Il tempo di parlare e segnare

Antropologia, politiche e pratiche del tempo nella sordità

Fabrizio Loce-Mandes

Queen’s University Belfast

Abstract.  This article explores how the temporal needs of intervention for deaf people defines therapies inside the clinical spaces, and appears as an essential and political element inside the controversy between associations and institutions deafness related. Inside the clinical/therapeutic process of enabling language for deaf, the “time” – divided by the contradiction “fast”/“slow” – appears as characteristic element as well as useful tool to investigate health system linked to deafness. In a biomedical fieldwork defined by the balance of power between social actors – associations, family, deaf people, audiologists, otorhinolaryngologists, speech therapists – the “time” and “mandate” practical-operational of clinical professionals tend to manage the production of health and disease. From this context, my contribution refers to an ethnographic case that I followed with health and education professionals to structuring an Italian Sign Language educational path, after the “failure” of biomedical approach based on multiple operations for inserting a Cochlear Implant.

Keywords: Deafness; Sign Language; Cochlear Implant; Biomedicine; Disability.

Disability is a profoundly relational category, always already created

as a distinction from cultural ideas of normality, shaped by social conditions

that exclude full participation in society of those considered atypical.

Faye Ginsburg, Rayna Rapp, Disability worlds, 2013.

Introduzione

Questo lavoro[1] nasce da una più ampia ricerca antropologica nel campo della sordità, che dal 2010 svolgo in Umbria, sui processi di abilitazione linguistica e sulle relative pratiche e politiche associative e sanitarie. In particolare, durante il periodo di ricerca, ho potuto osservare etnograficamente molteplici spazi connessi alla sordità: enti e associazioni, incontri per la diffusione della lingua dei segni, laboratori teatrali, istituzioni statali e sanitarie (dove sono di norma effettuati gli esami audiometrici, equipe di diagnosi, incontri con le famiglie e sale operatorie per l’inserimento dell’impianto cocleare[2]). I cinque anni di ricerca hanno permesso non solo di osservare tale moltitudine di spazi relazionali ma soprattutto, utile per questo mio contributo, una rete di connessioni e rapporti di forza che agiscono all’interno del campo della sordità definendone prospettive e possibilità terapeutiche in relazione a spazi e “tempi”, siano essi burocratici, clinici o personali. In Italia, e nello specifico in Umbria, le istituzioni e le associazioni indipendenti che si occupano di persone che vivono l’esperienza della sordità, dibattono sulle politiche di gestione del “deficit sensoriale”, secondo posizioni che oscillano dall’approccio terapeutico (assenza o presenza di protesi acustiche e impianti cocleari) a quello linguistico. In particolar modo, le due associazioni principali, Ente Nazionale Sordi (d’ora in poi ENS) e Famiglia Italiane Associate per la Difesa dei Diritti degli Audiolesi (d’ora in poi FIADDA)[3] , divergono soprattutto sulla metodologia abilitativa/linguistica della persona sorda[4]: rispettivamente, un approccio che riconosce la Lingua dei Segni Italiana[5] (d’ora in poi LIS) come una lingua vera e propria e, pertanto, adatta ai processi comunicativi ed educativi, e un altro che vede nell’apprendimento della lingua italiana orale l’obiettivo fondamentale del percorso terapeutico per il bambino sordo. Nello specifico le associazioni tendono a rispecchiare differenti ed essenzialistici aspetti del disturbo uditivo, basati e costruiti per far emergere un distanziamento reciproco e il proprio posizionamento nel campo della sordità. Se da un versante l’ENS, formato da persone sorde, tende a promuovere una concezione non medica del disturbo uditivo, mediante la LIS come processo comunicativo e abilitativo, dall’altro l’associazione FIADDA, costituita da genitori di bambini sordi, di concerto con le istituzioni sanitarie, medici e terapisti specializzati, si identifica in una pratica terapeutica e un percorso (ri)abilitativo fono-centrico. Se da un lato l’ENS sostiene il riconoscimento della LIS come fattore caratterizzante di una comunità linguistica e un metodo comunicativo specifico appartenente a quella che è stata definita come “cultura Sorda”[6]; dall’altro l’associazione famigliare si oppone a tali considerazioni che essenzializzano, dal loro punto di vista, il deficit uditivo come un fattore culturale. È su queste due direttrici che occorre procedere con profondità etnografica, evidenziandone le t ensioni identitarie e le strategie confliggenti; in particolare queste due linee oltre a essere evidenti e oppositive nella strutturazione di un percorso abilitativo, come emergerà all’interno del testo, ostacolano forme linguistiche ibride, come il bilinguismo (LIS e lingua orale), già presente in molti sordi adulti. Da questi presupposti, si può comprendere che le istituzioni, statali e sanitarie, giocano un ruolo fondamentale poiché sono lo spazio, politico e pratico, dove sono portate a termine le diagnosi, scelti gli approcci terapeutici e svolti i periodi (ri)abilitativi.

