SIAA e SIAM unite nella lotta

Giovanni Pizza

Università degli Studi di Perugia

Nel lontano 1988, Tullio Seppilli fondò la SIAM, Società italiana di antropologia medica, e ne è stato anche il presidente fino alla morte, avvenuta a Perugia, a circa 89 anni, il 23 agosto del 2017 (era nato a Padova, il 16 ottobre del 1928). La SIAM è una società scientifica italiana, in verità la più anziana, che si occupa di salute e malattia e che ha anche prodotto AM, una tra le riviste antropologiche più longeve del panorama italiano, grazie all’ideazione e alla direzione di Seppilli. Una rivista esistente e ora disponibile online in open access con tutti i suoi contributi, pubblicati fin dal 1996. Oggi che le tre cariche che Seppilli incarnava (presidenza della SIAM, presidenza della Fondazione Angelo Celli per una cultura della salute, direzione della rivista AM) sono state redistribuite (rispettivamente ad Alessandro Lupo, a Cristina Papa e a Giovanni Pizza) posso dire che queste tre responsabilità procedono insieme con un rinnovato spirito unitario. Il 12 dicembre 2020, in un’importante annunciata Assemblea dei soci, si rinnoveranno [scrivo il 31 ottobre 2020] le cariche della SIAM. In questi lunghi anni, la rivista AM ha rilanciato molto la riflessione scientifica antropologica sui processi corporei e sulle politiche di salute/malattia in campo nazionale e internazionale.

Sono membro della SIAM fin dalla fine del Novecento e faccio parte del suo Consiglio direttivo ininterrottamente da allora, se non proprio dalla sua fondazione almeno da qualche anno dopo, certo da più di vent’anni posso testimoniare quest’attività. È una longevità inusitata per le Associazioni scientifiche internazionali, tipica, però, di gran parte delle riviste e delle associazioni scientifiche italiane, che in genere tendono ad avere per lunghi decenni la medesima guida. Peraltro, durante questi troppo lunghi mesi di chiusura per Covid epidemico, la SIAM ha mostrato di saper tenere il passo con gli eventi anche nell’assenza del suo fondatore e animatore. Essa sa anche come tenere viva la memoria di Seppilli, organizzando seminari e convegni telematici diffusi di antropologia medica sul tema epidemico contemporaneo, producendo una nuova riflessione sui dialoghi istituzionali a carattere sanitario e valorizzando al massimo possibile il lavoro di “giovani” precari e precarie, ricercatori e ricercatrici ai/alle quali è affidato il futuro della nostra disciplina in assenza delle pur dovute attenzioni istituzionali o a fronte di una radicale indifferenza governativa e sindacale, su cui credo che occorrerà meditare.

Nel 2013 ho partecipato alla Fondazione della SIAA, la Società Italiana di Antropologia Applicata, per la quale continua il mio impegno sia come co-discussant dei convegni annuali (un solo anno per motivi di tempo non potei discuterne la proposta e chiesi pertanto alla presidenza di non far parte del comitato scientifico per quell’edizione) sia con l’impegno recente, nell’imminenza della programmazione, a presentare la proposta di organizzare presso la sede nella quale svolgo il mio lavoro, la città di Perugia, uno dei prossimi meeting. Sono convinto che il motivo per il quale i convegni annuali della SIAA conseguono sempre un indiscutibile successo sia costituito proprio dalla numerosa presenza del precariato della ricerca e dalla valorizzazione di esso, che parte della nostra antropologia accademica persegue da tempo e che è a fondamento della stessa nascita della Società Italiana di Antropologia Applicata. I simposi della SIAA sono, dunque, sempre animati dalla moltitudine di ricercatori e ricercatrici precari e precarie nel nostro sistema accademico-scientifico universitario, studiose e studiosi che nel loro complesso rendono assolutamente aggiornato e avanzato il nostro campo, pur nell’assenza, come dicevo, di ogni iniziativa di governo (che senso ha, ad esempio, non aprire la possibilità dell’insegnamento nelle scuole a chi ha svolto il dottorato di ricerca?).

Non nego certo che gli strutturati o almeno parte di essi - e io mi colloco da questa parte - abbiano offerto una sponda importante a tale generazione di studiosi, un sostegno non sempre riconosciuto dagli interessati e dalle interessate, almeno tra coloro che si sono lasciate/i spesso andare a indistinte quanto infantili accuse nei confronti di un’“antropologia accademica”, cedendo a quella che a me pare un’assurda scissura tra teoria e pratica; ma che costoro abbiano certamente maturato una necessità primaria va confermato: ancor prima del riconoscimento istituzionale, tali generazioni hanno bisogno del rispetto profondo della loro pratica di studio e di ricerca, nonché delle loro capacità di insegnamento, una didattica talora determinante per il nostro sistema istituzionale (i professori a contratto, pur autorevoli, lo sono spesso a partire da somme del tutto irrisorie loro elargite). È importante a mio avviso sostenere questo nell’attuale fase storica.

