Sessualità normate tra pratiche educative e voci adolescenti

Un’esperienza etnografica nei consultori di Roma

Alice Manfroni

Università di Siena

Indice

Introduzione
Una ricerca at home tra attivismo e soggettività erotica dell’antropologa
I consultori come spazio di autonomia per ragazzɜ minorenni
L’adolescenza tra norma e possibilità
“È importante avere rapporti a questa età (adolescenziale) ?”
Verso un’antropologia pubblica femminista?
Bibliografia

Abstract. This paper aims to reflect on the interconnection between sexuality, gender and age. Moving from my ethnographic research conducted in Rome concerning the sexual education activities carried out in schools by some public family counseling, I discuss the sexuality of adolescents and its meanings within a specific health and social institution through a critical analysis of the discursive categories used by the social actors met in the field. The anthropological gaze gives back legitimacy to the plurality of roles, subjectivities, sexual and affective relationships that teenagers experience in their everyday lives. The analysis will show how anthropology can restore the complexity of legal and socio-cultural norms, by answering to the adolescents’ needs, and by building sexual education activities starting from the teenagers’ voices and experiences. Finally, I will attempt to bring out the capacities of feminist anthropology both of problematizing normative discourses and proposing an alternative discourse regarding sexuality, relationship, and adolescence.

Keywords. Sexuality; Adolescence; Sexual Education; Feminism; Norms.

Introduzione

Il saggio intende restituire alcune riflessioni emerse durante la ricerca di tesi di laurea magistrale condotta a Roma tra settembre 2018 e dicembre 2019, nella quale ho indagato le attività rivolte a giovani adolescenti all’interno dei consultori familiari. Come istituzioni socio-sanitarie pubbliche che si occupano gratuitamente di prevenzione e sessualità nelle diverse fasi della vita, i consultori sono emersi come un “campo di battaglia” dove si scontrano molteplici visioni del servizio. In particolare, li ho considerati come servizi territoriali incaricati dallo Stato di promuovere progetti di educazione sessuale nelle scuole, che garantiscono, inoltre, l’accesso al servizio dellɜ ragazzɜ[1] minorenni in piena autonomia (L. 405/75[2]; L.R. 15/76[3]; L. 194/78[4]). Obiettivo della ricerca è stato quello di indagare le pratiche educative dellɜ operatorɜ di alcuni di questi servizi attraverso un'analisi critica delle categorie discorsive messe in campo durante le interviste, gli incontri in classe con lɜ ragazzɜ o ritrovate nella policy di riferimento, con l’intento di osservare i significati che la sessualità dellɜ adolescenti assume all’interno di una specifica istituzione socio-sanitaria. Ho così costruito un’“etnografia multi-posizionata” dove, secondo Tarabusi, l’etnografə è impegnatə «a ricostruire il punto di vista di tutti gli attori in gioco, a decodificare i molteplici linguaggi istituzionali e gerghi tecnico-burocratici, a riconoscere le loro categorie interpretative» (Tarabusi 2010: 143). Grazie alla continua interazione con soggettività appartenenti a contesti differenti (operatorɜ socio-sanitariɜ, attivistɜ delle assemblee dei consultori, giovani dentro e fuori le scuole, responsabili o burocratɜ delle Asl), è emersa una pluralità di rappresentazioni e discorsi che hanno restituito una fotografia complessa dei consultori e dell’educazione alla sessualità sul territorio romano. In questo saggio focalizzerò l’attenzione sul gruppo dellɜ adolescenti e vorrei mostrare in che modo l’antropologə, inseritə in un servizio pubblico e posizionatə nell’interstizio tra macro e micro-dinamiche, possa restituire la complessità di norme giuridiche e socioculturali per contribuire a dare risposte efficaci alle esigenze dellɜ ragazzɜ.

Inoltre, mi concentrerò sull’esperienza etnografica svolta all’interno di un progetto di “Educazione alla salute e alla vita affettiva”, proposto da una psicologa di un consultorio nelle seconde classi di un liceo scientifico del centro di Roma. Il progetto è stato identificato come momento privilegiato in cui si riconosceva la soggettività sessuale dellɜ adolescenti all’interno dell’istituzione scolastica proponendo un discorso di prevenzione delle infezioni sessualmente trasmissibili (IST) e delle gravidanze indesiderate, integrando al suo interno aspetti relazionali-affettivi come l’amicizia, i rapporti con lɜ genitorɜ, lo sviluppo psicosociale e la violenza di genere nelle relazioni. Il progetto era strutturato in due incontri di due ore ciascuno per classe (a volte con la presenza dellɜ professorɜ), all’interno dei quali collaboravo con la psicologa nella gestione delle attività (es. distribuzione materiali, analisi questionari, spiegazioni attività da svolgere o dei servizi offerti dai consultori, lettura domande anonime, ecc.). Tuttavia, la conduzione degli incontri era svolta dall’operatrice e la mia partecipazione variava a seconda delle occasioni: a volte ero una “ricercatrice silenziosa” altre volte una figura di riferimento per domande e curiosità dellɜ ragazzɜ. In tal modo, ho ascoltato le opinioni di ragazzɜ quindicenni riguardo alla sessualità, alle relazioni affettive e ai rapporti generazionali, rivelatesi, essere spunti di riflessione interessanti per smascherare stereotipi e discorsi normativi. Proverò quindi a evidenziare come l’antropologə, attraverso l’ascolto delle voci marginali dellɜ adolescenti, e in continuo dialogo con le molteplici soggettività incontrate sul campo di ricerca, possa co-costruire e promuovere esperienze di educazione alla sessualità a partire dai vissuti dellɜ giovani stessɜ.

Infine, questa esperienza di ricerca mi ha permesso di cogliere il carattere pubblico dell’antropologia femminista, come sapere critico capace di problematizzare discorsi normativi e proporre un discorso alternativo riguardo alla sessualità, ai legami affettivi e all’adolescenza dentro e fuori i servizi socio-sanitari. Nell’ultimo paragrafo presenterò, quindi, una proposta parziale e aperta per la visibilizzazione e la diffusione di un’antropologia pubblica femminista e dei suoi risvolti applicativi.

