Applicare l’antropologia: quale?

Leonardo Piasere

Socio onorario SIAA

A commento del carteggio Seppilli/Colajanni del 2013, e come membro del comitato promotore che diede vita alla SIAA, colgo l’occasione per tornare sul punto particolare della scelta del nome dato alla Società e per ripercorrere alcune motivazioni iniziali della formazione della Società stessa.

Per dirla sbrigativamente, ci sono almeno due modi per fare la storia di un sapere che si istituzionalizza in una disciplina: o in base alla storia del contenuto o in base alla storia del contenente. In base al primo, si parte dai contenuti che una disciplina coltiva nel presente e si va a ritroso alla ricerca del modo in cui quei contenuti sono stati indagati, studiati, analizzati, interpretati, descritti, ecc. Questa è la via di solito seguita. In base al secondo, si parte dal contenente, cioè dall’etichettatura linguistico-categoriale, cioè dal nome, e si va a ritroso per vedere se e come i contenuti denotati da quel nome sono cambiati col tempo. Il più delle volte succede che una data unione di contenente-contenuto in questa regressione si disarticoli, e si trovi che in altri periodi il contenente avesse ben altri contenuti rispetto al presente e il contenuto altri contenenti (a volte nessuno). Questo è successo in grande a quella che chiamiamo oggi “antropologia” e in generale a quella costellazione di etichette oggi variamente coniugate tra loro di “antropologia-etnologia-etnografia-demologia-folklore-tradizioni popolari” e loro creative sottotitolature (senza citare quelle oggi non più in voga come “antropografia”, “antropogeografia”, “demopsicologia”, ecc.): certamente, la storia del contenuto dell’attuale antropologia è molto più profonda della storia del suo nome, ma la storia del nome (per quel che si sa coniato solo ai primi del Cinquecento) è tutt’altro che banale (cfr. De Angelis 2010; Piasere 2019). I manuali correnti di storia dell’antropologia sono molto selettivi al riguardo, tacciono tante cose dovendo filtrare il passato in base ad esigenze disciplinari del presente.

Capita qualche volta che un’etichetta che si impone in una data epoca venga poi rigettata o contestata per vari motivi, ad esempio per il suo contenuto ritenuto non più accettabile in termini di conoscenza, o di pratica, o di etica, o di politica, o di estetica e così via. La storia della scienza è piena di casi e, nel nostro piccolo, è (stato) il caso “dell’Antropologia applicata”. Idea di alcuni: visto che l’antropologia è stata applicata male, o non la si deve più applicare perché la stessa pratica dell’applicazione è da respingere, o non la si deve più chiamare “Antropologia applicata”. Era questa una delle considerazioni espresse da Seppilli nella sua lettera del 2013, considerazione non isolata fra i demo-etno-ecc. italiani di sette anni fa e di oggi, e trovo ancora oggi la risposta di Colajanni del tutto condivisibile. Mara Benadusi (2020) ricostruisce con acume l’incipit di questa allergia nella famosa condanna di De Martino del 1953 verso gli “infatuati […] dell’applied anthropology americana, e desiderosi di trapiantarla in Italia”, condanna espressa in tempi di guerra fredda (lui, ex-fascista, era diventato nel frattempo comunista) e di crocianesimo ancora imperante.

Effettivamente, leggere l’intervento sull’applicazione dell’antropologia nelle colonie africane che Malinowski inviò al famoso Convegno “Volta” del 1938 organizzato dalla fascistissima Reale Accademia d’Italia, che si tenne a Roma proprio nelle settimane immediatamente successive all’emanazione dei Regi Decreti “in difesa della razza”, fa veramente voglia di seguire Seppilli e tutti quelli che prima di lui avevano espresso opinioni simili. Gutking (2001: 11) ha giustamente etichettato razzista quella relazione di Malinowski[1]. Ormai tanti anni fa, Mariannita Lospinoso (1978) sottolineò che quell’intervento di Malinowski non era in fondo nulla rispetto al razzismo declinato da altri partecipanti a quel convegno, come ad esempio quello di Lidio Cipriani. Era costui uno dei firmatari del famoso “Manifesto degli scienziati razzisti” apparso nell’estate precedente, allora incaricato di Antropologia nella Reale Università di Firenze, dove pure vi dirigeva il Museo di Antropologia e Etnologia. Malinowski non partecipò direttamente (e sarebbe interessante conoscerne i motivi), ma non ritirò i suoi due interventi dalla pubblicazione di quegli Atti fascistissimi[2]. Malinowski e Cipriani insieme.

