“Antropologia applicata” o “uso sociale dell’antropologia”:

una questione solo terminologica?

Ferdinando Mirizzi

Università della Basilicata

Nel leggere le lettere scambiate tra Tullio Seppilli e Antonino Colajanni qualche tempo prima dell’inizio del primo convegno nazionale della SIAA nel 2013, ho ripensato a un passaggio, a mio avviso significativo, dell’Introduzione di Dino Palumbo al suo Lo Strabismo della DEA (2018): quello in cui, parlando della sua formazione iniziale, egli ricorda da studente la netta separazione tra il settore degli studi (e degli insegnamenti) etnologici e quello degli studi (e degli insegnamenti) di antropologia italiana, tanto facenti capo alla lunga tradizione demologica quanto riferibili alla più recente e intensa esperienza conoscitiva e critica di matrice demartiniana. Palumbo ricorda che sembrava allora di essere di fronte a due mondi diversi e separati, che portava ciascuno, a seconda della propria frequentazione di spazi, libri e persone, a leggere alcuni autori e a ignorarne completamente altri. Si tratta del resto di una condizione che conosco benissimo sul piano personale, avendo vissuto anch’io una condizione simile, se pur inversa, nei miei anni trascorsi da studente presso l’Università di Bari, dove l’Istituto di Storia delle tradizioni popolari e la cattedra di Etnologia, allora peraltro ricoperta proprio da Antonino Colajanni, conducevano le proprie attività di ricerca e di didattica ignorandosi vicendevolmente. Tornando a Palumbo, egli riferisce che nei programmi degli esami di etnologia non ricorrevano mai testi di Ernesto de Martino o Diego Carpitella, ma neppure di Clara Gallini, Amalia Signorelli, Tullio Seppilli, e altri ancora, mentre tra coloro che facevano oggetto delle proprie lezioni indirizzi di antropologia inglese, statunitense e francese e ricerche di terreno a essi riportabili, oltre a Italo Signorini, vi erano Anthony Wade Brown, Carla Rocchi e Antonino Colajanni. Ecco, Seppilli e Colajanni sono due studiosi posizionati diversamente negli orientamenti accademici dell’antropologia italiana. E a me sembra che tale diversa collocazione si colga appieno nella corrispondenza sulla fondazione della SIAA e del suo primo convegno leccese. Lo si evince anche dal linguaggio: Seppilli rivendicava la necessità di una opzione etico-politica che orientasse «una concreta strategia e una concreta pratica di intervento, che modifica la realtà e quindi gioca a favore di qualcuno e a sfavore di qualcun altro», contro la partecipazione dell’antropologo a «qualsiasi progetto operativo a cui viene chiamato a collaborare», considerando che l’impiego delle conoscenze scaturite dalla ricerca antropologica, e sociale in genere, avviene sempre all’interno di specifici contesti di egemonia e potere. Di qui la sua preferenza per l’espressione “uso sociale dell’antropologia” rispetto a quella, da lui considerata ambigua e conservatrice, di “antropologia applicata”. Qui egli sembra, anche, quasi evocare la polemica demartiniana nei confronti dell’antropologia culturale americana, a cui l’espressione “antropologia applicata” rimanda nelle sue principali esperienze e realizzazioni, pur se la sua origine è piuttosto da riportare al sistema coloniale inglese e all’antropologia funzionalista britannica, con il riconoscimento di Malinowski, il quale aveva coniato il concetto di «etnologia pratica» (Malinowski 1929), quale padre fondatore dell’uso applicativo del sapere antropologico.

De Martino considerava l’antropologia applicata falsamente oggettiva, «senza un vero impegno di scelta», in fondo «priva di un metodo» e della possibilità di rendere veramente operativo il sapere antropologico (de Martino 1980: 153). E anche per Seppilli, già alla fine degli anni Cinquanta del ’900, dalla sua adesione al Memorandum per intenderci (1958), in un quadro di rinnovamento e revisione critica dei fondamenti teorici dell’antropologia culturale e «secondo un’impostazione compiutamente storicista» (Signorelli 2012: 89), occorreva superare il naturalismo degli indirizzi prevalenti nelle scienze sociali anglosassoni che privilegiavano una visione olistica della realtà sociale, favorivano letture etnocentriche o, al contrario, eccessivamente relativistiche nella percezione e rappresentazione della diversità culturale, oltre a ignorare completamente le basi storiche di ogni fenomeno di carattere socio-culturale.