Fu un errore da parte di Seppilli lasciare intendere che ciascun membro del campo antropologico italiano tendesse a produrre la propria associazione, favorendo in tal modo la personalizzazione di quella che invece appare oggi come un’esigenza storica, legata al fatto che sempre più le nostre scienze DEA (ma quando lo abbattiamo questo brutto acronimo?) sono rappresentate da studiose e studiosi che lavorano in ambiti professionali non universitari o non di ricerca scientifica. Ne è una chiara testimonianza la nascita recente dell’ANPIA, l’Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia. Risulta inattuale anche, stante la scelta di pubblicare quella lettera di Seppilli solo ora, la riflessione sul frazionismo dell’antropologia italiana, che seppur ancora efficace nel delineare il piano concreto delle relazioni fra scuole o gruppi, non risulta più veritiera dopo la genesi della SIAC, la Società Italiana di Antropologia Culturale, che proprio attraverso un difficile processo di unificazione ha rimesso insieme ANUAC, l’Associazione Nazionale Universitaria degli Antropologi Culturali, e AISEA, l’Associazione Italiana per le Scienze Etno-Antropologiche. Nate entrambe dal rapporto tra uno spirito scissionistico e una vocazione monopolistica, tali associazioni disvelano le loro intime ragioni solo a un occhio analitico attento, in grado di esaminare insieme il campo accademico italiano e il contesto storico-pubblico nazionale (Palumbo 2018). Ma la riflessione seppilliana sull’aggettivo “applicata” è molto importante alla mia lettura. E cerco di spiegarmi meglio.

Ha ragione Antonino Colajanni ad aprire il suo intervento innanzitutto valorizzando il tono della lettera di Tullio Seppilli, inviata in occasione della nascita della SIAA. Darò in chiusura la mia testimonianza su quel momento del 2013. Voglio ora sviluppare un po’ di più l’avvio del testo di Colajanni che non è peregrino, né soltanto introduttivo, almeno alla mia impressione: la cortesia e il rispetto, che giustamente Antonino sottolinea, non sono mai per Seppilli solo momenti di metodo, orpelli ornamentali della scrittura; essi anzi costituiscono la sostanza a mio avviso fondativa del suo discorso. Ed è un vero peccato, una maledizione della storia, che egli non sia qui a replicarci. Quello di Seppilli, e me ne vado convincendo sempre di più ora che in sua assenza sono spinto a rileggere i numerosi saggi suoi come mai avrei pensato di fare, non è uno “stile”, ma un vero e proprio modo di stare al mondo. Direte che in effetti potrebbe questa essere una definizione dello “stile”, cioè che esso consiste proprio in un certo modo di stare al mondo; eppure credo sia qualcosa di diverso: a mio avviso questa parola è stata derubricata a indicare la superficie del proprio comportamento e non il fine ultimo di esso. Il rispetto per Seppilli era tutto, egli ereditava questo atteggiamento dal suo maestro vero che a mio avviso è Antonio Gramsci, forse ancora più di Karl Marx e certamente più di Palmiro Togliatti. Nonostante Gramsci fosse avvezzo alla polemica critica, all’ironia, financo al sarcasmo, era pur sempre interessato al suo avversario di turno, anzi talora quasi colpito da questo. La seduzione dell’avversario è a mio avviso uno dei tratti salienti della prassi critica dell’antropologia di ispirazione gramsciana.

Seppilli è stato decisamente un antropologo comunista, prima ancora che marxista, militante teorico-pratico del PCI, al tempo stesso. La sua avversione all’aggettivo “applicata” che noi continuiamo ad apporre alla SIAA (fino a quando?) va quindi presa molto sul serio. Non è solo una pur dignitosa questione nominale. Il fondamento di quella critica seppilliana non risiede nelle antipatie demartiniane verso l’antropologia applicata “degli americani” (e poi, ma non è qui la sede per sostenerlo, quello demartiniano non era affatto un pregiudizio antiamericano, come si comprende bene leggendo il saggio di Mara Benadusi in corso di stampa – 2020 – sul tema): l’avversione seppilliana è della stessa natura alla base della nostra proposta di intitolare la rivista della società Antropologia Pubblica. È la stessa ragione, dunque, quella seppilliana, che ci ha spinto ad aggettivare con “pubblica” quell’antropologia che andava invece chiamata “applicata”. Perché lo abbiamo fatto? Per quale motivo? Ce ne siamo scordati? Fui io stesso nelle prime edizioni dei convegni SIAA dicembrini, per le quali come socio fondatore ho contribuito a immaginare i programmi e i titoli, a suggerire qualche tempo fa di insistere con l’espressione antropologia pubblica. La locuzione antropologia pubblica ha indicato finalmente anche in Italia un campo di studi che faceva a meno delle incrostazioni negative abbarbicate all’aggettivo “applicata”. Anche se al volgere degli anni Dieci di questo terzo millennio ancora la parola “pubblica” difettava nel nostro paese, mentre ora invece sembra diventata quasi una nuova moda (ma questa è un’altra storia).

