga dalle numerosissime scuole presenti nel quartiere. Vedevo i giovanissimi spacciatori di origine africana in attesa lungo i controviali di Corso Principe, piazzati a una manciata di passi dai numerosi venditori di kebab, barbieri e negozi di elettronica. Vedevo la porta del Neruda aprirsi presto la mattina e non chiudersi mai, perché chi “fa il bidone”[4] lavora anche di notte, e quando torna, con i carrelli stracarichi, è ormai ora di lavorare per gli operai, per i “mercatari”. Vedevo le occupanti attraversare la porta e farsi madri per accompagnare i figli a scuola, per poi farsi badanti e donne delle pulizie, e tornare a casa molte ore più tardi, tenendo per mano i figli di ritorno da scuola. Fino a che grado ero stato partecipe dello sguardo estetizzante e astorico riconducibile alle pratiche di costruzione dello spazio tipiche dei processi di studentificazione? Fino a che punto ero stato partecipe del consumo della diversità, dell’esotico, che portano oggi i ceti medi intellettuali ad insediarsi nei quartieri un tempo considerati degradati (Semi 2004)?

La storia di Valdocco, come d’altronde del vicino Borgo Dora e di tutta Aurora, è stata fin dalle origini legata alle migrazioni. Oltre le mura della città, nelle terre ancora in gran parte coltivate, sorsero infatti le prime officine ed industrie di Torino che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, attirarono prima decine, poi centinaia di migliaia di persone in cerca di lavoro da tutta la regione e oltre. Se nel corso del secondo dopoguerra le officine e le fabbriche della zona persero gradualmente importanza, il quartiere rimase operaio, ospitando una crescente percentuale di famiglie immigrate dal meridione (Badino 2018).

In Valdocco non ci sono quasi più officine, non ci sono fabbriche. A testimoniare il passato di un quartiere protagonista dell’impetuoso sviluppo industriale della seconda metà dell’800 non rimarrebbe che una rarefatta memoria storica se non fosse per la presenza tenace di numerose istituzioni caritatevoli cattoliche, tra cui il quartier generale dei Salesiani. È proprio in quest’area, quando ancora era in larga misura una distesa di campi, che i santi sociali Cottolengo e Don Bosco scelsero di operare. Nel corso di più di un secolo tale presenza ha portato alla costruzione di scuole, ospedali, teatri, oratori, centri sportivi, case editrici, senza dimenticare la monumentale chiesa di Santa Maria Ausiliatrice.

A testimoniare la più recente storia di quartiere operaio e d’immigrazione sono invece i residenti più anziani, che spesso mantengono inalterato il proprio accento barese o calabrese. Alcuni lavoravano lontano, a sud, a Mirafiori, o a nord, verso Settimo. Molti erano invece occupati presso le enormi fabbriche della Pirelli, le ferriere o gli stabilimenti Fiat ubicati immediatamente dopo la massicciata del passante ferroviario di Principe Oddone. Di tali possenti infrastrutture non rimane che il monumentale carapace industriale che sovrasta il Parco Dora, ed un ricordo la cui trasmissione appare tutt’altro che scontata (Migliaccio 2017). Infatti, riprendendo le conclusioni di un articolo dedicato alla questione del rapporto tra trasformazioni urbane ed anziani nel contesto veronese, i residenti più anziani possono essere considerati come i soggetti più esposti a sperimentare la complessità postmoderna del locale, esposti al rischio del crollo della propria rappresentazione soggettiva dello spazio, consolidata nelle immagini, nelle mappe mentali e nella memoria, e sottoposti allo sforzo di adeguare le proprie rappresentazioni alle recenti trasformazioni dello spazio. «Nelle interazioni che avvengono negli spazi di vita quotidiana (...) gli stranieri sono avvertiti come figure di sfondo. Il quartiere è sentito come proprio dagli anziani e le persone immigrate vengono considerate come di passaggio» (Magagnotti 2005: 112). Nuove e antiche migrazioni si sono sovrapposte toccandosi a malapena, e sono pochi gli spazi ed i momenti in cui si possono osservare interazioni tra i nuovi abitanti del quartiere ed i residenti storici (De Martini Ugolotti 2018), complice il fatto che in Valdocco manchi un mercato rionale, potenzialmente teatro di relazioni inter-etniche meno superficiali (Vietti 2018).

A partire dalla fine degli anni ‘80 il quartiere affronta nuovi mutamenti. La lenta e difficile transizione da città simbolo dell’economia industriale e del fordismo italiano verso nuovi modelli di sviluppo colpisce in pieno l’area, che perde il carattere operaio, e diviene area di insediamento di molti immigrati extraeuropei, occupati, in conformità con quella che è la tendenza affermata sia in città che nel resto del Nord Italia, in un mercato del lavoro tanto fortemente segmentato, quanto unito nelle condizioni di sfruttamento e precarietà (Caritas e Migrantes 2015). Secondo i dati del Settore Statistica Città di Torino nel 2010 gli stranieri in Valdocco sono ben 5.513 su un totale di 15.603 residenti, ovvero il 35% della popolazione totale, distribuita con significative differenze lungo le diverse fasce di età: tra i nuovi nati (0-2 anni) gli “stranieri” sono infatti il 65,5% del totale, e la percentuale di stranieri rimane superiore al 50% fino ai 50 anni. Se molti dei nuovi residenti sono impiegati in una varietà di condizioni di lavoro subalterno, presto nelle strade del quartiere si diffondono decine di attività commerciali gestite dagli immigrati stessi, in cui all’auto-imprenditorialità spesso si accompagnano condizioni lavorative non meno dure ed orari di lavoro estenuanti. A tali esercizi commerciali si alternano le attività gestite da italiani rimasti in quartiere. I negozi di prossimità sono rari, a favore del sempre affollato discount, di un paio di minimarket e dell’enorme centro commerciale situato a poche centinaia di metri, oltre Corso Principe, nel vicino e recente quartiere di Spina 3 (Santangelo, Vanolo 2010). Ma le trasformazioni nella composizione del quartiere non si arrestano, e verso la fine degli anni zero la crescita della popolazione studentesca, legata alla crescente popolarità dell’Università di Torino, le politiche di riqualificazione e la crisi economica portano all’insediamento di nuovi abitanti e a una rapida crescita del fenomeno Airbnb (Semi, Tonetta 2019).

Ho scelto di concentrare l’analisi sull’area di Valdocco per due ragioni. Innanzitutto perché all’interno di questa ristretta area è situato il Neruda, e di conseguenza in essa si svolge una parte importante della vita quotidiana della gran parte dei suoi abitanti. In secondo luogo perché ritengo che, sebbene Valdocco sia sempre più comunemente considerato come parte integrante di Aurora, al punto che il nome stesso del rione viene utilizzato sempre più raramente, esso mostri dinamiche tali da distinguersi dalle aree limitrofe. In particolare è l’apparente immobilità che lo contraddistingue, e che contrasta tanto con l’enorme e non ancora conclusa opera di riqualificazione di Spina 3, quanto con i processi di gentrification e le crisi legate al fenomeno migratorio che hanno sconvolto già a partire dagli anni Novanta le vicine aree di Porta Palazzo, Borgo Dora, Balon ed in generale buona parte di Aurora (Allasino, Bobbio, Neri 2000). Circondato da profonde trasformazioni, a tratti conflittuali, il quartiere sembrava aver finora attraversato anche i più recenti mutamenti senza rotture particolarmente traumatiche, al punto che la stessa occupazione del Neruda, se da un lato non ha mai scatenato proteste ed ostilità da parte dei residenti, dall’altro non ha determinato l’emersione di tensioni di altro genere nel quartiere.

Spostandosi appena oltre la Dora, uscendo da Valdocco, la situazione si trasforma rapidamente. Limitandosi agli eventi più noti ed eclatanti, già negli anni 2011-2014 i movimenti per la casa si opposero alle politiche di riqualificazione, organizzarono decine di resistenze agli sfratti, occuparono numerose abitazioni e resero più volte impossibile l’accesso delle forze dell’ordine a diverse strade. Più recentemente, nel febbraio del 2019 lo sgombero del centro sociale anarchico noto come l’Asilo di Via Alessandria ha portato all’esplosione di diffusi episodi di conflittualità con le forze dell’ordine e alla militarizzazione delle strade del quartiere per diverse settimane. Infine, a maggio 2020, la stessa zona è stata definita un'area “a sorveglianza speciale”, divenendo oggetto di misure straordinarie volte al garantire la legalità in ottemperanza alle norme anti-contagio[5]. Infine, nell’ambito del Progetto Argo[6], l’amministrazione ha predisposto l’installazione di centinaia di telecamere nell’area, allo scopo di «coniugare immagini di alta qualità con sistemi di data analysis e intelligenza artificiale, in grado di produrre elaborazioni in tempo reale sulla base di query specifiche e che andranno via via a perfezionare l’algoritmo (...) Dopo la riqualificazione è importante prendersi cura dei territori anche controllando cosa avviene sugli stessi al fine di garantire la sicurezza dei cittadini e degli spazi»[7]. Va da sé che tali eventi debbano essere interpretati come le manifestazioni più visibili di processi sociali e politici complessi su cui ora, per ragioni di spazio, non intendo soffermarmi[8].