Facciamo altre letture: andiamo a vedere che cosa hanno scritto e fatto la maggioranza di coloro che in Europa, diciamo da inizio Ottocento e fino al 1945, si dicevano ed erano riconosciuti come “antropologi”, che hanno pubblicato in riviste di “Antropologia” e che hanno tenuto corsi universitari di “Antropologia”. Se ci scandalizziamo dell’antropologia “applicata” di Malinowski nel suo orizzonte colonialista che mai abbandonò, che cosa dovremmo fare con l’etichetta “antropologia”? Da qualche anno tento di studiare la storia delle “antropologie”, seguendo la seconda modalità sopra specificata, e tante volte mi sono chiesto come si faccia a continuare ad usare questo termine che dovrebbe essere semmai indicativo di un periodo ignominioso della storia della scienza e della società euro-americana. In base a tutto quello che leggo, con che coraggio continuo a dirmi antropologo? – mi dico. Assassini o mandanti di assassinii se ne sono fregiati, gente che spiegava perché uomini e donne dovessero essere trucidati o internati o deportati o sterilizzati o sfruttati a sangue, quegli stessi assassini o mandanti con cui al tempo dialogavano “scientificamente” autori oggi reputati fra i grandi della storia dell’antropologia mondiale quali Boas, Lowie, Evans-Pritchard & c. (nemmeno De Martino se ne tirava indietro[3]), che certo assassini non erano ma che contribuivano a legittimare gli studi di quelli? Perché Seppilli, o chi per lui, se la prende col figlio minore (“applicata”) e non col genitore (“antropologia”)? D’altra parte, che un’antropologia possa essere applicata senza essere chiamata “applicata”, gli antropologi nazi-fascisti ce l’hanno insegnato da tempo[4].

Seppilli se la prendeva col “figlio minore” per una delle tante magie del potere. Egli, come sappiamo e come ricorda Benadusi, fu uno dei firmatari di quel Memorandum che alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso voleva lanciare l’Antropologia culturale in Italia (Bonacini, Seppilli et al. 1958)[5]. L’antropologia “culturale” era stata fino al 1945 una delle tante “antropologie” in lizza per avere il primato all’interno dei discorsi “antropologici” nella scacchiera internazionale[6]. Era l’antropologia che Boas si impegnò sempre, non senza contrasti nel mondo accademico americano e internazionale, a declinare in senso antirazzista (e per farlo si abbassava a dialogare con i razzisti, anche italiani: v. Piasere 2020); era l’antropologia che in seguito all’esito della Seconda guerra mondiale risultava allora vincente nel mondo occidentale. Era sostenuta dalle neonate grandi agenzie internazionali e in particolare dall’Unesco, che andava disseminando in giro per il mondo gli studi antirazzisti di Montagu, Dobzhansky, Lévi-Strauss, Métraux ecc. Vista la tradizione “antropologica” italiana, il suo ritardato sbarco in Italia fu comunque fondamentale, nel senso che si trattò di un’antropologia che cercò di invertire la torsione della coeva antropologia nazionale che continuava ad essere in buona parte razzista[7]. Era “culturale”, ma sempre “antropologia” era! In termini odierni si può dire che l’antropologia culturale (e “sociale” nella versione inglese) era l’antropologia “critica” del tempo. Radicalmente critica. Gli studiosi che firmarono il Memorandum (a prescindere da quello che potremmo dire oggi su tutti i contenuti di quel Memorandum) si dimostrarono coraggiosi: non si distinsero solo dall’etnologia italiana del tempo (in via di ristrutturazione post-Schmidt/Biasutti) e dalla demologia del tempo (in via di ristrutturazione post-Croce), ma anche dall’antropologia-e-basta dei fascisti che sfuggirono all’epurazione e che continuavano a restare in cattedra, tipo i Sergio Sergi, i Giuseppe Genna & c. I firmatari del Memorandum decisero chiaramente da che parte stare: sottolinearono «l’importanza della ricerca antropologico-culturale per una miglior comprensione scientifica della società italiana e quindi per una più solida fondazione degli interventi sociali che vi si realizzano», che «sono del resto storicamente determinati» e la cui incidenza «risulta condizionata dal suo diverso situarsi in un quadro storico concreto» (Bonacini Seppilli et al. 1958: 236, 253).

