La forma dell'inclusione

Francesca Privitera

Università degli Studi di Firenze

Indice

Introduzione
Il contesto iniziale
Un “mondo comune”
Una stanza della città
Conclusione
Bibliografia

Introduzione

Il contributo proposto è teso a indagare l’esistenza di un legame tra la forma dello spazio architettonico e urbano e le pratiche di inclusione sociale, con la finalità di portare l’attenzione sull’importanza di stabilire un dialogo interdisciplinare tra progettazione architettonica e antropologia applicata nella elaborazione di nuovi paradigmi architettonici che si misurino con il mondo multiculturale in cui siamo chiamati a vivere.

Si cercherà quindi di chiarire se sia possibile parlare di “spazio dell’inclusione” e di individuare le sue possibili caratteristiche, intrecciando la riflessione teorica con l’osservazione di uno spaccato di vita reale, in cui la nascita di pratiche spontanee di inclusione sociale sono strettamente legate alla specificità dello spazio urbano che le accoglie, con l’obiettivo di cogliere ciò che c’è di generale nella specificità di questa analisi.

Così si sono sovrapposte l’analisi spaziale e architettonica di un luogo del centro storico di Firenze, un giardino pubblico nel quartiere di San Frediano, con l’osservazione delle comunità che lo frequentano, degli usi e delle attività che in quello spazio si svolgono abitualmente a partire dal 2015, anno in cui in quest’area venne sviluppato un progetto partecipato finalizzato alla riqualificazione del verde e al consolidamento della coesione sociale. Infatti, in questo luogo si sono consolidate nel tempo pratiche spontanee di inclusione sociale che hanno fatto di questo microcosmo, paradigmatico dei mutamenti sociali in atto nelle nostre città, un fondamentale spazio di dialogo prima, diventando negli anni un vero e proprio “spazio dell’inclusione”.

A questo punto, però, si intrecciano numerosi interrogativi. Il primo è se sia possibile superare l’idea puramente teorica di “spazio dell’inclusione” per studiare, invece, la dimensione della coesione sociale anche in termini di spazio fisico e quindi attraverso gli strumenti di studio propri dell’architettura, riallacciando così il binomio uomo-spazio. Il secondo è se sia possibile ipotizzare una relazione di reciproca influenza, di osmosi, tra spazio e pratiche sociali inclusive, ovvero significa chiedersi se esista una forma dello spazio che corrobori l’incontro e il dialogo tra persone, e nel caso che esista quali caratteristiche abbia, quali relazioni intessa con la città e con i suoi abitanti. Questa ultima domanda, in particolare, deriva dalla constatazione che altri progetti partecipati sviluppati a Firenze in quegli stessi anni, fortemente voluti da associazioni di cittadini ben radicate nel territorio e con analoghe finalità, ovvero volti a rigenerare tanto sul piano architettonico che sociale spazi dimenticati dall’amministrazione pubblica, non hanno avuto, nella lunga durata, le stesse ricadute positive. Terminato il progetto partecipato nulla è cambiato in questi luoghi sia sul piano delle relazioni umane che su quello della riqualificazione architettonica e urbana.

Per comprendere dove risiedano le motivazioni di tali esiti così diversi è necessario ampliare la prospettiva e chiedersi quanto il consolidarsi di queste forme di inclusione dipenda dalla presenza di associazioni ben organizzate sul territorio, dalle qualità umane delle persone che ne fanno parte, dalla capacità delle figure professionali e tecniche coinvolte nei processi partecipativi, dalla solerzia o meno delle amministrazioni pubbliche nel rispondere alle richieste dei propri cittadini e quanto dipenda, invece, dalle caratteristiche fisiche e morfologiche dello spazio teatro delle azioni umane. In altre parole, significa domandarsi quanto incidano le specifiche caratteristiche tipologiche, morfologiche e topologiche dello spazio architettonico e urbano nell’innescare e nel consolidare virtuose forme di comunicazione e coesione.

In sintesi, esiste una “forma dell’inclusione”? Essa può essere pianificata, prefigurata, disegnata o il rischio è di progettare e poi costruire un mondo prima che sia abitato (Ingold 2000), perpetuando inesorabilmente l’allontanamento dei due termini “abitare” e “costruire”, un tempo indissolubilmente legati? (Heidegger 1951).