Se Valdocco era rimasto in larga misura esterno a tali dinamiche, a segnare la discontinuità con un passato di apparente tranquillità sono state le recenti vicende del Balon (Migliaccio 2018, Magariello 2019). Proprio al confine tra Valdocco ed il Balon negli ultimi dieci mesi si è infatti svolto il duro scontro tra i mercanti più marginali dello storico mercato popolare noto come “Balon”, supportati da un’ampia e fluida coalizione di movimenti sociali, ed il Comune, supportato a sua volta da numerose associazioni e comitati. Centro di tale scontro è l’area antistante al cimitero di San Pietro in Vincoli, un anonimo piazzale, edificato sull’antico cimitero degli impiccati, adibito in settimana a parcheggio e trasformato, ogni sabato, in un enorme mercato dell’usato dove centinaia di lavoratori, in prevalenza stranieri, vendevano le proprie merci, spesso recuperate “facendo il bidone”. La vicenda segnala però in maniera evidente che l’immobilismo del quartiere è stato scosso.

Ritratto della quotidianità: relazioni inter-etniche nel rione

Procederò ora all’analisi delle interazioni tra differenti gruppi sociali che contraddistinguono il quartiere, soffermandomi in particolare su alcuni esercizi commerciali gestiti da lavoratori immigrati, sul giardino di via Sassari, unico spazio verde del rione, e concludendo con l’analisi degli spazi di interazione presenti all’interno del Neruda. Verrà sottolineata la dimensione “transnazionale” dell’esperienza quotidiana, particolarmente adatta alla comprensione dell’esperienza abitativa che caratterizza il Neruda, ed infine sarà posto l’accento sulla dialettica tra chiusura ed apertura che caratterizza le relazioni interetniche nel contesto urbano, dove alle reciproche influenze, alle ibridazioni culturali, alla cosiddetta “cosmopolitizzazione” si accompagnano continui processi di costruzione di confini e di “compartimentazione” dello spazio. Nel fare ciò prenderò a modello l’analisi di Riccio (2008) rispetto alle trasformazioni urbane e ai conflitti connessi all’immigrazione da Bangladesh e Pakistan nel centro di Bologna e lo studio di Semi sul cosiddetto ”Quadrilatero Romano” a Torino, teatro di processi di gentrification già a partire dagli anni ‘90 (Semi 2004). La scelta cade su queste due ricerche perché esse affrontano, da prospettive differenti, il problema della distinzione nell’uso dello spazio, la prima concentrandosi sulle prospettive inconciliabili degli storici abitanti di Bologna e di una specifica categoria di immigrati, la seconda concentrandosi sulle pratiche di vecchi e nuovi abitanti del rigenerato “quartiere latino”, analizzato come un “campo” dove le specifiche combinazioni di capitale economico e culturale vengono utilizzate da differenti classi sociali per mantenere la distinzione.

Passeggiando per le strade di Valdocco, sedendosi nei pochi caffè, attraversando gli esercizi commerciali o standosene seduti al parco, è evidente la separazione tra le differenti componenti del quartiere. Gli anziani hanno i propri caffè ed i propri bar di riferimento, stanno alla larga dai kebab e dai minimarket, certamente non vanno a farsi tagliare i capelli da un marocchino, e quando capitava che li incontrassi dal fornaio più gettonato della zona, anch’esso marocchino, puntualmente si limitavano ad un saluto formale per poi tornare sui propri passi. Anche al parco siedono assieme, magari in quattro su di una stessa panchina. Di fronte a loro, nell’area giochi, corrono e strillano una decina di bambine e bambini. Strillano in italiano, ma i genitori, attenti che non si facciano male, se esagerano li riprendono in arabo, in pidgin english, e più raramente in italiano. Madri e padri italiani ai giardini tra Via Sassari e Corso Cirié sono una minoranza.

Continuando questa ipotetica giornata per le strade di Valdocco, collage di osservazioni avvenute nell’arco di una decina di mesi, prima di passare al discount faccio due passi su Corso Principe Oddone. All’orizzonte si stagliano come torri i nuovi condomini di Spina 3, mentre le automobili sfrecciano agli 80 all’ora sull’arteria cittadina a sei corsie. Dove si trovano quegli stessi palazzi era situata, fino agli anni Novanta, una delle aree industriali di Torino, da un ventennio al centro di una delle più ambiziose opere di riqualificazione urbana della storia post-industriale italiana (Santangelo, Vanolo 2010). Sul mio lato della strada, riparato dal traffico da un controviale, si susseguono invece bar e negozietti di ogni genere. Avendo finalmente un pomeriggio libero, decido di andare dal barbiere. Superata la porta su cui campeggia un’insegna in arabo, entro, saluto in arabo e mi rispondono in arabo. Mi fanno cenno di sedermi. Sullo schermo si alternano immagini del pellegrinaggio alla Mecca e partite di calcio, tra squadre a me sconosciute, come d’altronde, vista la mia lacunosa cultura calcistica, capiterebbe in qualunque altro bar. Aspetto assieme ad altre tre persone. C’è un signore anziano, distinto e silenzioso, due uomini di mezza età, di cui uno si sta facendo rifinire il taglio, ed un ragazzo intorno ai venticinque anni. Quest’ultimo discute animatamente con il barbiere. Il ragazzo lavora in un piccolo ristorante 50 metri più in là. Lo so perché, oltre al kebab, fanno una grigliata mista a 5 euro con la quale generalmente ci saziamo in due. Discutono animatamente e, presumo, presto si scambiano dei saluti a metà strada tra l’insulto e la cordialità. Il ragazzo torna al ristorante, ed è evidente come si stabilisca una certa complicità tra i presenti, uniti nel prendere in giro il ragazzo appena uscito. Le chiacchiere continuano ininterrottamente fino a quando, una quarantina di minuti più tardi, esco di là ostentando un taglio cortissimo. Come già sottolineato in diversi studi, gli spazi commerciali sono teatro di relazioni fondamentali per gli abitanti del quartiere, specie se oggetto di sguardi razzializzanti (Cevese 2005) se non criminalizzanti. La legittimità dell’utilizzo dello spazio pubblico è infatti sottilmente retta da un preciso “governo della differenza”, capace di confinare in precise eterotopie soggetti e pratiche sociali, considerate altrove illecite, proprio nel momento in cui dichiara pubblicamente di valorizzarle (De Martini Ugolotti 2018; Genova, Ferrero Camoletto 2018).

Passo dal fruttivendolo e da un fornaio italiano di zona: ecco di nuovo chiacchiere, opinioni sui prodotti e confidenze, ovviamente tra soli italiani. Decido infine di andare a fare la spesa al discount di zona, dove si possono incrociare i giovani studenti fuori sede, che rappresentano il segmento più povero delle nuove classi medie, gli occupanti del Neruda, gli esponenti di tutte le diaspore presenti nel quartiere, i pensionati. Questa diversità si può riscontrare anche nel personale: se cassieri e scaffalisti sono in maggioranza italiani, l’addetto alla sicurezza è di origini africane, come d’altronde accade in quasi tutti i discount di Torino. Solo durante la fila alle casse le persone interagiscono, e non è raro che in tali momenti, durante i battibecchi e le polemiche che inevitabilmente si innescano, vengano pronunciati insulti razzisti o aleggino nelle conversazione più velati pregiudizi e stereotipi. Alle aggressioni sessiste si sommano inevitabilmente episodi di quello che è stato definito “everyday racism”, aggressioni capaci, anche nella quotidianità delle commissioni pomeridiane, di ribadire e riprodurre la supremazia bianca (Kilomba 2013). Ciò detto, se la principale divisione evocata è quella tra un “noi italiani” e un “loro stranieri”, è fondamentale riconoscere come attraverso tali categorie, capaci di alimentare un continuo conflitto, seppur a bassa intensità, vengano continuamente etnicizzati rapporti di potere, diverse forme di posizionamento all’interno delle economie e dei micro-gruppi locali, ma anche differenze e tensioni generazionali (Cingolani 2018).

