Un’etnografia del gioco d’azzardo

La ricerca antropologica e la pianificazione di progetti di prevenzione sulle dipendenze patologiche

Filippo Lenzi Grillini

Università di Siena

Abstract.  This paper aims to analyze an anthropological consultancy assignment conducted within a project focused on addictions. In this specific case the purpose of the article is to shed the light on the main problems and the opportunities offered by an ethno-anthropological research commissioned by a non-academic entity. The paper builds on the work of the “Pathological Addiction Operative Unit” of Siena Local Health Authority, which employed an anthropological consultant to research pathological gambling. In this context the anthropologist has to interact with professionals with different disciplinary backgrounds, mainly biomedical practitioners. These, for the first time in their professional life, deal with an anthropologist who uses a very different research methodology and theoretical basis. More specifically this paper focuses on the time-consuming nature of the ethnographic research with respect to the needs of results required by the “Pathological Addiction Operative Unit”. Furthermore, the possible negotiation strategies with the client are discussed. Finally, this article presents general considerations on the potential role and opportunities for anthropological research in the biomedical field, nowadays in Italy.

Keywords: Applied Anthropology; Anthropology of Gambling; Methodology of research; Medical Anthropology; Addictions.

Introduzione

Il gioco d’azzardo in Italia negli ultimi anni è cresciuto in maniera significativa, grazie alla progressiva immissione sul mercato di nuovi giochi legali. Con l’aumento dell’offerta (soprattutto per quello che concerne slot machine, lotterie istantanee e scommesse sportive), il gioco è diventato sempre più invasivo nelle vite degli italiani, con la conseguente crescita del numero delle persone che hanno sviluppato forme di dipendenza patologica. Dagli anni ’80 il Gioco d’azzardo patologico (GAP) entra ufficialmente nel Diagnostic Statistic Manual dell’American Psychiatric Association fra le malattie mentali, con la descrizione di criteri diagnostici analoghi a quelli previsti per i disturbi da uso di sostanze, anche se in questo caso la sostanza psicoattiva è sostituita dal comportamento patologico. In Italia le Aziende Sanitarie Locali (ASL) attraverso i Servizi per le Tossicodipendenze (SerT) si fanno carico della cura e riabilitazione di chi sviluppa questa dipendenza. In questo articolo ci si propone di analizzare, attraverso un caso di studio specifico relativo a una consulenza antropologica commissionata dall’Unità operativa prevenzione dipendenze patologiche dell'ASL 7 di Siena, il ruolo che indagini etnografiche sul gioco d’azzardo legale possono rivestire nell'ambito della pianificazione di progetti di prevenzione sulle dipendenze. Oltre a questo sarà dedicata attenzione al ruolo e allo spazio che una ricerca antropologica può assumere all’interno del campo sanitario, nel quadro degli attuali profondi e incisivi processi di aziendalizzazione dei servizi territoriali. La consulenza in questione ha previsto una vera e propria ricerca sul campo condotta in prima persona da chi scrive.

Nell’analisi di questa esperienza l’obiettivo è quello di mettere in luce, in primis come è “nata” questa ricerca e le metodologie con cui è stata pianificata e realizzata, per passare poi a svelare le interessanti prospettive e le complesse sfide che si aprono di fronte a uno studio etnografico che non si limita a offrire analisi di tipo esplorativo e interpretativo, ma che prevede di fornire un contributo sostanziale dal punto di vista applicativo. In questo testo s’intende privilegiare gli aspetti etnografici e metodologici, che hanno caratterizzato questa esperienza di consulenza, piuttosto che quelli teorici. Tale scelta è determinata non solo dal fatto che, in poche pagine, è impossibile rendere la complessità delle possibili letture interpretative di un fenomeno come il gioco d’azzardo, ma prevalentemente per un obiettivo specifico. Infatti, ci si propone di concentrare l’attenzione sulla pianificazione metodologica di una ricerca realizzata nell’ambito di una consulenza allo scopo di fare luce sia sulle principali problematiche emerse, sia sulle opportunità e prospettive che può offrire un’indagine etno-antropologica inserita in un contesto diverso da quello universitario. Un contesto in cui è necessario rapportarsi con differenti “saperi” disciplinari e con professionisti del campo medico-sanitario i quali, in molti casi, si confrontano per la prima volta con un antropologo, con le sue metodologie di ricerca e con l’apparato teorico che caratterizza la sua disciplina.

La ricerca

Il caso dell’Unità Operativa Prevenzione Dipendenze Patologiche della ASL 7 di Siena è interessante, poiché all’interno di un più ampio programma che includeva una serie di ricerche finalizzate a pianificare interventi preventivi nell’ambito delle dipendenze, è stata prevista la presenza di un «collaboratore etnografo» per realizzare un’indagine su queste tematiche attraverso metodologie eminentemente qualitative. Chi scrive è stato selezionato per questo incarico della durata di un anno, attraverso un bando al quale si sono presentati numerosi candidati. É importante dare enfasi al fatto che uno dei requisiti fosse «la laurea in Antropologia Culturale o Etnografia o Sociologia e Ricerca sociale» e che il primo punto per importanza e rilevanza per attribuire i punteggi con cui stilare la graduatoria dei selezionati fosse: «un’esperienza pluriennale in tema di ricerca qualitativa e quantitativa». Nel descrivere le attività che avrebbero caratterizzato tale consulenza, il bando nel primo punto prevedeva specificamente: «gestione indagine qualitativa continuativa sulla popolazione». Tali aspetti mostrano come per questo incarico si richiedesse esplicitamente una figura professionale con formazione e competenze prettamente etno-antropologiche. Il fatto che il profilo dovesse essere quello di un etnografo denota indubbiamente la meritevole volontà da parte del responsabile della U.O. Prevenzione Dipendenze Patologiche di prevedere interventi preventivi che fossero pianificati sulla base di ricerche approfondite nelle quali le metodologie qualitative rivestissero un ruolo importante.

