Chiese cristiane cinesi e Covid-19 tra confinamenti, percezione del rischio e discriminazioni in Italia durante il lockdown

Miriam Castaldo

Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà (INMP)

Indice

Introduzione
Intorno al metodo: etnografie 3.0
Migrazioni cinesi e cristianesimo domestico
Procedure e strategie
Chi ha paura dei cinesi: Rock-paper-scissors-lizard e Spock
Nostalgie, assenze e manipolazioni virologiche in Cina: le ricadute sociali del Covid-19
Contenitori religiosi e funzioni protettive
Discussione e riflessioni
Bibliografia

Abstract. Throughout the month of June 2020, a short online ethnographic study was carried out within the Medical Anthropology Service, National Institute for Health, Migration and Poverty (NIHMP). Through a structured interview, an attempt was made to explore the social, economic and health effects of Covid-19 on the lives of a group of 36 Chinese people, who are seeking international protection in Italy because they are Evangelical Christians members of proscribed domestic churches in China. From the interviews, strategies of the "home" Christian faith profession emerged and appeared heterogeneously protective towards the pandemic.

Keywords. Covid-19; lockdown; Chinese citizens; application for international protection; Christian evangelical domestic churches

Introduzione

Nel mese di febbraio 2020 sono stati identificati in Corea del Sud due focolai di coronavirus Covid-19 tra i membri di due chiese cristiane protestanti: la Shincheonji Church of Jesus, the Temple of the Tabernacle of the Testimony, di Daegu, e la Manmin Central Church di Seul (Fautré 2020). L’alto numero di fedeli, la prossimità tra gli stessi, le attività di proselitismo e la partecipazione a funzioni religiose, oltre alla segretezza che contraddistingueva la loro partecipazione a tali chiese e culti, sono stati alcuni dei motivi individuati come causa di ampia diffusione del virus in Corea del Sud (Introvigne et al. 2020). Qualcosa di simile è accaduto anche in Cina, dove proprio a Wuhan, epicentro mondiale della pandemia, la chiesa di Shincheonji ha una sede (Lau 2020; NYT 2020).

Quando giungevano queste notizie in Italia (Pizzati 2020; Adnkronos 2020; Corriere della Sera 2020) la pandemia stava per colpire duramente il territorio nazionale, le cui istituzioni governative hanno adottato ardue misure di confinamento estese a tutto il Paese nel periodo compreso tra il 9 marzo e l’8 maggio. Durante questa fase, il lockdown, è stato sospeso il tempo sociale in tutte le sue manifestazioni, incluse quelle religiose (D.P.C.M. 25/03/2020), sebbene con delle eccezioni (Decreto del cardinale vicario Angelo De Donatis 2020). È in questa “socialità modificata” (Dei 2020) che ho tentato di approfondire attraverso un breve studio etnografico una serie di aspetti che hanno riguardato dei cittadini cinesi cristiani evangelici, membri di chiese domestiche (jiating jiaohui 家庭教会) (Cheek 2008) in Cina e richiedenti protezione internazionale in Italia per riferite persecuzioni religiose. Si tratta di persone emigrate sole, senza familiari, che portano dimensioni migratorie riguardanti la loro professione di fede, per lo più proscritta in Cina (Castaldo et al. 2019).

Queste chiese domestiche sono istituzioni religiose di matrice millenarista e di orientamento evangelico (Dunch 2001), il cui culto è esercitato in piccoli gruppi e in segretezza nelle abitazioni private dei fedeli (Castaldo, Tosi 2020). Non sono autorizzate dallo Stato-Partito cinese e, in parte, sono bandite e duramente represse per questo (Introvigne 2020), ragion per cui si nascondono. In Italia, alcune delle chiese domestiche di appartenenza (quali Sheming Dao, Yin Xin Cheng Yi[1], Hu Han Pai[2], tra le altre) sono state ricostituite e sembrano essere divenute pubbliche. Sembrano cioè uscite dalla dimensione familiare e i suoi fedeli appaiono diluirsi nelle fila dei cattolici domenicali. Altre invece sono riconosciute come nuovi movimenti religiosi (esemplare in proposito è la Chiesa di Dio Onnipotente, Almighty God, Quanneng Shen 全能神) e accolgono numeri sempre maggiori di fedeli cinesi, anche se le riunioni in Italia continuano a tenersi in case private (Cesnur 2019).