Una ricerca at home tra attivismo e soggettività erotica dell’antropologa

L’educazione sessuale, considerata come strumento di addomesticamento e, insieme, di empowerment dei corpi sessuati (Landi 2017), negli ultimi decenni a livello internazionale e nazionale, è stata oggetto di un’importante “esplosione discorsiva” (Foucault 2017) che ne ha definito i contenuti, le metodologie, il target e il contesto formativo attraverso una costante produzione di concetti e categorie che ne hanno plasmato la forma (Veglia 2004; OMS, BZgA/WHO Regional Office for Europe, FISS 2010). Una produzione discorsiva avvenuta all’interno di una precisa politica sessuale che, dagli anni Novanta del Novecento, intreccia questioni economiche, accesso alla cittadinanza e alla salute e dove i diritti sessuali stabiliscono nuove frontiere tra differenti tipi di sessualità, identità di genere e legami affettivi (Bell, Binnie 2000; Fiorilli, Voli 2016; Ferrante 2019). Ed è proprio sull’intersezione tra diritti, salute e benessere sessuale che organizzazioni governative e non governative hanno costruito il discorso occidentale dominante riguardo ai programmi educativi relativi alla salute sessuale e riproduttiva dellɜ giovanɜ. (Who 2002; Herdt 2010; WAS 2014; Gab 2018).

In Italia, tuttavia, non esiste una legge che regolamenti a livello nazionale l’educazione sessuale nelle scuole e tali attività vengono per lo più svolte in modo disomogeneo dai consultori pubblici o da associazioni ed enti del terzo settore (Iss, Ministero della Salute, Ccm 2019; Pizzi 2019). Negli ultimi anni, l’educazione alla sessualità è stata oggetto di proposte di legge mai approvate, rivendicazioni da parte di movimenti o collettivi studenteschi e femministi, attacchi da parte di alcune forze neofondamentaliste “anti-gender” e, di tanto in tanto, continua a riemergere nei media mainstream e nel dibattito pubblico come questione riguardo alla quale lo Stato sembra assumere posizioni di immobilismo, delegando alle famiglie o al terzo settore qualsiasi intervento in questo ambito.

In tale contesto, l’indagine sui consultori pubblici e le pratiche educative riguardo alla sessualità dellɜ giovani minorenni ha chiamato inevitabilmente in causa una fitta rete di relazioni e rappresentazioni al cui interno ho negoziato la mia posizione (Tarabusi 2010). Una riflessione sul posizionamento che si è rivelata fondamentale, in particolare quando mi sono confrontata con operatorɜ con esperienze, “habitus professionali” e valori differenti che influenzano inevitabilmente un percorso di educazione alla sessualità (Bourdieu 1992; Tarabusi 2010; Allen et al. 2014; Landi 2017). Questioni, inoltre, che hanno influenzato il modo in cui io stessa ero considerata sul campo in quanto studentessa di antropologia e che ha portato inizialmente a un mancato riconoscimento dell’antropologia come sapere che si occupa di educazione, sessualità e adolescenza all’interno delle istituzioni pubbliche. Ciò mi ha portata, da un lato, a rispondere spesso a “contro-interviste” per legittimare la mia presenza sul campo e, dall’altro, ad essere inquadrata giuridicamente nella generica etichetta “frequentatore volontario” di un unico consultorio[5].

Tale mancanza di riconoscimento si è unita tuttavia alla volontà di conoscere l’istituzione “dal basso”, attraverso l’osservazione partecipante nelle sale d’attesa dei consultori, l’analisi dei materiali informativi (cartacei o su internet), la partecipazione alle manifestazioni organizzate dalle assemblee o da realtà politiche studentesche, le interviste a operatrici ormai in pensione o ad utenti attivistɜ nelle assemblee.

L’incontro con le assemblee delle donne e delle libere soggettività[6], avvenuto nei primi giorni di campo, e la decisione di entrarvi a far parte non solo come ricercatrice, ma soprattutto come attivista transfemminista[7], ha portato inevitabilmente a una scelta etica e politica riguardo al mio posizionamento. L’azione politica e la ricerca etnografica sono dunque diventate due momenti congiunti del lavoro sul campo che, in una reciproca dialettica, hanno favorito la conoscenza antropologica, contribuendo contemporaneamente a una reale azione sociale e politica (Boni et al. 2020). Ho così tentato di intraprendere un’indagine antropologica femminista dove il posizionamento critico e l’azione politica dell’antropologa sono stati assunti come l’oggettività stessa dell’indagine (Haraway 2018), favorendo in tal modo un atteggiamento riflessivo e critico riguardo al mio posizionamento.

L’antropologia femminista è stata, infatti, la prospettiva (e l’esperienza) che ha guidato le riflessioni e interpretazioni sul campo, nel tentativo di considerare il genere come una categoria socioculturale instabile, performativa e interessata da numerose relazioni di potere, fondamentali nell’analisi della società e, in particolare, del campo da me attraversato (Rubin 1976; Moore 1988; Boellstorff 2007; Gribaldo, Ribeiro 2010; Fusaschi 2013; Busoni 2015). Inoltre, ho combinato i “tradizionali” studi antropologici sul sesso, il genere e la sessualità con alcune teorie critiche femministe, transfemministe e queer provenienti da altri ambiti disciplinari (e di attivismo) in grado di restituire la complessità dei discorsi che ruotano intorno alla sessualità dellɜ ragazzɜ (Butler 2013; Stryker, Bettcher 2016; Zappino 2016; Bernini 2017; Davis 2018; Pompili, Amendola 2018).

Un posizionamento che, tuttavia, ho incorporato quotidianamente attraverso una specifica “soggettività erotica” (Donnan, Magowan 2010) con personali esperienze, emozioni e opinioni, che hanno orientato l’osservazione, la costruzione e l’analisi del campo di ricerca. Il mio corpo di ricercatrice è stato il primo strumento di conoscenza sul campo, il quale ha permesso di riconoscere i rapporti di dominazione che “fabbricano” i corpi nei processi di soggettivazione in cui genere e sessualità sono due elementi incessantemente costruiti, ricreati e trasformati (Butler 2013; Fusaschi 2013; Remotti, 2013). La mia esperienza incorporata e la mia soggettività erotica, di genere, culturale, di classe hanno fatto sì che negoziassi continuamente la mia posizione sul campo e nelle relazioni con lɜ interlocutorɜ. Il posizionamento, quindi, non è stato osservato e analizzato solamente come scelta teorica e politica, ma è stato continuamente incorporato sul campo dove ho continuato a godere dei miei privilegi nell’essere una persona cisgenere, giovane, bianca, abile e studentessa universitaria e, allo stesso tempo, ad essere soggetta alle oppressioni del contesto socioculturale in cui vivo, in particolare nell’essere una donna con una sessualità non conforme alla norma eterosessuale.