Chi scrive, dopo aver ricevuto la comunicazione di essere stato selezionato come collaboratore etnografo sulla base del curriculum, ha iniziato a pianificare una metodologia di ricerca appropriata ai temi che caratterizzavano questo incarico. La ricerca doveva riguardare inizialmente tutte le dipendenze (da sostanze o comportamentali). Nei primi sei mesi l’attenzione è stata dedicata a dipendenze da sostanze (tossicodipendenze e alcolismo). L’obiettivo che mi era stato comunicato era quello di individuare e analizzare la popolazione “evanescente”, rispetto a comportamenti di abuso. Il responsabile dell’Unità Operativa intendeva sperimentare strategie metodologiche per individuare quella parte della popolazione (definita appunto “evanescente”) che sfugge alle statistiche frutto di analisi quantitative realizzate solo quando il fenomeno assume una “dimensione strutturata” (che può iniziare, a titolo d’esempio, dal primo contatto con un SerT).

All’interno di un più ampio progetto della U.O. denominato «Architettura complessiva degli interventi da parte di una struttura preventiva» l’etnografo – lavorando in équipe con uno statistico e un epidemiologo – grazie alle metodologie di ricerca che contraddistinguono la sua disciplina, avrebbe dovuto comprendere quali fossero le fasce della popolazione più a rischio di intraprendere comportamenti d’abuso. I dati etnografici qualitativi raccolti, integrati con quelli quantitativi ottenuti dall’Unità Operativa, sarebbero serviti per poter pianificare politiche e interventi di prevenzione mirati e specifici. Dopo circa sei mesi, è stato deciso congiuntamente di spostare il focus della ricerca su un tipo di dipendenza specifico e non riferibile all’abuso di sostanze, ma a comportamenti non direttamente legati al mondo dell’illegalità: il gioco d’azzardo patologico in rapida crescita negli ultimi anni. In questo caso, chi scrive, in quanto etnografo incaricato di realizzare l’indagine, ha redatto un progetto di ricerca specifico per analizzare questa dipendenza comportamentale. A tal fine è stato previsto un anno, come tempo minimo per riuscire a realizzare uno studio antropologico che potesse offrire un’analisi di un fenomeno complesso come il gioco d’azzardo attraverso una prospettiva olistica. Il progetto con questa tempistica è stato poi approvato dal responsabile della U.O. e dai responsabili dell’ASL.

Il Gioco d’azzardo patologico può essere analizzato secondo gli approcci di differenti discipline. La biomedicina si è concentrata sulle determinanti di tipo neuro-fisio-patologico analizzando nello specifico il sistema di ricompensa cerebrale; mentre la psicologia ha dedicato la propria attenzione ai processi cognitivo-emozionali che lo sottendono (Blaszczynski et al. 1998; Ladouceur et al. 2000; Ibáñez et al. 2003; Boyer 2006; Hodgins et al. 2011; Varango et al. 2012). L’anthropology of gambling ha analizzato il fenomeno del gioco d’azzardo come una pratica e un fatto sociale (Durkheim 1969). Un’analisi che negli ultimi anni si è resa ancor più interessante, giacché siamo in una fase di passaggio e di trasformazione storica in cui il gambler in alcuni casi viene interpretato socialmente ancora come un colpevole o deviante, ma in altri passa a essere considerato come un malato, all’interno di un processo attraverso il quale il gioco d’azzardo compulsivo viene “medicalizzato”. Dal punto di vista dell’inquadramento teorico l’anthropology of gambling è difficilmente situabile all’interno di un settore specifico delle discipline etno-antropologiche; inserirla all’interno dell’antropologia medica o economica o sociale o, ancora, religiosa rischia di essere limitante, dal momento che ognuna di queste branche disciplinari può offrire contributi e spunti teorici interessanti per analizzare aspetti differenti del fenomeno (Pini 2012)[1]. Anche per questi motivi, l’indagine è stata pensata e pianificata con un approccio metodologico che privilegiava la prospettiva olistica per riuscire a studiare un fenomeno complesso come il Gioco D’azzardo Patologico (d’ora in poi GAP). Il GAP va infatti analizzato necessariamente nella sua complessità, dato che investe problematiche di tipo economico, politico e sociale, oltre a quelle sanitarie e cliniche correlate a dinamiche di dipendenza. Per questi motivi la ricerca ha dovuto, necessariamente, prevedere luoghi e contesti differenti dove condurre osservazioni etnografiche, così come una polifonia di gruppi di attori sociali da ascoltare. Interlocutori privilegiati della ricerca sono stati i giocatori d’azzardo in trattamento riabilitativo, presso i SerT della Provincia di Siena e presso i moduli residenziali del Progetto Orthos (Associazione per lo studio e trattamento delle dipendenze patologiche)[2]. Con loro sono state condotte interviste in profondità, mentre colloqui informali (spesso non registrati) hanno visto come protagonisti gli esercenti di locali che ospitavano slot machine, e gli operatori dell’industria del gioco (produttori e addetti commerciali delle aziende che sviluppano, producono, commercializzano e noleggiano slot).