Si può notare che all’appello manca però qualcuno. Dove sono i ceti medi, le giovani coppie ed i lavoratori intellettuali e creativi, dove sono i giovani proprietari che hanno appena acquistato la casa, dove sono i proprietari delle seconde case che troviamo disponibili su Airbnb (Semi, Tonetta 2019)? Anche aspettando tutta la notte non potremmo che intravederli. Entrano ed escono di casa, ma non lavorano in zona ed il tempo libero non lo spendono in questo quartiere. Come me, quando assieme agli altri studenti fuori sede viaggiavo rapido in bicicletta verso il centro città, verso il campus universitario o verso le zone della movida, la loro vita è altrove. Ovunque essi passino le proprie giornate, dislocati nel flessibile tessuto produttivo della nuova città post-fordista e post-coloniale, la loro presenza nel quartiere rimane impalpabile.

Figura 3. Foto dell'ala est dello Spazio Popolare Neruda. In primo piano un gruppo di occupanti. Distanti sullo sfondo si elevano i palazzi del nuovo quartiere residenziale di Spina. (2016. Foto tratta dalla pagina Facebook “Le famiglie dello Spazio Popolare Neruda”)

Il movimento per la casa e l’occupazione del Neruda

Per introdurre lo Spazio Popolare Neruda scelgo di riportare parte di un elaborato scritto assieme ad altre compagne e compagni con l’obiettivo di raccontare questo spazio ed il movimento da cui esso si è originato. Il testo, pubblicato sul sito della rivista Menelique, riporta in forma sintetica e narrativa parte dei risultati della ricerca da me condotta durante la scrittura della tesi magistrale. La ricostruzione storica è basata sulla consultazione di fonti documentarie, quali materiale informativo, volantini, comunicati stampa, report interni, articoli di giornale, nonchè sulla testimonianza diretta di alcuni tra i protagonisti di tali vicende. Non potendo in questa sede trattare in modo esteso della storia dei movimenti urbani torinesi ho quindi deciso di prendere le mosse dal 2010, anno in cui la crisi economica comincia a colpire un numero crescente di famiglie. Molte non riescono più a pagare l’affitto, e il movimento per la casa torinese entra in una nuova fase[9].

A partire dal 2010 diventa centrale la lotta contro gli sfratti, che porterà anni più tardi all’occupazione dello Spazio Popolare Neruda. In questo senso è quindi importante delineare una rapida storia del collettivo Prendocasa, attore centrale nel supportare il movimento che portò all’occupazione del Neruda. La spinta iniziale di questo collettivo va ricondotta al radicamento del Centro Sociale Askatasuna nel tessuto sociale del quartiere Vanchiglia: è infatti tramite il comitato di quartiere che si instaurano i legami tra le prime famiglie sotto sfratto, all’inizio per la maggior parte di nazionalità italiana, e i militanti autonomi[10]. Nasce quindi il collettivo e viene creato lo Sportello Prendocasa, strumento tramite cui si tessono relazioni con le diverse persone in condizioni di disagio abitativo. Nel 2013 gli sfratti continuano ad aumentare, passando dai 3700 del 2012 a 3900, e andando verso il picco storico di 4600, toccato nel 2014. La strategia del collettivo mira da un lato a resistere agli sfratti, impedendo che le diverse famiglie vengano letteralmente buttate per strada, e dall’altro a sollecitare energicamente le istituzioni, tramite la pressione sulle agenzie governative preposte alla governance del disagio abitativo, affinché si trovino soluzioni dignitose. Se la controparte non cede si passa allora all’appropriazione diretta. Nascono quindi le riunioni degli sfrattati, ovvero dei momenti in cui le famiglie sotto sfratto si incontrano, solidarizzano e si auto-organizzano. Sono esperienze di politica popolare diretta a guidare l’azione governamentale. [...] il movimento si confronta direttamente con le controparti istituzionali, con i diversi uffici governativi, imponendo che alle insufficienti soluzioni finora proposte vengano sostituiti interventi concreti, quale ad esempio l’assegnazione di una casa popolare. Con le famiglie sfrattate o a rischio sfratto viene portata avanti una prima occupazione abitativa, a Pietra Alta, quartiere periferico a nord di Barriera di Milano, seguita da una seconda in corso Traiano, tra Mirafiori e Lingotto, sgomberata dopo undici mesi. Nel 2014 una percentuale crescente delle persone che si rivolgono allo sportello non possono cominciare un percorso vertenziale, collocandosi completamente al di fuori dei criteri previsti per una qualsiasi presa in carico da parte delle istituzioni. Molti sono immigrati e, per quanto in larga misura regolari, una generalizzata precarietà giuridica ne pregiudica l’accesso alle graduatorie e a altre soluzioni istituzionali. [...] Domenica 21 Giugno 2015 una trentina di nuclei familiari insieme ai militanti del collettivo Prendocasa, legati dalla partecipazione ai picchetti antisfratto, dopo un lungo confronto assembleare, decidono di occupare. Comincia così l’occupazione dello stabile abbandonato di Via Bardonecchia, sgomberato però in meno di un mese. Da quell’esperienza l’occupazione ha ereditato il nome Neruda, ispirato al poeta cileno cui è stato dedicato un graffito lì presente nel cortiletto interno. Gli occupanti non si perdono d’animo e pochi mesi più tardi, il 30 ottobre, si spostano in Corso Cirié 7. Prende vita il secondo Neruda.

[...] Si tratta di uno storico palazzo adibito per decenni a scuola di conciatura, quando ancora portava il nome di istituto Baldracco. [...]. A vederlo, per i primi due anni di occupazione si presentava in forma piuttosto anonima, e solo più tardi, grazie a diversi graffiti interni e esterni, avrebbe assunto anche la sua identità visiva. Così come lo Spazio Popolare Neruda, anche la lotta per la casa continua a essere attiva, e anche tra gli occupanti sono in molti a partecipare ai picchetti antisfratto, confrontandosi con le prevaricazioni della polizia e con l’arroganza di proprietari, avvocati e ufficiali giudiziari. Nel corso degli anni il rapporto tra il collettivo e l’occupazione si è consolidato, e non sono pochi i militanti che hanno scelto di viverci, felicemente e al di sopra delle proprie possibilità [...].

Raccontare lo Spazio popolare Neruda e raccontarne le storie vuol dire parlare di casa, di lotte, delle vite che vi si intrecciano. [...] Chi per la prima volta partecipa alle assemblee del venerdì spesso rimane stranito. Cerca una categoria a cui ricondurre quanto sta vivendo, ma non la trova. È un’assemblea politica, un’assemblea di gestione o un’assemblea condominiale? Non esiste un’occupazione uguale a un’altra. In ognuna vi sono libertà e autogestione, creatività, ambivalenze e contraddizioni, e ognuna ha i suoi gradi di permeabilità. Per poterci capire qualcosa è utile tenere a mente come l’autorganizzazione non si limiti ai momenti formali, per quanto importante sia l’assemblea degli occupanti, nota anche come riunione del venerdì. Tra i vicini le questioni vengono affrontate nei corridoi, tra i mercatari in cortile o in cantina. Non è un’esagerazione affermare che il gossip, tra le quattro mura di questo paesino, abbia un ruolo politico. È un processo ininterrotto fatto di discussioni, fraintendimenti, chiacchiere informali, chiarimenti, liti tra vicini, liti tra moglie e marito, tra cugini e nipoti, improvvisate assemblee di piano, sospettosi capannelli sulle scale, eloquenti silenzi. Le voci circolano, tutti si conoscono, e su molte questioni si è già discusso fin troppo in passato. Non stupisce quindi che ci sia chi preferisce farsi i fatti propri, presentandosi alle assemblee una volta ogni tanto o se succede qualcosa di particolare, e chi non se ne perde una (Compagne e compagni dello Spazio Popolare Neruda 2019).