In questo campo biomedico articolato, caratterizzato da una pluralità di istituzioni e definito dai rapporti di forza tra vari attori sociali – famigliari, sordi, audiologi, otorini, logopedisti, che agiscono in base a specifiche motivazioni e obiettivi – il “tempo” e il “mandato” pratico-operativo dei professionisti sanitari tendono a scandire i modi di produzione della salute e della malattia o, nel caso della sordità, l’esperienza quotidiana da parte delle persone sorde in connessione all’abilitazione linguistica. In questo caso, il principale percorso terapeutico messo in atto dai professionisti sanitari, definito “oralista”, è caratterizzato da una necessità “temporale-naturale” dello sviluppo autonomo del linguaggio, così da far entrare in gioco il “tempo” tanto nelle scelte organizzative e politiche, quanto in quelle chirurgiche e terapeutiche; in questo modo traspare una contrapposizione tra la “velocità”, per le operazioni, e la “lentezza”, per il percorso abilitativo che può durare molti anni. Pertanto, sul presupposto “biologico-naturale-spontaneo” dello sviluppo linguistico, s’inscrivono dialettiche operative incentrate sul corpo dell’individuo, poiché se – come affermato dai rappresentati delle associazioni e dai medici – «c’è un tempo linguistico»[7] e «bisogna fare in modo che immediatamente sia immerso in un universo sonoro»[8], il “tempo” oltre a diventare un elemento in comune tra associazioni e professionisti sanitari, è anche uno dei presupposti essenziali per l’efficacia clinica all’interno dei percorsi di (ri)abilitazione. Si cercherà di evidenziare come l’urgenza temporale di intervento linguistico per le persone sorde delinei le terapie negli spazi clinici e, come emergerà dalla prima parte, si configuri come un elemento essenziale nel confronto politico tra associazioni e istituzioni designate. In un tale quadro le principali ricerche scientifiche di riferimento tra medici e specialisti in ambito clinico inerenti il linguaggio, hanno focalizzato il nesso tra i tempi di acquisizione e gli sviluppi cognitivi che ne conseguono, delineando i limiti di età, le tecniche di apprendimento e le modalità di produzione del parlato (Bates et al. 2002). In una rassegna inerente le fondamentali ricerche sulle soglie temporali di acquisizione della prima lingua, segnica o orale, il linguista Hurford mostra che c’è «in humans a critical period, or at least a sensitive period, for the acquisition of (first) language» (Hurford 1991: 159), una soglia che tende ad assottigliarsi[9] o a modificarsi rispetto a le differenti ricerche, gli ambiti scientifici e i disturbi, siano essi uditivi o linguistici ma sempre connessi al campo biomedico (Hurford 1991).

La tipologia di studi sull’apprendimento linguistico sono utilizzati a sostegno della velocità di intervento terapeutico, linguistico e chirurgico, adoperati spesso per «demonstrate accelerated language learning after cochlear implantation» (Kane et al. 2004: 622). Un risultato osservabile, almeno sulle linee guida e nei protocolli sanitari, è una strategia d’intervento sempre più rapida e di operazioni chirurgiche sempre più precoci, effettuati su bambini sempre più piccoli, fino al raggiungimento di inserimenti audiologici applicati entro i sei mesi dalla nascita (Ciorba et al. 2013). Nella seconda parte di questo lavoro, il mio intento sarà di mostrare in che modo è utilizzato il “tempo” nel campo clinico e le conseguenze provocate dalla continua ricerca applicativa di un’operazione ritenuta “più veloce”. L’approfondimento etnografico riguarderà la costante tensione tra la necessità medico-burocratica e quella temporale (istituzionale e materiale) che influenza le persone sorde, investendo la dimensione quotidiana e famigliare e delle prassi linguistiche. In questo modo l’analisi servirà proprio a mostrare la contraddittorietà del modello egemone, basato sulla velocità temporale e operativa, nel momento in cui emerge un cortocircuito innescato dal ripetuto insuccesso dell’inserimento di un impianto cocleare (d’ora in poi IC). Così la “velocità” dell’operazione chirurgica, descritta di norma dai medici come «in un paio di giorni sei fuori dall’ospedale»[10] si è contrapposta all’impossibilità di “successo” causata, come emergerà nella descrizione etnografica qui riportata, dalla particolarità fisica di un ragazzo sordo che ho potuto seguire in una delle fasi del processo di abilitazione linguistica.

Nel 2012 mi rivolsi all’ENS di Perugia per osservare il lavoro quotidiano di questo ente, il presidente dopo aver esposto la necessità di avere una persona udente all’interno della sede che potesse occuparsi di pratiche burocratiche e incontri operativi tra i diversi uffici statali, mi chiese di prestar servizio volontario come segretario. Questo favorì il mio accesso al campo etnografico e a relazioni e eventi fondamentali. Il lavoro operativo come segretario, il rapporto di fiducia instaurato con i membri sordi, ha permesso non solo di approfondire etnograficamente la continua e costante ricerca di “visibilità” messa in atto dagli attori sociali, ma allo stesso tempo di essere parte integrante di questo articolato campo di forze. La percezione e assimilazione del mio ruolo a sostegno dell’ENS incise negativamente quando non ostacolò i rapporti con istituzioni sanitarie e associazioni famigliari e le mie considerazioni sulla sordità vennero considerate di parte. D’altra parte la conoscenza pregressa del campo etnografico mi aveva permesso di fornire consulenza come mediatore o interprete LIS in casi che richiedevano l’intervento dell’ente. In questo contesto “applicativo” la mia presenza, al contempo di segretario dell’ENS, mediatore e antropologo, ha permesso di esser parte di un gruppo – formato da un logopedista, educatori e insegnanti – incaricato dalla scuola di risolvere una condizione di staticità linguistica protratta per anni, così da delineare, di comune accordo con la struttura sanitaria di riferimento, un percorso formativo di apprendimento della Lingua dei Segni Italiana. Il percorso tracciato all’interno del testo, così come l’esperienza vissuta del protagonista sordo e della famiglia, fa riferimento a due differenti modelli di percezione e utilizzo del “tempo”, che si riflettono nel percorso linguistico inerente la sordità; come tenterò di mostrare, facendo riferimento agli studi di Setha Low sullo spazio (Low 2011), c’è una “produzione sociale” del tempo, stabilito, che ha scandito la quotidianità della famiglia in questione, e una “costruzione sociale” del tempo, relazionale, che emerge dagli sviluppi progettuali attuati dopo il percorso ospedaliero.