Coerentemente con l’approccio olistico che caratterizza questo studio, la ricerca sul campo è stata condotta:

- in primis all’interno di sale giochi, bar e tabacchi, ovvero nei luoghi dove le pratiche del gioco d’azzardo legale si realizzano, con l’obiettivo di realizzare delle “mappe planimetriche” di ognuno di questi locali per mostrare a livello grafico l’allestimento dello spazio interno, in relazione in particolare al posizionamento scelto per le slot e all’ambiente che si crea intorno ad esse;

- durante i moduli residenziali del Progetto Orthos, convivendo con i giocatori patologici in trattamento riabilitativo;

- frequentando gruppi di auto-aiuto di “Giocatori anonimi”;

- nell’ambito di eventi, in cui rappresentanti delle istituzioni prendono parola e posizione nei confronti delle politiche di contrasto al fenomeno del gioco d’azzardo patologico;

- attraverso missioni etnografiche all’interno di fiere commerciali dedicate al mondo del gioco d’azzardo legale.

Rilevamenti etnografici all’interno di contesti come le fiere commerciali rispondono all’esigenza di analizzare anche quel mondo imprenditoriale che produce le macchine da gioco e le immette sul mercato. Queste missioni etnografiche offrono l’occasione di analizzare le strategie seduttive di marketing adottate da un settore che inizialmente negli Stati Uniti e poi a livello internazionale è passato ad autodefinirsi da gambling industry a gaming industry attraverso un’operazione di restyling per salvaguardare la propria immagine pubblica, secondo una strategia finalizzata ad equiparare l’azzardo agli altri vari tipi di gioco (Pini 2012: 75). L’osservazione etnografica è stata condotta in tutti i locali dotati di slot nella Val D’Elsa senese, individuati attraverso l’elenco ufficiale dell’Agenzia delle dogane e dei Monopoli di Stato. Benché la ricerca e le interviste con i giocatori riguardino tutti i tipi di gioco d’azzardo, la scelta di concentrare l’osservazione etnografica in particolare sul mondo delle slot (new slot e videolottery) è motivata dal fatto che chi si dedica a questo gioco è in netto aumento negli ultimi anni, grazie ad un’offerta sempre più capillare delle cosiddette “macchinette” sul territorio nazionale. Anche dai dati raccolti attraverso le interviste ai giocatori patologici, emerge che la netta maggioranza degli interlocutori privilegiati della ricerca sono arrivati allo stadio di dipendenza da gioco proprio attraverso le slot[3]. All’interno di bar, tabacchi e ricevitorie sono state osservate anche le interazioni fra giocatori e fra questi ultimi e gli esercenti dei “luoghi-non luoghi” del gioco. La celebre definizione coniata da Marc Augé (1992) si addice quasi perfettamente a questi esercizi commerciali. Le sale slot e le sale scommesse si presentano come ambienti non identitari e assolutamente anonimi, oltre che “senza storia” (presenterebbero quindi le caratteristiche di non identità e astoricità tipiche dei non luoghi). Alcuni bar (benché in minoranza) hanno invece una loro identità e una loro storia, costruita nel tempo attraverso le relazioni fra i frequentatori e fra questi ed il gestore. È il caso di quelli in cui si pratica anche il gioco delle carte da anni e che accolgono sempre la stessa comunità di clienti.

Sicuramente la tendenza, frutto dell'espansione (se non vera e propria invasione) del mercato delle slot in questi locali, è quella di rendere questi locali sempre più “non luoghi”, in virtù della poca socialità che caratterizza questo gioco (terza fondamentale caratteristica dei non luoghi è infatti quella di non essere relazionali), a differenza di giochi come le carte o il biliardo.

Un altro aspetto interessante riguarda i cartelli. Per Augé quelli di «vietato fumare» sono i simboli standardizzati che caratterizzano i “non luoghi” e che stabiliscono l’unico freddo rapporto fra i gestori del luogo e suoi frequentatori. Nelle sale slot o nei bar dove sono installate le macchinette, sono esposti cartelli con queste caratteristiche (in questo caso quelli previsti dalla legge che vietano il gioco ai minorenni, per esempio), ma se ne trovano anche altri. Ci riferiamo a quelli in cui si invita a non sostare nei pressi delle slot se non si gioca o, addirittura, a non osservare i giocatori mentre giocano. I cartelli spesso sono scritti a mano, una scelta che sembra veicolare una maggiore personalizzazione dello spazio, nella relazione fra gestore e comunità di giocatori, oltre che una sorta di attenzione particolare del gestore nei confronti delle regole non scritte condivise dai giocatori. Azzimondi, Cice e Croce (2001: 315) in un loro studio, frutto di una ricerca etnografica nelle sale scommesse milanesi, sono arrivati alla conclusione che queste possono essere definite come “extraluoghi”, perché le interazioni si svolgono in virtù di una sorta di “complicità” tra sconosciuti dei quali, però, non ci si fida completamente.

Non è possibile, tuttavia, in questa sede approfondire i risultati e le riflessioni maturate analizzando i dati raccolti attraverso una ricerca che aveva l’obiettivo di analizzare le pratiche e le retoriche del mondo del gioco d’azzardo legale nel territorio senese. Nelle pagine seguenti, piuttosto, porteremo l’attenzione sulle problematiche emerse durante questo studio “su committenza” e sulle strategie adottate per superarle, per fornire all’Unità Operativa, dati e strumenti utili a pianificare progetti di prevenzione sul Gioco d’azzardo Patologico.

