Recensione

Carlo Capello, Ai margini del lavoro. Un’antropologia della disoccupazione a Torino, Ombre corte, Verona 2020

Sebastiano Ceschi

Ricercatore Cespi

Come si relazionano, concretamente e simbolicamente, i soggetti anagraficamente non più giovani alla condizione di perdita del lavoro? Quali rappresentazioni di se stessi, del proprio ambiente di vita e del mercato del lavoro entrano in gioco quando si sperimenta l’esperienza del non lavoro, o quanto meno della mancanza di lavoro stabile? E come questa microfisica della condizione attuale di disoccupato, attentamente ricostruita dall’autore, si declina nella realtà post-industriale di Torino e, più in generale, all’interno di un paradigma produttivo e ideologico di netto stampo neoliberista? Il grande pregio di questo interessante libro è proprio quello di cercare di connettere di continuo la lettura etnografica delle numerose testimonianze di lavoratori riportate con l’analisi delle trasformazioni subite dal contesto torinese, a sua volta proiettato sulle scale più ampie dei processi di egemonia e accumulazione globali del capitalismo contemporaneo. Capello si muove con disinvoltura ed efficacia tra questi diversi livelli, creando rimandi continui tra i micro-eventi della vita dei singoli, il loro essere situati nella fu “città-fabbrica” per antonomasia all’indomani della fine del modello fordista, e gli scenari più ampi di dominio, ristrutturazione produttiva e produzione ideologico-culturale degli ultimissimi decenni.

Il libro propone un percorso di conoscenza dei diversi aspetti ed effetti della relazione dei soggetti studiati con l’ambito del lavoro e del non lavoro che riesce in un duplice intento teorico-politico: da una parte, centrare l’analisi della disoccupazione sulle conseguenze sulle persone, sulle loro interpretazioni “semiotiche e teatrali” della loro condizione, sulle rappresentazioni personali e sociali del lavorare e del non lavorare. Avvalendosi della letteratura socio-antropologica sul tema, passata in rassegna nell’Introduzione, Capello descrive alcune lenti con cui guardare alla figura contemporanea del disoccupato, sintetizzandone l’essenza sotto il segno della “liminalità”. Dall’altra, in controtendenza ed in contrapposizione con la prevalente lettura individualistica della disoccupazione come colpa/responsabilità del singolo, si sostiene la sua stretta interconnessione con cause strutturali e meccanismi profondi e generalizzati che la riproducono nello spazio e nel tempo come condizione comune, necessaria e funzionale all’“ingranaggio della megamacchina tardo-capitalista”.

Rievocando Beck (2000), si potrebbe affermare che quello del lavoro, della ricerca del lavoro e della mancanza di lavoro è uno degli aspetti più evidenti della condizione generalizzata in cui versano i soggetti nella contemporaneità: quella di dover rispondere singolarmente a contraddizioni sistemiche, dunque difficilmente risolvibili attraverso azioni individuali senza mettere in discussione il funzionamento dell’insieme. Gli intervistati di Capello sono chiamati a ricomporre faticosamente le proprie vite espulse dal lavoro stabile in un contesto urbano segnato dalle difficoltà di una transizione incompiuta. Torino è una città in mutamento, ma intrappolata in una trasmigrazione, non ancora realizzata o non pienamente riuscita, da città fordista dell’automobile ad economia urbana post-industriale e terziaria, come descritto nel primo capitolo. È essa stessa una realtà liminale, rimasta sospesa in una crisi produttiva ed identitaria in cui ai 15-20.000 posti di lavoro persi nella manifattura e nell’edilizia negli anni successivi alla crisi del 2008, alla scomparsa dell’operaio-massa e della continuità aziendale e contrattuale, non ha fatto da contrappeso una rinascita urbana sotto il segno della new economy, capace di provvedere ai bisogni di reddito e realizzazione dei suoi cittadini con nuovi ed allettanti impieghi. In questa no man’s land tra fordismo e postfordismo, nel quale soggetti liminali solcano spazi socio-economici liminali attraversati da un neoliberismo anch’esso liminale, instabile e mutevole, lo spaesamento, l’incertezza e la nostalgia sono i sentimenti prevalenti tra i soggetti della ricerca.