«Ci sono i tempi stringenti dell’apprendimento»: il tempo tra mandato operativo e costruzione sociale della sordità

Nei primi mesi del 2013 presso la Direzione Regionale Salute, Coesione Sociale dell’Umbria erano stati organizzati una serie di incontri per predisporre un Protocollo operativo per il percorso diagnostico terapeutico riabilitativo integrato ospedale-territorio per minori affetti da ipoacusia permanente (DGR n. 1384 del 09 dicembre 2013). Gli incontri di strutturazione del protocollo, coordinati da alcuni rappresentanti della Regione Umbria, furono proposti dall’associazione di genitori (FIADDA) in accordo con le istituzioni sanitarie coinvolte nelle prassi terapeutiche inerenti la sordità: le due Aziende ospedaliero-universitarie della regione (Perugia e Terni) e le Aziende dell’Unità Sanitaria Locale Umbria 1 e 2 (d’ora in poi USL[11]). I rappresentanti delle differenti strutture ospedaliere/assistenziali, avevano come compito quello di sviluppare un percorso assistenziale per orientare gli operatori del settore e famiglie con bambini a cui era stata diagnosticata un’ipoacusia permanente. Agli incontri, coordinati da responsabili amministrativi dell’ufficio regionale, partecipavano audiologi, logopediste, responsabili del reparto di audiologia dei centri di terzo livello e del Servizio Riabilitazione Età Evolutiva (d’ora in poi SREE) dei servizi territoriali, e alcuni associati di FIADDA. In quella fase il mio interesse etnografico era di osservare le pratiche relazionali tra servizi territoriali, centri di terzo livello e associazione genitoriale, per poter meglio comprendere, attraverso i discorsi dei partecipanti, la loro concezione di terapia e le diverse considerazioni che ruotano intorno al fenomeno della sordità.

In Umbria, ma anche in altri contesti regionali (Sacks 1990; Le Breton 2007; Savoia 2014), l’approccio terapeutico/linguistico maggiormente utilizzato all’interno delle strutture sanitarie è quello protesico-orale, caratterizzato da alcuni momenti chiave, all’interno dei quali differenti attori sociali tendono ad instaurare e definire percorsi burocratici e prassi sanitarie influenzate da rapporti di forza e relazione tra le parti. Questi passaggi sono di particolare interesse poiché, se da un lato la normativa legittima precisi percorsi diagnostici per l’individuazione del disturbo uditivo e azioni mirate al miglioramento uditivo e al supporto famigliare, dall’altro questi elementi emergono come azioni strategiche e momenti di costruzione relazionale tra istituzioni e associazioni (Radda, Schensul 2011); negli anni il percorso definito oralista è divenuto l’unico accettato e condiviso dalle istituzioni sanitarie e associazioni. In questo quadro, per velocizzare i tempi burocratici e applicativi delle terapie si decise – mediante la sollecitazione di FIADDA – di strutturare una rete di servizi specialistici per garantire:

Uniformità ed equità di accesso e di terapia all’interno di un percorso assistenziale integrato ospedale–territorio partendo dallo screening audiologico neonatale per arrivare alla diagnosi ed al trattamento precoce delle ipoacusie infantili (DGR n. 1384 del 09 dicembre 2013: 4).

Mediante un attraversamento etnografico delle sessioni organizzative, sarà possibile delineare il modo in cui i discorsi di medici, rappresentanti istituzionali e di FIADDA – incaricati di strutturare di comune accordo tale protocollo – erano diretti verso un’esigenza temporale delle terapie per consolidare determinati approcci sanitari e affermare il proprio ruolo all’interno degli stessi, così da escludere ulteriori realtà a loro contrastanti[12]. Emergeva durante gli incontri un’avversità nei confronti dell’ENS, innescata dalle nozioni di “comunità linguistica” e “cultura Sorda”, spesso utilizzate dall’ente per sostenere il riconoscimento della LIS[13] da parte dello stato. Durante l’ultimo incontro, che sintetizzerò utilizzando frammenti dei miei quaderni di campo, si doveva stabilire quali associazioni potessero partecipare ai percorsi formativi con le istituzioni sanitarie. La coordinatrice dei lavori, puntando sulla legittimità statale[14] dell’ENS, propose di allargare la collaborazione con il settore associativo; la descrizione di un incontro avvenuto qualche giorno prima con la presidentessa dell’ENS innescò la dura reazione dei presenti, in particolare di Mario, rappresentante di FIADDA:

La lingua dei sordi è la lingua italiana perché dev’essere insegnata la lingua italiana orale poi… se tu scegli di fare un’altra strada, sei libero. Perché credo che nessuno di noi qui presenti, tranne me logicamente, se aveste un figlio sordo, nessuno di voi avrebbe come scopo fondamentale quello di far sì che impari solo la lingua dei sordi. La lingua italiana dei segni diventa un elemento riabilitativo, e allo stesso tempo non è che possiamo decidere col tempo.

Uno dei coordinatori illustrò l’accordo con i medici spiegando che «la sordità tendenzialmente era superata e i sordi in quanto tali erano destinati a scomparire e per cui impostare il tutto sul linguaggio dei segni non era plausibile». Data la difficoltà della problematica, il rappresentante dei genitori decise di spiegare alcuni punti fondamentali connessi all’ambito famigliare e linguistico:

I dati dei bambini nati sordi sono l’uno, due per mille, il 95% di questi nasce da genitori udenti. I figli sordi nati da sordi sono il 5% dell’uno, due per mille, capite che stiamo parlando di numeri assurdi. Che poi, non tutti in questo 5% decidono che i figli devono essere sordi con la S maiuscola[15]. Non è che ci possiamo prendere del t empo, lo vedete da soli che ci sono i tempi stringenti dell’apprendimento linguistico. Un bambino che nasce sordo e impara la lingua dei segni non potrà mai imparare a vent’anni la lingua orale. Quindi questa è una questione di libertà. La libertà che noi diamo è questa in assoluto, e non abbiamo visioni antropologiche[16] del sordo con la S maiuscola[17].