Questo breve studio ha coinvolto le persone cinesi succitate che sono afferite presso il poliambulatorio dell’INMP per cure mediche e psicologiche e per ottenere una certificazione clinica finalizzata a sostanziare l’esercizio del loro diritto di soggiorno in Italia, dando prova della testimonianza della loro sofferenza (Fassin, D’Halluin 2005). In base alla relazione personale già ampiamente stabilita – perché io stessa ero parte dell’equipe ‘curante’ e in quanto tale ho svolto una ricerca antropologica dal 2015 a tutto il 2017 inerente il cristianesimo domestico in Cina e in Italia – ho deciso di dare continuità a tale relazione indagando la loro vita durante il lockdown italiano. Attraverso un’etnografia online ho cercato di analizzare le emozioni sentite allo scoppio della pandemia in Cina e poi in Italia; le ricadute sociali economiche e sanitarie del Covid-19 sulle loro vite (la percezione del rischio di contagio e dell’essere considerati “untori”; la percezione dei giudizi morali, della discriminazione e della stigmatizzazione; le strategie di professione di fede assunte in fase di confinamento e deconfinamento).

Intorno al metodo: etnografie 3.0

L’impossibilità data dalla pandemia di realizzare un lavoro di campo face-to-face durante il lockdown e anche durante la fase di deconfinamento, ha posto delle importanti sfide metodologiche ai ricercatori sociali che utilizzano il metodo etnografico. Per tentare di tracciare comunque un momento storico di “eccezione” pandemica, e analizzare le ricadute del Covid sul gruppo di persone individuato, ho tentato di estendere la mia precedente esperienza etnografica attraverso uno studio online, come non lo avevo mai realizzato prima, e ho disegnato un’intervista strutturata. Tale metodo “a distanza” non è del tutto nuovo all’antropologia (Benton 2017), ma è ancora poco sfruttato (Kaufmann, Peil 2019).

Migrazioni cinesi e cristianesimo domestico

Con consenso informato, sono state coinvolte 104 persone di nazionalità cinese che avevano già preso parte alla ricerca di cui sopra (69 donne e 35 uomini). Allora avevo rilevato che tra il 2015 e il 2017 grazie alle facilitazioni per il rilascio dei visti turistici presso le ambasciate italiane in Cina, connessi alle manifestazioni dell’EXPO di Milano e del Giubileo straordinario della Misericordia[3], un numero rilevante di cittadini cinesi, soprattutto donne, ha fatto domanda di protezione internazionale in Italia. Domanda basata su quelle che loro stessi hanno definito “persecuzioni” subite dal governo cinese per aver professato la religione cristiana in chiese domestiche evangeliche (Castaldo et al. 2019). In Italia molti hanno fondato e riprodotto tali chiese, mentre altri sono confluiti nelle parrocchie del territorio afferenti alla Chiesa Cattolica Romana, sostenendo che poi tutto sommato «Dio è uno solo» (Uomo, 39 anni)[4].

Tale presenza si differenzia dalle precedenti immigrazioni cinesi in Italia (Cologna 2002; 2019), per numerosi fattori: le motivazioni e le modalità migratorie, le province di provenienza, le reti sul territorio di approdo, il livello generale di scolarizzazione, lo status giuridico (Zanin e Wu, 2009), oltre alle chiese di riferimento che, sebbene siano cristiane-evangeliche come altre chiese cinesi ormai consolidate in Italia[5], si distinguono perché sono “domestiche” perché non sono afferenti alla chiesa di Stato, al Movimento Patriottico delle Tre autonomie delle Chiese Protestanti (Zhongguo jidujiao san zi aiguo yundong) definita più comunemente chiesa Sanzi (Castaldo et al. 2019), infine perché alcune di loro sono anche considerate in Cina "culti malvagi" (邪教 xiejiao) e dunque perseguitate.