In un contesto sociale che resta legato all’"archetipo fordista", ad una mentalità e ad un’etica del lavoro fondata su un’idea di impiego regolare e continuativo, pensato come norma e parametro del riconoscimento sociale e dell’autostima, la “caduta” nel precariato del lavoro instabile o assente viene descritto in termini di declassamento, squalificazione sociale, crollo, ed ha conseguenze su tutti i diversi aspetti dell’esistenza: reddito, stima sociale, consumi, relazioni, status, rappresentazione di sé, identità. Nel secondo capitolo, alla descrizione della sofferenza personale degli intervistati, del loro impoverimento materiale, relazionale e simbolico susseguente alla perdita del lavoro, fa da contrappunto un’analisi, di sano impianto anti-liberista, della “distruzione creativa dei mondi di vita sorti nel Novecento” all’insegna della precarizzazione, della competizione tra lavoratori, dell’individualizzazione del mercato del lavoro, della riduzione di sicurezze, tutele, opportunità. Il sistema di accumulazione flessibile del tardo-capitalismo procede secondo un doppio regime, alternando e sovrapponendo funzionalmente, secondo Capello, espulsione e scarto con inclusione subordinata e degradazione del lavoratore, in particolare delle classi subalterne e manuali. Se i lavoratori sono continuamente sballottati tra i due poli dello sfruttamento e dell’irrilevanza (Harari 2018), la disoccupazione, in quanto forma di violenza strutturale, diventa perciò paradigmatica del dispossessamento di forza e capacità del lavoratore. Ed il disoccupato diventa allora “sintomo della più generale condizione liminale del presente”.

Alle strategie di sopravvivenza, ai legami ed al capitale sociale attivato ed attivabile dagli ex-lavoratori è dedicato il terzo capitolo. Tali “tattiche liminali” si muovono attraverso reti di sostegno parentali, amicali e sociali di diversa forza ed estensione che, se da un lato svolgono il compito di salvare il soggetto impoverito dalla vera e propria emarginazione sociale, possono non solo rivelarsi limitanti dal punto di vista delle nuove opportunità (capitale sociale più bonding che bridging), ma precipitarlo in un senso di impotenza e frustrazione dovuta al non poter contribuire, attraverso forme di reciprocità bilanciata, al benessere della famiglia e della comunità di riferimento. In queste circostanze è l’ambito sociale, per quanto spesso si manifesti in forme di welfare familistico, a nutrire la sfera economica, a limitare l’impatto negativo della perdita del lavoro ed a sostenere concretamente la dimensione del reddito, dei margini di sicurezza, della capacità di riaffiacciarsi sul mondo del lavoro.

Se è la relazione dialettica, afferma Capello, tra l’habitus del lavoratore, il capitale sociale di cui dispone ed il campo socio-economico esterno a determinare poi concretamente gli esiti della ricerca del lavoro, il Centro per l’impiego e il Centro Lavoro Torino, indagati etnograficamente e descritti nel quarto capitolo, rappresentano le due principali interfacce istituzionali con cui si confrontano i disoccupati incontrati. Sebbene entrambi i Centri articolino un modello di individualizzazione delle protezioni e di responsabilizzazione del “beneficiario”, Capello li descrive come due dispositivi differenti, anche se in qualche modo complementari. Il Centro per l’impiego si configura come spazio di attesa liminale, (non) luogo di transizione in cui si diventa formalmente “disoccupato” ed in cui si passa del tempo ad attendere un lavoro ed a scambiare giudizi distorti e rappresentazioni incrociate con gli operatori, questi ultimi presi nello stereotipo deresponsabilizzante del “disoccupato immeritevole”. Il Centro Lavoro è invece un servizio animato da una “pedagogia” della ricerca attiva di lavoro che, attraverso corsi e discorsi che valorizzano la competizione e la presentazione strategica di sé, intende svolgere un palese ruolo di orientamento ideologico e di costruzione della tipica soggettività neoliberale. L’autore lo analizza come un apparato ideologico dello stato, una “antropo-tecnica” per “trasformare un disoccupato in un imprenditore di sé”, che trova largo riscontro tra gli stessi disoccupati, bisognosi di abbracciare nuove immagini di se stessi, alla ricerca di uno status e di un’identità diversi da quella del nullafacente assistito. Dispositivo che al contempo esalta la flessibilità, naturalizza il mercato del lavoro, mercifica il lavoratore e, riconducendo la struttura economica e sociale all’agire individuale, ed illudendo gli individui, rispetto al controllo della propria vita, non mette minimamente in discussione lo status quo.