Come si può notare dalle parti riportate, nel dibattito emerge un processo di auto-legittimazione che tende a escludere l’ENS nei termini di una lingua dei segni oramai considerata superata rispetto alle possibilità di un impianto cocleare oltre che in virtù di un dato statistico che autorizzerebbe l’associazione dei genitori udenti rispetto all’ente dei sordi. Allo stesso modo il “tempo”, come mostrato dagli studi (Hurford 1991; Bates et al. 2002; Kane et al. 2004; Ciorba et al. 2013), irrompe nelle decisioni degli agenti sociali, siano essi professionisti sanitari, istituzionali o associativi, poiché diventa un fattore fondamentale nei processi di costruzione terapeutica; l’esigenza “temporale-naturale” dello sviluppo autonomo del linguaggio e le difficoltà di apprendimento della lingua orale per i bambini sordi, sono elementi che si inscrivono nel corpo proprio a partire dalle disposizioni burocratiche, coordinate da prassi e necessità cliniche-temporali. Così, attraverso anche la ricerca di lunga durata e i progetti di collaborazione con gli attori sociali è possibile analizzare, come propongo in questo articolo, le relazioni all’interno del campo etnografico con la lente dello “spazio” e del “tempo” per mostrare in che modo si delineano i casi di emarginazione sociale o, come nel caso appena mostrato, di esclusione dalle reti decisionali inerenti la sordità.

Questi elementi risultano di particolare interesse poiché, se il percorso sanitario è analizzato come uno spazio agito da relazioni ormai instaurate, come quella tra la FIADDA e l’AO, basata sul reciproco appoggio e la condivisione di una “modalità riabilitativa” come nelle living alliances (Radda, Schensul 2011), allora gli elementi emersi devono essere analizzati come costituenti di una costruzione sociale della sordità. Inoltre, se il campo sanitario della sordità in Umbria può essere inteso come uno “spazio proprio” di FIADDA, il dato statistico e il “tempo”, che rientra nel percorso oralista come elemento fondamentale per lo sviluppo linguistico, sono parte di un calcolo dei rapporti di forza usato per circoscrivere il proprio spazio di azione e il mantenimento del proprio potere (de Certeau 2001). Pertanto sui numeri dei bambini sordi e i tempi linguistici s’inscrivono dialettiche operative tra gli attori in campo che agiscono sul corpo individuale; così il “tempo” e il dato statistico non solo diventano agenti principali all’interno dell’efficacia clinica della (ri)abilitazione, ma anche elementi essenziali per analizzare il complesso fenomeno della sordità.

In particolare i professionisti del sistema sanitario, le relative tecnologie, l’iter diagnostico e, come nel caso etnografico, i dati statistici e la pluralità delle concezioni del “tempo” possono essere considerati come simboli e strumenti che agiscono non solo sul singolo corpo ma sull’intera comunità; mediante tale analisi l’antropologa americana Michele Friedner, mostra come il processo di screening, classificazione e “medicalizzazione”, può essere considerato con una sua capacità produttiva, ovvero nel posizionare le basi per la formazione di politiche c omunitarie centrate sull’identità Sorda e su di una differente “biosocialità” (Friedner 2010). Tuttavia se tali strumenti contribuiscono a costituire ulteriori forme di socialità, come nel caso delle famiglie associate, allora nello studio della sordità come fenomeno sociale si dovrebbe connettere un’antropologia focalizzata sulle politiche biomediche con un’antropologia medica che guarda alle politiche comunitarie legate alla disabilità (Pizza 2005; Schirripa 2005). Difatti, il contesto etnografico si presenta come un campo di studi privilegiato per le scienze umane in una prospettiva applicativa, poiché se l’ambito biomedico risulta essere anche un campo politico, allora si può comprendere come il “naturale-spontaneo” tempo di apprendimento del linguaggio, il sapere medico ad esso connesso e il progresso biotecnologico utile per il miglioramento uditivo abbiano influenzato e diretto i percorsi sulla costruzione di “terapie” inerenti la sordità (Blume 2010).

«il secondo giorno vai a casa»: Marius e il tempo clinico

«Little did we realize at that time that what seemed to us a personal dilemma was also a battle of ideologies being fought out in article after article, in book after book» (Blume 2010: 5). Con questa affermazione Stuart Blume, studioso delle dinamiche dei cambiamenti tecnologici in ambito medico, descrive la problematica inerente l’approccio educativo e, allo stesso tempo, mostra come tale scelta possa confluire nel dibatto sulla percezione della sordità tra patologia/disabilità e l’ampio fenomeno socioculturale/identitario. All’interno di un complesso c ampo etnografico attraversato e delineato da strutture sanitarie, tempi per la diagnosi, veloci operazioni chirurgiche, lunghi periodi per la (ri)abilitazione alla lingua orale, tempi burocratici per l’ottenimento dei servizi, gli attori sociali tendono a mettere in crisi e a provocare un corto circuito nel momento in cui è messo in discussione il principale e unico metodo linguistico utilizzato. Mediante l’attività di segretariato svolta presso l’ENS di Perugia, ho potuto seguire personalmente il caso di Marius, così chiamerò il ragazzo, arrivato dall’Albania in Italia nel 2010 a undici anni.