Riflessioni sul “tempo che manca” per realizzare ricerche etnografiche nel campo sanitario

Come accennato in precedenza, la ricerca specifica sul gioco d’azzardo è stata pianificata e iniziata dopo circa sei mesi dalla data d’inizio dell’incarico. Infatti, dopo una prima fase dedicata a un’indagine più generale relativa alle dipendenze, si è deciso consensualmente di concentrare l’attenzione sul GAP, per analizzare questo fenomeno più nello specifico.

Naturalmente questo significava aprire un altro campo d’analisi, dal punto di vista etnografico e teorico. Benché i primi mesi non possano essere considerati “inutili” ai fini della ricerca sul GAP, dal momento che hanno permesso di avvicinarsi al tema dello studio delle dipendenze e di iniziare ad approfondire l’analisi delle dinamiche che caratterizzano il funzionamento delle strutture che nel campo biomedico si occupano di prevenzione e cura delle addictions, tuttavia per realizzare la ricerca sul Gioco D’azzardo sarebbe stato necessario almeno un anno, e non i soli sei mesi rimasti[4]. Tuttavia, il responsabile dell’Unità Operativa ha comunicato in seguito che era impossibile prolungare di sei mesi la durata del contratto, poiché la ASL già difficilmente prevede di finanziare attività di ricerca e lui, in quanto responsabile di un’Unità Operativa, era riuscito a ottenere in via del tutto eccezionale di farsi finanziare un’indagine etnografica dall’Azienda Sanitaria.

La retorica del “tempo che manca” rischia di emergere sempre più frequentemente nel dialogo fra antropologi, professionisti del campo biomedico e dirigenti politico-amministrativi di strutture sanitarie fortemente aziendalizzate per i quali l’espressione «il tempo è denaro», una delle più celebri e diffuse metafore della contemporaneità, diviene ancora più cogente in un periodo di crisi economica che ha pesanti ricadute sulle politiche sanitarie nazionali (Lakoff, Johnson 1980). Le politiche caratterizzate da un’attenzione a bilanci sempre più sottoposti a rischi di tagli rendono la retorica del “tempo che manca” una vera e propria pratica che pone rigidi limiti alla realizzazione di ricerche etno-antropologiche finalizzate a sviluppare progetti di prevenzione frutto di raccolta di dati etnografici e analisi approfondite.

Nel caso in questione, il tempo quindi non veniva concesso (e con esso le risorse economiche) per continuare la ricerca secondo i tempi previsti in fase di stesura del progetto. L’ASL avrebbe potuto finanziare ufficialmente solo campagne e interventi di prevenzione relativi al GAP e non più ricerche. I tempi richiesti, (e il tempo che mancava) riguardavano soprattutto l’analisi approfondita dei dati etnografici raccolti, un’analisi utile non solo per fini teorico-interpretativi, ma per pianificare, in un’ottica operativa, politiche e interventi di prevenzione più efficaci e mirati.

Tuttavia, poiché già durante la ricerca erano giunti segnali relativi all’impossibilità di concedere altri mesi per concludere l’indagine e la pressante richiesta di scrivere un report finale alla fine dei sei mesi a disposizione per lo studio sul Gioco D’azzardo, l’etnografia è stata realizzata quasi a una “velocità doppia” concentrando in metà del tempo le attività previste. L’impresa è stata portata a termine attraverso un impegno estremamente intenso che ha previsto fra l’altro: la mappatura di 60 luoghi del gioco d’azzardo legale nei comuni di Poggibonsi, Colle Val D’Elsa, Casole D’Elsa, Radicondoli e San Gimignano; le interviste a 36 giocatori patologici, immersioni etnografiche all’interno di comunità per giocatori patologici, missioni etnografiche all’interno delle fiere commerciali dedicate al gioco e in occasione di eventi istituzionali dedicati al contrasto del GAP[5]. Tutto questo ha permesso di acquisire molti dati etnografici di grande ricchezza e interesse dal punto di vista analitico. A report consegnato, si sono aperte differenti prospettive di negoziazione che permettessero di analizzare in modo approfondito i dati raccolti.

Dal momento che attività eminentemente di ricerca non potevano essere approvate per una seconda volta dalla ASL – e la prima indagine rappresentava, evidentemente, un caso eccezionale – un’altra strada da perseguire era rappresentata dalla possibilità di aprirsi a negoziazioni sia con le professionalità del campo biomedico, sia con i responsabili delle Aziende Sanitarie Locali. Poiché i finanziamenti da parte dell’ASL privilegiano progetti che «portino risultati tangibili» nell’ambito della prevenzione alle dipendenze, una strategia, nel caso in questione, poteva essere quella di affiancare attività di ricerca a progetti di prevenzione veri e propri. Un esempio può essere rappresentato da interventi da realizzarsi nelle scuole medie superiori, finalizzati a rendere maggiormente consapevoli gli adolescenti sui rischi insiti nella pratica del gioco d’azzardo (e in particolare da slot machine). Infatti, esaminando la letteratura scientifica relativa a progetti di questo tipo, si evince che interventi basati sulla decostruzione dei più frequenti errori cognitivi e credenze erronee o basate sul “pensiero magico” diffuse fra gli adolescenti relativamente al gioco d’azzardo, portino risultati positivi sia nel breve periodo sia nel follow up a sei mesi di distanza (Donati et al. 2013)[6]. A fianco delle attività di prevenzione primaria, l’etnografo avrebbe potuto analizzare il fenomeno del gioco d’azzardo, concentrando l’attenzione su come il gioco d'azzardo è percepito e interpretato dagli studenti delle scuole. Quest’ultima strada rappresenta un tentativo di negoziazione ancora in corso durante la stesura di questo articolo e della quale non è possibile, quindi, analizzare gli esiti concreti.