D’altronde, la natura ambigua e mistificatoria dell’ideologia neoliberista, che si traveste sotto i discorsi dello sviluppo, della libertà, della razionalità della spesa pubblica, dell’esaltazione dell’impresa come panacea, ha effetti devastanti sulla coscienza politica della controparte: il mondo del lavoro, gli sfruttati, le “vittime della globalizzazione”. Nel quinto ed ultimo capitolo, Capello passa in rassegna opinioni e sentimenti dei lavoratori verso il mercato del lavoro e la società mostrandone l’intrappolamento, spesso sterile, tra il disagio e la critica delle difficoltà di cui si è fatta esperienza e l’identificazione con il punto di vista dell’imprenditore, identificato con la legittimità di fare profitti per se stessi e non per la comunità. L’intrappolamento si sostanzia e si alimenta nella mancanza di categorie di pensiero e interpretazioni esterne e indipendenti dai paradigmi di pensiero dominanti, in grado di schermare i soggetti dalla forza dell’ideologia sovranista anti-immigrazionista e xenofoba che manipola e distorce l’opposizione alla globalizzazione neoliberista e, supportata in questo dal pensiero di stato, costruisce di continuo fratture di conflitto orizzontali tra “cittadini” e “stranieri”. Cosicché, il potenziale di opposizione alle relazioni socio-economiche, alle politiche ed alle ideologie neo-liberiste si disperde, finendo ad inseguire “i fantasmi dell’immaginario collettivo”, per la mancanza di categorie e forze politico-sociali che sappiano interpretare e ricomporre i frammenti confusi delle vite delle persone in una visione complessiva e critica dell’esistente.

Il percorso di Capello, in sintonia con una tensione politica che attraversa tutto il libro, si conclude mostrandoci “l’ansia e l’insicurezza anche ideologica” che attanaglia lavoratori e cittadini contemporanei. Questi appaiono incapaci di convogliare verso i giusti bersagli la propria opposizione e resistenza, nonostante l’evidente declino e insostenibilità del neoliberismo, a causa del vuoto valoriale e progettuale della sfera politico-istituzionale post-fordista e della attuale “politica senza politica” descritta recentemente da Revelli (2019).

L’urgenza di un ritorno di una conflittualità politicizzata e della lotta contro le diseguaglianze provocate dalla (non) etica del profitto ad ogni costo - resa ancora più acuta dalla pandemia in cui siamo, a quanto pare, ancora immersi - appare ancora una volta come la sola prospettiva praticabile per contrastare la guerra di classe condotta dalle élite capitaliste contro le classi lavoratrici e per disinnescare la convergenza sempre attuale tra neoliberismo e derive fasciste e sovraniste (Lazzarato 2019; Mellino 2019). Guadagnando alla causa anche tutti quei soggetti diversamente marginalizzati e razzializzati, tra cui i disoccupati di Capello, disposti a trasformare la loro liminalità in una nuova spinta verso l’elaborazione di rappresentazioni e pratiche non addomesticabili alle logiche neoliberali e la produzione di istanze realmente emancipatorie.

Bibliografia

Beck, U. 2000. Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Torino. Einaudi.

Harari, Y. N. 2018. 21 Lezioni per il XXI secolo. Milano. Bompiani.

Lazzarato, M. 2019. Il capitalismo odia tutti. Fascismo o rivoluzione. Roma. DeriveApprodi.

Mellino, M. 2019. Governare la crisi dei rifugiati. Sovranismo, neoliberalismo, razzismo e accoglienza in Europa. Roma. DeriveApprodi.

Revelli, M. 2019. La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite. Torino. Einaudi.