Si trattava dunque di persone da me conosciute, che avevano già dato il consenso all’utilizzo dei dati personali, con cui avevo già lavorato e instaurato un rapporto di fiducia; conoscevano il contesto sanitario che proponeva la partecipazione alla ricerca, sapevano che ero io a proporre l’intervista e che sempre io stessa avrei analizzato le loro risposte. Avevo inoltre contezza del fatto che tutti possedessero uno smartphone e che la gestione di una ricerca online sarebbe stata agevole.

Procedure e strategie

Dal 3 al 5 giugno, tramite tre programmi di messaggistica istantanea su smartphone: WhatsApp, WeChat e Telegram, ho inviato loro un messaggio di presentazione della ricerca e un invito alla compilazione di un’intervista totalmente anonima, con il link per compilarla attraverso la piattaforma Google (Google forms).

Ho utilizzato le tre applicazioni più comuni di messaggistica, perché a priori non sapevo quale utilizzassero. Ho poi proceduto all’inserimento dei contatti telefonici nella rubrica del mio cellulare – con numero in chiaro – da cui ho inviato i messaggi, per verificare a quale App fossero registrati i numeri. Per esclusione ho iniziato da WhatsApp, poi WeChat, infine Telegram e ho inviato un solo messaggio a ogni persona.

È probabile, ma non posso esserne certa, che tutti gli intervistati si trovassero in Italia durante il lockdown.

Il messaggio è stato scritto in italiano e tradotto in mandarino (cinese standard) da due mediatrici culturali, parte dell’equipe socio-sanitaria dell’INMP. La raccolta dei dati è stata chiusa il 30 giugno e ho svolto l’analisi dei dati durante le prime due settimane di luglio.

Anche l’intervista è stata sviluppata in italiano e poi tradotta in cinese. Nella piattaforma online l’intervista era disponibile in italiano e cinese. L’anonimato è stato garantito dall’assenza del nome e cognome, della data di nascita e dell’indirizzo e-mail nelle risposte ricevute.

L’intervista, divisa in due sezioni, è composta in totale da 15 items: una prima parte di 6 items inerenti l’età, il sesso, la scolarizzazione, la città in cui si vive in Italia, il possesso e il tipo di permesso di soggiorno e una seconda parte di 9 items di cui 5 chiusi e 4 aperti. Questi ultimi campi davano la possibilità di approfondire le risposte “male” e “molto male” date a: come si fossero sentiti quando l’epidemia è scoppiata in Cina; come si fossero sentiti quando l’epidemia era giunta in Italia e aveva coinvolto anche gli italiani; come fossero stati trattati in Italia ed eventualmente cosa fosse loro successo quando è scoppiata l’epidemia in Cina; in ultimo perché il Coronavirus a loro avviso si fosse diffuso.

Gli items chiusi sono domande a scelta multipla e risposta singola, ma tutti con la possibilità del campo “Altro”, ove poter inserire una risposta più pertinente ed esaustiva a discrezione della persona partecipante. La struttura del modulo rendeva possibile definire lo spazio a disposizione, in termini di numero di caratteri, per due tipologie di risposta “Risposta breve” o “Paragrafo”, in base al disegno della ricerca e al tipo di risposta che si mirava a ottenere. È stata scelta l’opzione più ampia, quella del paragrafo, per tutte le risposte aperte.

Al termine della raccolta dei dati, ho scaricato da Google tutte le interviste compilate e ho proceduto con la traduzione dal mandarino e dall’inglese all’italiano per analizzarle. Ho codificato i contenuti manualmente, senza l’ausilio di software, attraverso un processo di coding (Linneberg, Korsgaard 2019; Strauss, Corbin 1998) in italiano, in inglese e in cinese.