Prima di presentare, nelle conclusioni, i rischi e le opportunità che si celano dietro a questa prospettiva, è importante aprire una riflessione più ampia sulle scelte strategiche che, a livello macro, caratterizzano il rapporto fra le politiche relative al settore del gioco d’azzardo e quelle sanitarie in Italia. Strategie che naturalmente non sono attribuibili alla responsabilità delle Unità Operative Prevenzione dipendenze Patologiche, né alle singole ASL, ma che riguardano scelte politiche governative specifiche che sono state adottate negli ultimi anni in Italia.

All’origine di tutto il processo, vi è una parola e un concetto: la “crisi economica”, termine cruciale oggi che riecheggia dalle aule del parlamento, alle prime pagine dei giornali, ai dibattiti televisivi per irrompere nel discorso pubblico e nel senso comune insieme alle conseguenti “ricette” per uscirne, ovvero le politiche di austerità e i tagli alla spesa pubblica. Ricette indicate da un discorso egemonico che spesso si autolegittima come “unica” soluzione possibile ed emergenziale (Foucault 1969; 1971).

Per Agamben (2013) «il concetto di crisi è ormai divenuto il motto della politica moderna e da tempo fa parte di tutte le sfere della vita sociale» e contribuisce a «legittimare decisioni politiche ed economiche che di fatto privano i cittadini di qualsiasi possibilità di decisione»[7]. Se si arriva addirittura a formare governi nazionali in nome della crisi, è facile comprendere come questo concetto possa influire nel rendere “digeribili” per i cittadini, politiche che provochino tagli per esempio alla spesa sanitaria. In questo contesto politico e economico, risparmiare risorse per lo Stato o sviluppare strategie di “finanza creativa” per ottenere nuove entrate per le casse statali sono scelte prioritarie che nel “discorso pubblico” sembrano più forti delle critiche di tipo politico o etico che queste possono attirare su di sé.

In Italia, negli ultimi anni, differenti governi, richiamandosi all'emergenza dovuta alla crisi, hanno favorito l'espansione del gioco d’azzardo legale e la concessione di nuove licenze per nuovi giochi[8]. Non solo le “pratiche” della politica, ovvero le azioni che hanno caratterizzato l’agire politico su queste tematiche da parte dei differenti governi, ma anche le retoriche utilizzate da deputati e senatori afferenti a partiti di diverso colore per giustificare l’introduzione di nuovi tipi di gioco d'azzardo, vanno analizzate nello specifico. Ad esempio, dalla ricerca sul campo è emerso quanto alcune di queste retoriche abbiano fatto breccia sui cittadini, e in particolare sugli attori sociali e sui soggetti economici coinvolti a vari livelli nel settore del gioco d’azzardo legale. Non ci si riferisce qui ai grandi concessionari o ai produttori o noleggiatori di new slot e videolottery (VLT), ma anche a un livello più basso e più capillare della filiera del gioco, ovvero agli esercenti e proprietari di locali dotati di macchinette. Alcuni di loro tendevano a “giustificare” la presenza delle slot e la loro decisione di mantenerle nel locale sostenendo che se non esistessero le macchinette i cittadini pagherebbero più tasse. Un proprietario di bar faceva l’esempio della Tares (Tributo comunale sui rifiuti e sui servizi), tassa per la quale, a suo giudizio, avrebbe pagato molto di più se non ci fosse il gioco d’azzardo legale. Inoltre queste retoriche facevano riferimento diretto al fatto che il gioco è sempre esistito e «la gente ha sempre giocato» (citando le testuali parole degli interlocutori), ma almeno oggi è legalizzato e «fatto alla luce del sole», fornendo anche nuove entrate allo stato.

Questo tipo di retoriche possono far riflettere sull’effetto sui cittadini di una narrazione pubblica relativa al gioco d’azzardo legale tesa a giustificarne la diffusione sul territorio nazionale. Una narrazione diffusa dai media, ma prodotta in parlamento dai rappresentanti di diversi partiti che, oltre a veicolare il concetto che il gioco permette di ridurre l’imposizione fiscale ai cittadini (quelli che non giocano, si dovrebbe aggiungere), propongono anche altri tipi di giustificazione[9]. Un caso eclatante riguarda il decreto 39 del 2009 voluto dall’allora ministro dell'Economia Giulio Tremonti, che introduceva nuovi tipi di gioco d'azzardo nel mercato e concedeva nuove licenze: per le videolottery (VLT)[10] e per molti altri giochi d’azzardo. Si adduceva come giustificazione per la legalizzazione di questi nuovi prodotti il fatto che le nuove entrate che ne derivavano sarebbero state destinate alla ricostruzione della città dell’Aquila, devastata dal terremoto del 2009.

L’analisi della percezione di queste retoriche “giustificative” da parte degli attori sociali non può non farci riflettere sulla loro portata. Le scelte politiche, sottostanti alla larga diffusione del gioco d'azzardo in Italia negli ultimi anni, così come quelle che portano a tagli alle spese sanitarie (e alla ricerca nell'ambito della prevenzione alle dipendenze) – sempre in nome della crisi economica – hanno bisogno di “discorsi” che le giustificano. L’uso del termine “discorso” in questo caso va inteso secondo la rilettura e l’accezione che Michel Foucault (1969; 1971) dava alle formazioni discorsive interpretandole come capaci di esercitare potere sulla realtà sociale.