Il contesto iniziale

La riflessione muove dagli esiti del progetto partecipato “Oltreverde”: progettazione partecipata con i bambini e le famiglie per la valorizzazione del giardino Bartlett-Nidiaci nel rione di San Frediano, sviluppato nel 2015 con i finanziamenti dall’Autorità Partecipazione Regione Toscana, promosso da un’associazione di cittadini[1]e coordinato da un gruppo multidisciplinare: un architetto, un etnopsicologo ed un agronomo[2] affiancati da cinque educatori per l’infanzia.

I destinatari primari dell’iniziativa sono stati bambini dai sei ai dieci anni e di riflesso le loro famiglie; luogo e oggetto di realizzazione un’area verde pubblica costituita da un tipico giardino racchiuso nel tessuto compatto del centro storico fiorentino, appena percepibile per chi cammina per le strade limitrofe e a quel tempo in stato di semi abbandono perché destinato dal Comune di Firenze alla vendita; come obiettivi la riqualificazione del verde, il consolidamento della coesione sociale e la promozione del senso di appartenenza ai luoghi attraverso la prefigurazione condivisa di uno spazio reale elaborata esclusivamente dai bambini. Il principio di fondo, infatti, era che per sviluppare nelle persone un senso della cura dei luoghi e un senso della collettività fosse fondamentale suscitare, in particolare nelle generazioni più giovani, un sentimento di appartenenza ai luoghi, ovvero di identità. Il progetto è stato realizzato in sei mesi attraverso due fasi distinte: un focus group dedicato agli adulti finalizzato a raccogliere la memoria orale degli abitanti più anziani del quartiere, e una serie di laboratori ludico-didattici dedicati ai bambini[3] destinati a fornire ai piccoli partecipanti gli strumenti necessari per formulare la loro proposta progettuale.

È necessario richiamare brevemente il fatto che questo spazio verde è sempre stato intensamente “voluto” dagli abitanti del quartiere, come dimostra la sua storia. In origine faceva parte, insieme ad un prestigioso palazzo ottocentesco, della residenza di uno scultore fiorentino. Nell’immediato dopoguerra il proprietario donò l’intera proprietà al Comune di Firenze con il vincolo che fosse destinata a funzioni sociali e così è stato fino al 2014, quando il Comune decise di vendere l’intero complesso ad una società di investimenti specializzata nella conversione di grandi proprietà in immobili di lusso, residenze e alberghi. L’operazione immobiliare fu però anticipata, in modo silente, dal progressivo abbandono da parte del Comune della manutenzione dell’intero complesso, che al tempo accoglieva una storica ludoteca di quartiere, fino a quando l’immobile e le sue pertinenze vennero dichiarate dall’amministrazione pubblica inagibili e quindi furono chiuse.

Da qui gli abitanti del quartiere attivarono un’intensa mobilitazione tramite manifestazioni di piazza per rivendicare il secolare uso pubblico del palazzo e della sua grande area verde, ottenendo, infine, che almeno una parte del giardino fosse esclusa dalla compravendita, ed è in questo contesto che si inserisce il progetto partecipato del 2015, che ha avuto il merito di reinnescare pratiche quotidiane un tempo consolidate che rischiavano di essere perse per sempre a causa di interessi politici e speculativi. Infatti, dalla conclusione del progetto partecipato ad oggi, questo spazio, in parte salvato dalla privatizzazione grazie alla determinazione degli abitanti della zona, è tornato ad essere un’importante polarità nella vita sociale dell’Oltrarno, un quartiere storicamente popolare ed oggi interessato da rapidi mutamenti sociali.

Qui oggi si incontra quotidianamente una comunità eterogenea composta da famiglie residenti nel quartiere da generazioni, altre, sia italiane che straniere, che hanno scelto di stabilirvi la loro residenza perché vedono in questo quartiere l’ultimo scorcio “autentico” di una città altrimenti svenduta al turismo, altre, invece, sono famiglie straniere di recente immigrazione giunte dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa dell’est, dall’India alla ricerca di condizioni di vita e lavorative migliori. Queste ultime raramente stabiliscono radici definitive nel quartiere e nella città, solitamente sono in transito, un transito lento, che può durare anche alcuni anni, ma comunque sono dirette altrove, a volte un altrove vicino, verso quartieri più periferici ma più economici, altre volte più lontano, in altre città e in altre nazioni, molto raramente verso i loro paesi di origine. Insieme condividono momenti del proprio vissuto quotidiano, primo tra tutti il gioco dei figli all’uscita dalle due scuole, elementari e materne, distanti pochi metri da questo giardino, poi la partecipazione alle numerose iniziative ideate e organizzate dai membri dell’associazione che promosse il progetto partecipato e che oggi gestisce autonomamente l’apertura e la chiusura di questo spazio garantendone la disponibilità alla collettività.