Chi ha paura dei cinesi: Rock-paper-scissors-lizard e Spock[6]

Delle 104 persone contattate tutte hanno visualizzato il messaggio inviato (come evidenzia la notifica di lettura delle applicazioni utilizzate). Più della metà hanno risposto di averlo ricevuto e mi hanno chiesto informazioni sulla ricerca; ma non solo, hanno chiesto anche di me, di come mi sentissi e se avessi paura del Covid e se anche io allora avevo paura dei cinesi, come altri italiani o se ancora mi fidavo di loro, come prima. In 36 hanno partecipato alla ricerca e compilato l’intervista, ma non tutti hanno risposto a ogni domanda. La maggior parte delle risposte degli items aperti sono state scritte in cinese e sono state tradotte dalle mediatrici culturali, mentre alcune sono state scritte in italiano e in inglese. Queste ultime sono state tradotte da chi scrive.

Più specificamente, se alla domanda “Quando è scoppiata in Cina a gennaio l’epidemia di Coronavirus come ti sei sentito” la risposta era stata “male” o “molto male”, seguiva la domanda “Se male o molto male, perché?” A questa hanno risposto 32 persone di cui 27 in cinese e 5 in italiano. Stessa questione per chi ha risposto “male” o “molto male” alla domanda “Quando è arrivato il Coronavirus in Italia e ha coinvolto anche gli italiani, come ti sei sentito”. 34 persone hanno descritto il loro stato d’animo, 8 in cinese, 5 in italiano, 1 in inglese.

Alla domanda “Come ti hanno trattato in Italia quando in Cina è scoppiata l’epidemia di Coronavirus” hanno risposto 30 persone, ma solo 13 hanno spiegato perché e lo hanno fatto in cinese 8 persone, in inglese 3 e in italiano 2. All’ultima domanda aperta “Secondo te, perché il Coronavirus si è diffuso così tanto?” Hanno risposto 34 persone di cui 3 in italiano, 2 in inglese, 29 in cinese.

Alcune donne della comunità cinese romana richiedente protezione internazionale, che parlano italiano e che rispetto ad altri fedeli avevano ruoli più rilevanti nell’ambito delle chiese cristiane riorganizzate in Italia, mi hanno comunicato che molti chiedevano informazioni rispetto alla garanzia di anonimato dell’intervista. Ciò a fronte della profonda paura di essere controllati dai propri connazionali non richiedenti protezione internazionale e soprattutto non cristiani domestici, di essere denunciati al governo cinese e rimpatriati. Nella precedente ricerca era infatti emersa la sfiducia nei confronti di mediatori culturali cinesi, emozione che ha reso possibile il lavoro solo con mediatori culturali di lingua cinese-mandarino, ma di nazionalità italiana (Castaldo e Tosi, 2020). Sebbene il numero totale di persone che ha aderito alla ricerca possa essere in effetti considerato esiguo, mi appare invece significativo in considerazione della difficoltà di contattare tale nicchia di popolazione, che fa dell’occultamento dell’identità cristiana in Cina la propria strategia di sopravvivenza anche in Italia. Si tratta di 18 donne e 18 uomini la cui età media è di 35,13 anni (range 23-54); hanno una scolarizzazione media alta: 9 persone (25%) sono laureate e 13 (36,1%) hanno il diploma di scuola media superiore.

La maggior parte (29; 85,3%) ha il permesso di soggiorno, ma nessuno ha ottenuto (ancora) lo status di rifugiato. Tali dati non presentano significative differenze tra uomini e donne. Altre caratteristiche dei partecipanti sono riportate nella Tabella n. 1.

Tabella 1. Caratteristiche sociali e demografiche dei 36 partecipanti

Sesso n.(%)
Femmina18(50)
Maschio18(50)
Città italiana in cui vivono
Roma29(81)
Milano7(19)
Scolarizzazione *
Licenza elementare1(2,8)
Licenza media inferiore13(36,1)
Licenza media superiore13(36,1)
Laurea9(25)
Permesso di soggiorno in Italia **
29(85,3)
No5(14,7)
Status legale in Italia ***
Asilo politico0()
Protezione sussidiaria19(52,8)
Protezione umanitaria9(25)
Richiedente Protezione Internazionale8(22,2)

* La voce “analfabeta” non è stata inserita neanche tra le domande perché si aveva conoscenza del fatto che tutto il target fosse alfabetizzato

** Alla domande sul permesso di soggiorno hanno risposto 34 persone su 36

*** Si suppone che chi alla domanda precedente ha risposto “No”, più 2 persone che non hanno risposto (7 in totale), hanno ritenuto di non avere neanche il permesso di soggiorno provvisorio valido per tutto l’espletamento della domanda di protezione internazionale, a parte 1 che è da considerarsi tra colori che hanno risposto di essere Richiedenti protezione internazionale.