In un primo momento, nel mese di giugno dello stesso anno, la famiglia presentatasi presso una sede dell’USL Umbria, fu allontanata poiché non in regola con i documenti. Ottenuta la documentazione necessaria, il ragazzo aveva iniziato il suo percorso terapeutico presso i servizi territoriali l’anno seguente. A Marius era stata diagnosticata un’ipoacusia neuro-sensoriale dovuta a una meningite contratta all’età di due anni. In Albania, aveva frequentato una scuola con ragazzi udenti senza alcun supporto o abilitazione linguistica e, dopo essere arrivato in Italia, era stato inserito nella scuola media. Aveva effettuato gli esami diagnostici a gennaio del 2012 che, come narrato dal logopedista che lo aveva seguito, «si rivelarono tutto il contrario della realtà, idoneo ad un impianto cocleare e con una forte diagnosi di un ritardo mentale»[18], una diagnosi smentita dalle successive analisi. I genitori, interessati alla possibilità di un recupero uditivo del figlio mediante un impianto cocleare, erano stati seguiti dallo stesso chirurgo con cui ho avuto modo di svolgere parte della mia ricerca in ospedale. L’operazione era di norma descritta dal primario come: «un intervento che, non possiamo dire semplice, ma il secondo giorno vai a casa, è poco invasiva […] È un intervento di routine sostanzialmente. In questo modo r ecuperi una persona che sarebbe destinata ad essere e marginata»[19]. I genitori, ben disposti dalla velocità dell’operazione e di un miglioramento uditivo, si affidarono completamente alla struttura ospedaliera. Così nel 2012, dopo quasi due anni dall’arrivo in Italia, e dopo circa sei mesi dalla diagnosi, si svolse l’intervento di Marius. Per comprendere meglio la procedura ritengo utile riportare una parte del mio diario di campo riferito all’intervento chirurgico eseguito su un’altra persona:

Intorno alle ore nove un chirurgo inizia ad effettuare l’incisione dietro l’orecchio della paziente. Dal taglio effettuato con il bisturi sulla pelle rasata e di color rossiccio per il liquido disinfettante, esce poco sangue che, prontamente, il chirurgo ferma tramite la cauterizzazione di alcune vene. Il lembo di pelle posteriore all’orecchio è stato alzato lasciando scoperta una piccola fessura che m ostra una parte di osso. Il chirurgo inizia ad effettuare un buco con il trapano apposito e, contemporaneamente, l’assistente irrora con un liquido la parte esposta. Ore nove e cinquanta, il primario entra in sala. Dopo essersi cambiato indossando gli abiti preposti prosegue l’operazione... Il trapano è cambiato, il suono è pi ù forte e intenso. Il chirurgo si ferma e, dopo aver effettuato un buco su una membrana (cocleostomia), cerca d’inserire all’interno della fessura un sottilissimo tubo di plastica; si tratta di un particolare cavo formato da elettrodi e la membrana bucata è l’ingresso per la coclea [20]

Per Marius l’operazione non andò a buon fine poiché, dopo l’incisione e la tentata cocleostomia, la coclea risultava ossificata, una sorta di pietrificazione dei tessuti, senza possibilità di perforazione. Dopo l’insuccesso il primario propose una seconda operazione, da effettuare all’altro orecchio, facendosi appoggiare questa volta da un più noto chirurgo della Toscana; questa prospettiva, incrementata dalla “fama” del nuovo chirurgo, convinse ancora i genitori. L’interesse per il miglioramento uditivo come “unica soluzione” sembrava l’obiettivo principale dei medici, a tal punto che parlano anche di un terzo intervento come ultima alternativa. Nel giorno dell’operazione anche il secondo tentativo fallì per le stesse cause del precedente, e dietro la richiesta dei medici per effettuare la terza operazione i genitori rifiutarono di dare il consenso, entrando in una sospensione terapeutica, per l’inabilità delle strutture sanitarie nel costruire un alternativo percorso alla lingua orale[21]. La sintetica descrizione dei passaggi ospedalieri non collima con i tempi clinici che hanno accompagnato la famiglia e il ragazzo; la “veloce” operazione dell’IC è spesso preceduta da bandi di gara per determinare la ditta produttrice, documentazioni per l’individuazione del paziente adatto, esami e fasi pre e post-operatorie. Il periodo intercorso dai primi incontri diagnostici alle operazioni, durato all’incirca un anno e mezzo, era scandito da visite in ospedale e presso la USL locale, appuntamenti con gli insegnanti a scuola e con la responsabile del sostegno. Il tempo era sospeso, una sola e lunga fase di preparazione pre-operatoria. Il tempo di Marius e della famiglia era disegnato dalla prassi sanitaria per l’IC; le lezioni a scuola e gli incontri settimanali presso la USL erano focalizzati esclusivamente sulla ciclicità delle terapie. In questo caso la gestione dei percorsi riabilitativi in campo medico è tracciata da un “tempo mono-cronico”, arbitrario e imposto (Hall 1983), con un limitato numero di azioni o, come in questo caso, di ripetitivi e monotematici percorsi da seguire secondo linee guida di orientamento sanitario. Gli antropologi che si sono occupati di riabilitazione, del tempo e delle terapie in ambito clinico (Leonard et al. 2007; Wolf-Meyer 2014), hanno mostrato le modalità con cui la biomedicina innesca, nei casi di disabilità e disturbi cronici, una serie di processi per mantenere il paziente all’interno del campo sanitario attraverso una ripetitività terapeutica che è spesso focalizzata esclusivamente sull’individuo (Wolf-Meyer 2014). Per la famiglia di Marius è stato impossibile uscire dalla gestione temporale delle strutture sanitarie; la poca conoscenza della burocrazia italiana, della sordità, l’affidamento totale da parte dei genitori, insegnanti e professionisti sanitari nei confronti del metodo orale, sono elementi che inglobano gli attori sociali in una ciclicità e ripetitività, rallentando anche lo sviluppo di differenti terapie. Ne consegue che dalla probabile “velocità” di un successo operatorio, ne è scaturita una “lentezza” e un’attesa illusoria causata dal fallimento chirurgico, una condizione protratta fino alla fine del 2013, momento in cui l’ENS fu chiamato per una consulenza sul caso.