È così che questa area verde è tornata ad essere un fondamentale spazio di incontro e di dialogo i cui interlocutori primari sono donne e bambini che qui stabiliscono rapporti di solidarietà e di amicizia, facendo di questo luogo un vero e proprio spazio dell’inclusione. La storia di questo spazio fisico racchiuso tra le case e le strade della città ha così ricominciato a intrecciarsi con le vicende umane divenendo un vero e proprio spazio di mediazione tra culture, tra gruppi sociali e tra generazioni.

A questo punto, però, è necessario chiedersi quanto il consolidarsi in questa area pubblica di progetti autonomi autorealizzati – non partecipati – e di pratiche sociali auto-organizzate in grado di creare relazioni, dialogo, condivisione e socialità dipendano dalle persone che qui si incontrano e quanto siano invece corroborati dall’architettura, ovvero dalle qualità intrinseche dello spazio che accoglie queste «politiche alternative del quotidiano» (Paba 2018: 6) facendole germinare e rigenerandole attraverso i mutamenti dei tempi.

Un “mondo comune”

«Lo spazio in cui le diversità si incontrano è sempre lo spazio dove l’azione comincia. Perché quando persone o gruppi mettono le radici, avventizie o stabili, del loro luogo di abitare, lì nasce l’incontro» (D’Alto 2018: 25). È da qui, quindi, che si comincerà a intessere la relazione tra spazio e pratiche di inclusione sociale, da coloro che con la loro presenza danno allo spazio un senso che il mondo di per sé non ha (Maurice Merleau-Ponty 2017), ovvero dai protagonisti di questo luogo, da coloro che danno forma in senso umano alla coesione sociale. Le figure chiave sono donne e bambini, infatti, sono loro che prevalentemente frequentano questa area verde: madri da sempre residenti nel quartiere, altre di recente immigrazione alla ricerca di uno spazio di incontro nel quadro più generale di un loro radicamento in un luogo “altro” rispetto a quello della loro provenienza, e bambini che frequentano le scuole di quartiere dove stabiliscono, grazie alla quotidianità scolastica, le loro prime amicizie.

Il ruolo dei bambini in questo caso è fondamentale nell’innescare l’avvicinamento tra adulti che molto difficilmente in altri contesti si sarebbero accorti della reciproca presenza: qui, al contrario, compiono un primo passo fondamentale prendendo atto dell’esistenza l’uno dell’altro. Infatti, il dialogo e lo scambio tra queste donne di solito è una conseguenza delle relazioni che i propri figli stabiliscono attraverso il gioco con i propri coetanei. I bambini, inoltre, spesso fungono da veri e propri mediatori linguistici, e a volte anche “culturali”, aiutando a superare diffidenze e pregiudizi tra adulti. Così, attraverso questi primi incontri si pongono le premesse per quella che potrebbe diventare in futuro una vera e propria comunità multiculturale e che per ora è, per dirlo con le parole di Hannah Arendt un “mondo comune”.

Le ragioni per cui qui e non altrove si inneschino e perdurino tali positive pratiche di condivisione devono essere cercate anche nelle caratteristiche morfologiche e tipologiche di questo spazio. Infatti, nelle sue immediate vicinanze esistono tre piazze pubbliche: due storiche, Piazza Santo Spirito e Piazza del Carmine e l’altra, Piazza Tasso, nata in seguito alle demolizioni del secondo dopoguerra. Quest’ultima è dotata di un’area attrezzata con giochi per l’infanzia, un campo da calcio e uno per la pallacanestro. Eppure le famiglie prediligono frequentare il giardino in esame, anche se ormai privo della ludoteca, con poche attrezzature per il gioco e un campo da calcio non sempre fruibile.