Ora, è piuttosto assodato che l’antropologia accademica italiana sia stata a lungo quanto meno scettica, se non del tutto ostile, nei confronti della Applied Anthropology, intesa come l’applicazione di metodologie e strumenti antropologici a programmi di intervento, in genere governativi ma non solo, ideati e attuati dai Paesi ricchi e industrializzati a supporto di politiche finalizzate al superamento delle condizioni di difficoltà materiale e psicologica in cui versavano i Paesi a lungo assoggettati al controllo coloniale dell’Occidente o le aree comprese nel Nord del mondo, nell’Europa meridionale ad esempio, ma denotanti situazioni di evidente sottosviluppo o, comunque, di forte squilibrio sul piano sociale. Ecco, nella lettera di Seppilli sono portato a leggere il punto di vista accademico e dell’etnologia storicista verso gli orientamenti e le prospettive, spesso sostanzialmente essenzialistiche, dell’antropologia applicata, soprattutto americana, quale si era caratterizzata a partire dagli anni Trenta del secolo scorso e, con riferimento all’Italia, in particolare nel periodo della ricostruzione post-bellica e in un quadro ideologico definito dall’egemonia politica della Democrazia Cristiana, sostenuta dalla Chiesa Cattolica e dai governi statunitensi (Squillacciotti 1976).

Non mi sembra, del resto, che Seppilli intendesse negare la possibilità di impiegare praticamente le conoscenze antropologiche in programmi operativi utili in differenti campi d’azione nella società contemporanea all’interno di contesti di natura professionale, affermando però la necessità di non dover considerare la possibilità di applicazione di dette conoscenze a qualsiasi tipo di intervento nella scena pubblica e di dover invece preliminarmente comprendere quali fossero gli interessi in gioco e operare, come detto, scelte “etico-politiche” in grado di orientare la decisione di intervenire o non intervenire, con la garanzia della correttezza e dell’efficacia dell’azione sul piano sociale nella piena consapevolezza dei soggetti a vantaggio o a svantaggio dei quali l’azione stessa era promossa e attuata. Insomma, se “l’antropologia applicata” prevedeva l’uso delle categorie antropologiche per qualsiasi strategia e pratica di intervento, “l’uso sociale dell’antropologia” comportava un atteggiamento di tipo selettivo e una valutazione critica delle ragioni che stavano dietro le opzioni operative nelle quali l’antropologo avrebbe potuto essere coinvolto.

L’impiego dell’espressione preferita da Seppilli non era, pertanto, una semplice scelta terminologica in luogo di “antropologia applicata” o, anche, “dello sviluppo”, ma uno specifico riferimento all’affermazione del primato della ricerca sull’azione sociale e della scienza sulla politica. Inoltre, come mi sembra evidente, essa poneva un problema di carattere fondamentalmente etico, connesso all’idea di fondo della presunta ambiguità dell’antropologia applicata, riguardante la natura etnocentrica e universalistica degli interventi a fronte della varietà delle forme, dei valori, delle aspettative e delle esigenze concrete dei gruppi a cui gli interventi stessi erano destinati. E, d’altra parte, l’accusa della subordinazione dei programmi di antropologia applicata agli interessi politici ed economici dei governi, e dei committenti in genere, non proveniva nella seconda metà del ’900 solo dall’antropologia italiana di matrice storicistica e di ispirazione marxista, ma anche, almeno tra gli anni Cinquanta e Ottanta, da settori autorevoli dell’antropologia americana (per tutti: Herskovits 1958).

Mi pare che Colajanni, nella sua risposta, avesse ben colto, contestandolo, il senso delle obiezioni di Seppilli, rilevando in sostanza come la sostituzione del termine “antropologia applicata” con l’espressione “uso sociale dell’antropologia” alludesse in realtà a una prospettiva tendente, sulla base di un linguaggio che gli appariva segnato da tratti «arcaici o obsoleti», a caricare di significati e valori politici la ricerca che prevedesse opzioni di carattere applicativo. Forse perché, a confermare e avvalorare quanto sottolineavo precedentemente, il suo «ostracismo contro la espressione “Antropologia Applicata”» fosse generato «dal disagio nei confronti di certi aspetti ed esperienze dell’applicazione dell’antropologia nell’età coloniale, e in tempi più recenti in certe imprese spionistico-militari degli Stati Uniti».