Il tempo di segnare: elaborazione e laboratori

A dicembre del 2013, per migliorare la condizione linguistica di Marius, la presidentessa dell’ENS di Perugia era stata convocata da una docente della scuola per fornire un supporto progettuale. Come illustrato nei paragrafi precedenti, il progresso biotecnologico e le relazioni tra la FIADDA e le strutture sanitarie in Umbria hanno consolidato l’approccio biomedico basato sul metodo protesico-orale al punto da innescare, all’interno delle strutture sanitarie, un abbandono delle differenti forme abilitative/linguistiche, un compito ormai svolto dall’ente. In quell’occasione era stato strutturato un gruppo per progettare un intervento educativo incentrato su più e distinti livelli, focalizzato sulle determinanti ambientali, così da far acquisire a Marius una conoscenza della LIS, capacità sociali e comunicative sufficienti per la scuola secondaria. L’intento del gruppo di cui facevo parte, era di definire una serie di passaggi ispirati dal modello bio-psico-sociale della disabilità, incentrato sulle nozioni di funzioni, attività e partecipazione, riportati all’interno dell’ICF, per lavorare sui contesti ambientali e di vita che plasmano le condizioni di salute (Pistone 2014; Savoia 2014).

I punti di riferimento del progetto si basavano su alcune ricerche antropologiche sviluppate principalmente per comprendere le modalità di costruzione comunitaria e l’integrazione delle persone sorde (Groce 1985; Breivik 2005). In particolare, l’antropologa Jan-Kåre Breivik, portando in primo piano l’ambiente, inteso come uno spazio relazionale e con una sua c apacità di agire e di essere agito, ha mostrato l’ambivalenza della sordità all’interno del rapporto tra soggetti udenti, f amiliari e il resto della società (Breivik 2005). Da tali presupposti il gruppo di lavoro, di cui ero partecipe insieme a un logopedista, alcuni insegnanti e una docente di LIS, decise di applicarli all’elaborazione progettuale che sarebbe stata realizzata dall’USL Umbria, la scuola media e l’ENS di Perugia. Si decise di lavorare sull’ambiente scolastico, famigliare e la comunità sorda segnante di Perugia, predisponendo un percorso integrato, per far seguire il ragazzo in fasi alternate da un’insegnante di sostegno e un’assistente alla comunicazione, che avrebbero insegnato a lui e alla classe la LIS. Per permettere lo sviluppo di questo progetto e guadagnare un po’ di tempo prima del passaggio all’istituto superiore, gli insegnanti vollero far ripetere al ragazzo la classe terza. In un tale quadro operativo il mio lavoro, in quanto antropologo e specialista del campo della sordità, era quello di sfruttare la conoscenza delle molteplici traiettorie individuali e collettive, dialogiche e conflittuali, individuabili soltanto in una prospettiva etnografica di lunga durata (Palumbo 2009), così da elaborare parte di tale percorso integrandolo con alcuni punti di forza, tanto delle persone sorde, quanto della situazione locale. Per lavorare sulla classe seconda, che avrebbe accolto il ragazzo, si sarebbero dovuti innescare i presupposti per l’accoglienza e la comunicazione. Per questo era stato organizzato un laboratorio teatrale/scolastico coordinato dalla presidentessa dell’ENS. In questo modo non solo gli studenti potevano apprendere dei primi rudimenti di LIS, ma anche conoscere il loro futuro compagno.

Per aumentare il livello di socialità era stato utilizzato anche il laboratorio teatrale dell’ENS, che da alcuni anni seguivo contribuendo alla sua fondazione, affinché Marius instaurasse relazioni anche con persone adulte, così da condividere esperienze e reciproci aiuti. Per tempi burocratici e problemi connessi a un sistema di delega dei servizi sanitari presso l’USL, il progetto riuscì a partire solo in parte e dopo un anno dalla strutturazione, i fondi per i professionisti del linguaggio erano stati stanziati dal comune di residenza del ragazzo a partire dal mese di febbraio del 2015. L’unica parte svolta nel 2014 era stata quella teatrale, senza costi e tempi burocratici. La fuoriuscita dall’ambito biomedico, la chiamata da parte degli insegnanti, la collaborazione instaurata tra l’ENS, la scuola e l’USL, la scrittura progettuale da parte del gruppo e la conoscenza etnografica di un antropologo per delinearne i punti fondamentali, svelano la difficoltà, da parte delle strutture sanitarie, nel costruire un percorso differente fondato sull’adattamento dell’ambiente sociale quando l’unico modello medico non può essere applicato.

All’interno del percorso di strutturazione e realizzazione è stata data particolare rilevanza ai laboratori teatrali, poiché possono essere intesi come una pratica che mette in discussione non solo le nozioni di spazio e tempo, ma anche quelle del linguaggio. Da questi presupposti siamo riusciti a lavorare non solo in spazi differenti, classi di scuole medie e sedi associative, ma anche con persone provenienti da esperienze diverse. Mediante la sperimentazione linguistica e l’utilizzo della LIS, è stato possibile utilizzare il tempo a nostra disposizione per preparare una classe intera alla comunicazione con i segni e, con i sordi più adulti, Marius apprendeva allo stesso tempo una serie di pratiche inerenti la quotidianità di una persona sorda segnante. Come si può notare dal caso etnografico, l’obiettivo principale era di utilizzare pienamente il tempo a disposizione per rimediare alla precedente situazione di stallo. Come mostrato da alcuni antropologi che si sono occupati della percezione del tempo (Hall 1983, Gell 1992), possiamo fare riferimento a due macro separazioni del tempo, uno oggettivo e uno percepito. In questo quadro, il compito del gruppo di strutturazione del progetto era di riempire il tempo percepito da Marius, con più attività possibili, durante il tempo oggettivo della burocrazia, per l’ottenimento dei fondi economici, e quello prestabilito dalla scuola. Si potrebbe sostenere, utilizzando le nozioni croniche di Edward Hall (1983), che il modello biomedico per l’abilitazione alla lingua orale lavora sul singolo individuo e una gestione del tempo che è mono-cronica, ovvero la gestione di una singola attività nella quotidianità della persona; contrariamente, la progettualità condivisa messa in atto e l’attività sperimentale dei laboratori, hanno permesso una gestione poli-cronica del tempo, soprattutto durante il periodo di attesa da parte degli apparati istituzionali. Per giungere a conclusione, data l’inevitabile connessione tra il “tempo” e lo “spazio”, ritengo utile richiamare una recente analisi, proposta da Setha Low, sul riutilizzo delle strade e dello spazio in alcune metropoli. Mediante lo studio dello spazio urbano l’antropologa americana distingue due modi differenti di utilizzare e costruire lo spazio:

the term social production was useful in defining the historical emergence and political-economic formation of urban space. The term social construction was reserved for the phenomenological and symbolic experience of space as mediated by social processes such as exchange, conflict, and control […]. Both processes are social in the sense that the production and construction of space are mediated by social processes, especially because they are contested and fought over for economic and ideological reasons (Low 2011: 392).