Attraverso una continua sovrapposizione tra teoria e pratica ho considerato la sessualità nelle sue molteplici componenti discorsive, corporee ed esperienziali (Lyons, Lyons 2004; Donnan, Magowan 2010). In tal modo, l'eterosessualità è emersa come una “matrice” (Butler 2013) che produce soggettɜ genderizzatɜ naturalizzando le relazioni di potere presenti nei processi di soggettivazione (Rubin 1976). Di conseguenza, il binarismo di genere è stato considerato come una griglia interpretativa che struttura le relazioni sociali nel nostro contesto occidentale e produce corpi all'interno di due sole possibilità di genere: uomo o donna. L'asse sesso-genere-sessualità è stato dunque utile per sfuggire a visioni dicotomiche e perturbare categorizzazioni universalizzanti facendo emergere la “finzione politica” (Preciado 2015) laddove sembrerebbe esserci la “natura” (Boellstorff 2007). Va tuttavia specificato che tale asse si interseca con numerose altre linee di oppressione, come ad esempio la dis/abilità, la “razza”, l’età, lo status socioeconomico e che, in base al focus della ricerca, ho voluto approfondire principalmente in relazione all'età (adolescenziale).

I consultori come spazio di autonomia per ragazzɜ minorenni

Durante la ricerca, il consultorio si è delineato come spazio (bio)politico che assume diversi significati a seconda dellɜ attorɜ che ne parlano: da servizio pubblico dove rilanciare la “famiglia naturale” e avviare campagne contro l’infertilità e la denatalità (Iss, Ministero della Salute, Ccm 2019) a spazio politico difeso e rivendicato con nuove prospettive di intervento dai movimenti femministi e dalle assemblee dei consultori. Nati negli anni Settanta come spazi femministi autogestiti, sono stati rivendicati dalle donne come luoghi dove gestire in autonomia il proprio corpo e la propria sessualità sganciata dall’obbligo riproduttivo e intraprendere un percorso sicuro e legale per l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) (Jourdan 1976). Caratterizzati da un approccio multidisciplinare, vi operano professionalità differenti (ginecologə, assistente sociale, psicologə, ostetricə, infermierə e pediatra), integrando nella salute sessuale e riproduttiva aspetti sociali, medici e psicologici. Tuttavia, attraverso i processi di istituzionalizzazione (in particolare con le leggi e le policy regionali che ne hanno delineato i contenuti specifici[8]), i consultori sono stati inquadrati giuridicamente come servizi sociosanitari di “assistenza alla famiglia e alla maternità”, di prevenzione delle gravidanze indesiderate e di assistenza per la sessualità e la salute delle donne, delle coppie e dellɜ giovani (L. 405/75; L. R. 15/76; Amoroso 1979).

Durante l’esperienza etnografica a Roma ho però attraversato un servizio “depotenziato”, con un approccio sempre più medicalizzante, dove la territorialità del consultorio era stata sacrificata all’interno di Asl sempre più grandi[9]. Nella costruzione del campo di ricerca mi sono, infatti, recata in diversi consultori di Roma, appartenenti a differenti distretti sanitari, alcuni più centrali e altri periferici. Sebbene si sia trattato di brevi “ingressi informali”, il primo impatto con questi servizi ha fornito i primi dati etnografici riguardo alla situazione in cui versavano i consultori che ho poi approfondito nel corso delle interviste, delle attività svolte con le assemblee e l’osservazione partecipate nel consultorio di cui ero frequentatrice volontaria. Interessata principalmente alle attività consultoriali rivolte allɜ giovani (in particolare gli Spazi Giovani[10] e le attività di educazione sessuale) ho interagito con operatrici di diverse professionalità (infermiere, ginecologhe, psicologhe, assistenti sociali) che si erano occupate o si occupavano di tali attività.

Con alcune differenze tra le Asl, le linee di intervento maggiormente incentivate sono emerse essere quelle legate alla “salute della donna” (cisgenere) ricondotta principalmente all’ambito riproduttivo, a scapito, ad esempio, dei servizi rivolti allɜ giovani. Una gestione del servizio contestata dallɜ attivistɜ delle assemblee dei consultori e da alcunɜ operatorɜ impegnatɜ in un incessante lavoro di interpretazione delle direttive istituzionali per avvicinare il più possibile la loro pratica professionale a una personale (e politica) visione del consultorio:

Oggi ho avuto modo di parlare con un’assistente sociale, la quale mi ha raccontato che, nonostante le difficoltà incontrate negli ultimi anni, lei considera fondamentali i progetti nelle scuole. Un tempo, insieme ad altri due consultori del distretto sanitario, costruivano un progetto comune, ma col passare degli anni, ogni consultorio ha preso la propria strada. Tuttavia, due anni fa, alcunɜ operatorɜ hanno ricostituito un gruppo di lavoro per rilanciare un progetto comune di educazione sessuale, partendo soprattutto dalla necessità di auto-formarsi. Mi ha detto, infatti, che tuttɜ sentivano l’esigenza di cambiare alcuni aspetti degli interventi, rendendoli più “attuali” e attenti alle problematiche di oggi, consapevoli che ci sia bisogno di un continuo aggiornamento. Una formazione di cui, purtroppo, nessunə si occupava prima della formazione di questo gruppo.[11]

Come emerge da questa nota di campo, per quanto riguarda le linee di intervento dedicate allɜ adolescenti[12] ho riscontrato una forte resistenza da parte di alcunɜ operatorɜ alle trasformazioni generali che i consultori hanno vissuto sia sul piano delle policy sia su quello delle pratiche professionali. Ad esempio, l’operatrice che ha condotto il progetto di “Educazione alla salute e alla vita affettiva” a cui ho partecipato, svolgeva da anni il progetto da sola, poiché era l’unica operatrice del suo consultorio a riuscire a dedicare del tempo e ad avere esperienza e formazione per continuare tali attività nelle scuole.

Risulta, inoltre, che nelle ultime linee guida approvate dalla Regione Lazio le «iniziative di educazione sessuale» presenti nella Legge Regionale 15/76 siano state sostituite da «interventi multidisciplinari che integrano attività psico-educative ed attività cliniche per promuovere la salute e prevenire le situazioni di disagio» (D. C. A. U00152/14[13]). Un cambiamento nel lessico istituzionale e “scientificamente neutrale” che allontana dallɜ giovani qualsiasi riferimento alla sessualità e che sembra avvicinarsi alle istanze neofondamentaliste che negli ultimi dieci anni hanno caratterizzato il contesto italiano e, nello specifico, il mondo della scuola[14] (Zappino, Ardilli 2015; Ribeiro Corossacz 2018). A questo si è aggiunta una crescente ambulatorizzazione del servizio, derivante da una più ampia gestione neoliberista della sanità pubblica che ha portato alla scomparsa, dalla maggior parte dei consultori romani, delle attività di educazione sessuale nelle scuole[15] e a un progressivo allontanamento dell’utenza giovanile dal servizio:

Stamattina sono andata a visitare alcuni consultori per prendere contatti con operatorɜ che svolgono progetti di educazione sessuale nelle scuole. Purtroppo, le persone con cui ho parlato mi hanno detto che sono anni che il loro consultorio non prevede più incontri nelle scuole e che, per il momento, non sono previste nuove attività. La carenza del personale, il pensionamento dell’unica operatrice che se ne occupava, le “pressioni” su altri campi di intervento e la difficoltà ad uscire dal consultorio sono state alcune delle motivazioni presentatemi per giustificare tale assenza. Tuttɜ, comunque, concordavano con il fatto che “prima” tali attività erano presenti nell’offerta attiva consultoriale, ma che con il tempo sono passate in secondo piano e se le sono “un po’ dimenticate”.[16]

Nonostante tali cambiamenti, il consultorio mantiene delle proprie peculiarità per l’accesso alla salute sessuale dellɜ ragazzɜ minorenni le quali, però, mostrano delle contraddizioni relative alla gestione da parte dello Stato della loro sessualità. Caratteristica unica del consultorio, infatti, è la possibilità per lɜ adolescenti minorenni di accedere ai servizi liberamente, in modo diretto, gratuito e in autoriferimento senza l’appuntamento, la prescrizione medica, il pagamento del ticket e l’autorizzazione dellɜ genitorɜ o tutorɜ legali poiché, per legge, per erogare una qualsiasi prestazione sanitaria alle persone minorenni è richiesto il consenso informato di entrambɜ o di unə dellɜ genitorɜ (Lenti 2011). Tuttavia, nella legge 194/78 Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza i consultori sono indicati come i servizi pubblici incaricati della prevenzione delle gravidanze indesiderate, dell’assistenza durante il percorso di IVG e della somministrazione dei contraccettivi nel rispetto della privacy della persona che vi accede. Finalità estese anche alle persone minorenni per le quali l’accesso al consultorio deve essere garantito anche senza la presenza o l’autorizzazione dellɜ genitorɜ o tutorɜ legali.

Tale possibilità si scontra però con una serie di contraddizioni che mostrano la complessità della materia legale di fondo. Nel consultorio, infatti, non si eseguono test diagnostici che, in caso di necessità, lə minore deve effettuare in un’altra struttura sanitaria a cui accede previo consenso informato dellɜ genitorɜ (es. test HIV o per le IST[17], analisi del sangue per la prescrizione della contraccezione ormonale) e che rendono il consultorio un servizio isolato all’interno di un più ampio sistema sanitario e giuridico che non riconosce alle persone minorenni il diritto di gestire (pienamente) in autonomia la propria salute sessuale.

Sebbene la necessità di coinvolgere lə minore nel processo decisionale, di informarlə e di ascoltare la sua opinione siano questioni ormai acquisite nel diritto nazionale e internazionale, non esiste una regola chiara che stabilisca quale sia il livello di autodeterminazione della persona minorenne (Onu 1989; Lenti 2011). Questione che si intreccia quindi con i modelli di genitorialità affermatisi nel contesto occidentale e dei diritti umani, che fanno della tutela dellɜ minore e del best interest of the child la base della regolamentazione giuridica nel diritto di famiglia (Grilli 2019). Un discorso che riduce enormemente l’autonomia di ciascun membro della famiglia dove, da una parte, l’“interesse” e la “tutela” dellə minore può diventare “interesse sovradeterminato” da figure che per legge ne hanno la responsabilità giuridica. Dall’altra, il best interest diventa un dispositivo di controllo delle condotte dellɜ genitorɜ che, in nome della tutela dellə figliə, devono rispettare rigidi modelli normativi di genitorialità (Marella 2018; Grilli 2019). Una complessa articolazione della materia giuridica che nasconde precisi meccanismi di controllo sulla vita delle persone la cui età, a livello istituzionale, determina la propria identità e che porta a introdurre una serie di riflessioni: quali sono i parametri in base ai quali si decide se unə minore ha la capacità di agire sul proprio corpo? A che età lə viene riconosciuta questa capacità? E infine, in quale misura lə minore ha diritto di disporre del proprio corpo? Domande che problematizzano la gestione della sessualità dellɜ ragazzɜ minori e che evidenziano come il diritto a disporre del proprio corpo sia esercitato «entro i confini di un controllo istituzionale, regolatore e normalizzatore» (Grilli 2013: 10) che, in riferimento a persone minorenni, presenta proprie particolarità declinate nell’intersezione delle diverse esperienze di genere, sessuali, di status socioeconomico, di “razza” e di dis/abilità.

Indagando il rapporto diritto-salute-sessualità in riferimento a ragazzɜ che non hanno ancora raggiunto lo status legale di cittadinɜ maggiorenni, la variabile dell’età è emersa come una componente fondamentale per la gestione istituzionale e pubblica della loro salute sessuale. Una gestione che, ad esempio, si intreccia in modo contraddittorio con l’età del consenso nei rapporti sessuali: fino ai 18 anni, infatti, lɜ ragazzɜ sono sotto la “responsabilità genitoriale” e non si riconosce ufficialmente la loro “capacità di agire” per quanto riguarda gli aspetti sanitari, ma a partire dai 13-14 anni (con alcune variazioni in base all’età e al ruolo delle persone coinvolte), per legge, lɜ adolescenti sono riconosciutɜ come persone capaci di dare il proprio consenso a un rapporto sessuale. Il tema del consenso nei rapporti sessuali, traccia quindi una distinzione giuridica tra lɜ minori istituendo legalmente un momento preciso della vita in cui, per lo Stato, è “consentito” avere rapporti sessuali. Una “concessione” che certamente è un’importante conquista per il riconoscimento della loro soggettività sessuale e la possibilità di vivere la propria sessualità liberɜ dal controllo dellɜ adultɜ e che, tuttavia, si basa su una peculiare visione dell’adolescenza identificata come periodo appropriato per “esplorare” la propria sessualità.

Attraverso le contraddizioni e le ambiguità della materia giuridica emersa all’interno dei consultori pubblici e delle loro pratiche educative ho quindi osservato il modo in cui le soggettività sessuali adolescenti sono definite e rappresentate socialmente e, insieme, non prese effettivamente in carico dallo Stato (Landi 2017). L’adolescente minorenne, non ancora emancipatə dalla famiglia, gode infatti di uno status giuridico-sociale che quotidianamente, in molteplici ambiti, lə riconoscono come soggettə dipendente, non ancora capace di agire autonomamente e non del tutto responsabile delle proprie azioni. Tuttavia, nell’esperienza quotidiana l’agency dellɜ adolescenti è continuamente negoziata all’interno dei contesti da loro attraversati (famiglia, scuola, istituzioni pubbliche, gruppo dellɜ pari, relazioni sentimentali e sessuali, ecc.) (Durham 2000) e la relazionalità parentale viene ridefinita alla luce di una nuova concezione di “minorenne”, giuridicamente non riconosciuta ma quotidianamente vissuta e performata dallɜ ragazzɜ. Lɜ adolescenti, incorporando il duplice ruolo di figliə sotto la tutela e il controllo dellɜ genitorɜ e di soggettività (sessuali) agenti, sono immersɜ in rappresentazioni contraddittorie che lɜ presentano come soggettività liminali non più bambinɜ ma non ancora adultɜ.