Nella posizione di Colajanni, indubbiamente meno prevenuta, anzi decisamente favorevole a processi applicativi di una antropologia fondata su solide conoscenze di tipo tanto teorico quanto metodologico, capace di sorreggere adeguatamente interventi pratici di carattere professionale, vi è il rispecchiamento della sua biografia e delle esperienze di ricerca condotte nell’arco di una lunga carriera di ricercatore sul terreno impegnato empiricamente sui temi del cambiamento sociale e culturale di diverse realtà dell’America del Sud, in particolare, e di esperto e consulente in progetti di sviluppo avviati da ONG e altre organizzazioni attive nello scenario internazionale. Il suo profilo e le sue esperienze lo riconnettono ai processi di cooperazione internazionale a cui ha partecipato come antropologo interessato a coniugare gli aspetti dello sviluppo economico con quelli del mutamento sociale presso popolazioni viventi nei paesi del sud del mondo. La sua concezione di antropologia applicata è quella maturata negli ultimi decenni e che, escludendo la partecipazione degli antropologi a qualsiasi ricerca “segreta”, appare particolarmente sensibile a operare anche politicamente con attenzione rispetto agli eventuali conflitti di interesse, sempre possibili nei differenti contesti di intervento. Di conseguenza le sue controdeduzioni alle osservazioni di Seppilli si articolano sulla base di un ragionamento fondato essenzialmente su tre punti: 1) il sapere antropologico non è caratterizzato da un apparato tecnico stabile, tale da poter essere immediatamente e automaticamente impiegato in contesti operativi e quindi, come egli scriveva, «banalmente “incorporato” in sequenze di azione sociale-politica»; 2) l’antropologia applicata attuale si basa su principi che richiedono l’assunzione di posizioni di valutazione critica delle matrici ideologiche e degli effetti prodotti dagli interventi nella realtà sociale e ha il compito di integrare le pratiche di intervento «con previsioni di ulteriori effetti, suggerimenti e consigli per evitare o contrastare errori», tenendo conto della capacità del sapere antropologico di garantire processi per una conoscenza «affidabile, professionale e accurata»; 3) si può senz’altro condividere la necessità che l’antropologo agisca sulla base di scelte etico-politiche, ma non si può pensare che siano solo tali scelte a determinare innanzitutto gli esiti della ricerca scientifica e la disposizione all’azione sociale, che devono invece essere in primo luogo supportati dalla «capacità di produrre una conoscenza solida, ben documentata e teoricamente raffinata, che sia in grado di analizzare, correggere ed anche orientare (ri-orientare), possibili future linee di azione, che possano anche contrastare gli interessi in gioco».

La conoscenza così prodotta deve essere tale da introdurre opportune modifiche nella realtà sociale in relazione «ad alcuni principi generali dell’antropologia ai quali tutti dovremmo essere legati (il rispetto per le differenze culturali, la salvaguardia delle minoranze, la tutela dei diritti umani e della giustizia, il contributo alla eliminazione o riduzione delle diseguaglianze, e così via)».

Mi sembra che le posizioni tanto di Seppilli quanto di Colajanni siano ben chiare e rendano evidente che le lettere di entrambi debbano leggersi alla luce di una dialettica tra due studiosi appartenenti a generazioni diverse, con una differente formazione intellettuale, oltre che più specificatamente antropologica, e riferibili a tradizioni di studio tra le quali non sempre il dialogo è stato facile e, anzi, si può dire che sia stato caratterizzato più da diffidenze reciproche che da punti di convergenza.

Nel leggere oggi le due lettere e le relative argomentazioni sembra dunque di trovarsi di fronte a un confronto che risente di un dibattito dalle radici profonde e sedimentatosi nel tempo all’interno del mondo accademico nazionale. Ed è soprattutto alla luce delle contrapposizioni accademiche, oltre che in una prospettiva riferibile alla storia degli studi antropologici italiani, che esso trova secondo me le sue ragioni e le sue spiegazioni di fondo.