Nostalgie, assenze e manipolazioni virologiche in Cina: le ricadute sociali del Covid-19

Per indagare le emozioni scaturite dall’aver appreso della pandemia in Cina, quando ancora il virus non aveva coinvolto l’Italia, sono state poste due domande: una a scelta multipla e risposta singola (bene, molto bene, male, molto male, come prima non è cambiato niente, altro – campo aperto) si focalizzava su come i partecipanti si fossero sentiti in quei momenti e l’altra chiedeva di esprimere il perché di quel sentire. Mentre alla prima hanno risposto tutti e 36: “male” (19; 52,8%) e “molto male” (16; 44,4%) e solo una persona ha asserito che non era cambiato niente per lei (2,8%), alla seconda hanno risposto 32 persone. Di queste, 14 – senza differenze significative tra donne e uomini – hanno espresso una profonda preoccupazione riguardante le loro famiglie di origine rimaste in Cina. È a fronte della conoscenza del gruppo di persone e delle modalità di relazione con i propri parenti rimasti in Cina che posso proporre alcune ipotesi su queste risposte.

È probabile che come rilevato nella precedente ricerca la preoccupazione sia tutt’oggi stata acuita dall’impossibilità riferita di poter avere alcun tipo di contatto, anche telefonico, con i propri cari poiché la domanda di asilo in Italia rende evidente l’essere fuggiti e li rende potentemente timorosi di essere rintracciati e rimpatriati. Ma non solo. L’assenza di contatto ha anche il fine di evitare di mettere a loro volta in pericolo le proprie famiglie, che potrebbero essere controllate da apparati governativi formali e informali, le cui maglie sono tessute dallo Stato-Partito cinese (Castaldo et al. 2019). Se così fosse, è possibile che continuino a non avere contatti con le famiglie nucleari ed estese da quando sono emigrati in Italia: periodo che si traccia dal 2015 a tutto il 2017 (ibidem). Alcuni hanno riferito la preoccupazione dovuta all’assenza di informazioni sulla salute dei propri familiari, come nelle testimonianze che seguono:

Avevo paura, mi mancava la mia famiglia e non sapevo se stesse bene o meno (Uomo, 35 anni).

Stanno accadendo cose brutte nel mondo, la mia famiglia sta proprio lì e io non posso nemmeno contattarla né so la loro situazione (Uomo, 41 anni).

Altri invece, come si legge di seguito, mi hanno fatto intuire di essere riusciti a contattare i propri parenti, citando un sentimento di profonda preoccupazione sentita all’arrivo dell’epidemia in Cina, seguita da un esito che «grazie a Dio» è stato buono.

La Cina è il mio paese natale e i miei parenti vivono lì, ero molto preoccupata per la loro salute! Ma grazie a Dio va tutto bene! (Donna, 30 anni).

Altri ancora, hanno espresso “solo” la nostalgia della famiglia e la preoccupazione per la loro sicurezza in termini di salute, ma non emergono né contatti, né l’assenza degli stessi.

Ero molto preoccupato per la mia famiglia e mi mancava (Uomo, 35 anni).

Il coronavirus si diffondeva rapidamente, ero preoccupata per la sicurezza della mia famiglia (Donna, 24 anni).

Una testimonianza in particolare appare molto critica nei confronti del governo cinese sulla gestione della pandemia. Richiama anche l’assenza di rispetto dei diritti umani, denunciata sovente in sede di colloquio nell’ambito dei percorsi di cura e durante le interviste svolte ai fini di ricerca.