Sebbene non voglia affatto restringere i confini della sfera sessuale all’interno degli aspetti sanitario-giuridici, tali questioni sono risultate centrali nel corso dell’indagine. Durante gli incontri in classe lɜ ragazzɜ cercavano spesso di capire quali spazi di autonomia fossero “concessi” loro nel campo della salute sessuale[18] e più di una volta l’età legale del consenso è stata usata come riferimento stabile per tracciare i confini legittimi entro cui vivere i primi rapporti sessuali e relazioni affettive.

Parlando con lɜ ragazzɜ a scuola e ascoltando le loro domande che mettevano in crisi il mio stesso pensiero adultocentrico ho potuto afferrare, anche se solo superficialmente, le connessioni tra rapporti di forza e fattori economici, storici e politici che influenzano le opinioni e le scelte dellɜ adolescenti. In tal modo, ho orientato il mio sguardo verso il rapporto che particolari forme di violenza strutturale hanno con la corporeità e le scelte individuali dellɜ ragazzɜ (Marmocchi 2012). In questo modo è stato possibile cogliere la complessa intersezione di strutture materiali e normative, disuguaglianze, significati soggettivi e impliciti che si nascondono dietro situazioni ed esperienze situate che troppo spesso restano schiacciate all’interno di visioni stereotipate, se non addirittura stigmatizzanti, dell’adolescente. Una visione problematizzata riguardo alla gestione dello Stato delle soggettività sessuali adolescenti che merita di esser presa in considerazione durante i programmi di educazione alla sessualità dellɜ ragazzɜ per far emergere i rapporti di potere in cui sono inseritɜ lɜ ragazzɜ minorenni.

L’adolescenza tra norma e possibilità

A partire dall’adolescente come soggettività in pericolo a causa dellɜ adultɜ e, insieme, pericolosə per se stessə e la società (Allen 2011) vorrei restituire un’immagine sfaccettata delle contraddizioni che caratterizzano la minorità/minore-età. L’adolescenza è, infatti, considerata nel nostro contesto socioculturale come periodo di transizione, momento critico della vita della persona in cui si richiede di acquisire autonomia e indipendenza dallɜ genitorɜ e dove, in particolare, la sessualità è identificata come cifra simbolica di distinzione tra l'infanzia e l'età adulta (Allen 2011). Una fase, tuttavia, considerata comunemente ad alto rischio per sé e per l’altrɜ e, come si legge nel rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, si intreccia in modo significativo con una particolare concezione di traiettoria di vita che fa dell’età adulta il riferimento normativo che stabilisce i confini dei comportamenti legittimi:

Durante l’adolescenza dunque, e soprattutto nella prima fase di essa, è “normale” che la sessualità possa essere vissuta in condizioni situazionali o relazionali imprudenti e che questa possa comportare dei rischi per la salute del soggetto come la possibilità di una gravidanza indesiderata e/o di contrarre MTS. Si tratta di possibili conseguenze insite anche nei rapporti sessuali tra adulti, ma particolarmente presenti nel caso della sessualità adolescenziale poiché spesso essa riflette le caratteristiche distintive di questa età che possono manifestarsi nella propensione alla sperimentazione a cui si somma l’inesperienza nel valutare le conseguenze e gli effetti delle proprie azioni (Iss 2008 : 68).

A partire dalle suggestioni emerse in classe tanto dalla voce dell’operatrice quanto da quelle dellɜ ragazzɜ ho tentato di problematizzare la visione dominante dello sviluppo sessuale e della traiettoria di vita normativa che fa della pubertà e, successivamente, dell’adolescenza il momento in cui la persona viene riconosciuta socialmente come soggettə sessuale. Un riconoscimento sempre ambiguo e contraddittorio, che oscilla tra una visione desessualizzata e una ipersessualizzata dellɜ ragazzɜ e che fa del loro corpo sessuale un simbolo perturbante dell'ordine sociale (Landi 2017).

Il “corpo agente” (Haraway 2018), “performativo” (Butler 2013), “soggetto di cultura” e prodotto storico (Fusaschi 2013) è stato, infatti, il protagonista indiscusso degli incontri di educazione sessuale in cui lɜ ragazzɜ erano chiamatɜ a riflettere criticamente sul proprio corpo, sulle sue trasformazioni e sui significati sessuali e di genere che determinate parti del corpo o eventi fisiologici assumono nel nostro contesto socioculturale. Le tematiche specifiche variavano a seconda del gruppo dellɜ ragazzɜ, poiché l’operatrice individuava gli argomenti che più interessavano attraverso un questionario, l’attività delle domande anonime o, in alternativa, le discussioni emerse dal gioco delle carte del gruppo dove ogni ragazzə commentava una frase sui rapporti affettivi tra pari o con lɜ genitorɜ avviando, spesso, lunghi e interessanti confronti collettivi. I corpi con le loro sensazioni, emozioni e cambiamenti erano quindi presenti tanto nelle discussioni affrontate quanto nella quotidianità della classe in cui il mio posizionamento ha permesso di osservare comportamenti che inevitabilmente sfuggono a chi conduce l’incontro e di confrontarmi, successivamente, con la psicologa riguardo alle situazioni vissute in classe[19]. Inoltre, l’immersione in tale contesto, mi invitava a decentrare continuamente lo sguardo e a riflettere criticamente sulle emozioni che io stessa provavo durante la lettura delle domande o le discussioni, in particolare quelle che più direttamente interessavano la mia soggettività. Il mio corpo sessuato e genderizzato interagiva così all’interno delle classi con altri corpi e soggettività sessuali e di genere nel tentativo di afferrare, da una posizione privilegiata, le emozioni, le difficoltà, gli imbarazzi e il divertimento dellɜ ragazzɜ nel parlare a scuola di sessualità.

Corpi che, tuttavia, entravano nelle aule scolastiche tanto come basi naturali quanto come strumenti di piacere in particolar modo attraverso la voce (spesso anonima) dellɜ ragazzɜ che ridefinivano insieme all’operatrice i confini dei discorsi ammessi a scuola. Discussioni, battute, confronti collettivi riguardo all’orgasmo, alla masturbazione femminile, alle diverse pratiche sessuali che, attraverso ciò che si è (o non si è) detto, hanno permesso di osservare i molteplici rapporti di dominazione che intersecano la sfera sessuale dellɜ ragazzɜ e le loro relazioni affettive. Il progetto di educazione sessuale, dunque, è risultato utile per sfatare alcuni degli stereotipi di genere più comuni e, insieme, proporre e legittimare una precisa costruzione culturale del corpo, dove ad esempio a partire dalla pubertà alcune parti vengono riconosciute come “fulcri di piacere” (Butler 2013).