Ma, se la discussione tra Seppilli e Colajanni potrebbe forse risultare oggi un po’ datata, almeno nei termini fin qui esplicitati, e riportabile essenzialmente su un piano di ricostruzione storiografica degli studi antropologici italiani a partire dagli anni del secondo dopoguerra fino ai decenni a noi più vicini, essa nondimeno produce utili stimoli di riflessione nella realtà presente in relazione a quanto accaduto negli ultimi anni, a seguito cioè delle mutate condizioni di contesto che definiscono la funzione dell’antropologia nelle sue applicazioni all’interno della società contemporanea: se infatti i suoi apparati concettuali e teorici e le sue metodologie si erano definite in un quadro di dominio coloniale per poi consolidarsi in quello della decolonizzazione, oggi essi devono misurarsi con i problemi e gli effetti della globalizzazione economica e culturale, dei fenomeni migratori e, in genere, dei cambiamenti a livello di relazioni umane, di accesso alle risorse e ai servizi, di sfruttamento non sostenibile dell’ambiente, di nuove forme di disoccupazione e povertà, di rapporti a volte problematici tra le società e gli Stati nazionali. E tutto ciò in una realtà globale apparentemente “sviluppata”, dove però si creano nuove condizioni di sensibile precarietà, le quali finiscono a volte con il generare drammi esistenziali e problematiche situazioni di convivenza, potenzialmente generatrici di conflitti sociali ed etnici. Lo scenario così definito porta gli antropologi a praticare il loro sapere critico e riflessivo nei vari settori in cui l’illusione della modernizzazione, le disuguaglianze tra gruppi umani e sociali, un Welfare State spesso invocato ma altrettanto spesso disatteso, dovendo peraltro spesso pagare il fatto di essere considerati essi scomodi e il relativo bagaglio conoscitivo e metodologico superfluo per il raggiungimento degli obiettivi prefissati all’interno degli interventi programmati.

Le sfide della società contemporanea, dove le politiche neoliberiste ed economiciste producono sacche di sottosviluppo e situazioni di disagio e di miseria, offrono oggi agli antropologi numerosi, e in molti casi del tutto nuovi rispetto anche al passato recente, campi di applicazione del proprio sapere per la risoluzione di problemi pratici in diversi ambiti della vita sociale, con la possibilità di svolgere funzioni non solo di ricercatori, ma anche di valutatori, con riferimento ai bisogni delle persone o agli effetti delle politiche attuate sul piano sociale, di consulenti, di mediatori culturali, di formatori o, addirittura, di terapisti (Van Willigen 1993). E così, oggi, i campi di applicazione del sapere antropologico sono individuati in svariati settori della vita e dell’organizzazione sociale ed economica delle società contemporanee, dall’assistenza sociale al contesto scolastico, dall’ambito sanitario a quello patrimoniale, e comunque laddove si presentino situazioni di marginalità, disuguaglianza, disagio, diversità sociale e culturale.

In questo quadro l’antropologia accademica è chiamata a interrogarsi sulla propria funzione in relazione ai bisogni della società contemporanea, dal momento che secondo me essa si rivela ancora oscillante tra una tendenza, a mio avviso forse ancora minoritaria, alla formazione di una specifica professionalità antropologica e la convinzione, ancora forse maggioritaria pur se non sempre compiutamente espressa, che occorra piuttosto produrre e disseminare valori conoscitivi di tipo critico e riflessivo, i quali possano contribuire alla diffusione di una sempre maggiore sensibilità di tipo interculturale all’interno di una realtà sociale, tanto globale quanto locale, sempre più complessa e frammentata e sempre più definita da processi di mescolanza e ibridazione, ma anche da frequenti richiami alla tradizione e da tendenze a rifugiarsi in processi di distinzione e di costruzione identitaria.

Il problema sta nella convinzione diffusa nella tradizione accademica italiana, che trova del resto un chiaro riflesso nelle argomentazioni espresse da Seppilli nella sua lettera, che l’antropologia sia, per sua natura e per la storia dei suoi studi, un sapere critico e poco disponibile a rispondere a forme di committenza esterna, con la conseguenza che tale carattere della disciplina debba essere difeso e salvaguardato. Per cui la relazione tra specialismo universitario e ricerca nei diversi ambiti della società contemporanea si caratterizza sul piano della utilizzazione sociale delle conoscenze acquisite, a partire dalla considerazione della mancanza nella disciplina antropologica di specifici strumenti di intervento a livello pratico, possedendo essa in autonomia principi e tecniche soltanto a livello conoscitivo.