Anche se mi trovo in Italia ho sempre seguito la situazione in Cina, ciò che guardo di più sono le notizie principali di Epoch Times, Xin Pai an Jing Qi e New Tang Dynasty Television. Questo è un virus molto contagioso, ho visto le autorità cinesi nascondere l’epidemia e che la situazione reale e molto più grave di quanto riferito; ho visto che sono scomparsi giornalisti come Chen Qiushi, Fang Bin, Li Zehua e altri che hanno avuto il coraggio di dire la verità; ho visto molti cinesi morire; ho visto i forni crematori di Wuhan rimanere aperti per 24 ore e bruciare corpi infiniti; ho visto molte persone di Wuhan essere chiuse in casa dalle autorità cinesi, alcuni di loro morire di fame, altri morti buttandosi da un palazzo; ho visto che molti beni donati alle aree gravemente colpite sono stati sequestrati illegalmente dalle autorità e dalla Croce Rossa, per poi essere venduti ad alto prezzo. Ho pianto, sono stata molto male, mi sento fiera di essere riuscita a scappare dalla Cina e mi dispiace per i cittadini cinesi che vivono lì senza alcun diritto umano (Donna, 30 anni).

Contenuti simili sono evocati nella dichiarazione che segue nei confronti del governo di Xi Jinping, in una delle poche risposte scritte in italiano e non in cinese. In questa si riferisce l’idea che il Covid sia stato creato e manipolato a Wuhan, forse in riferimento all’ormai noto laboratorio di alta (bio)sicurezza dell’Istituto di virologia (Cataluccio 2020; Sarcina 2020).

Il virus Wuhan ha operazioni di editing create dall'uomo. C'è un mix di HIV. Non esiste una cura[7] (Uomo, 36 anni).

Per rilevare anche le emozioni quando il virus non ha più riguardato solo la Cina, ma si è diffuso in Italia, ho posto due domande: la prima come sopra a scelta multipla e risposta singola sul sentire dei partecipanti; la seconda che mirava ad approfondire liberamente i loro stati d’animo. Alla prima hanno risposto 35 persone: 21 (60%) hanno detto di essersi sentiti “molto male” e 14 (40%) “male”. Alla seconda hanno risposto 34 persone e le emozioni descritte sono state la paura e il pericolo del contagio per sé e per gli altri in Italia, ma anche per i parenti rimasti in Cina.

La paura per l’assenza di dispositivi di protezione, mascherine soprattutto, perché non a disposizione e perché non usati dagli italiani è stato un tema ricorrente nelle seguenti risposte:

Mi sentivo in pericolo e che potevo essere contagiata facilmente, inoltre non avevo mascherine sufficienti (Donna, 42 anni).

Le persone hanno sottovalutato questo virus, il governo non ha adottato misure utili. Molte persone non indossavano la mascherina, soprattutto in Occidente (Uomo, 40 anni).

(…) Non è stato fatto abbastanza, soprattutto gli occidentali che indossavano la mascherina senza coprire il naso che equivaleva a non indossarla! (Donna, 30 anni).

Ancora, il governo cinese viene spesso indicato come responsabile della diffusione del virus; emergono la paura di essere discriminati e quella per il futuro, per la perdita del lavoro, per essere soli in Italia. Di seguito riporto alcune delle risposte con queste tematiche ricorrenti:

Si dice che questo sia un virus studiato dal Partito Comunista Cinese ed ha portato sofferenza al popolo cinese e al mondo intero. Ha portato tanto disastro in Italia, era doloroso vedere il numero dei morti giornalieri in Italia (Uomo, 48 anni).

L'epidemia si sta diffondendo e sono stato licenziato dal mio capo. Fino ad ora, non oso uscire a casa, paura di contrarre il virus (Uomo, 39 anni).

(…) Sto a casa per non essere contagiata. Non sono in contatto con molti italiani, ma quando esco a fare la spesa, so che cercano di starmi lontano e mi fissano (Donna, 36 anni).

Viene evocato anche l’essersi sentiti discriminati in quanto cinesi “untori” e 9 persone riferiscono di essere stati trattati male dagli italiani; dato rilevato anche da numerose testate giornalistiche media nazionali (Il Messaggero 2020; Globalist 2020; La Repubblica 2020; Sky Tg24 2020), ma pure da persone di altre nazionalità:

(…) Sometimes, they call "China virus " to me…I'm not sure if they are Italians[8] (Donna, 36 anni).