Tuttavia, questa fase della vita considerata così trasformativa può esser interpretata anche come importante momento per smascherare e, insieme, resistere ai processi di normalizzazione della costruzione tanto del corpo sessuato e genderizzato quanto dei rapporti affettivi. Considerando sia l’incorporazione delle norme di genere sia l’impegno e il lavoro del corpo nella produzione stessa del genere, i corpi, sono emersi nell’aula scolastica come luoghi politici e culturali di contestazione, prodotti nella costante interazione «tra dispositivi di controllo che il potere esercita sui soggetti individuali e le strategie di resistenza che questi stessi soggetti elaborano» (Mattalucci 2003: 5). A partire da questo, ho tentato di visibilizzare le molteplici dimensioni che attraversano i corpi delle persone adolescenti e li costituiscono mostrando i diversi dispositivi di potere che agiscono su di essi all’interno di “sistemi multipli di oppressione” (Gribaldo, Zapperi 2012).

In tal modo, l’analisi antropologica ha permesso di porre l’attenzione sulla “pluralità” interna alla categoria “adolescenti” e alle esperienze che caratterizzano ogni ragazzə incontratə a scuola (Landi 2017). Pluralità spesso invisibilizzata in classe, dove l’essere persone cisgenere, eterosessuali, italiane, bianche, abili e con status socioeconomico medio-alto era la norma che non aveva bisogno di esser nominata. Lo sguardo antropologico, unito alle prospettive femministe, transfemministe e queer, è emerso pertanto come un punto di vista unico per osservare, analizzare e sovvertire discorsi normativi sul genere, l’affettività e la sessualità e, insieme, proporne di alternativi. Nel processo di analisi critica e decostruzione collettiva con lɜ ragazzɜ, l’antropologə può infatti svolgere un ruolo importante nel co-costruire interpretazioni complesse e svelare relazioni culturali laddove sembra esservi la “natura”. Un lavoro che, tuttavia, dimostra le sue piene potenzialità nell’integrazione con altri saperi capaci di proporre allɜ ragazzɜ strumenti e visioni differenti. Un lavoro integrato che risulta fondamentale in un progetto di educazione sessuale, dove la sessualità emerge continuamente come categoria sfuggente al cui interno si intrecciano esperienze, pratiche, piaceri, immaginari, gusti, rappresentazioni, discorsi e corpi molteplici.

“È importante avere rapporti a questa età (adolescenziale)[20] ?”

Uno dei primi elementi riscontrati durante il corso di “Educazione alla salute e alla vita affettiva” è stata la difficoltà di moltɜ ragazzɜ di nominare alcune parole relative alla sfera sessuale, come ad esempio parti del corpo sessualizzate, metodi contraccettivi o parole che si riferiscono ai rapporti sessuali. Se in alcuni casi queste parole sono state sostituite con termini relativi alla sfera della riproduzione (es. apparato riproduttore o organi riproduttivi), in altri si è percepita una generale reticenza a parlare in modo spontaneo ed esplicito di sessualità in un’aula scolastica e in presenza di due adulte. Una difficoltà che l’operatrice tentava di superare, attraverso un discorso positivo della sessualità, riconoscendo le conoscenze specifiche che ogni ragazzə può già possedere e utilizzando una metodologia educativa che spronava lɜ ragazzɜ a prendere parola davanti all’intero gruppo classe o, al contrario, lɜ invitava a porre domande in forma anonima per superare l’imbarazzo e dare spazio a tuttɜ di esprimere le proprie curiosità.

Nonostante, da anni, si assista a una crescente “sessualizzazione della società” e dell’immaginario comune (Quinlivan 2014), dall’osservazione etnografica in classe è emerso quanto (ancora) l’interdizione del discorso sul sesso sia un meccanismo di potere fondamentale per il dispositivo di sessualità (Foucault 2017). Una sessualità che è, infatti, sempre più individualizzata e “privatizzata”, che non ha spazi per esser detta nelle istituzioni e che, in tal modo, produce gerarchie e strutture di potere in cui, ad esempio, il piacere femminile è subordinato a quello maschile o la coppia riproduttiva è assunta a modello egemonico dei legami affettivi, tanto per le soggettività sessuali normative quanto per quelle dissidenti. Nei discorsi e nelle pratiche analizzate sul campo la sessualità è, infatti, emersa come componente personale, individuale e intima, piuttosto che ambito relazionale modellato fin dalla nascita da rapporti di potere. Ho quindi connesso tale concezione individualizzata di sessualità alla razionalità neoliberista che tende a spoliticizzare qualsiasi questione o istanza, riconducendo tutto alla dimensione intima e individuale e deresponsabilizzando, in tal modo, la collettività (Zappino 2016; Pompili, Amendola 2018). La costruzione dell'intimità come spazio appropriato dove vivere la propria sessualità e affettività nasconde, infatti, un “discorso ideologico di disciplinamento” che colpisce tutte quelle soggettività sessuali e di genere che non rientrano nel “regime di visibilità” della nostra società (Ferrante 2019). È a partire da tale visione che ho considerato la sessualità dellɜ ragazzɜ come una sessualità “nascosta”, relegata nell'intimità del privato e interessata da processi di minorizzazione (Segato 2018), delegata alle famiglie, di cui si parla su internet o nel gruppo dellɜ pari, ma che non viene nominata nello spazio istituzionale[21] (Iss, Ministero della Salute e Ccm, 2019).

Nel corso della ricerca, tuttavia, ho potuto osservare come i discorsi normativi sulla sessualità siano continuamente accettati, smascherati, contestati e/o, infine, sovvertiti dallɜ ragazzɜ stessɜ. La classe si trasformava in una “comunità” (Wenger 2006; hooks 2020) dove ognunə era impegnatə a negoziare la propria posizione ed opinione. La capacità critica e di posizionamento di alcunə ragazzə hanno stimolato interessanti discussioni riguardo ad alcune tematiche centrali nel dibattito pubblico contemporaneo[22]. Il progetto di educazione sessuale si è rivelato essere un momento insolito nella cultura scolastica consentendo allɜ ragazzɜ di esporre il loro punto di vista critico e di decostruzione delle norme attraverso il confronto diretto tra pari e con adultɜ professionistɜ. Spesso, infatti, lɜ ragazzɜ hanno contrapposto le proprie opinioni al sapere dell’esperta o alle norme giuridiche presentate loro, come ad esempio nel caso della differenza di età tra partner. In altri casi hanno smascherato la norma eterosessuale alla base degli incontri e, più in generale, del contesto scolastico, introducendo elementi dissidenti attraverso battute o domande anonime:

Durante il gioco delle carte del gruppo una delle frasi più discusse è stata: “L’amicizia tra uomo e donna non può funzionare perché uno/a si innamora dell’altra/o”. Dopo un iniziale scambio di opinioni, la maggioranza della classe ha convenuto che tra amico e amica si possano generare sentimenti che vadano oltre l’amicizia. In un momento di confusione, tuttavia, un ragazzo ha posto una domanda provocatoria cogliendo la natura eteronormata dell’intera discussione: “E se uno è dell’altra sponda?”[23].