Tenendo conto di questo duplice orientamento, sembra necessario avviare una indifferibile discussione tra gli antropologi accademici, finalizzandola alla elaborazione di linee guida e alla conseguente costruzione di percorsi formativi utili per permettere agli studenti che scelgano di dedicarsi agli studi antropologici di poter poi inserirsi senza problemi nel mondo del lavoro. È una questione che, noi antropologi accademici, abbiamo il dovere di porre al centro della nostra riflessione, a fronte di una domanda di formazione professionale che negli ultimi anni appare sempre più pressante e a cui i nostri percorsi di laurea non sempre riescono a rispondere efficacemente. La ragione sta probabilmente nel fatto che nel nostro ordinamento universitario solo recentemente è stata inserita una laurea specifica in Antropologia Culturale ed Etnologia, prima specialistica (classe LS1) e ora magistrale (LM1), mentre prima della sua istituzione ci si laureava in Lettere o Lingue o Storia o Filosofia, in Psicologia o Sociologia o Scienze Politiche, potendo elaborare e discutere la tesi in una delle discipline di quel settore scientifico-disciplinare che, dalla metà degli anni Settanta del ’900, è denominato “Discipline Demoetnoantropologiche (Alliegro 2011: 525-540). Insomma, l’Università italiana non produceva antropologi, ma dottori in Lettere, ad esempio, con tesi in Antropologia culturale o Etnologia o Storia delle tradizioni popolari, e via dicendo, tesi che poteva prevedere, ma non sempre e non necessariamente, una esperienza di ricerca sul campo. La istituzionalizzazione di un percorso magistrale specifico solo in anni recenti ha portato a una accentuazione dello specialismo antropologico, che non ha però fin qui ancora risposto alle esigenze di una sempre maggiore professionalizzazione dell’antropologo destinato a operare nella società e non nel campo della ricerca, a cui sono invece destinati i laureati che decidono di intraprendere una formazione dottorale. Non tutti, ovviamente, e comunque si tratta sempre di una minoranza rispetto alla maggior parte di laureati che cercano spazi nei vari settori della vita sociale dove siano richieste competenze di tipo antropologico.

A questo punto, il problema per noi non rinviabile è quello di decidere se le nostre lauree magistrali siano, o debbano essere, costruite in modo da consentire una expertise opportunamente spendibile nel mercato del lavoro, oppure se in esse prevalga, o debba prevalere, una idea di formazione che privilegi il carattere critico e riflessivo di un sapere molto ampio, in una prospettiva che rischia però di essere dispersiva rispetto all’esigenza di opzioni professionalizzanti e maggiormente finalizzate all’inserimento nel mondo del lavoro alla pari di altri laureati in ambiti dove, in verità, non sempre è chiaro comprendere chi sia effettivamente abilitato a operare sulla base di profili genericamente riportabili alle scienze umane e sociali. Ciò porta spesso i laureati nei corsi di studio attivati all’interno della LM1 a lamentare ex post la mancanza di «dispositivi formativi che aiutino a costruirsi un profilo professionale che incoraggi all’applicazione dell’antropologia nel mondo reale». E ancora: «i corsi essenzialmente teorici impartiti all’università aiutano a formarsi una mentalità antropologica che dà il meglio di sé nell’assimilare i contenuti attraverso lo studio di testi e renderli nuovamente sotto forma orale agli esami». Ma «al mondo del lavoro queste abilità, seppur importanti, interessano solo in parte perché non aiutano di per sé a creare valore aggiunto a ciò che si può offrire al mondo» (Stocchero 2012: 158). Quello che generalmente si rimprovera all’impianto delle nostre lauree in Antropologia Culturale ed Etnologia, quale che sia la loro denominazione locale, è ad esempio l’assenza di effettivi ed efficaci tirocini professionalizzanti, che costituiscono attività formative utilissime per mediare tra mondo accademico e mondo del lavoro e che pure sono specificamente previsti nella declaratoria della LM1, i cui percorsi dovrebbero pertanto sempre «prevedere in relazione a obiettivi specifici, attività esterne come tirocini formativi presso enti o istituti di ricerca, amministrazioni pubbliche, nonché soggiorni di studio presso altre università italiane ed europee, anche nel quadro di accordi internazionali».