L’esperienza qui raccontata è quella di un movimento di lunga durata, legato ad organizzazioni politiche strutturate, che ha visto avvicendarsi ormai diverse generazioni di militanti e può vantare una tradizione ed una cultura politica consolidata. È inoltre, nella propria singolarità, un’esperienza specificatamente “torinese”, piuttosto lontana dalle esperienze di occupazioni abitative che ho avuto modo di attraversare, o studiare, in altri contesti urbani[11]. Ciò detto, la narrazione qui riportata non può però che abbozzare la complessità e le ambivalenze dei rapporti, affettivi e politici, che animano il movimento. Nel fare ciò non si vuole produrre una visione agiografica del movimento stesso: come Saitta ha voluto documentare, i movimenti per la casa vivono intensamente la torsione tra dinamiche emancipative e processi egemonici che regolano le relazioni tra le soggettività militanti ed i soggetti subalterni coinvolti. Sebbene il caso in esame non presenti le dinamiche apertamente autoritarie o perfino monocratiche che si possono riscontrare in altri movimenti od occupazioni abitative, anche la costruzione di una “comunità in lotta” come quella del Neruda implica l’esistenza di una precisa pedagogia, ovvero di «quel processo di trasmissione di ideologie della libertà e tecniche di lotta che però postula -magari anche in modo semi-occulto - maestri, allievi e gerarchie. E, soprattutto, che libera assoggettando» (Saitta 2018: 7). Pedagogia di cui lo stesso testo qui riportato rappresenta un esemplare breviario.

La costruzione di uno spazio aperto

Il rapporto tra il Neruda e il quartiere da un lato si è sviluppato grazie ad una precisa progettualità, dall’altro grazie ad una pluralità di rapporti interpersonali. Fin dai primi mesi il Neruda decide infatti di dedicare una delle aule dell’occupazione al doposcuola, la prima delle numerose attività socio-culturali promosse all’interno della struttura. Il progetto si propone di supportare gli occupanti più giovani nel corso del proprio percorso scolastico, creando un’opportunità per entrare in contatto con gli altri abitanti del quartiere. Queste iniziative mostrano non poche somiglianze con i progetti interculturali promossi da diversi attori della società civile e dalle stesse istituzioni ma, tuttavia, se ne discostano. L’approccio degli attori pubblici e del terzo settore (Maher 2005; Caponio, Donatiello 2017), definito dai militanti “antirazzismo umanitario”, è infatti accusato di utilizzare le pratiche interculturali per intercettare e mettere a valore la domanda di legittimazione e riconoscimento dei soggetti razzializzati, escludendo però ogni critica della condizione di subalternità degli immigrati nella struttura economica e sociale che si concentri sulla materialità dei processi razzializzanti (Mellino 2012).

A rispondere all’appello del Neruda sono fin da subito gli studenti fuori sede residenti nelle aree limitrofe, e così rimarrà per tutti questi anni. Io stesso conobbi così una ventina tra bambini e adolescenti, i primi occupanti con cui venni in contatto. Pochi giorni più tardi partecipai al mio primo picchetto antisfratto, e conobbi madri e padri di alcuni di quei ragazzi. Con gli anni sono stati avviati i progetti della scuola di italiano, della palestra popolare Neruda Boxe, ma anche il cineforum di quartiere, feste e concerti, presentazioni di libri, dibattiti, progetti artistici e allestimenti di mostre, come nel caso di “Ultrabandiere”, curata insieme al collettivo Guerrilla Spam. Nel corso degli anni sono dozzine i volontari che attraversano il Neruda, ed alcuni tra questi decidono di impegnarsi anche all’interno del movimento per la casa e di andare a vivere in occupazione. Nel corso di questi progetti i giovani universitari e gli abitanti del Neruda hanno modo di conoscersi, stringere legami affettivi, elaborare assieme nuovi progetti, dare vita a forme artistiche inedite, frutto dell’incontro tra linguaggi ancora mai intersecatisi ed espressione di una particolare tra le infinite varianti dell’afropolitismo (Mbembe 2018)[12]. Nel corso degli anni molti di questi giovani universitari, ora divenuti in larga misura giovani lavoratori precari, per quanto abbiano smesso di animare la progettualità del Neruda, torneranno ad attraversarne i corridoi, andando forse a trovare qualcuno, a prendere un té, a guardare un film al cineforum o passando al doposcuola per salutare un ragazzino oramai alto un metro e novanta.

L’esistenza di tali spazi e momenti di prossimità, nei quali soggetti appartenenti a mondi sociali molto distanti riescono a intessere relazioni significative, è un’eccezione all’interno del quartiere Valdocco. Se le attività culturali avvicinano in particolare giovani e studenti di classe media, le attività di doposcuola, la scuola di italiano, i corsi di boxe e le feste in strada si sono invece rivelate capaci di avvicinare anche decine di residenti di ceto basso, tra loro differenziati per nazionalità, genere ed età. Cionondimeno da una tale relazione rimangono in larga misura esclusi gli storici e più anziani residenti del quartiere, non così facili da avvicinare tramite la proposta di attività volontarie a sfondo sociale e culturale. Di questo limite i militanti del movimento per la casa sono perfettamente consci, e, per quanto possibile, provano a fronteggiarlo tramite un preciso progetto di autorappresentazione, di cui si parlerà più avanti. Per quanto riguarda gli abitanti di origine straniera presenti nel quartiere, anche in questo caso si possono osservare due dinamiche. Da un lato sono spesso gli stessi occupanti ad essere “ambasciatori” del Neruda con i compaesani conosciuti nel corso di questi anni di quotidiana vita di quartiere, dall’altro l’attivismo del movimento per la casa nel fronteggiare gli sfratti nell’area limitrofa ha contribuito a farne conoscere il nome.

Compartimentazione ed etnicità

In questo paragrafo analizzerò i processi di “compartimentazione” dello spazio che si danno all’interno della stessa occupazione, compartimentazione tanto accentuata quanto accompagnata dalla produzione di una dimensione “transnazionale” dello spazio abitativo.

Attraversando il corridoio subito alla destra dell’atrio non sarà raro ascoltare, nonostante le porte siano chiuse, della musica afrobeat. Volendo entrare a scambiare quattro chiacchiere ci si troverà nell’accogliente stanza di tre giovani nigeriani. In questa stessa stanza, probabilmente nel medesimo momento, sarà possibile guardare gli stessi canali televisivi che gli occupanti guardavano prima della migrazione. Passando un po’ di tempo assieme, ad un certo punto uno di loro sarà impegnato in una videochiamata con la propria moglie, rimasta in Nigeria. Spostandosi nella stanza di un giovane rifugiato senegalese vi si potranno facilmente incontrare una mezza dozzina di compaesani, gli uni impegnati a giocare alla playstation, gli altri a chiacchierare. Qualcuno di loro si assenterà per preparare il té o la cena, che sarà rigorosamente basata su di una ricetta senegalese. Attraversando il Neruda fino all’altro estremo non sarà raro sentire i salmi del Corano diffusi ad altissimo volume, provenienti dalla stanza di una famiglia marocchina. Allo stesso modo, entrando nella stanza di una coppia di giovani militanti italiani all’ora di pranzo non ci dovrà stupire se al tavolo si troveranno quasi sempre altri italiani.

A tale compartimentazione spaziale si accompagna il persistere di stereotipi razzisti, fatti propri dagli stessi occupanti a discapito di occupanti originari di altre regioni. Una possibile interpretazione, vicina all’“approccio politico all’etnicità” elaborato da Abner Cohen (2011), è che l’adesione a tali stereotipi, segnando i confini etnici in modo netto, garantisca un’immediata solidarietà internamente a ciascuna comunità. Tale approccio è utile in quanto non essenzializza l’etnicità, rendendola invece una variabile dipendente da altri fattori, e permette di focalizzare la sua funzione di organizzazione culturale della differenza sociale (Maher 2011). In secondo luogo, permette di cogliere quell’intreccio di relazioni di forza e di potere dal quale uno sguardo antropologico non dovrebbe mai allontanarsi. Al punto che Cohen si spinge ad affermare che

la specificità dell’antropologia sociale consiste proprio nell’interpretazione politica di ciò che essenzialmente sono forme sociali e attività non politiche. Le culture dei gruppi etnici sono gli universali di quelle forme sociali e attività formalmente non politiche che si sono politicizzate nel corso dell’azione sociale (Cohen 2011: 143).