Un episodio rivelatore dell’importanza di ascoltare la voce dellɜ ragazzɜ che scherzando, facendo battute o a partire dalla propria esperienza situata possono fornire punti di vista alternativi a opinioni o saperi consolidati e, allo stesso tempo, rendere visibili elementi di “alterità” in un contesto che fino a quel momento non li contemplava.

Ho così approfondito il rapporto genere-sessualità-età (adolescenziale) orientando, successivamente, l’analisi verso la problematizzazione della categoria “sesso”, intesa principalmente come “rapporto sessuale completo”. Le considerazioni sull’età sono nate a partire da alcune domande poste in forma anonima dallɜ ragazzɜ che riguardavano in particolare il primo rapporto sessuale e che hanno introdotto discussioni più generali sullo sviluppo sessuale, l’età del consenso, la “perdita della verginità” e gli stereotipi di genere connessi. Tra le domande presentate vi erano:

Qual è l’età giusta per perdere la verginità? Che cosa succede quando si perde la verginità? Fa male?, A che età si consiglia di perdere la verginità? Cosa ne pensate del sesso minorile? Come ci si deve comportare la prima volta? A quanti anni è giusto avere un rapporto? A che età si ha il primo rapporto sessuale? A quanti anni è giusto farlo? A che età si ha in media il primo rapporto? Qual è l’età giusta per farlo? A che età si è psicologicamente (non fisicamente) pronti per avere un rapporto sessuale? Per avere rapporti sessuali c’è un’età prestabilita? Dopo che una ragazza ha perso la verginità giovane è il caso che ne parla con la madre?[24]

Domande che mi hanno portata a pensare come il fattore dell’età, inserito all’interno di una specifica traiettoria di vita, ricopra un ruolo fondamentale per lɜ ragazzɜ stessɜ che vivono la propria sessualità in una fase della vita gestita in modo ambiguo. Come suggerito da Landi: «L’età dei giovani costituisce una variabile importante: se sembra essere più largamente accettato il fatto che gli adolescenti (15-16enni) facciano sesso, non è lo stesso per i preadolescenti (12-13enni). Questi ultimi, infatti, sono maggiormente stigmatizzati da un punto di vista sociale» (Landi 2017: 149).

La variabile dell’età è diventata centrale anche in alcuni discorsi sulla prevenzione dei “comportamenti a rischio”, laddove sembra ormai accettata l’idea che l’età influisca sulla probabilità di intraprendere comportamenti a rischio per la salute sessuale e riproduttiva presente e futura dellə ragazzə (Iss 2008; Iss, Ministero della Salute, Ccm 2019).Un’idea che ha portato molte delle ricerche sulla sessualità dellɜ adolescenti a concentrarsi sull’età del primo rapporto sessuale senza considerare una più ampia “sexual trajectory” che permetta di andare oltre il solo “rapporto sessuale completo” includendovi altre pratiche sessuali (De Graaf 2010).

In una società in cui il sesso (sia come differenza sessuale sia come rapporto sessuale) è considerato una componente essenziale della vita di ognunə (Preciado 2015; Foucault 2017), lɜ ragazzɜ affrontano l’adolescenza senza esser statɜ abituatɜ a parlare di sessualità con adultɜ di riferimento in contesti istituzionali e pubblici. Condizione emersa dalle difficoltà di prendere parola in aula, dalle rivendicazioni da parte di collettivi studenteschi di spazi dove fare educazione alla sessualità e dalle domande appena riportate che, nella loro immediatezza, dimostrano quanto possano essere prescrittivi i discorsi sulla sessualità che arrivano allɜ ragazzɜ. Da non sottovalutare l’impostazione con cui sono state formulate tali domande che, con modalità differenti, chiamano in causa una norma e un riferimento stabile con cui confrontarsi[25]. Mi sembra, infatti, che emerga fortemente l’idea della sessualità come campo in cui sono presenti condizioni, comportamenti, scelte o situazioni “normali” e “giuste” e per i quali si chiede all’esperta di “confessare” la “verità sul sesso” (Foucault 2017). Una questione che mostra all’opera quel “dispositivo di sessualità” che restringe la molteplicità delle esperienze sessuali all’interno del campo del “normale” e del “giusto”.

Sebbene vi fosse sempre qualcunə che rispondesse autonomamente che non esiste un’età giusta per iniziare ad avere rapporti sessuali, l’età era spesso associata allo sviluppo psico-biologico dellɜ ragazzɜ. In tal modo, si eliminavano dal discorso le aspettative socioculturali, le discriminazioni e le stigmatizzazioni che influenzano la loro vita sessuale, individualizzando così la sessualità in un campo esclusivamente psicofisico. Senza voler negare lo sviluppo fisiologico e psicologico di bambinɜ, ragazzɜ, adultɜ e anzianɜ, le numerose domande sull’età hanno fatto emergere la normatività del concetto stesso di età che, dietro alla sua “universalità”, nasconde aspettative e preoccupazioni sociali. Inoltre, l’appiattimento del discorso sul primo “rapporto sessuale” durante l’età adolescenziale ha offerto lo spunto per interrogare l’invisibilizzazione di altri comportamenti sessuali che possono avvenire prima della fase puberale o che non rientrano nella categoria normativa di “sesso/rapporto sessuale”. La problematizzazione dell’età e del “primo rapporto sessuale” ha così orientato l’analisi verso la decostruzione della stessa categoria di “sesso” emerso, in classe, principalmente come rapporto eterosessuale inserito in una traiettoria di vita basata su un’appropriata succession del tempo familiare-riproduttivo (Halberstam 2010). Durante gli incontri, infatti, la famiglia nucleare eterosessuale si è imposta come modello dominante tanto dei rapporti familiari vissuti dallɜ ragazzɜ, quanto per i loro legami affettivi extra-familiari presenti o di progettualità future. Modello riaffermato inoltre nel recente Studio Nazionale Fertilità (2019) che ha indagato le conoscenze e le attitudini dellɜ ragazzɜ “in età fertile” riguardo alla salute sessuale e riproduttiva e da cui è emersa la necessità di rivolgersi al mondo della scuola per promuovere campagne o progetti educativi che rischiano di sovrapporre completamente la sfera della sessualità con l’ambito della riproduzione e dove la “fertilità” e il benessere riproduttivo dellɜ futurɜ cittadinɜ italianɜ (in particolare delle donne) si trasforma «in una sorta di bene “pubblico” da tutelare, controllare e monitorare in nome della salvaguardia della collettività» (Parisi 2018: 97).