Ora, la mia impressione fu che in quella lettera del 2013 Seppilli fosse rimasto un po’ prigioniero del Memorandum del 1958, un po’ degli sviluppi post-1958 della “demo-etno-antropologia” italiana (ormai decisamente amputata dell’antropologia-e-basta), e un po’ difensore di un orticello che nessuno in realtà voleva calpestare. Rispetto al Seppilli del 1958 mi sembrò un “mezzo-Seppilli”[8] che, forse tirato per la giacca, scriveva una lettera di cui egli per primo era poco convinto, e che senz’altro non era convincente. La risposta di Colajanni non poteva non coglierne i punti deboli: il “quadro storico concreto” era molto cambiato.

Tanti anni dopo quel Memorandum, nel settembre 2012, altri “quattro gatti” si ritrovarono a Verona per scambiarsi opinioni se fosse il caso di “fare qualcosa e, semmai, che cosa” per sviluppare non un’antropologia culturale ormai decisamente insediatasi nell’università italiana, ma per svilupparla fuori dall’accademia. Eravamo stati tutti impegnati in progetti vari con varie agenzie nazionali o internazionali, espressamente o meno come “antropologi”, e volevamo capire se fosse il caso di ampliare le riflessioni al riguardo, cioè se fosse il caso di organizzare delle fila di contatto che non fossero occasionali e intermittenti tra antropologi impegnati in progetti extra-accademici, in tempi in cui la “terza missione” ancora non esisteva. Eravamo in maggioranza “universitari” per il semplice motivo che in Italia l’università era (ed è) l’istituzione che dà più lavoro agli antropologi[9]. Proprio perché in maggioranza universitari, stavamo vivendo la nuova situazione creatasi in seguito alla “legge Gelmini”, ma soprattutto vedevamo i primi risultati di quella creatasi in seguito ai decreti ministeriali del 1999 e del 2004 che avevano istituito la laurea specialistica (poi magistrale) in “Antropologia culturale ed etnologia”. Da un lato, un’università che chiedeva di indicare realizzabilità, sbocchi economici ecc. per aprire una laurea, dall’altro già decine di persone in possesso del nuovo titolo che ci sembrava navigassero a vista. A questo si aggiungeva il nuovo clima politico-economico del post-2008, l’aumento dei flussi immigratori, la rinascita senza precedenti dei movimenti razzisti e del razzismo diffuso. Di fronte a tali fenomeni la società italiana non rispondeva con la richiesta di “più antropologia” come antidoto o ausilio, ma si rivolgeva ad operatori sgomitanti, supportati da associazioni professionali più potenti, che da un giorno all’altro erano diventati esperti di “interculturalità”: pedagogisti, linguisti, sociologi, psicologi, psichiatri, filosofi, politologi, giuristi, geografi, storici, urbanisti, perfino medici e ingegneri – tutti la sapevano più lunga di te, tanti si presentavano spesso come esperti di antropologia o infilavano “antropologia/antropologico” nei titoli e nei discorsi dei loro interventi. Non era una questione di rivendicare un’esclusiva in un dato campo, ma di “esserci” in quel campo, visto che, ad esempio, ai laureati in Antropologia nemmeno veniva concessa una precedenza per insegnare Antropologia nei licei di Scienze umane. Incerti se costituirci come “forum”, come “network”, come “società” – le opinioni erano diverse – quella prima volta decidemmo semplicemente di risentirci nel nuovo anno. Facemmo poi riunioni, parte in presenza e parte via Skype. A