Si tratta, dunque, di un’area nella quale non esiste un vero e proprio disegno dello spazio pubblico, qui affiorano, piuttosto, le tracce sbiadite dal tempo e dall’incuria di quello che fu uno spazio dall’elevata qualità architettonica. Oggi vi sono alberi secolari ad alto fusto, ampie zone con ghiaia e prato, altre con lastrici in cemento. Questa parziale assenza di progetto, che potrebbe apparire come una carenza, in realtà apre questo luogo alla libertà creativa di chi lo frequenta, rendendolo flessibile a molteplici usi che cambiano con il passare delle stagioni e delle persone. Esso potrebbe essere definito “variabile”, termine caro a Giovanni Michelucci[4], il quale vedeva proprio nella possibilità dell’architettura e della città di adattarsi al mutare della società, dei suoi valori e delle sue abitudini, il fondamento della città futura: una città in divenire aperta a infinite possibilità di relazione, di scambio e di dialogo tra uomini che si spostano alla ricerca di condizioni di vita migliori (Michelucci 1954).

La seconda caratteristica di questo luogo è quella di essere delimitato da chiari confini fisici. Esso è racchiuso tra le case ed è accessibile da un solo ingresso, condizione che lo rende controllato e controllabile come se fosse un giardino privato. Questa caratteristica ne fa il luogo privilegiato dove condividere in sicurezza, come nel “cortile” di casa, non solo le molte attività organizzate dall’associazione di cittadini che gestisce questo spazio e che monitora gli ingressi, solo “adulti accompagnati da bambini”, ma anche i ritrovi familiari come i compleanni dei bambini che qui inevitabilmente diventano condivisi, aperti alla partecipazione di tutti i piccoli ospiti del giardino, e che per questo, spesso, diventano estemporanee occasioni di scambio anche tra adulti che si trovano a condividere momenti di altrui intimità domestica.

Tuttavia sarebbe molto riduttivo pensare che il senso di sicurezza che infonde questo spazio in chi lo frequenta sia da attribuirsi esclusivamente al suo oggettivo stato di luogo chiuso e alla possibilità di controllarne l’ingresso. Infatti, questo giardino protetto dalla promiscuità dello spazio pubblico vero e proprio, quello delle strade e delle piazze, ha una intrinseca e chiara vocazione “interna” e “domestica” ­ pur essendo di fatto “esterno” e “urbano” ­ dettata tanto dall’uso che dalla sua struttura formale. Esso non è percepito come un luogo dinamico, di transito, di incontro indifferenziato, come gli spazi pubblici - strade e piazze - bensì come un luogo statico, dove fermarsi e riposare, dove svolgere delle attività specifiche, come capita negli spazi interni veri e propri. Qui si svolgono, senza oneri per i partecipanti, lezioni di inglese, di violino o di canto per i bambini, autorganizzate dall’associazione con il coinvolgimento di chiunque frequenti il giardino e sia disponibile a mettere a disposizione di tutti le proprie competenze, anche se per un tempo limitato.

Questo spazio diviene così non solo un luogo di socializzazione ma anche di apprendimento, riunendo in una sola “forma spazio” (Frampton 1979) aspetti sociali solitamente a corollario di condizioni fisico spaziali diverse. Qui troviamo riunite sia le caratteristiche proprie dello spazio interno destinato all’educazione e alla socializzazione che di quello esterno destinato invece ai “rapporti vari” (Frampton 1979) come quelli commerciali ed economici. La vocazione “interna” di questo spazio urbano è quindi frutto di un intreccio tra forma architettonica e attività umane. Allo stesso tempo ha anche una chiara vocazione domestica che solo in parte gli deriva dalla sua origine di giardino privato: esso è vissuto da molti, e per motivi diversi, come una vera e propria espansione della casa. Le famiglie che “vantano” una antica residenza nel quartiere lo sentono a tutti gli effetti “proprio”, in virtù della consuetudine con questo spazio che si tramanda da generazioni, mentre le famiglie straniere che abitano in piccoli appartamenti, spesso frutto di frazionamenti speculativi e privi di un ambiente comune dove incontrarsi, trovano qui un luogo dove condividere la compagnia di amici e parenti tanto nella quotidianità che nelle occasioni speciali, trasformando così questa area pubblica in un vero e proprio spazio abitato.

Infatti, praticare questo giardino diviene rapidamente una consuetudine anche per le famiglie appena approdate nel quartiere; ben presto trascorrere qui alcune ore della propria giornata entra a far parte della loro esperienza quotidiana, della loro abitudine giornaliera, anche grazie alle attività con cadenza fissa e periodica che qui si svolgono. Questo spazio, dunque, è vissuto quotidianamente ed è anche in virtù di queste pratiche quotidiane (De Certeau 1980), coadiuvate da condizioni morfologico-spaziali particolari, che esso continua ad esistere adattandosi al mutare dei tempi.