Più in generale, a me sembra che gli obiettivi formativi qualificanti della classe di laurea rimandino all’idea di una formazione non professionalizzante in una disciplina che, sulla base dei suoi apparati teorici, del suo peculiare metodo etnografico, delle sue capacità di tipo analitico e dello strumento della comparazione, è in grado, in dialogo con altre scienze umane e sociali, di produrre competenze utilizzabili in processi conoscitivi di aspetti sociali e culturali propri della società contemporanea. C’è però da chiedersi se tali competenze mettano chi le acquisisce nelle condizioni di operare autonomamente e consapevolmente nei contesti economici e nella vita pubblica, oppure se forniscano essenzialmente capacità di ricerca sulla e nella società. In sostanza, credo che la LM1, così come oggi è formulata, vada più nella direzione suggerita da Seppilli che in quella indicata da Colajanni, per rimanere ai principali riferimenti della nostra riflessione, perché gli obiettivi della classe sembrano rinviare a un’idea dell’antropologia come un sapere che fonda la sua legittimità nella vita sociale in principi e strumenti autonomi da un punto di vista conoscitivo e non invece da uno operativo. Si tratta di una idea che poggia sempre sul fondamentale presupposto che l’antropologia sia essenzialmente un sapere critico e che, per la sua natura e la sua storia, sia poco incline ad agire su committenze di servizio. Ciò significa che le competenze acquisite debbano servire soprattutto a produrre conoscenze finalizzate a formare sensibilità di tipo antropologico in professioni diverse e già operative nel sociale, nell’economia, nella cultura. E così le relazioni tra l’antropologia e la domanda di antropologia nella società si fondano sulla ricerca e sulla trasferibilità dei suoi metodi e dei suoi esiti nel pubblico e nel privato: quella che tra i compiti dell’Università è chiamata Terza Missione.

Eppure, se gli obiettivi formativi sembrano rispondere al paradigma dell’uso sociale dell’antropologia, che non produce professionalità in senso stretto, quando nella declaratoria si fa riferimento agli sbocchi occupazionali e alle attività professionali possibili dopo la laurea, a parte il riferimento alla «ricerca etnoantropologica, empirica e teorica, ad alto livello professionale», sono prospettati impieghi che sembrano rinviare alla dimensione dell’agire, propria dell’antropologia applicata, magari intesa come «scienza della pratica», secondo la definizione di Roger Bastide (1975: 172). Si sostiene, infatti, che la laurea conseguita nella classe LM1 preveda un impegno:

La mia personale opinione è che si debba salvaguardare, nella formazione magistrale, lo specialismo di una disciplina, o dell’insieme delle tradizioni disciplinari che la definiscono sul piano storico e nella dimensione della contemporaneità, in grado di tenere insieme tutte le sue potenzialità, conoscitive, critiche, interpretative, di affermare le sue caratteristiche di sapere unitario a livello metodologico, capace di fornire analisi qualitative e di muoversi tra universi simbolici, modelli comportamentali, espressioni culturali e creative che altre specializzazioni non riescono a cogliere in quanto poco o per nulla avvezze a confrontarsi con temi e problemi riguardanti l’alterità. E, però, il rischio è quello di deludere chi dovesse pensare di poter acquisire competenze pratiche per operare concretamente all’interno di progetti lavorativi richiedenti il potenziamento di una prassi disciplinare che si caratterizzi sul terreno della partecipazione attiva nell’ambito dell’intervento pubblico come dell’impresa privata e in impieghi che richiedano abilità, spesso, utili più per la gestione che per la comprensione della realtà in cui si è chiamati a impegnarsi.

In questo quadro e nel tentativo di adeguare maggiormente l’offerta formativa dei corsi di laurea attivati nella classe LM1 alle esigenze di chi, alla fine del percorso, guardi più a compiti e funzioni di natura sociale che a prospettive di ricerca e conoscenza, senza però snaturare la disciplina antropologica, o l’insieme delle discipline demoetnoantropologiche, nella loro densità concettuale e teorica, nello spessore di un sapere che trae la sua forza dal collocarsi in zone di contatto con e tra culture diverse, nella specificità conoscitiva che deriva dalle esperienze consentite dalla pratica etnografica, la SIAC ha avviato un processo di revisione complessiva della classe LM1 all’interno del programma di manutenzione delle classi di laurea promosso dal CUN nella «direzione di un aggiornamento degli obiettivi qualificanti e di una maggiore flessibilità e semplificazione delle attività formative previste nelle relative tabelle». Tale operazione dovrebbe concludersi entro il mese di dicembre 2020 e, per il raggiungimento dei risultati attesi, è necessario il contributo dei coordinatori di tutti i corsi di laurea attivati nella classe in diversi atenei italiani, oltre che delle altre associazioni antropologiche, le quali sono portatrici di istanze ed esperienze legate a contesti lavorativi in cui vi è una domanda, più o meno chiaramente espressa, di antropologia.