mano a mano che ci si riuniva, aumentava la voglia ma anche aumentavano i dubbi se dar vita ad una società ad hoc o fare altre cose. Allora esistevano due associazioni universitarie, l’AISEA e l’ANUAC, nate appunto all’interno delle logiche universitarie. Decidemmo di evitare il termine “Associazione” per non essere visti come concorrenti delle due, e di usare semmai il termine “Società” in analogia alle due società “settoriali” già esistenti, la SIMBDEA e la stessa SIAM di Seppilli[10]. Nel frattempo arrivavano notizie dei mugugni se non delle ire da parte di membri delle Associazioni/Società esistenti, di cui la lettera di Seppilli sarà l’unica manifestazione “ufficiosa”. E come primo presidente della SIAA gli sono sempre stato grato. Ai “quattro gatti” iniziali si erano aggiunti altri[11], ma, pur sempre pensando al nostro fine (sviluppare l’applicazione antropologica fuori dagli atenei), qualcuno ventilava, da universitario, che prima o poi in sede di concorsi avrebbe potuto subire la vendetta dei professori contrari… Ricordo benissimo che, in una riunione tenutasi a Bologna nella primavera 2013, quando si seppe che nel frattempo veniva portata avanti l’idea di creare quella che sarà l’ANPIA, ci chiedemmo se fosse il caso di continuare col progetto. Ricordo benissimo che tutti i presenti proposero di continuare perché le intenzioni rimanevano diverse: non volevamo essere un ente per la difesa e tutela degli antropologi professionali (che pure mancava ed era necessario), ma un’istanza di riflessione sull’applicazione dell’antropologia, dei suoi saperi e delle sue metodiche, nello spazio pubblico di oggi più o meno globalizzato restando in stretto collegamento con i dibattiti antropologici internazionali. Da questo punto di vista, i nostri campi di riflessione potevano certo sovrapporsi parzialmente con quelli della SIAM e della SIMBDEA, ma anche no; con quelli di AISEA e ANUAC, ma anche no. Certo, con l’ANPIA, se si fosse costituita, il rapporto poteva essere stretto (come poi sarà), ma i fini restavano diversi. Fu così che decidemmo di fare un convegno che Antonio Palmisano riuscì in pochi mesi ad organizzare a Lecce nel dicembre dello stesso anno. Decidemmo di presentarci in quell’occasione come Società Italiana di Antropologia Applicata (ci costituimmo formalmente la sera prima dell’inizio del convegno, stabilendo di indire per l’anno successivo l’assemblea dei nuovi soci per la rielezione di tutte le cariche). I membri fondatori furono coloro che non solo dovevano essere presenti a Lecce per la firma, ma che nei mesi precedenti più avevano seguito i lavori preparatori[12]. Stilammo uno statuto che prevedesse al massimo il ricambio degli organi dirigenti sia per favorire la partecipazione, sia per impedire il consolidamento di eventuali personalismi. Ovviamente, tutto era stato preceduto da qualche discussione sul nome: era il caso di usare quel termine, “applicata”, così ancora malvisto in Italia? All’estero erano nel frattempo fiorite un po’ ovunque associazioni di antropologi che, pur molto critici con la tradizione, continuavano a mantenere il nome. Certo, erano nati come i funghi nomi alternativi, “engaged”, “public”, “practicing anthropology”, ecc., ma l’espressione ormai era di ampia diffusione e aveva il merito di far capire al volo ad un non esperto di che cosa poteva trattarsi: applicare l’antropologia.