Una stanza della città

Christian Norberg-Schulz in Esistenza, spazio e architettura (1975), afferma che le azioni acquistano significato solo in relazione a luoghi precisi e riflettono il carattere particolare del luogo; Walter Gropius asserisce che le relazioni spaziali, le proporzioni e i colori controllano le funzioni psicologiche, vitali e reali (Argan 1988). Secondo queste angolazioni, quindi, lo spazio costruito con le sue caratteristiche ha un ruolo fondamentale nell’orientare i comportamenti umani. Continueremo quindi ad intrecciare l’ordito tra spazio urbano e pratiche di inclusione sociale descrivendo in modo più dettagliato lo spazio che accoglie tali pratiche inclusive.

Per chi cammina tra le strette e petrose vie del quartiere quest’area pubblica è invisibile. Il suo ingresso è nascosto in fondo ad un vicolo apparentemente senza alcun interesse. Percorso il vicolo e varcato il cancello lo spazio si apre, arioso, verde, denso di voci e di movimento, isolato ma allo stesso tempo profondamente radicato nella città. Qui, come in una piazza, lo spazio condensa in un’immagine complessiva e comprensiva l’immagine che si ha del quartiere camminando lungo le sue strade. Difatti, il perimetro di questo giardino è costituito da una varietà di episodi architettonici: il fronte ottocentesco della casa padronale, oggi destinata ad uso residenziale; l’ex limonaia, scandita dal ritmo di ampie vetrate e che oggi accoglie un centro giovani gestito da una cooperativa; piccoli manufatti ad un piano con funzioni varie – residenza, servizi igienici, magazzini, spogliatoi; la monumentale massa dell’abside dell’antica Chiesa di Santa Maria del Carmine; un muro di cinta in pietra e laterizio oltre il quale emerge il profilo frastagliato delle case circostanti, alcune appartenenti al tessuto storico medievale del quartiere, altre costruite dal secondo dopo guerra. Le case, pur essendo “oltre il muro”, interagiscono direttamente con lo spazio del giardino entrando a far parte della sua immagine complessiva, come se fossero i fronti urbani di una piazza.

I manufatti che delimitano questo luogo, quindi, agiscono sullo spazio interno come se fossero le quinte di una piazza, ma allo stesso tempo innescano, come in un recinto, una serie di relazioni duali tra “dentro” e “fuori”: piccolo-vasto, domestico-urbano, differenziato-promiscuo, inclusivo-dispersivo, sicuro-pericoloso, controllato-libero. In questo caso, però, non si tratta di relazioni assolute, lo spazio non è completamente introflesso, esso è piuttosto uno spazio di transizione, di passaggio, di negoziato. Infatti, i suoi margini non escludono in modo assoluto la relazione con la città: essa si vede, si sente, ma la sua presenza giunge attutita e quindi sicura, perché mediata dalla presenza del recinto che assolve la sua funzione architettonica primordiale, garantire una protezione fisica e psichica.

Il fulcro simbolico di questo sistema è costituito dalla massa dell’abside della Chiesa del Carmine, la quale evoca, da sola, la città fuori dal recinto. Allo stesso tempo gli avvenimenti architettonici che prospettano sul giardino agiscono esattamente come i margini di un ambiente interno, la loro prossimità produce un luogo dalla elevata figurabilità, ovvero del quale percepiamo e memorizziamo chiaramente la forma fisica. Come l’angolo di una stanza condensa l’intimità della camera (Bechelard 1975), così l’immagine della città è condensata all’interno di questo luogo che diviene una vera e propria “stanza della città”, nella quale sentirsi protetti e al sicuro.

Quest’area, quindi, pur essendo recintata non è isolata, al contrario, essa è “tra”le cose. Persa la sua originaria connotazione privata è divenuta un vero e proprio in -between- realm[5], ovvero uno spazio ibrido, una sorta di soglia che costituisce la chiave del passaggio e della connessione fra aree comunicanti con differenti vocazioni: quella esterna urbana e pubblica e quella interna comunitaria e domestica, costituendo la condizione spaziale per l'incontro e il dialogo fra aree di ordine diverso, tanto spaziale che funzionale che simbolico. Qui le persone si fermano, si incontrano e ogni individualità diventa parte di un mondo comune, diversamente da quanto avviene nelle strade e nelle piazze dove le esistenze distrattamente si incrociano. Potremmo dire che questo spazio è una piazza nella definizione che ne da l’architetto Paul Zucker: un «parcheggio psicologico entro il paesaggio urbano» (Norberg-Schoulz 1984: 111).