Vorrei concludere queste mie brevi annotazioni sulla formazione universitaria, innescate dalla riflessione intorno alle lettere di Seppilli e Colajanni, sostenendo che forse occorrerebbe lavorare di più sul terzo livello della formazione, prevedendo, accanto e in parallelo ai dottorati di ricerca, master e corsi di perfezionamento e di aggiornamento professionale attraverso cui meglio si definisca il profilo di una antropologia professionale, rendendo chiare le ragioni per cui un antropologo o una antropologa possa inserirsi in maniera più specifica e appropriata in processi lavorativi che vedono spesso attivi laureati in altre discipline. Del resto, le Scuole di Specializzazione attivate a Perugia e a Roma sono testimonianza di come, nel settore dei patrimoni culturali, si possano conseguire nel terzo livello di formazione universitaria, e sulla base di una solida preparazione di carattere teorico-metodologico nel campo delle discipline demoetnoantropologiche, competenze specifiche per operare con efficacia, come funzionari DEA, nelle strutture centrali e periferiche del MIBACT. Credo, perciò, che quello delle Scuole di Specializzazione sia da considerare un modello per la professionalizzazione dell’antropologia anche in altri settori lavorativi della società contemporanea.

Ho lasciato per ultime le questioni di cui ai punti 1 e 3 delle lettere di Seppilli e Colajanni, perché entrambe si riferiscono a situazioni che hanno avuto successivamente sviluppi non previsti, anche se in parte auspicati, dai due studiosi.

Vediamo il punto 3: Seppilli dichiarava nel 2013 di essere contrario alla costituzione di una associazione «di antropologi che operano nella realtà sociale» e di preferire semmai la nascita di «una associazione sindacale, diretta in particolare a proteggere quegli antropologi che lavorano “per” enti o istituzioni pubbliche o private impegnate a gestire realtà sociali». Colajanni, invece, riteneva che fosse limitante delegare «gli aspetti della “specializzazione operativa” ad una “associazione sindacale”», perché «così facendo si impoverirebbe definitivamente il senso di ogni intenzione di costruire una solida tradizione di antropologia applicativa». La discussione appare ormai superata: da una parte sembra aver avuto ragione Colajanni se si considera il consolidamento della SIAA, i risultati da essa fin qui conseguiti e il gradimento manifestato nei suoi confronti da parte di molti antropologi, per lo più giovani e in larga parte non, o non ancora, appartenenti al mondo accademico; dall’altra, la preferenza di Seppilli per una specifica forma associativa che rispondesse a esigenze di «specializzazione operativa» sembra essere stata soddisfatta dall’ANPIA, la cui fondazione non è però scaturita da esigenze di natura sindacale, bensì è conseguenza della legge 14 gennaio 2013, n. 4, disciplinante «le professioni non organizzate in ordini e collegi». L’ANPIA svolge, a mio avviso, un ruolo importante, direi essenziale, all’interno del complesso delle associazioni delle professioni non regolamentate che sono riconosciute dal Ministero dello Sviluppo Economico: quello di evidenziare e valorizzare le competenze antropologiche al fine del loro riconoscimento nel mercato del lavoro, di operare per la definizione di profili professionali che rimandino alla individuazione delle caratteristiche dell’antropologo professionale, di attestare quindi la professionalità dei suoi soci, assicurando loro servizi di ascolto e garantendo la certificazione delle attività di aggiornamento a essi destinate. Come è evidente, siamo ben oltre i termini del dibattito tra Seppilli e Colajanni e credo che non si possa non dare un giudizio positivo sull’operato dell’ANPIA, la cui attività dovrà essere sostenuta con convinzione dall’intera comunità antropologica nazionale, accademica e non.

Quanto al problema evidenziato in apertura da Seppilli e poi discussa da Colajanni, si può dire che l’esigenza espressa dal primo di un’unica associazione antropologica nazionale abbia trovato nel 2017 una parziale, ma significativa, risposta nella fusione tra AISEA e ANUAC in un unico soggetto associativo, a cui affidare il compito di razionalizzare «le forze umane disponibili in campo antropologico» e di operare in funzione di «un loro più efficace coordinamento», come si legge in un documento preparatorio alla nascita della SIAC (Società Italiana di Antropologia Culturale) che era stato concordato e tra i consigli direttivi dell’AISEA e dell’ANUAC, di cui erano rispettivamente presidenti Mario Bolognari e Cristina Papa. Ai componenti dei direttivi di entrambe le associazioni appariva «evidente che la sopravvivenza di più associazioni di tipo generalista, come [erano] prevalentemente AISEA e ANUAC, non soltanto produce[va] una inutile duplicazione di organismi che, considerata la scarsità delle forze a disposizione, [era] disfunzionale al raggiungimento degli obiettivi, ma costitui[va] anche un freno al coinvolgimento delle nuove generazioni e di altri antropologi che [avevano rinunciato] a impegnarsi per la promozione del settore e la difesa delle sue prerogative». L’intento che ci si proponeva con il progetto di fusione, come si legge ancora nel documento citato, era «che la nuova associazione consolid[asse] attraverso un impegno non episodico e attraverso una struttura organizzativa adeguata gli obiettivi già raggiunti con fatica [grazie alla collaborazione tra AISEA e ANUAC] e che si attiv[asse] per creare una più estesa rete di relazioni all’interno del mondo degli antropologi italiani, e più in generale verso l’esterno: dalle istituzioni, ai media, ad altre aree scientifiche».