Se le solidarietà interne alle diverse comunità immigrate e la definizione delle stesse su base etnica sono fenomeni precedenti alla loro manifestazione all’interno del Neruda, esse si riproducono in quanto efficace principio di organizzazione sociale. Scriveva Maher, prendendo spunto dal lavoro di Cohen, come «nell’assenza di canali istituzionali legittimi per avanzare le proprie pretese politiche, il gruppo d’interesse si connoterà etnicamente» (Maher 2011: 24). Se l’organizzazione politica assembleare è uno strumento efficace nel mantenere sotto controllo gli interessi particolari, affidando ad una volontà collettiva consensuale la gestione dello Spazio Popolare, allo stesso tempo non permette una rappresentanza istituzionalizzata dei “gruppi di interesse” interni al Neruda. Essi non scompaiono e tendono invece a connotarsi etnicamente, ed agire quindi come principio di organizzazione informale.

Concludendo, se a Bologna «i phone center, i rivenditori di video e alcuni ristoranti “etnici” si presentano più come contesti di ri-territorializzazione e di appropriazione dello spazio urbano che di scambio con il contesto di approdo» (Riccio 2008: 73), processi simili si ritrovano nella dimensione abitativa del Neruda, e non senza importanti conseguenze politiche. Questa riterritorializzazione fa del Neruda uno spazio segnato da molteplici presenze, infiniti legami transnazionali ed altrettante assenze (Sayad 2002). Infine è necessario analizzare la compartimentazione riportando alla mente quanto detto a proposito dell’ambivalenza nelle relazioni intrattenute tra gli occupanti ed i militanti, relazioni ad un tempo personali ed affettive quanto politiche e strumentali. È necessario ammettere che tale ambivalenza rappresenta un freno non trascurabile verso processi di ibridazione più pronunciati, tipici in genere dei contesti orizzontali. Ciò non significa che tali ibridazioni siano impossibili, ma implicano la capacità e la volontà, da parte di entrambe le parti, di compiere lo sforzo necessario a decostruire, abbandonare e poi riacquisire il proprio ruolo politico.

Strategie di legittimazione e costruzione dello spazio tra decoro e riqualificazione

L’ultimo paragrafo indagherà le strategie di auto-rappresentazione agite dagli occupanti al fine di legittimare il proprio radicamento e la propria presenza nel quartiere. Come è stato detto, differenti pratiche di distinzione producono infatti differenti frontiere spaziali, che a loro volta definiscono la legittimità dei diversi gruppi sociali nel fruire degli spazi del quartiere.. Si presterà attenzione al discorso pubblico e alle pratiche adottate dai militanti politici dell’occupazione nel fare fronte all’intreccio di narrazioni securitarie e politiche di riqualificazione portate avanti nel quartiere ed in particolare in rapporto agli eventi che hanno portato allo sgombero di una parte del mercato del Balon. Tali narrazioni, promosse attraverso le retoriche della governance partecipata, fanno leva in particolare sui concetti di decoro e degrado.

Nonostante la retorica ufficiale promuova l’immagine di una comunità pacificata e dalla governance partecipata, le politiche di rigenerazione vengono accusate dai militanti del Neruda di rappresentare un’operazione di inclusione selettiva ed escludente, portata avanti escludendo dalla consultazione gli appartenenti alle classi sociali subalterne, cui non rimane che scegliere tra l’essere criminalizzati ed espulsi in nome del decoro urbano o provare ad adeguarsi allo sguardo gentrificante, accettando di essere esotizzati e prestati al consumo della differenza culturale.

Questa geografia dell’inclusione e dell’esclusione è possibile innanzitutto grazie alla nascita e al consolidamento di alcune frontiere. Nel caso del Quadrilatero Romano una di queste è, come detto, la presenza di un nucleo organizzato e importante di nuovi residenti e dell’insieme delle loro pratiche sociali. Queste, a loro volta, funzionano come un confine informale, limitando i possibili attraversamenti di una frontiera sempre più rigida. La questione della frontiera non è anodina perché le due zone costituiscono effettivamente «due mondi», e come tali sono percepiti dai residenti di entrambe le zone (Semi 2004: 88).

Se nel caso del Quadrilatero Romano «la presenza di un nucleo organizzato e importante di nuovi residenti» comportò la gentrification del quartiere tramite la costruzione di barriere escludenti nei confronti dei vecchi residenti di classe medio bassa, quali possono essere le conseguenze della presenza di un nucleo organizzato di 40 famiglie, in prevalenza di origine straniera e per di più in occupazione abitativa, sull’area circostante? Mi tornano in mente le parole di un attivista politico in riferimento al centro di Barcellona e riportate da Staid.

Dal mio punto di vista il Raval è stato salvato dagli immigrati che sono arrivati senza preavviso, hanno praticamente salvato il quartiere da una gentrificazione totalizzante, hanno salvato il piccolo commercio; chiaro nulla di perfetto ma almeno hanno posto un freno anche perché a un ricco non piace avere di fianco a casa sua un negozio di un pakistano a basso prezzo. Inaki, libreria el Lokal, ottobre 2016 (Staid 2017: 78).

Parole che assumono ulteriore forza ripensando allo scontro in corso in altre aree di Aurora, al mercato di Porta Palazzo, e in particolare al mercato del Balon, dove il conflitto tra “riqualificatori” e mercatari si è espresso attraverso le retoriche securitarie e xenofobe che vedrebbero negli stranieri i più temibili portatori di degrado e pericolosità sociale della “lower class” (Bukowsky 2019: 57-63). Nel corso degli anni passati a cercare qualunque genere di oggetto al Balon ho avuto modo di conoscere persone con le quali altrimenti difficilmente avrei avuto l’occasione di entrare in contatto. Spesso durante tali incontri sono cominciate conversazioni, se non altro perché esse si rivelano uno stratagemma fondamentale per negoziare sui prezzi. Al Balon non mi sono fatto amici stretti, ma certo sono entrato nelle simpatie e antipatie di persone di ogni origine e sorta, compresi esponenti di gruppi oggetto di stereotipi fortemente negativi e spesso spazialmente segregati. Se si pensa che tale esperienza è l’esperienza di migliaia che negli anni hanno attraversato tale spazio, mi sembra lecito affermare che per molti il mercato abbia contribuito a “normalizzare” la presenza dei soggetti più marginali delle cosiddette “classi disordinate”. Al contrario «il decoro ha quindi tra i suoi scopi anche il recidere occasionali prossimità, calando un tornello e un bracciolo antibivacco tra noi e loro, e questo bracciolo consentirà in seguito di restringere ancora il perimetro di ciò che è considerato civile» (Bukowsky 2019: 123). È infine necessario notare come tra le opinioni dei “residenti”, nonostante l’evidente diversità nella composizione del quartiere, ricorra sui quotidiani locali la sola voce dei residenti esasperati:

onesti cittadini, che chiedono semplicemente ordine e legalità (...) prigionieri nelle nostre case e sottoposti ad ogni genere di violenza psicologica (...) non vogliono degrado e illegalità,(...) l’esasperazione di noi residenti è aumentata notevolmente e vorremmo evitare gli scontri di piazza[13].

Gli scontri di piazza, nonostante l’augurio dei residenti, sono infine avvenuti.

Il 4 ottobre di quest'anno è stato costruito un muretto di Jersey per impedire lo svolgimento del #balon che ogni sabato prendeva vita nella zona di San Pietro in Vincoli. Quel muretto, in nome proprio di decoro e sicurezza dei cittadini, ha reso deserto e impraticabile uno spazio della città che invece era vivo e attraversato. Per più di un mese, nonostante la criminalizzazione e le minacce, il mercato aperto è continuato. Fino a questo sabato: la mattina di questo sabato la polizia ha attaccato i mercanti, ha sequestrato merci e carrelli, e con la violenza ha reso il mercato aperto impraticabile. Strada dopo strada, un pezzo alla volta, stanno cancellando questa città.

Cancellano i suoi abitanti, cancellano chi ha dato vita alle sue strade, alle sue piazze e ai suoi mercati.[14]

Il mercato dei cenci, il Balon dei “negossiant da ruso, da camole, delle patera, degli storcion, dei decroteur, degli arponcieur, dei canonich” istituito nel 1856 con una delibera comunale (Balocco 2009: 69-94) allo scopo di allontanare tali traffici dalle vie del centro, trasformatosi per 150 anni accogliendo i marginali urbani di ogni epoca, è stato fortemente ridimensionato, proprio con un’altra delibera. I responsabili questa volta non sono certo animati dal sogno di una rinnovata Torino capitale di stampo haussmaniano, ma urbanisti ispirati dal sogno di una città smart e rigenerata. Tale processo, iniziato grazie a dei precisi interventi di rigenerazione urbana[15], si è presto abbinato ai classici meccanismi di espulsione dei ceti sociali meno abbienti abbinati ad eventi flagship di stampo artistico e creativo con lo scopo di attirare i lavoratori intellettuali dei quali la città post-fordista ritiene di non poter fare a meno, in una delle varianti più note dei modelli di sviluppo propri dell’"Urban Neoliberalism" (Rossi, Vanolo 2015).