Decidemmo di accettare la sfida e mantenemmo i due termini tossici: se era stato fatto il peccato mortale di mantenere “antropologia” dandogli il significato radicalmente antirazzista che oggi si merita, si poteva compiere quello veniale di mantenere “applicata”, impegnandoci nel nostro piccolo a dargli un significato radicalmente anticolonialista e antiegemonico. Non eravamo originali: altri l’avevano già fatto in giro per il mondo[13].

Su una cosa Seppilli aveva ragione: la scelta è sempre di ordine etico-politico. E si risolve in una domanda: da che parte stai? Detto in modo più raffinato: dato un certo campo di forze à la Bourdieu, l’antropologo “che entra in campo” dove si colloca? Con chi sta? Con i colonialisti come il Malinowski romano, o dall’altra parte? Con i razzisti o dall’altra parte? Con gli inquinatori sistemici o dall’altra parte? Ecc. Rispondere che si sta in mezzo in modo neutro, beh, a questo non ci crede più nessuno, per quanto l’antropologo stesso lavori spesso come “mediatore”, “interlocutore”, “facilitatore in comunicazione interculturale” e simili. Poco o tanto, anche l’antropologo, come tutti gli umani, tende a “pendere”, a “propendere”, a “pendere-pro”. Il fatto è che non sempre è facile compiere la scelta: stai con i locali che incendiano ogni anno la palude secondo i dettami del loro orizzonte cosmologico, o con gli ecologisti che, con la legge dalla propria parte, li denunciano per distruzione dell’ambiente?[14] Su questo Herzfeld (2006: 186) ha scritto pagine illuminanti quando ha affermato che nei momenti di contestazione l’importante è ascoltare e riportare sempre le opinioni di tutti gli agenti in campo. Il compito odierno dell’antropologia applicata in senso critico è, a mio avviso, riflettere su questo in modo tanto sistematico da poterci costruire un’epistemologia. Ciò significa trasformare la vecchia antropologia applicata in un’antropologia dell’applicazione, antropologia esperta nel mettere a nudo tutte le forze in campo, a cominciare da quella dell’antropologo, che, in tante occasioni, in quanto persona più qualificata a cui rivolgersi, può anche valutare che il proprio disimpegno da un progetto possa essere più etico e più utile della propria partecipazione. È sviluppando l’antropologia applicata nel senso di un’antropologia dell’applicazione, cioè in modo ermeneuticamente più consapevole, che si può pensare ad un’antropologia meno manipolabile da parte di chi ti dà un salario. Senza bisogno di cambiar di nome.

A guardare lo sviluppo post-2013 della SIAA, si vede bene da che parte gli antropologi, giovani e diversamente giovani, “pendano-pro”. Già a Lecce gli organizzatori rimasero increduli: ci si aspettava una riunioncina alla buona tra pochi interessati, e ci siamo trovati con un’ottantina e più di richieste di partecipazione, e soprattutto con partecipanti che chiedevano un impegno spinto dell’antropologo nella società, un impegno acuto ad organizzare meglio la spinta antropologica. Ad un mio intervento in cui peroravo il bisogno di “più antropologia” di cui necessitava la società, una partecipante incalzò che era semmai l’antropologia che aveva bisogno di “più società”, visto che se ne stava là distaccata nella sua torre d’avorio accademica. Alcuni di noi dirigenti SIAA ce ne andammo da quel convegno con sentimenti ambivalenti: contenti per la riuscita ma preoccupati, quasi spaventati, per le aspettative che i giovani antropologi ponevano in una Società nata quasi per caso, che voleva tenere un profilo basso per non urtare suscettibilità che era ben lungi dal voler urtare, e snobbata se non derisa o osteggiata da qualche collega. Con i pochi mezzi, progettammo la nascita di una rivista, e ci impegnammo soprattutto a mantenere una cadenza annuale dei convegni per fare in modo che la plebe dispersa degli antropologi non o poco “strutturati” avesse un momento fisso d’incontro. Se a Lecce il convegno durò un giorno mezzo, quello per Parma 2020 (COVID permettendo) è previsto in quattro giorni e mezzo; se si partì a Lecce con un’ottantina di partecipanti, a Ferrara nel 2019 ve ne furono intorno ai trecentoventi (intendo i partecipanti attivi, non gli ascoltatori). Già nel 2018 a Cremona gli organizzatori (Angela Biscaldi e Ivan Severi) pensarono di disseminare il convegno per tutta la città in modo che la città “scoprisse” l’antropologia. Una modalità simile di uscita dal campus universitario fu seguita da Giuseppe Scandurra a Ferrara. È tanta la richiesta di partecipazione a tale appuntamento annuale che ormai è sempre più problematico, anche per i ben intenzionati, proporsi per organizzare il convegno considerando l’impegno richiesto.

Seppilli nel 2013, col suo modo garbato, lui grande organizzatore di convegni e iniziative, lui molto attento ai cambiamenti sociali, si sforzava di far finta di non sapere che l’antropologia italiana stava cambiando, era cambiata. Le spinte “dal basso” non erano mai state così forti. La nascita qua e là di associazioni locali di antropologi che offrivano la propria formazione ad enti pubblici e privati metteva l’accademia di fronte a problematiche nuove che di solito non rientravano nel suo orizzonte discorsivo: i dati “etnografici” diventano dati da trattare “in base alla normativa vigente”; i tempi etnografici diventano i tempi entro cui devi rimettere un rapporto; dal rapporto finale spesso viene espunto il nome del ricercatore, alla faccia di tutte le discussioni sull’antropologo-come-autore; la paga spesso da fame che l’etnografo riceve (quando la riceve) fa decisamente a pugni con lo stipendio (di cui comunque ci si lamenta…) di un universitario strutturato; ecc. Queste condizioni materiali di esistenza restano da sintonizzare con le richieste epistemiche di una disciplina che ha accumulato i suoi saperi e costruito le sue metodiche a partire da altri interessi e altre condizioni. Nata nell’accademia, fuori l’antropologia è sempre più spinta a de-accademicizzarsi: l’antropologia dell’applicazione deve servire al contrario ad articolare i due orizzonti dell’antropologia, ad attutire se non a frenare, quanto meno ad analizzare, un rischioso processo di schismogenesi.