Con la nascita della SIAC, dunque, il 18 settembre 2017, si realizzava l’auspicio di Seppilli di una «comune unitaria e aperta associazione professionale di tutti gli antropologi italiani», dopo una storia di divisioni, scissioni, frammentazioni che nei suoi pochi cenni egli evocava nella lettera in cui dichiarava la sua personale contrarietà alla nascita della SIAA come una ennesima associazione che si sarebbe aggiunta a quelle già esistenti. Seppilli proponeva come modello quello degli «Stati Uniti […] dove lavorano migliaia di antropologi mentre da noi siamo quattro gatti [… e] nessuno mette in discussione la unicità dell’AAA (la quale, certo, ma al suo interno, istituisce anche “sezioni” e “periodici” specialistici)». La risposta di Colajanni puntava ad evidenziare che allora «il possibile “frazionismo” [si sarebbe potuto] limitare all’AISEA e all’ANUAC, che [erano] effettivamente associazioni concorrenti», mentre non poteva riguardare le altre Associazioni, che avevano «tutte un profilo settoriale ben identificato e identificabile». Il che legittimava anche la nascita di una nuova associazione che intendeva «riunire tutti gli antropologi che hanno propensioni, interessi, esperienze di tipo applicativo».

L’attuale situazione riflette in qualche modo il ragionamento di Colajanni, ma in un certo senso non contraddice l’auspicio di Seppilli, in quanto, dopo la fusione nella SIAC delle due preesistenti associazioni generaliste (AISEA e ANUAC), si è avviato un processo di collaborazione sempre maggiore tra le associazioni antropologiche oggi attive nel nostro Paese (ANPIA, SIAA, SIAC, SIAM, SIMBDEA). Il mio personale punto di vista, condiviso però da molti e che corrisponde a un vero e proprio principio programmatico, è che tale collaborazione sia una risorsa strategica per affrontare le situazioni che il presente e il futuro ci propongono e ci proporranno, perché potrà consentirci una adeguata valorizzazione delle nostre risorse allo scopo di rappresentare le istanze dell’antropologia italiana nelle sue diverse articolazioni e, anche, con l’obiettivo di favorire spazi idonei e giuste opportunità alle giovani generazioni di antropologi che sono già attivi nel campo della ricerca e nella scena sociale e altri che si stanno attualmente formando nelle Università e, in particolare, nei corsi di dottorato di ricerca e nelle Scuole di Specializzazione in beni DEA. A cosa porterà l’intento congiunto di lavorare insieme e per obiettivi comuni, se al modello americano proposto da Seppilli e da alcuni anche oggi auspicato o ad altre forme consultive e/o federative, lo diranno gli sviluppi di un processo appena avviato, considerando comunque valori da non disperdere la specificità e l’autonomia settoriale delle singole associazioni.

Quel che conta, affidando alla storia degli studi il carteggio breve ma intenso tra Tullio Seppilli e Antonino Colajanni, è cercare ora di dare voce alle richieste e alle aspettative delle giovani generazioni di antropologi e di affrontare con adeguatezza ed efficacia le sfide che attendono l’antropologia italiana in un mondo in movimento -- a partire dai cambiamenti che il Covid-19 sta producendo nelle relazioni sociali e nelle modalità di fare ricerca -- dove si stanno delineando nuovi scenari professionali in cui antropologi e antropologhe possano operare con idonei strumenti concettuali e metodologici, anche sulla base delle esperienze che si stanno attualmente conducendo non solo sul piano della ricerca e in ambito accademico, ma anche in specifiche situazioni applicative in ambito pubblico e sociale.

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