È opinione diffusa, sia tra i militanti che tra gli occupanti del Neruda, che la presenza dell’occupazione non abbia finora evocato tra i cosiddetti “residenti” lo stesso malessere. La mie osservazioni, effettuate nell’arco di più di 3 anni, vanno nella stessa direzione, così come i risultati di una ricerca condotta nel 2018 da un gruppo di studenti dell’Università di Torino nell’ambito del corso di "Politiche del territorio e sostenibilità" sotto la supervisione del professor Egidio Dansero (Cataldo et al. 2019). Sebbene il campione di quest'ultima ricerca sia diversificato in quanto ad età, genere e provenienza, esso risulta troppo ristretto per poter effettivamente offrire un quadro completo della percezione del Neruda. Ciononostante, il materiale, raccolto attraverso un campione di 30 interviste semi-strutturate, è comunque interessante da analizzare, fornendo una visione composita sia della percezione dell’occupazione che del quartiere.

In primo luogo ciò che risulta dalla totalità delle interviste è che le criticità percepite come rilevanti riguardano il degrado generale del quartiere, l’abbandono da parte delle istituzioni, la mancanza dei servizi, lo smog e l’inquinamento, ma soprattutto la presenza di un alto tasso di spacciatori che per molti rappresenta la motivazione principale di abbassamento della qualità della vita (Cataldo et al. 2019: 5).

18 dei 30 intervistati conoscono il Neruda, sebbene una buona parte degli intervistati, soprattutto di età più avanzata, mostri una certa confusione sulla sua funzione (3 lo hanno identificato come un centro di accoglienza). Emerge una divisione netta tra chi lo conosce solo come spazio fisico, tra cui una minoranza manifesta un’aperta ostilità, e coloro che hanno partecipato alle attività del Neruda (13). Queste ultime, spesso sotto i 30 anni, esaltano la sua funzione sociale.

Il punto più critico dunque riguarda l’aspetto dell’illegalità. [...] In questo caso le risposte sono abbastanza radicali e contrapposte, 10 persone non gli riconoscono assolutamente nessun tipo di legittimità, [...] 15 persone invece gli riconoscono un grado abbastanza elevato di legittimità [...] Infine 5 persone non hanno un’idea ben precisa sulla questione. [...] Il problema principale [...] (17 su 30) riguarda il fatto che non paghino le bollette, ma quando vengono informati del fatto che gli stessi vorrebbero pagare le bollette ma è la legge Renzi-Lupi che dal 2014 lo impedisce, molti di loro cambiano idea. Quindi la maggior parte delle persone sottoposte all’indagine lo riconosce come spazio fisico ma non sociale, infatti spesso dopo aver chiesto se gli occupanti dello Spazio Popolare si impegnino per risolvere alcuni dei problemi del quartiere, emerge una divisione netta tra coloro che partecipano o hanno partecipato alle attività del Neruda (13 persone) e coloro che lo conoscono solo come spazio fisico. Una buona parte di questi pensa che gli occupanti non facciano niente per il quartiere, ma altri, pur non avendolo mai frequentato, riconoscono il ruolo sociale delle attività che svolgono: “Vedo che ogni tanto organizzano delle cene, il carnevale”; altre persone non lo percepiscono in modo negativo, e si rendono conto che organizzano alcune iniziative cercando di coinvolgere la popolazione del quartiere. “Secondo me sarebbe molto peggio se queste persone non avessero un posto dove dormire, per me ben vengano queste iniziative”; “mi creda non lo so, ma questo spazio prima era un disastro, era abbandonato, ora lo vedo almeno dipinto, almeno è bello, non sento rumori, non sento niente. Non mi creano nessun problema”. “Qui per esempio hanno dipinto, l'hanno fatto loro questo? Li ha pagati qualcuno? So che hanno chiuso quello spazio dove andavano a drogarsi, hanno messo un'asse e l'hanno bullonato, hanno potato l'erba, non so se l’abbiano fatto per conto loro o qualcuno li abbia pagati. Se nessuno li ha pagati sono stati bravissimi allora, 10 e lode.” [...] Una minoranza, invece, manifesta un’aperta ostilità nei confronti degli spazi occupati in generale "Ha un nome sto porcaio?"; "L’hanno occupato, quella era una scuola, l'hanno occupato gli extracomunitari, non pagano l'affitto. Michele però non l'hanno voluto, Michele è dalla Romania. Lì solo marocchini e italiani, ma anche negri. Loro non pagano niente e noi italiani paghiamo tutto"

(Cataldo et al. 2019: 5-7).

Se il Neruda è riconosciuto da una parte della popolazione locale, parte del merito va agli attivisti che hanno curato di mettere in luce, nella costruzione della propria auto-rappresentazione, il carattere “familiare” dell’occupazione. La pagina Facebook del Neruda, che conta 5000 likes e dalla quale vengono quotidianamente condivisi dei contenuti, si chiama, significativamente, “Le famiglie dello Spazio Popolare Neruda”. Inoltre, allo scopo di legittimare la propria presenza nel quartiere tra i residenti con i quali il Neruda ed i suoi abitanti hanno stretto meno legami, ovvero gli italiani più anziani ed i nuovi gentrificatori insediatisi nel quartiere, il Neruda ha adottato fin dal principio una precisa strategia di comunicazione, organizzando eventi mirati all’intessere relazioni di buon vicinato, come ad esempio “La festa dei vicini” e diverse festività organizzate con cadenza stagionale. Gli occupanti hanno poi ridipinto la facciata, decorata grazie al contributo di diversi writer, hanno ottenuto di poter fare la raccolta differenziata come un qualunque altro palazzo, tengono pulite le strade circostanti e hanno ridipinto le panchine del corso alberato sul quale si affaccia il palazzo. Panchine, va sottolineato, comode, dotate di schienale e ben lontane dal modello Camden Bench[16]. Andando a riprendere il lessico proposto da Maher (2005) e la distinzione tra spazio “fuzzy” (sfumato) e “crisp” (nitido), l’intenzione è quella di ridefinire l’area circostante all’occupazione come uno spazio “crisp”, accogliente e caratterizzato in maniera chiara. Anche le attività interne all’occupazione, quali il cineforum di quartiere, conferenze, mostre, concerti, la palestra popolare, il doposcuola e la scuola di italiano contribuiscono a definire un’immagine dell’occupazione tale da non poter essere facilmente assimilata ad un indifferenziato focolaio di confusione, insicurezza e degrado. Ciò detto, va comunque ammesso che queste iniziative, per quanto abbiano portato numerosi residenti ad avere un’immagine positiva o comunque neutra dello spazio occupato, raramente sono riuscite a far superare la soglia dell’occupazione agli abitanti del quartiere, e, ad eccezione delle fasce più giovani della popolazione, non si sono dimostrate capaci di coinvolgere attivamente gli abitanti nella costruzione delle stesse.

Il consenso, o comunque la diffusa tolleranza, dei residenti si è quindi tradotto nell’assenza di attacchi politici da parte degli esponenti delle istituzioni o dei partiti locali, di campagne stampa denigratorie e nell’assenza di comitati o associazioni che abbiano provato a costruire delle campagne mirate a contrastare la presenza dell’occupazione.

Conclusioni

In conclusione, lo Spazio Popolare Neruda, promuovendo attività sportive, mutualistiche e culturali, ovvero momenti e spazi non segregati secondo linee etniche e di classe, funge da polo aggregativo per una parte degli abitanti di ceto medio-basso del rione. Nel fare ciò si pone l’obiettivo di contribuire alla costruzione di uno spazio urbano in cui la presenza degli immigrati non è considerata né una minaccia né tantomeno una presenza esotica prestata al consumo della differenza.

Sul piano interpersonale, la condivisione di spazi e momenti collettivi ha permesso a soggetti appartenenti a gruppi sociali tendenzialmente segregati di costruire relazioni affettive significative, altrove scoraggiate sia dalle differenze di classe che dalle esistenti frontiere culturali. Se traslati sul piano collettivo, tali legami possono contribuire a favorire nel lungo periodo la costruzione di un senso di comunità, oltrepassando la mera strumentalità politica.