Su internet avevo visto che dei cinesi erano stati picchiati mentre camminavano per strada o stavano comprando qualcosa al supermercato, o veniva detto loro “virus, andatevene, vi odiamo”. Ho fatto scorta per più di mezzo anno al supermercato vicino casa mia prima che chiudessero i confini, dopodiché non ho più avuto il coraggio di uscire (Donna, 30 anni).

Contenitori religiosi e funzioni protettive

Se le discriminazioni di cui hanno fatto esperienza e che hanno subito si analizzano insieme alla perdita del lavoro da parte di 31 delle persone intervistate e di riduzione importante delle attività lavorative da parte di ulteriori 4, infine al cambio di alloggio e di compagni/e[9] di stanza di 8 persone durante il periodo di confinamento, ecco che allora si possono esplorare le difficoltà raccontate.

Rispetto alle 8 persone che hanno cambiato casa durante il periodo di confinamento mi sembra significativo che la metà abbiano detto di aver preferito andare ad abitare con confratelli e consorelle della propria chiesa. Altre 4 persone hanno riportato l’essere state costrette a lasciare la propria abitazione sia per essere state mandate via da proprietari di casa italiani e cinesi, perché non erano più in grado di sostenere le spese dell’affitto, sia per essere state messe alla porta dai proprietari di casa italiani a causa della propria nazionalità cinese, richiamando qui di nuovo le discriminazioni succitate. Anche in quest’ultimo caso la scelta abitativa è ricaduta sui membri della propria chiesa di appartenenza, che li hanno ospitati e sostenuti economicamente, moralmente e religiosamente.

Tra coloro che invece non hanno cambiato casa perché già vivevano con i propri confratelli e consorelle o, pur non convivendo, sono rimasti in contatto virtuale con loro, solo una persona ha detto di essere uscita durante il lockdown per incontrare i membri della propria chiesa e di aver pregato con loro con i dispositivi di protezione attualmente in uso (guanti e mascherina). Tutte le altre hanno riferito di non essere mai uscite di casa per pregare e di averlo fatto sia con i propri coinquilini, sia con gli altri fedeli online, sia da soli attraverso la lettura di testi, proprio come facevano in Cina. Questo mi appare un tratto conservativo e protettivo interessante se pensato in relazione alla diffusione del Covid tra i cristiani-coreani delle chiese di Shincheonji e Manmin che come i fedeli qui richiamati facevano della prossimità gruppale il veicolo della propria fede.

Discussione e riflessioni

I risultati di questo breve studio mi hanno consentito di mantenere il contatto con questo gruppo di persone conosciute durante i percorsi di cura effettuati qualche anno fa presso gli ambulatori dell’INMP, indagando al contempo – seppur non approfonditamente – le ricadute sociali, economiche e sanitarie del Covid sulle loro vite in Italia. Il fil rouge che mi appare interessante seguire nelle loro risposte è quello della funzione protettiva che sembrano aver avuto le comunità religiose in questa temporalità pandemica. Avevo conosciuto la struttura delle chiese domestiche in Cina attraverso le narrazioni di chi avevo precedentemente intervistato, ma in Italia avevo appena cominciato a osservare i processi di riorganizzazione di gruppi di fedeli nei territori di residenza.

Infatti, dalle risposte delle interviste, sulle quali ho potuto riflettere soprattutto basandomi sulle conoscenze previamente acquisite della loro vita individuale e comunitaria a Roma, ho rilevato che chi non viveva già con i propri confratelli e consorelle ha prontamente rimediato, cambiando casa e andando a convivere con loro, a causa della perdita dell’alloggio e del lavoro, ma anche per scelta personale e direi in accordo con la comunità religiosa. Si sono a questo punto riprodotte, – di necessità virtù – ma attraverso una tecnologia di cui in Cina non disponevano, le funzioni religiose domestiche fatte di preghiere, di canti, di letture di testi “sacri” che hanno supplito alla limitazione della libertà religiosa imposta de iure durante il confinamento.