All’estero, dove più dove meno, questi e simili aspetti erano stati sollevati già da decenni. Il rimprovero di “frazionismo” (oltre che contraddittorio: da lui, presidente della SIAM!) rimandava ad una visione da “centralismo democratico” poco efficace. Ritengo ancora che la concentrazione o la proliferazione di associazioni debba essere di ordine pragmatico, non ideologico-corporativo: ci si concentra laddove serve, ci si sparpaglia laddove è più utile. Certo che in ambito universitario è utile che ci sia un’unica associazione/società, viste la struttura e le modalità della distribuzione delle risorse in vigore negli atenei! Ma fuori, i meccanismi cambiano. Resto personalmente dell’avviso che più associazioni/società di antropologia ci sono, meglio è! L’importante è mantenere un collegamento, un’articolazione fra le diverse istanze, come, mi pare, si sta cominciando finalmente a fare[15].

C’è bisogno di società/associazioni di antropologi che si inseriscano in spazi e anfratti della società oggi lasciati a chi pratica una “interdisciplinarità molle, scialba e senza nerbo”, di società/associazioni che ovunque «affermino l’esigenza di metodi etnografici che permettano la descrizione in profondità della realtà», come dicono i colleghi che hanno redatto il Manifesto di Losanna (Saillant et al. 2012: 30), e proprio nella direzione di “un’antropologia non egemonica” (né all’interno né all’esterno), applicata in vista di un futuro che non deve mai essere pensato peggiore del passato. Perché il punto non è se applicare o no l’antropologia, ma quale antropologia applicare e come elaborare criticamente la sua applicazione.

Bibliografia

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Bonacini Seppilli, L., Calisi, R., Cantalamessa Carboni, G., Seppilli, T., Signorelli, A., Tentori, T. 1958. «La antropologia culturale nel quadro delle scienze umane. Appunti per un memorandum», in L’integrazione delle scienze sociali – Città e campagna. Associazione Italiana di Scienze sociali. Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa sociale (a cura di). Bologna. Il Mulino: 235-253.

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[1] Malinowski non presenziò di persona al convegno ma inviò due interventi in inglese che, è spiegato in nota ai testi, vennero distribuiti ai convegnisti. Nel primo l’autore si premuniva di segnalare che usava “’Anthropology’ […] following the established usage of English science. The Italian, French, German, and Spanish readers will substitute for it the terms ‘Etnologia’, ‘Ethnologie’, or ‘Völkerkunde’” (1939a: 99). Quindi, per un italiano di allora, la sua “Applied Anthropology” sarebbe stata da intendere come “Etnologia applicata” – il che oggi fa quasi ribrezzo. La seconda relazione è stata tradotta in italiano una ventina di anni fa da Lucia Rodeghiero, che, a sessant’anni di distanza, proprio per il discorso che stiamo facendo, non ha certo seguito il consiglio dell’autore di sostituire “anthropology” con “etnologia”. Pubblicata in un’antologia sull’Antropologia applicata curata da Roberto Malighetti e pensata per gli studenti, dalla versione italiana sono stati espunti alcuni passaggi sulle colonie africane non inglesi e lo “European rule” del titolo originale è diventato “dominio inglese” (v. Malinowski 2001). I tagli non sono convincenti perché Malinowski spiegava, giusto in uno dei passaggi soppressi, che, anche se si concentrava sulla situazione del Sud Africa e dell’Africa orientale inglese, il discorso che sviluppava poteva valere anche per regioni africane controllate da altre potenze coloniali (1939b: 882). Sempre in un passaggio tagliato spiegava che, sì, le politiche inglesi e francesi nei rapporti con gli indigeni possono essere diverse nell’accentuazione o meno della differenza “razziale”, ma quella che chiamava la “Linea del Rifiuto Integrale dell’assimilazione totale” esiste sempre, e nemmeno i francesi avrebbero potuto permettersi di creare le “impossible conditions” di concedere a tutti gli africani francesizzati la cittadinanza francese, compresa magari la possibilità di emigrare in Francia (ivi: 895, nota)!