In questo modo, partendo dalle nozioni sviluppate dall’antropologa sullo “spazio”, è possibile distinguere una “produzione sociale” anche del “tempo”, data dall’imposizione temporale della burocrazia italiana, dai tempi biomedici stabiliti e da quelli scolastici – che hanno caratterizzato alcuni anni di Marius e della sua famiglia – e una “costruzione sociale”, ovvero un utilizzo relazionale del tempo fondato sullo scambio e continuo dialogo con gli attori sociali. In questa logica si può dedurre che se c’è un tempo burocratico che ha accompagnato Marius, un tempo stabilito e oggettivo, come nel caso dello spazio, allora l’intento di un gruppo di lavoro, o di un’antropologia medica applicata che rifletta sul tempo è quella di utilizzare, o meglio, orientare questo tempo imposto e a disposizione, verso differenti e laboratoriali esperienze formative.

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[1] Questo lavoro è stato concluso grazie al sostegno dell’Economic and Social Research Council [Grant number ES/M011291/1].

[2] L’impianto cocleare è una protesi uditiva che si applica mediante operazione chirurgica, principalmente inserita per migliorare la condizione uditiva di persone con ipoacusia profonda neurosensoriale.

[3] Nello specifico l’etnografia è stata focalizzata sulle sezioni locali: ENS Sezione Provinciale di Perugia e Terni, ENS Sezione Regionale dell’Umbria, e FIADDA Umbria.

[4] In questo caso si fa riferimento alle diagnosi di ipoacusia profonde prelinguali.

In base all’epoca d’insorgenza si può classificare la sordità in: prelinguale, perilinguale e postlinguale. L’utilizzo del termine prelinguale è utilizzato in sostituzione di preverbale, poiché quest’ultimo tende a mostrare ancora la superiorità del verbum sul segno (Savoia 2014).

[5] Per un approfondimento sulla LIS e le lingue dei segni cfr. inter alia Stokoe 1976; Facchini 1981; Volterra 1987.

[6] Il concetto di “cultura Sorda”, che in questo saggio non intendo affrontare ma è di sicuro interesse per le sue determinanti storiche, politiche e di ricerca scientifica, nel corso degli anni è stato definito, modificato e affrontato da differenti studiosi all’interno del campo della sordità. Partendo dagli studi sulla Lingua dei Segni Americana di William Stokoe (1976) ricercatori, principalmente linguisti, sociolinguisti e in misura minore antropologi, si sono occupati della sordità utilizzando nozioni quali “cultura”, “comunità” ed “etnia”. Se da un lato tali ricerche hanno utilizzato il termine “cultura Sorda” per definire un «particular group that of deaf people who share a language […] knowledge, beliefs, and practices that make up the culture of Deaf people» (Padden, Humphries 1988: 2), dall’altro si può assistere ad un complesso e concreto processo di costruzione identitaria e ridefinizione del fenomeno della sordità (Woodward 1972; Markowicz 1972). Un approccio critico alle questioni della “cultura Sorda” è proposto da Turner, il quale parte proprio dal testo Deaf in America: V oices from a Culture (Padden, Humphries 1988). Nel suo articolo, non cerca di proporre un nuovo modello culturale ma, «suggests that we have reached a point when our descriptions may be enriched – and the strength of our political impact enhanced – by adjusting our conception of culture, and by asking how notions of Deaf culture are constructed» (Turner 1994: 103). Una delle considerazioni riportate riguarda maggiormente i criteri che definiscono i membri della “cultura Sorda”, che tendono a cristallizzare e delineare la nozione in modo statico, delineandone le caratteristiche e i confini (Turner 1994).

[7] La frase riportata dal mio quaderno di campo del 20 maggio 2013 è del rappresentante di FIADDA Umbria, durante uno degli incontri organizzati presso la Direzione Regionale Salute, Coesione Sociale dell’Umbria per predisporre un Protocollo operativo per il percorso diagnostico terapeutico riabilitativo integrato ospedale-territorio per minori affetti da ipoacusia permanente (DGR n. 1384 del 09 dicembre 2013).

[8] L’espressione, ripresa dal mio quaderno di campo del 13 marzo 2013, è stata estrapolata da una comunicazione avvenuta tra l’audiologo dell’Azienda Ospedaliera di Perugia e i genitori di un bambino a cui era stata diagnosticata un’ipoacusia permanente e consigliato un immediato adattamento delle protesi uditive.

[9] L’autore pone l’accento sulla suscettibilità di tale differenziazione poiché la differenza tra i due periodi «is fuzzy, like that between a mountain and a hill» e pertanto soggetto a variazioni (Hurford 1991: 162).

[10] L’espressione riportata è parte del mio quaderno di campo 14 febbraio 2013 e fa riferimento ad un incontro con il primario del reparto di Otorinolaringoiatria dell’Azienda Ospedaliera di Perugia, anche Centro di riferimento regionale umbro per l'impianto cocleare, e chirurgo specializzato negli IC.

[11] Dal 1 gennaio 2013, per effetto della Legge Regionale n. 18 del 12 novembre 2012 “Ordinamento del servizio sanitario regionale” – Riordino del Servizio Sanitario Regionale – le Aziende Sanitarie Locali dell’Umbria sono confluite nell’organizzazione di due nuove Aziende: Unità Sanitaria Locale Umbria 1 e 2. (Bollettino Ufficiale della Regione Umbria Parte I-II, anno 43, n° 50; fonte http://www.uslumbria1.gov.it/pagine/organizzazione-000. Sito internet consultato in data 9 gennaio 2016).