La dimestichezza alla segretezza e all’occultamento della fede religiosa sperimentata in Cina, anche nell’ambito della propria famiglia (Castaldo et al. 2019) ha permesso loro di professare la propria fede anche in solitudine, ove non era possibile altrimenti, tuttavia con l’importante novità di aver potuto usufruire di internet e dei social network[10] senza incontrarsi di persona per dare continuità alle attività religiose comunitarie.

Chi sembra aver sofferto maggiormente il lockdown sono forse coloro che più si erano rivolti al cattolicesimo e aperti alla vita sociale e religiosa di quartiere che si era costruita in questi ultimi anni attraverso la consuetudine dell’incontro in chiesa. Anche chi ha continuato a vivere con altri cittadini cinesi (ma non richiedenti protezione internazionale) e soprattutto quando condividevano una stanza in più persone, hanno riportato un importante senso di solitudine a cui però hanno fatto fronte attraverso le comunicazioni virtuali con la comunità religiosa. In Italia è proprio dai connazionali non rifugiati che ci si guarda bene, immaginando e temendo di poter essere da loro denunciati alle istituzioni, presi e rimpatriati. Tuttavia ciò non significa non frequentare la comunità cinese romana con la quale, come detto, sovente si co-abita e si lavora, significa però omettere la propria fede e le ragioni della propria migrazione. Certo, immagino che ora – temporalità riferita al momento della scrittura del presente report – si metta in atto una certa cautela anche nei confronti degli italiani che hanno fatto dei cittadini dal fenotipo orientale un possibile “untore del Male”, soprattutto nella prima fase della pandemia.

Bibliografia

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[1] Può probabilmente far riferimento al concetto di yīnxìn chēngyì o "giustificazione per mezzo della sola fede" (Comunicazione personale del Prof. Daniele Brigadoi Cologna, Sinologo dell’Università degli Studi dell’Insubria) che costituisce uno dei principi essenziali delle chiese luterane e uno dei cinque “sola” (sola scriptura, sola gratia, solus Christus, sola fide e Soli Deo gloria), i quali riassumono sinteticamente i punti cardini della teologia protestante. Ad esempio il primo dei 5 “sola”, la Sola Scriptura, costituisce la dottrina che afferma come Dio abbia rivelato la sua volontà attraverso gli scritti della Bibbia. “Solo” la Bibbia è l’autorità suprema, non il papa, né la chiesa, ma solo la scriptura, la Bibbia (http://www.luthergrewp.it/ewp/documenti/i-cinque-%C2%ABsola%C2%BB-della-riforma; http://iceditalia.org/i-cinque-sola-della-riforma/).

[2] Meglio conosciuta con il nome anglofono degli Shouters (Introvigne 2020).

[3] Proclamato da Papa Francesco per mezzo della bolla pontificia Misericordiae Vultus, http://www.iubilaeummisericordiae.va/content/gdm/it/giubileo/bolla.html

[4] Tale testimonianza è stata data da un uomo di nazionalità cinese nel corso di un colloquio psicologico, cui ho partecipato insieme a un mediatore culturale, avvenuto il 5 aprile 2018 presso l’INMP. Ho intervistato lo stesso uomo più volte, sempre con la presenza di un mediatore culturale, nel corso dello stesso anno.

[5] https://www.cecn.it/about

[6] Il riferimento sotteso è alla morra cinese e alla serie televisiva The Big Bang Theory.

[7] Ho deciso di trascrivere la risposta tale com’è stata resa dalla persona, al fine di restare il più fedele possibile alla sua testimonianza, così come alla volontà di scriverla in lingua italiana.

[8] Lascio la risposta nella lingua che è stata scelta per rispondere, ma ne riporto di seguito la traduzione in italiano: «Qualche volta mi dicono ‘virus Cina’…non sono sicuro che siano italiani» (traduzione dall’inglese dell’autrice).

[9] È frequente che si divida una stanza in due o tre connazionali dello stesso sesso.

[10] Per approfondimenti sul progetto di censura e di sorveglianza informatica cinese denominato Great Firewall si veda Chandel et al. 2019.