Conclusioni

Quelle citate sono narrative usate, se non abusate, negli ultimi anni per legittimare e giustificare scelte politiche effettuate in una condizione di emergenza continua, dettata dalla crisi economica. In questo modo questi “discorsi” e retoriche assurgono a divenire incontestabili fino a autolegittimarsi. La paradossale condizione di “perenne emergenza” frutto della crisi economico-finanziaria che affligge il Paese ha, fra i suoi effetti, quello di provocare un’autosospensione dei giudizi di merito e di occultare molte delle critiche che, dal punto di vista etico e morale, potrebbero essere fatte a scelte come quelle di aumentare le entrate tributarie tramite il gioco d’azzardo.

Inoltre, le conseguenze di tali scelte rischiano di risultare completamente controproducenti per le finanze regionali e statali stesse, se analizzate per gli effetti che avranno nell’arco di un periodo temporale più ampio: infatti l’inevitabile aumento del numero dei giocatori patologici, ricadrà sui SerT locali, che hanno la responsabilità di farsi carico del loro trattamento riabilitativo. Numeri destinati a crescere anche perché, dalla ricerca sul campo, è emerso che sono ancora pochi i giocatori patologici consapevoli della possibilità di intraprendere questo cammino in maniera gratuita presso i SerT.

Un’analisi di un fenomeno complesso come quello del gioco d'azzardo patologico interpretabile come un “fatto sociale” (Durkheim 1969) non può quindi prescindere da un inquadramento a livello macro che prenda in considerazione gli interessi politico-economici che lo regolano. Tutto questo influisce anche sulle policy in ambito sanitario inerenti alla prevenzione di questa dipendenza comportamentale e, per quello che concerne il tema al centro di questo articolo, sullo spazio concesso alla ricerca etno-antropologica chiamata a contribuire in un’ottica applicativa a sviluppare progetti di prevenzione mirati e specifici.

Le politiche di austerità che vanno a incidere su una salute pubblica aziendalizzata hanno l’effetto di limitare notevolmente la realizzazione di progetti di ricerca multidisciplinari finalizzati a ottenere risultati importanti per sviluppare, dal punto di vista operativo, progetti di prevenzione frutto dell’analisi di fattori differenti e di più ampio raggio, rispetto a una semplice ricerca di tipo epidemiologico. In particolare per la consulenza in questione, un problema importante ha riguardato il tempo; il tempo per portare a termine l’analisi approfondita dei dati raccolti attraverso la ricerca. Si è accennato in precedenza all’ipotesi di compromesso di “negoziare” uno spazio per la ricerca in concomitanza con un progetto di prevenzione. Su questo gli interrogativi sono molteplici. Da un lato, questa soluzione può avere senso per “ritagliare” un ruolo per la ricerca etnografica in questi contesti specifici, soprattutto in un periodo di crisi economica che purtroppo ricade proprio sulle spese sanitarie. Dall’altro lato, può essere mossa una critica a questa ipotesi di compromesso, per il fatto che l’indagine dovrebbe invece essere preliminare alla pianificazione di un progetto di prevenzione, affinché quest’ultimo possa essere realizzato secondo un approccio integrato che consideri anche gli aspetti socio-economici e culturali di una forma di dipendenza. Inoltre questa soluzione, risultato di una negoziazione, rischierebbe di svilire il ruolo delle analisi frutto della ricerca etno-antropologica, rispetto alle conoscenze scientifiche acquisite tramite altri approcci disciplinari (biomedico o psicologico) che determinano l’impostazione degli interventi di una struttura che si occupa di prevenzione alle dipendenze patologiche.

L’auspicio, senz’altro, è che uno spazio autonomo venga garantito alla ricerca etno-antropologica per poter dialogare in maniera efficace con le altre discipline, all’interno di programmi di ricerca e prevenzione ambiziosi e approfonditi finalizzati allo studio nella loro totalità di cause e caratteristiche delle dipendenze patologiche. Infatti, proprio per la complessità di un fenomeno come il gioco d’azzardo (si pensi anche solo agli interessi economico-politici che a livello macro lo investono e lo regolano in Italia) la prospettiva bio-psico-sociale deve essere necessariamente integrata con l’approccio metodologico e teorico delle discipline etno-antropologiche. Se questa scelta di negoziazione possa rappresentare una strategia corretta per aprire uno spazio maggiore all’antropologia in questi progetti, rimane una domanda deliberatamente aperta in questo articolo che vuole essere l’occasione per un confronto su questi temi. Un interrogativo che s’inserisce nel dibattito più ampio legato al ruolo che gli antropologi possono rivestire come consulenti o collaboratori all’interno di progetti sanitari di prevenzione. In conclusione, esperienze di consulenza, come quella sinteticamente descritta in queste pagine, possono essere viste positivamente per alcuni aspetti, anche se resta ancora molto da fare per riuscire a garantire alla ricerca antropologica un ruolo importante all’interno di questi progetti.