Inoltre, portando avanti numerosi interventi, sia infrastrutturali che estetici, sull’edificio e nell’area circostante, l’occupazione punta a non essere percepita dagli abitanti del quartiere come causa di insicurezza e degrado. Nel fare ciò gli occupanti mirano a limitare sia la legittimità di politiche securitarie invasive ed escludenti sia la messa a valore della differenza e del territorio tipiche dei processi di gentrification. Piuttosto, l’obiettivo è normalizzare la presenza degli immigrati nel tessuto urbano, andando lentamente a demolire, nella quotidianità delle interazioni, l’immagine dell’immigrato come “altro”, diverso e perenne straniero, riaffermando il diritto alla città di tutte e tutti (Harvey 2008; Lefebvre 2014).

Infine, resta da problematizzare l’assenza di parole che definiscano l’insieme delle pratiche di azione politica dal basso agite nei quartieri, e quindi l’incapacità dei movimenti urbani torinesi di proporre un’alternativa compiuta alle politiche di rigenerazione e riqualificazione.

I tentativi di appropriarsi di tali termini e ri-significarli rischiano di rafforzare, piuttosto che indebolire, la narrazione associata ad un lessico definito allo scopo di promuovere il neoliberismo urbano ed i processi di city-making (Caglar, Glick Schiller 2018). A scongiurare il rischio di trasformarsi negli attori inconsapevoli della diffusa, partecipata e benevola governance neoliberale dei territori sarà nuovamente la capacità dell’azione collettiva di posizionarsi volta per volta a seconda delle fratture di classe.

Figura 4. "Tanti auguri". Foto di gruppo presso il portone dello Spazio Popolare Neruda, scattata in occasione del compleanno di un militante temporaneamente posto agli arresti domiciliari. 2018. (Foto tratta dalla pagina Facebook “Le famiglie dello Spazio Popolare Neruda”)

Bibliografia

Agamben, G. 2005. Il potere sovrano e la nuda vita. Homo sacer. Torino. Einaudi.

Agustoni, A., Rozza, C. 2005. Diritto alla casa, diritto alla città. Questione abitativa e movimento degli inquilini a Milano 1903-2003. Roma. Aracne.

Allasino, E., Bobbio, L., Neri, S. 2000. Crisi urbane: che cosa succede dopo? Le politiche per la gestione della conflittualità legata ai problemi dell’immigrazione, Working paper n. 135, Ires Piemonte.

Apostoli Cappello, E. 2017. Emotional logics in militancy: An ethnography of subjectivation processes in Italian radical-left movements. Emotion, Space and Society, 25: 136-143.

Armano, E. 2020. Pratiche di inchiesta e conricerca oggi. Verona. Ombre Corte.

Badino, A. 2018. «Mondo operaio e diseguaglianze. Le eredità delle migrazioni interne», in Torino, un profilo etnografico. Capello C., Semi G. (a cura di). Milano. Meltemi: 223-245.

Balocco, P. 2009. Borgo Dora, Balon, Valdocco. Torino. Graphot Editore.

Berzano, L., Gallini, R. 2000. Centri Sociali Autogestiti a Torino. Quaderni di Sociologia, 22: 50-79.

Boni, S. 2006. Vivere senza padroni. Antropologia della sovversione quotidiana. Milano. Elèuthera.

Brenner, N. 2016. Stato, spazio, urbanizzazione. Milano. Guerini Scientifica.

Bukowski, W. 2019, La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro. Roma. Edizioni Alegre.

Caglar, A., Glick Schiller, N. 2018. Migrants & City-Making. Dispossession, Displacement, and Urban Regeneration. Durham, North Carolina. Duke University Press.

Capello, C., Cingolani, P., Vietti, F. 2014. Etnografia delle migrazioni. Temi e metodi della ricerca. Roma. Carocci.

Caponio, T., Donatiello, D. 2017. Intercultural policy in times of crisis: theory and practice in the case of Turin, Italy. Comparative Migration Studies, 5 (1): 13.

Caritas e Migrantes.2015. XXV Rapporto Immigrazione. 2015 La cultura dell’incontro. Todi. Tau.

Cataldo, B., Cestaro, L., Cosentino, M., Parentini, L., Pucciano, F., Toniolo, A. 2019. Spazi occupati: una dicotomia tra illegale e illegittimo. Caso studio dello Spazio Popolare Neruda. Esercitazione condotta nell’ambito del corso di "Politiche del territorio e sostenibilità", Università degli Studi di Torino.

Cevese, R. 2005. Market, bazar, phone center: pratiche commerciali e percezione dello spazio a Veronetta. DiPAV-QUADERNI. Quadrimestrale di psicologia ed antropologia culturale, 14 (III): 71-92.

Cingolani, P. 2018. «È tutto etnico quello che conta? Conflitto per le risorse e narrazioni della diversità a Barriera di Milano», in Torino, un profilo etnografico. Capello, C., Semi, G. (a cura di). Milano. Meltemi: 91-114.

Cohen, A. 2011. «La lezione dell'etnicità», in Questioni di etnicità. Maher, V. (a cura di). Torino. Rosenberg & Sellier: 135-152.

Collettivo RicercAzione. 2013. Ricerca per la composizione, oltre il precariato e l’isolamento. (https://collettivoricercazione.noblogs.org/post/2013/11/27/ricerca-per-la-composizione-oltre-il-precariato-e-lisolamento/) Sito internet consultato in data 2/05/2020.

Compagne e compagni dello Spazio Popolare Neruda. 2019. La nostra casa, la nostra lotta. Menelique. (https://www.menelique.com/2019/10/23/spazio-popolare-neruda-nostra-casa-nostra-lotta/) Sito internet consultato in data 2/05/2020.

De Martini Ugolotti, N. 2018. «"No sleep ‘till Parco Dora": Parkour e i paradossi di una città rigenerata, tra eterotopie e governo della differenza», in Torino, un profilo etnografico. Capello, C., Semi, G. (a cura di). Milano. Meltemi: 159-178.

Genova, C., Ferrero Camoletto, R. 2018. «Dentro, altro, contro. Culture giovaniIi e usi dialettici del territorio urbano», in Torino, un profilo etnografico. Capello, C., Semi, G. (a cura di). Milano. Meltemi: 137-158.

Graeber, D. [2007] 2019.. Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello stato, democrazia diretta. Milano. Elèuthera.

Harvey, D. 2008. The right to the city. New Left Review, 53. (https://newleftreview.org/issues/II53/articles/david-harvey-the-right-to-the-city) Sito internet consultato in data 2/05/2020.

Kilomba, G. 2013. Plantation Memories. Episodes of Everyday Racism. Münster. Unrast-Verlag.

Lefebvre, H. [1967] 2014. Il diritto alla città. Verona. Ombre Corte.

Magagnotti, M.L. 2005. Memoria e vita quotidiana degli anziani di Veronetta. DiPAV-QUADERNI. Quadrimestrale di psicologia ed antropologia culturale, 14 (III): 93-116.

Magariello, I. 2019. Balon, dieci giorni di assedio. Un bollettino della repressione in Borgo Dora. Napoli Monitor. (https://napolimonitor.it/balon-dieci-giorni-di-assedio-un-bollettino-della-repressione-in-borgo-dora/) Sito internet consultato in data 2/05/2020.

Maher, V. 2005. Immigrazione e tessuto urbano in due città italiane. DiPAV-QUADERNI. Quadrimestrale di psicologia ed antropologia culturale,14(III): 117-136.

Maher, V. (a cura di). 2011. Questioni di etnicità. Torino. Rosenberg & Sellier.

Matera, V. 2015. Leggere la protesta. Per un'antropologia dei movimenti sociali. Archivio Antropologico Mediterraneo, 17(1): 5-13.

Mbembe, A. [2010] 2018. Emergere dalla lunga notte. Studio sull’Africa decolonizzata. Milano. Meltemi.

Mellino, M. 2011. De-provincializzare l’Italia. Note su colonialità, razza e razzializzazione nel contesto italiano. Mondi Migranti, (2011-3): 57-90.

Mellino, M. 2012. Cittadinanze post-coloniali. Appartenenze, razza e razzismo in Europa e in Italia. Roma. Carocci.

Mezzadra, S. 2004. I confini della libertà. Per un’analisi politica delle migrazioni contemporanee. Roma. DeriveApprodi.

Mezzadra, S. 2017. Poteri Comunisti. Intervento a C17 – La conferenza di Roma sul Comunismo. Euronomade (http://www.euronomade.info/?p=8751) Sito internet consultato in data 2/05/2020.