[12] L’associazione genitoriale e il progetto abilitativo che rappresenta sostiene la propria visione creando connessioni con le istituzioni sanitarie, effettuando donazioni per le sale dedicate alla riabilitazione logopedica, costruendo laboratori per gli insegnanti, così da promuovere l’oralismo, inteso come una “libertà di scelta” basato su necessità temporali. In riferimento allo sviluppo fisiologico e “naturale” dello sviluppo del linguaggio, l’intento è quello di sottolineare la “scelta”, intesa in una contrapposizione tra la difficoltà, presente in età adulta per l’apprendimento di una lingua orale, e la facilità di imparare la LIS negli anni successivi.

[13] Di recente, con riferimento a disposizioni e normative attuate da altri paesi europei, dalle battaglie civili per i diritti dei sordi, l’ENS ha spinto verso una legittimazione della LIS mediante il Disegno di Legge S.1151 Disposizioni per la rimozione delle barriere della comunicazione, per il riconoscimento della lingua dei segni italiana (LIS) e della LIS tattile, nonché per la promozione dell’inclusione sociale delle persone sorde, sordo-cieche e con disabilità uditiva in genere, una proposta ancora in fase di approvazione.

[14] Il 12 maggio 1942, durante il governo fascista, fu approvata la legge istitutiva n. 889/1942, in seguito modificata il 21 agosto del 1950 con la promulgazione della definitiva L. n. 698/1950 Norme per la protezione e l’assistenza dei sordomuti che riconosce come ente morale «l’Ente nazionale per la protezione e l’assistenza dei sordomuti» sul territorio nazionale (fonte: www.normattiva.it. Sito internet consultato in data 11/12/2015).

[15] L’utilizzo della “D” (Deaf) maiuscola è utilizzata per evidenziare la comunità e le persone sorde che vi a ppartengono, cosi da distinguere la “d” (deaf) minuscola per il disturbo audiologico. James Woodward fu il primo nel 1972 a introdurre la differenziazione tra “Deaf” e “deaf” (Padden, Humphries 1988; Senghas, Monaghan 2002), che ancora oggi è utilizzata negli studi sulla sordità.

[16] Questo distanziamento dalla definizione “antropologica della sordità” è dovuto alle prime ricerche dei Deaf S tudies, che approfondivano il fenomeno esclusivamente in un’ottica linguistica e per delinearne le caratteristiche culturali (Meadow 1972; Padden, Humphries 1988; Lane 1992; solo per citarne alcuni). Alcuni studiosi tendevano a creare una sorta di griglia di analisi, un casellario da riempire (Turner 1994) con le caratteristiche di appartenenza a quella che era, e lo è ancora, definita “cultura Sorda”; una definizione spesso utilizzata, tanto da studiosi quanto da membri dei movimenti per i diritti dei sordi.

[17] Le descrizioni riportate sono parti del mio quaderno di campo del 20 maggio 2013.

[18] La descrizione degli esami diagnostici è del logopedista della USL di riferimento durante il nostro primo incontro, avvenuto il 19 dicembre del 2013 presso la scuola del ragazzo per strutturare il percorso abilitativo alla LIS.

[19] Il testo riportato è parte del mio quaderno di campo e fa riferimento a un incontro del 14 febbraio 2013 con il primario del reparto di Otorinolaringoiatria dell’Azienda Ospedaliera di Perugia.

[20] Dal quaderno di c campo 3 maggio 2013.

[21] In Umbria, per i bambini sordi presi in carico dai servizi sanitari è stata istituita dal 2013 un’equipe inter- aziendale tra le Aziende Ospedaliere e le Aziende USL Umbria 1 e 2 con differenti professionisti e relativi incarichi. All’interno della struttura ospedaliera il primo passo nel caso di una sospetta ipoacusia è eseguire un percorso diagnostico completo e di introduzione a quello terapeutico mediante esami uditivi, analisi genetica, valutazione logopedica e avvio alla protesizzazione o inserimento dell’IC. Nel caso in cui l’operazione chirurgica o adattamento protesico vada a buon fine, il bambino va seguito per un lungo periodo: dopo il recupero post-operatorio (nel caso dell’IC) si osserva la reazione alle protesi o all’IC, se troppo forte o piano (in riferimento alla trasmissione del suono), regolati i livelli uditivi delle protesi e stabilito un percorso logopedico. Come riferito dal primario: «diagnosi e poi supervisione, o almeno la cerchiamo di fare, perché in realtà una volta fatta la diagnosi e proposta la terapia, protesica o impianto cocleare, poi smistiamo al territorio (USL Umbria 1 e 2)» (Le descrizioni riportate sono parti del mio quaderno di campo del 14 febbraio 2013 e fanno riferimento ad un incontro con il primario del reparto di Otorinolaringoiatria dell’Azienda Ospedaliera di Perugia, anche Centro di riferimento regionale umbro per l'impianto cocleare, e chirurgo specializzato negli IC).

All’interno dei servizi territoriali il neuropsichiatra infantile e lo psicologo sono i responsabili dell’equipe e referenti del caso, incaricati di analizzare lo sviluppo cognitivo del bambino. Il logopedista intraprende un iter terapeutico mirato al raggiungimento dello sviluppo delle abilità percettive uditive e c ognitivo-comunicative; inoltre, di concerto con l’otorino, l’audiologo, l’audiometrista e l’audioprotesista, forma un’equipe per il processo di adattamento delle protesi acustiche o IC, che sarà monitorato e modificato per tutta la vita. Il completamento del percorso sanitario è raggiunto con il completo sviluppo del linguaggio orale, che dura diversi anni.