Indubbiamente aver previsto un «collaboratore etnografo» all'interno di un più ampio progetto dedicato all’architettura complessiva degli interventi di prevenzione alle dipendenze patologiche è un’iniziativa lungimirante che denota un’apertura e un’attenzione alle variabili socio-culturali che caratterizzano tali dipendenze. Inoltre, l’aver riconosciuto l’importanza della ricerca eminentemente qualitativa, come richiesto dal bando e come, per altro, è effettivamente avvenuto durante la ricerca, rappresenta un’importante apertura nei confronti delle metodologie caratterizzanti le discipline demoetnoantropologiche. Se questo, da un lato, poteva rappresentare un presupposto favorevole alla buona riuscita di un progetto integrato e multidisciplinare, soprattutto rispetto al rischio che la ricerca venisse invece orientata verso la raccolta di dati quantitativi – utili per essere mostrati in diagrammi e tabelle estremamente diffusi, se non abusati, nei report finali dei progetti – nella pratica, poi, le condizioni e le dinamiche strutturali che caratterizzano le politiche di prevenzione delle ASL hanno limitato notevolmente le prospettive di riuscita di questo progetto.

Proprio per i positivi presupposti di partenza che prevedevano di affidare a un collaboratore etnografo l’incarico di realizzare «un’indagine qualitativa continuativa sulla popolazione», sarebbe di fondamentale importanza che all'interno di queste consulenze si concedesse il tempo necessario per realizzare una ricerca realmente continuativa che permettesse di analizzare dati utili per pianificare progetti di prevenzione integrati e mirati. Infatti, che la ricerca sul campo debba essere prolungata e continuativa rappresenta anch’essa una caratteristica fondamentale dell’approccio teorico-metodologico delle discipline demoetnoantropologiche. Nella “quantificazione” del tempo necessario è essenziale tenere in considerazione le fasi che caratterizzano i primi contatti con gli interlocutori privilegiati della ricerca, nelle quali è necessario conquistare la fiducia di questi ultimi e riuscire a stabilire quella empatia fondamentale per poter realizzare una ricerca qualitativa. Tali fasi sono spesso ricche di imprevisti, per questo è importante mantenere una certa flessibilità sui tempi previsti per la ricerca. Indubbiamente c’è da chiedersi se, soprattutto le ASL che finanziano progetti delle singole Unità Operative (più che queste ultime), siano oggi delle strutture capaci di sostenere progetti di ricerca che necessariamente devono essere più flessibili sui tempi di indagine rispetto ad altri tipi di studi; e se tale flessibilità sia compatibile con finanziamenti concessi secondo vincoli politici, economici e organizzativi che sempre più caratterizzano un campo sanitario fortemente aziendalizzato e burocratizzato.

Inoltre, per poter stabilire un dialogo proficuo con le professionalità del campo biomedico, è fondamentale che venga attribuito il giusto peso e riconoscimento non solo alle metodologie caratterizzanti le discipline demoetnoantropologiche, ma anche al contributo che queste possono offrire dal punto di vista della rielaborazione teorica dei risultati raccolti durante la ricerca.

Se questo non avviene il rischio è quello di “svilire” il contributo della ricerca antropologica, interpellando la disciplina solo in virtù della sua capacità di offrire un contributo etnografico. In questo modo l’etnografia rischierebbe di venire interpretata come una mera “tecnica” di ricerca, e non come una metodologia inserita in un corpus di conoscenze e fondamenti epistemologici che caratterizzano il sapere antropologico. Indubbiamente, per stabilire un dialogo significativo e un’alleanza concreta con medici e protagonisti del campo sanitario, anche gli antropologi coinvolti, da parte loro, non devono prevedere nella stesura dei loro progetti scadenze temporali estremamente lontane, bensì compatibili sia con lo specifico contesto istituzionale in cui sono chiamati a lavorare (ovvero le esigenze della committenza), sia con gli obiettivi prefissati da chi li ha “ingaggiati”. Su questo aspetto, è importante che i ricercatori di discipline demoetnoantropologiche si mettano in gioco a tutti gli effetti, pianificando ricerche che non si limitino all’ambito puramente esplorativo e di produzione di sapere e conoscenza, ma che siano chiaramente finalizzate a fornire dati e risultati utili dal punto di vista operativo e applicativo ai professionisti del campo sanitario.

Tuttavia, nonostante le problematiche emerse all’interno di questa consulenza etno-antropologica, va evidenziato anche un aspetto da non sottovalutare: nella situazione in cui versa l’università italiana a livello di fondi per la ricerca, indagini come queste possono rappresentare un’occasione per dedicarsi integralmente a uno studio etnografico. Cosa, questa, che oggi nell’accademia o nei centri di ricerca italiani accade raramente, eccezione fatta per il periodo dedicato al dottorato e agli assegni post-doc. In un mondo della ricerca italiano sempre più “precarizzato” dal punto di vista professionale, chi riveste incarichi di insegnamento a contratto nelle università, pur avendo anni di esperienza maturati attraverso il dottorato o borse post doc alle spalle, ha spesso difficoltà oggi a accedere a finanziamenti per realizzare investigazioni sul campo. Queste condizioni strutturali che riguardano il mondo della ricerca in Italia devono essere prese in considerazione per analizzare gli ambiti, le prospettive e le limitazioni per realizzare ricerche etnografiche; anche pensando alle potenzialità di una possibile alleanza con medici e operatori del campo sanitario improntata su un dialogo aperto che rispetti le specificità disciplinari di ognuno degli attori coinvolti. La consulenza descritta e analizzata in queste pagine rappresenta un’esperienza importante; la sfida per il futuro è ora quella di poter arrivare a realizzare progetti multidisciplinari nei quali anche i limiti qui esposti vengano superati. In questo caso si aprirebbero, inoltre, interessanti prospettive che permetterebbero alla ricerca applicativa all’interno del campo sanitario, di offrire importanti spunti analitici anche sul piano teorico-interpretativo.