Seppilli andava geloso dell’espressione che a Perugia si era coniata nel dialogo istituzionale e che tutti riconosciamo alla sua memoria scientifica: l’uso sociale dell’antropologia. Mi permetto di citare una introduzione che con un allievo diretto di Seppilli, cioè con Massimiliano Minelli, abbiamo scritto rilanciando l'ultimo numero cartaceo della rivista AM:

L'espressione “uso sociale” definisce un’area concettuale e operativa di rilevanza strategica per l'antropologia medica. Immaginata in una più ampia riflessione e opera di risistemazione epistemologica delle scienze sociali, essa trova nell’approccio di Seppilli un respiro tale da innovare profondamente il rapporto intellettuale – che egli ha costantemente intrattenuto – con maestri del pensiero critico quali Karl Marx e Antonio Gramsci (Minelli, Pizza 2019: 13).

Non credo quindi che possiamo rinchiuderci nel contorno d’Italia concependo il nostro Paese come una provincia periferica dell'impero grande e terribile. Ma faremmo questo se non comprendessimo quali sono state e sono le giustissime diffidenze, a mio avviso, proposte da Seppilli verso l'aggettivo “applicata”. Non voglio dilungarmi su questo, è storia degli studi antropologici. Certo che non è un problema nominale: non è che cambiando l'espressione da antropologia applicata a uso sociale dell’antropologia non si possano fare le stesse cose, buone o cattive che siano. Ma l'antropologia pubblica a mio avviso deve puntare a riconfigurare sempre le cornici dei problemi che affronta piuttosto che a saltare sul carro dominante di questioni che altri ha già configurato. È la lotta per l’egemonia. Alla quale Seppilli teneva. Alla quale noi tutti e noi tutte teniamo, credo. Qui si gioca a mio avviso una partita importantissima. E unitaria. Per ottenere maggiore lavoro e possibilità di incidere nella sfera pubblica l'antropologia non deve svendere il suo statuto di critica sociale, culturale e politica. Non è mica una questione di soldi! E lo dico proprio ai precari e alle precarie della ricerca, i/le quali rischiano di riprodurre le stesse logiche talora perpetrate dai/lle loro maestri/e. Non si può a mio avviso neanche elogiare il lavoro antropologico, la “professione”, in quanto tale: si è consapevoli di agire sulla scena del lavoro antropologico solo operando sulle sue cornici. Se non si persegue questo obiettivo, la nostra disciplina è destinata a soffrire un limite profondo, ben superiore a quello del margine pubblico cui è tenuta oggi. Poiché non si tratta di sottolineare il suo impegno sociopolitico, come un engagement “esterno”, “intellettuale”, “sartriano” per così dire, che può esserci o no; piuttosto si tratta di sottolineare l’implicito politico che è al cuore della stessa episteme antropologica.

Vengo in conclusione a raccontarvi la mia testimonianza relativa al momento della nascita della Società Italiana di Antropologia Applicata. Diversi di noi, almeno quattro amici e colleghi, appartenenti al campo dell'antropologia medica, fummo chiamati a rappresentare questo settore, giustamente a mio avviso, nel momento della genesi di un’associazione di antropologia che si voleva attenta alla dimensione lavorativa della nostra disciplina in questo Paese. Nei giorni in cui, invece, la fondazione della SIAA nel 2013 a Lecce trovò il suo momento concreto di questi quattro rimasi soltanto io, e per questo motivo fui fatto oggetto all'interno della SIAM di un severo rimprovero da parte di Seppilli, proprio per i motivi che leggete nella sua lettera, certo, ma che potete cogliere forse anche in alcune delle risposte che essa ottiene oggi. Seppi trovare, tuttavia, nel biasimo di Seppilli, un elemento nuovo: egli mi disse, severo come mai lo avevo visto: «Fosse stato vivo tuo padre lo avrei chiamato ora». Paternalista? D’accordo. Ma per me fu il suo un modo, geniale come sempre, per ribadire la vicinanza anche nel massimo momento della lontananza. Una tensione unitaria. Questo è. Per questo motivo Tullio mi manca molto, e considero il nostro dibattito importante: un’occasione allora perduta, ma recuperata per merito storico di Mara Benadusi. Nondimeno, purtroppo, essa risulta mancante della necessaria replica.

Bibliografia

Benadusi, M. 2020. L’antropologia applicata in Italia: sviluppi e ripensamenti. Voci. Annuale di Scienze Umane, XVII (in corso di pubblicazione).

Minelli, M., Pizza, G. 2019. Usi sociali dell’antropologia medica. AM. Rivista della società italiana di antropologia medica fondata da Tullio Seppilli, 47-48: 13-30.

Palumbo, B. 2018. Lo strabismo della Dea. Antropologia, accademia e società in Italia. Palermo. Museo Pasqualino.