[2] Né mancano la sua foto e copia della sua firma originale nelle note biografiche aggiunte alla fine del vol. II, p. 1673.

[3] Il “Mühlmann” spessissimo citato da De Martino in Naturalismo e storicismo nell’etnologia e altrove non è altri che quel Wilhelm Emil Mühlmann oggi considerato “il più pericoloso ideologo nazista della Völkerkunde tedesca” (Gingrich 2010: 69).

[4] Le stesse considerazioni si potrebbero fare per tanti altri termini: così, il termine “biopolitica” oggi molto di moda non ha certo aspettato Foucault per nascere, ma era usato dagli eugenisti della prima metà del Novecento per intenti razzisti del tutto opposti rispetto a quelli di Foucault: si legga ad esempio Moldovan (1926).

[5] Il documento e le riflessioni preparatorie furono elaborati lungo l’asse Roma-Perugia: in base alle indicazioni sugli autori date in fondo al volume in cui appare, tre dei sei firmatari del documento risultano facenti parte dell’Istituto di Etnologia dell’Università di Perugia, diretto dallo stesso Tullio Seppilli, due del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari di Roma, diretto da Tullio Tentori. Solo di Amalia Signorelli si dice che tenesse già un insegnamento di “Antropologia culturale” (presso la Scuola di Servizio sociale di Roma).

[6] La storia dell’espressione “Cultural Anthropology” è pure da indagare: ho ritrovato la prima proposta di un insegnamento di “Cultural Anthropology” in Gran Bretagna alla fine dell’Ottocento, non negli Stati Uniti. La storia dei nomi fa spesso simili sorprese.

[7] Francesco Cassata (2006: 345-378) ha ricostruito il tentativo dei mai scomparsi antropologi razzisti, anche italiani, di contrapporsi alla politica antirazzista dell’Unesco.

[8] Copio l’espressione da Rossana Rossanda che nel 1975, in un momento di dissenso con Luigi Pintor, in un convegno lo chiamò “mezzo-Pintor”.

[9] A quella prima riunione molto informale, tenutasi il 25 settembre del 2012, eravamo il sottoscritto, Roberta Bonetti, Massimo Bressan, Roberto Malighetti, Antonio Palmisano, Giovanni Pizza, Bruno Riccio e Sabrina Tosi Cambini; altri colleghi contattati e dimostratisi interessati non poterono presenziare.

[10] In seguito, la fusione (benefica) di AISEA e ANUAC nel 2017 ha prodotto un’altra “Società”, la SIAC, non un’altra “Associazione”…

[11] Antonino Colajanni, Ivo Quaranta, Alessandro Simonicca, Piero Vulpiani.

[12] Soci formalmente fondatori: Roberta Bonetti, Massimo Bressan, Antonio Palmisano, Leonardo Piasere, Giovanni Pizza, Bruno Riccio, Alessandro Simonicca, Sabrina Tosi Cambini. Antonino Colajanni, già in quiescenza, fu nominato presidente onorario.

[13] Con la nascita dei “settori concorsuali” nell’Università italiana introdotti dalla “legge Gelmini”, è stato costituito il macrosettore di “Sociologia applicata”: non mi è giunta voce di grandi diatribe sorte su quel nome fra i colleghi sociologi. D’altra parte già nel 1958, al convegno dell’Associazione Italiana di Scienze Sociali in cui fu presentato il Memorandum, fra i relatori principali vi era Franco Ferrarotti, che al tempo insegnava “Sociologia applicata” all’Università di Firenze: nessun mugugno…

[14] Il caso è ben descritto da Nadia Breda (2000).

[15] Ho saputo che gli organismi direttivi di ANPIA, SIAA, SIAC, SIAM, SIMBDEA (in ordine alfabetico) si soro riuniti a Roma il 5 ottobre 2020.