Migliaccio, F. 2017. Lungo la Dora a Torino, come muore l’urbanistica pubblica. Napoli Monitor. (https://napolimonitor.it/lungo-la-dora-torino-muore-lurbanistica-pubblica/). Sito internet consultato in data 2/05/2020.

Migliaccio, F. 2018. La città contro il suq. Governo dei marginali e interessi della riqualificazione a Torino. Napoli Monitor. (https://napolimonitor.it/la-citta-suq-governo-dei-marginali-interessi-della-riqualificazione-torino/). Sito internet consultato in data 2/05/2020.

Mudu, P. 2014. «Ogni Sfratto Sarà Una Barricata: Squatting for Housing and Social Conflict in Rome», in The Squatters’ Movement in Europe. Commons and Autonomy as Alternatives to Capitalism. Squatting Europe Kollective, Cattaneo, C., Martínez, M., A. (eds). Londra. Pluto: 136-163.

Novaro, G. 2020. Abitare i margini. Politiche e lotte per la casa nella Torino degli anni Settanta. Torino. Edizioni Gruppo Abele.

Palmisano, A. L. (a cura di). 2014. Antropologia Applicata. Lecce. Pensa Editore.

Riccio, B. 2008. Politiche, associazioni e interazioni urbane. Percorsi di ricerca antropologica sulle migrazioni contemporanee. Rimini. Guaraldi.

Romeo A. (a cura di). 2017. Abbandoni. Assembramenti umani e spazi urbani: rifugiati e negligenti politiche di accoglienza. Torino. Edizioni SEB27.

Rossi, U., Vanolo, A. 2015. Urban Neoliberalism. International Encyclopedia of the Social & Behavioral Sciences,24: 846–853.

Saitta, P. 2018. Prendere le case. Fantasmi del sindacalismo in una città ribelle. Verona. Ombre Corte.

Santangelo, M., Vanolo, A. 2010. Di capitale importanza. Immagini e trasformazioni urbane di Torino. Roma. Carocci.

Sassen, S. [2014] 2015. Espulsioni. Brutalità e complessità nell'economia globale. Bologna. Il Mulino.

Sayad, A. [1999] 2002. La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano. Raffaello Cortina Editore.

Semi, G. 2004. Il quartiere che (si) distingue. Un caso di “gentrification” a Torino. Studi Culturali,1: 83-107.

Semi, G. 2015. Gentrification. Tutte le città come Disneyland? Bologna. Il Mulino.

Semi, G., Tonetta, M. 2019. Plateformes locatives en ligne et rente urbaine à Turin : les classes moyennes face à l'austérité. Short-term rental platforms and rent extraction in Turin: middle classes confronting austerity. Annales de géographie, 727 (3): 40-61.

Staid, A. 2017. Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente. Milano. Milieu.

Vietti, F. 2018. «I mercati rionali di Torino al tempo della sharing economy: marginalità sociale ed esperienze di welfare di comunità», in Torino, un profilo etnografico. Capello, C., Semi, G. (a cura di). Milano. Meltemi: 115-136.



[1] I CAS, Centri di Accoglienza Straordinaria, sono le strutture di accoglienza nelle quali è ospitata la maggior parte dei richiedenti asilo durante il periodo necessario all’analisi della domanda di protezione internazionale.

[2] L'Ex Moi è stata un’occupazione abitativa composta da diverse palazzine del Villaggio Olimpico Torinese, dove più di un migliaio tra richiedenti asilo e rifugiati hanno vissuto dal 2013 al 2019, quando è stata definitivamente sgomberata. Per approfondire il legame tra il Neruda, il movimento per la casa e le lotte di richiedenti asilo e rifugiati si veda Compagne e compagni dello Spazio Popolare Neruda (2019). Per approfondire la storia dell’Ex Moi si veda Romeo (2017).

[3] Aurora è un quartiere della Circoscrizione 7 di Torino, situato a nord del centro storico cittadino. Confina a nord con il quartiere Barriera di Milano, dal quale è separato da Corso Vigevano e da Corso Novara, ed è delimitato a est dal fiume Dora Riparia, che lo separa dal quartiere Vanchiglia. A sud è delimitato da corso Regina Margherita, che lo separa dal centro, ed infine ad ovest da Corso Principe Oddone, superato il quale si estende il nuovo quartiere di Spina 3. Il quartiere si estende su entrambe le rive della Dora ed è generalmente considerato diviso in diverse aree, tra cui Borgo Dora, il rione più antico e che si sviluppa in prossimità del Balon, area dove ogni sabato si svolge il popolare ed antico mercato dell’usato di Torino. Vi sono infine il rione Valdocco e Porta Palazzo, area a ridosso del centro storico e sede, secondo molte statistiche, del più grande mercato scoperto d’Europa, ospitato in piazza della Repubblica.

[4] L’espressione “fare il bidone” è utilizzata dai mercanti del Balon di Torino per definire l’attività di recupero di oggetti buttati e rimessi in commercio.

[5] TorinoOggi. Torino, al via la “sorveglianza speciale” per Aurora e Barriera di Milano con presidi fissi delle forze dell'ordine. (https://www.torinoggi.it/2020/05/06/leggi-notizia/argomenti/cronaca-11/articolo/torino-al-via-la-sorveglianza-speciale-per-aurora-e-barriera-di-milano-con-presidi-fissi-dell.html) Sito internet consultato in data 06.05.20.

[6] Argo Panoptes, in greco antico: Ἄργος Πανόπτης, Árgos Panóptēs, "Argo che tutto vede" è una figura mitologica. Si tratta di un gigante che, secondo alcuni miti, dispone di cento occhi. Anche nel sonno dormiva chiudendone cinquanta per volta. Altri miti sostengono che avesse innumerevoli occhi su tutto il corpo.

[7] Profilo Facebook ufficiale di Chiara Appendino. (https://www.facebook.com/chiara.appendino.torino/photos/a.1090591970951418/3530366406973950/?type=3&theater). Sito internet consultato in data 13.08.2020.

[8] «Una crisi urbana può essere considerata come un evento focalizzante (Kingdon 1984), ossia un evento che per la sua potenza evocativa è in grado di mettere a fuoco un problema (prima ignorato, sottovalutato o trascurato) e di inserirlo con forza nell’agenda politica» (Allasino, Bobbio, Neri 2000: 8)

[9] Per una trattazione estesa della storia dei centri sociali occupati e del movimento per la casa nel contesto torinese si vedano invece Novaro (2020) e Berzano, Gallini ( 2000).

[10] Il Centro Sociale Askatasuna è un centro sociale appartenente all’area dell’“Autonomia Contropotere”, uno dei network più ampi all’interno del movimento della sinistra radicale italiana, e riconducibile al portale informativo “InfoAut”: https://www.infoaut.org/

[11] Per approfondire l'eterogeneità delle traiettorie storiche dei movimenti per la casa si vedano Mudu (2014) ed Agustoni, Rozza (2005).

[12] Come sottolinea Graeber (2019), è negli spazi interstiziali che possono svilupparsi l’autonomia e la creatività culturale.

[13] Perché il mercato di libero scambio non viene sgomberato? Tratto da "Linea Piemonte.it" http://www.lineaitaliapiemonte.it/ 2019/07/03/leggi-notizia/argomenti/lineaitaliapiemonteit/articolo/perche-il-mercato-di-libero-scambio-non-viene-sgomberato.html. Sito internet consultato in data 2/05/2020.

[14] Tratto da Balon, pagina FB che sostiene la resistenza dei mercatari nelle strade di Borgo Dora e Valdocco. https://www.facebook.com/events/565892437504799/. Sito internet consultato in data 15.05.2020.

[15] Tra i più importanti interventi va almeno citato il Progetto Pilota Urbano «The Gate», finanziato dall’Unione Europea, dal Comune e da altri enti e fondazioni nel 1996 e diventato dal 2003 un’Agenzia di Sviluppo Locale del Comune torinese.

[16] Le panchine Camden, sulle quali è praticamente impossibile stendersi, sono un tipico esempio di “architettura ostile” (nota anche come "defensive architecture, hostile design, unpleasant design, exclusionary design, defensive urban design", una strategia di progettazione urbana che utilizza elementi dell'ambiente costruito per guidare o limitare intenzionalmente il comportamento al fine di prevenire condotte indesiderate (si veda Bukowsky 2019: 117-125).