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[1] Come già premesso, non ci concentreremo sui vari approcci teorici attraverso cui l’antropologia ha affrontato il fenomeno del gioco d’azzardo. Ci limitiamo, sinteticamente, a citare gli studi classici di Tylor (1997), Culin (1907), Lévy-Bruhl (1924), Geertz (1988) e, infine, Cirese (1978) per il contesto italiano. Per quanto riguarda le ricerche sul mondo delle slot machine sono molto interessanti i lavori di Lalander (2006) e Dow Shull (2012). In Italia il volume di De Sanctis Ricciardone (1994) analizza in generale il tema del gioco, mentre quello di Pini (2012) più nello specifico il fenomeno del gioco d'azzardo, anche attraverso spunti frutto di una ricerca etnografica.

[2] Il progetto è coordinato dal Dottor Riccardo Zerbetto e i moduli residenziali intensivi della durata di 21 giorni hanno luogo nel comune di Monteroni D’Arbia.

[3] Il gioco d’azzardo on line, pur rappresentando anch’esso un fenomeno in netta crescita, non è al centro della ricerca, dal momento che è molto più complesso da analizzare attraverso una ricerca etnografica sul territorio.

[4] Inoltre durante questi primi mesi sono state condotte interviste in profondità a tossicodipendenti, alcolisti, ma anche a giocatori d’azzardo. Questi ultimi frequentavano i gruppi di alcolisti in trattamento dell’ACAT (Associazione dei Club Alcologici Territoriali), non sapendo dell’esistenza dei gruppi di “giocatori anonimi”. Queste interviste hanno potuto fornire dati etnografici interessanti, anche in riferimento al fatto che vi sono studi accreditati all’interno della letteratura scientifica che mettono in stretta correlazione l’abuso di sostanze stupefacenti o di alcol con la dipendenza da gioco d’azzardo (Lesieur, Blume 1987). Anche se dalla ricerca realizzata poi specificamente sul gioco d’azzardo, casi di co-dipendenza sono emersi solo per 4 gamblers su 36 intervistati.

[5] Un esempio è l’iniziativa pubblica contro il Gioco d’azzardo Patologico che ha avuto luogo a Firenze al Circolo Arci “San Niccolò”, al quale ha partecipato la Presidente della Camera Laura Boldrini, oltre ad assessori comunali e regionali. L’occasione dell’incontro era la decisione del consiglio direttivo del circolo di “liberare” dalle slot il circolo stesso. Durante questa giornata e nel corso di altre che hanno visto la partecipazione di rappresentanti del mondo dell’associazionismo impegnati nella lotta al gioco d’azzardo, sono state analizzate le retoriche più diffuse e condivise nel discorso pubblico relativamente al fenomeno.

[6] Lo studio a cui si fa riferimento è particolarmente interessante in relazione alla consulenza antropologica al centro dell'articolo, anche perché è stato realizzato fra gli studenti di scuole toscane; ma è importante ricordare anche altri studi di questo tipo condotti in precedenza a livello nazionale e internazionale: Gaboury, Ladouceur 1993; Ferland et al. 2005; Capitanucci 2012.

[7] Le citazioni si riferiscono all’articolo con intervista a Giorgio Agamben dal titolo Die endlose Krise ist ein Machtinstrument, “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 24/5/2013. L’intervista è stata pubblicata in italiano da “Lavoro Culturale” il 2/10/2013 con il titolo: La crisi perpetua come strumento di potere. Conversazione con Giorgio Agamben, http://www.lavoroculturale.org/ (sito internet consultato in data 14/4/2015).

[8] Dal 1997 al 201 in Italia i vari governi che si sono avvicendati hanno continuativamente introdotto nel mercato e legalizzato nuove forme di gioco: doppia giocata del lotto, sale scommesse, super enalotto (con il governo Prodi), Bingo (governo D’Alema), nuovi corner e punti gioco per le scommesse, terza giocata del lotto, scommesse e big match (secondo governo Berlusconi), giochi “che raggiungono l’utente”: sms, digitale terrestre, gioco on-line in torneo (secondo governo Prodi), nuove lotterie ad estrazione istantanea-gratta e vinci, giochi numerici a totalizzazione nazionale (win for life), videolottery, bingo a distanza, l’apertura di 1000 sale gioco per il poker dal vivo, concorso aggiuntivo del SuperEnalotto (terzo governo Berlusconi).

[9] E' indubbio che, soprattutto recentemente, i media abbiano anche affrontato il tema del GAP in Italia, come problema sociale dietro il quale si nascondono importanti interessi economici e politici; tuttavia le retoriche alle quali si fa riferimento, in questo caso, sono quelle prodotte dai rappresentanti di partiti politici – coinvolti nella concessione di nuovi permessi e licenze per la diffusione del gioco d’azzardo – reinterpretabili come giustificazioni da parte degli attori sociali coinvolti nello sfruttamento economico del gioco d’azzardo.

[10] Le videolottery a differenza delle altre slot machine (new slot) non presentano una scheda gioco interna, ma sono terminali connessi ad un sistema di gioco centrale. Vi si possono inserire anche banconote (e non solo monete). Il costo di ogni puntata può variare da 50 centesimi di euro a 10 euro; le vincite prevedono dei jackpot di sala e un jackpot nazionale che arriva fino a 500.000 euro.