Si tratta, quindi, di un vero e proprio spazio “collettivo”, più che “pubblico”, ovvero uno spazio in cui le persone si radunano non tanto per una decisione politica, che stabilisce a priori, attraverso la pianificazione, quali debbano essere i luoghi deputati all’incontro e come debbano essere utilizzati, ma piuttosto per una scelta autonoma delle persone che qui si trovano, mosse dal desiderio di incontrarsi. Qui, come in una piazza antica, la forma costruita mostra il significato dello stare insieme: spazio fisico e umano sono uniti da un legame indissolubile che fa di questo luogo un vero e proprio “spazio di contatto” (Choay 2004), ovvero uno spazio di scambio quotidiano di informazioni interpersonali. Si tratta di informazioni pratiche legate all’abitare nel quartiere che possono riguardare le scuole dei figli, la ricerca di un lavoro e di una casa, il che significa, ampliando la prospettiva, che si tratta di uno spazio di apprendimento e di crescita individuale.

Conclusione

L’analisi proposta, evidenziando il legame tra azione umana e spazio architettonico, intende richiamare sia la necessità di inventare e attuare nuove ed efficaci forme di scambio e di dialogo interculturale, che entrino a far parte della quotidianità del nostro vissuto e dell’abitudine delle nostre relazioni, sia la necessità di elaborare dei nuovi modelli architettonici che abbiano come riferimento un mondo nel quale gli uomini con le loro “diversità” di lingua, di cultura, di valori della vita siano centrali.

La percezione e l’uso dello spazio architettonico da parte degli individui non è infatti univoca, al contrario, è un processo complesso che coinvolge numerose variabili: alla lettura euclidea si sovrappone la lettura individuale determinata da fattori culturali e da esperienze pregresse: «Gli uomini portano la terra che hanno dentro, nel paese che trovano, sovrappongono il paesaggio interno al paesaggio esterno e l’uno e l’altro si unificano» (Norberg-Schulz, 1984: 50). In questo contesto il dialogo sinergico tra architettura e antropologia applicata diventa cruciale nella definizione di una base teorica che possa essere di fondamento all’agire progettuale, nell’idea che nuovi spazi «nasceranno unicamente da nuovi patti con gli uomini» (Kahn in Bonaiti 2002: 147). È solo attraverso l’intreccio di conoscenze che sarà possibile inventare e reinventare spazi fisici di intersezione tra diversi sistemi culturali, spazi concreti di “meticciato culturale” (Roques 2005), nei quali sia possibile innescare, sviluppare e poi consolidare virtuose pratiche di coesione sociale, spazi che rappresentino la consapevolezza di un mondo che si rinnova, e che prefigurino allo stesso tempo una società futura nella quale sia possibile, per coloro che hanno dovuto abbandonare la loro “prima radice” (Weil 1949), radicarsi nello stesso terreno di chi, al contrario, ha radici profonde.

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[1] Associazione Amici del Nidiaci in Oltarno Onlus.

[2] Francesca Privitera (architetto), Serena Bigazzi (etnopsicologa), Pino Pellino (agronomo).

[3] La partecipazione aperta ai laboratori ha avuto quale esito una notevole variazione sia nel numero dei partecipanti sia nell’età che talvolta si è alzata fino ai dodici anni. In media hanno partecipato venti bambini ogni incontro, tra questi si è distinto un nucleo di circa dieci bambini tra i sei e i dieci anni, alcuni italiani altri stranieri che hanno seguito con continuità l’intero percorso partecipato.

[4] La formulazione teorica del concetto di Città variabile da parte di Giovanni Michelucci inizia nell’immediato dopoguerra per poi essere costantemente precisata e arricchita attraverso scritti e disegni durante tutta la sua attività di architetto. A questa si affiancano i disegni di Elementi di città, che possono essere considerati dei frammenti di città variabile.

[5] Il termine fa riferimento all’esperienza teorico-progettuale sugli spazi intermedi di Aldo Van Eych ad Amsterdam.