Tenendo insieme sempre il rapporto età-sessualità è emersa con forza la sovrapposizione tra biologia e norma, dove la sessualità stessa può esser considerata come dispositivo di potere che norma dall’interno le vite delle persone in nome della salute e del futuro della specie umana (Cossutta 2016; Foucault 2017). Infatti, quando si parla di sessualità e adolescenza, di età o di un certo grado di sviluppo psicofisico, la sessualità rischia di essere completamente naturalizzata e, insieme, depoliticizzata. Come si inserisce l’incorporazione delle norme di genere e sessuali nello sviluppo psicofisico di unə bambinə-ragazzə? In che modo, le stigmatizzazioni o le discriminazioni per genere, sessualità, provenienza geografica, colore della pelle, disabilità o status socioeconomico influenzano la crescita dellɜ bambinɜ? E quanto queste influenzano i comportamenti e i desideri sessuali dellɜ ragazzɜ? Domande di cui dovremmo ascoltare le risposte dellɜ ragazzɜ e che portano a interrogarsi sul “Soggetto Universale” (Segato 2018) che sottende i discorsi di “verità” sul sesso, senza considerare la molteplicità degli sviluppi sessuali possibili che vengono spesso invisibilizzati o, peggio, patologizzati. Questioni che emergono difficilmente quando si parla di età e sviluppo psicofisico, che tendono a naturalizzare la sessualità attraverso categorie di sviluppo “naturale” individuale e universale, le quali, tuttavia, possono essere problematizzate dall’analisi antropologica critica a partire dalle esperienze situate e dalle voci delle soggettività incontrate sui propri campi di ricerca.

Verso un’antropologia pubblica femminista?

Tenterò di tracciare alcune conclusioni parziali per considerare le potenzialità applicative dell’antropologia nella “gestione” della sessualità dellɜ ragazzɜ dentro e fuori i servizi pubblici. Infatti, l’antropologia, attraverso la decostruzione delle categorie culturali che affollano questo complesso ambito della vita umana e la descrizione di come queste derivino dai rapporti di potere tra le molteplici soggettività, è emersa come sapere capace di recuperare la dimensione collettiva, sociale, culturale e politica di una categoria sempre più imbrigliata in discorsi e pratiche naturalizzanti ed essenzializzanti.

Una metodologia di indagine che può esser tradotta nella capacità operativa di mettere in relazione soggettività, visioni ed approcci professionali molteplici, così come ambiti istituzionali e spazi di rivendicazione politica, in modo da promuovere l’integrazione di punti di vista differenti nelle pratiche professionali e politiche. La capacità di tenere insieme il livello macro (la gestione istituzionale del corpo dell’adolescente) e il livello micro (le pratiche educative dellɜ operatorɜ dei consultori) oltre a problematizzare e a restituire la complessità delle categorie culturali presenti nei discorsi egemonici su sessualità, genere e relazioni affettive, ha permesso di osservare (e stare) nelle contraddizioni che impattano la vita quotidiana dellɜ adolescenti. Contraddizioni emerse con forza durante la gestione dell’attuale pandemia di Covid-19 che ha visto lo Stato dare risposte parziali e ambigue alle esigenze dellɜ ragazzɜ, penalizzando fortemente la loro socialità e restituendone contemporaneamente una visione stereotipata presentando “i giovani”, “adolescenti” o “minori” come “significante stabile” (Butler 2013) di cui considerare solo alcuni ruoli (figliɜ e studenti) senza, ad esempio, riconoscere le loro relazioni affettive extra-familiari (amicali, sentimentali, sessuali).

L’intervento antropologico nello spazio pubblico e istituzionale non solo può proporre una narrazione alternativa, complessa e plurale dell’adolescenza, ma può inoltre essere un utile strumento per visibilizzare gli spazi collettivi dove lɜ giovani parlano di sessualità, genere e relazioni affettive e, in caso, costruirne di nuovi. Spazi da co-costruire con altrɜ professionistɜ all’interno dei servizi sociosanitari, delle istituzioni scolastiche o che vedono la partecipazione attiva dellɜ ragazzɜ che sempre più si organizzano autonomamente per parlare di sessualità e relazioni affettive a partire dal loro sguardo critico e posizionato. Esperienze accomunate dalla possibilità di condividere, confrontarsi, relazionarsi con altre persone (giovani e adultɜ) riguardo a questioni che, come abbiamo visto, sono sempre più privatizzate, rinchiuse nell’ambito della “natura” e medicalizzate. Comunità che nella loro pratica collettiva sono, dunque, impegnate a promuovere una visione di sessualità che riacquisti la sua politicità.

Le domande sull’“età giusta” e il “primo rapporto sessuale”, nella loro stessa richiesta di normatività, sono state, infatti, capaci di smascherare i meccanismi di potere che restringono il campo della sessualità e prescrivono uno sviluppo “naturale” all’interno di questo campo dove, in un determinato momento della traiettoria di vita (né troppo presto né troppo tardi), “ci si sentirà prontɜ” per accedere al mondo della sessualità (eterosessuale e adultocentrica). Questioni che invitano a promuovere ricerche sulla sessualità che prendano in considerazione l’esperienza e il punto di vista di persone non-adulte e che possano produrre un sapere situato che integri quello proposto dai tradizionali saperi che si occupano di sessualità e adolescenza. Produzione teorica che si intreccia, tuttavia, alla possibilità di utilizzare gli strumenti antropologici per la costruzione e la moltiplicazione di “comunità di apprendimento” (Wenger 2006; hooks 2020), dove lɜ ragazzɜ possano confrontarsi tra loro a partire dalle proprie esperienze e accrescere la loro coscienza critica riguardo alla complessa sfera della sessualità.

E in questo, l’antropologia, secondo la mia esperienza di ricerca, attivismo e formazione, è un sapere che può mettersi a servizio delle soggettività adolescenti e creare insieme a loro e ad altrɜ professionistɜ luoghi di dialogo e relazione basati sulle pratiche del femminismo, che consentano di risignificare collettivamente i discorsi sul genere e la sessualità, di affinare lo sguardo critico riguardo al binarismo di genere e l’eterosessualità e di apprendere reciprocamente a partire dal posizionamento situato di ognunə (Zappino 2018; hooks 2020).

Un obiettivo che affonda le sue radici nella valorizzazione di un’antropologia pubblica femminista che intervenga tanto nei servizi alla persona quanto nel più ampio contesto pubblico, senza proporre una visione compiuta o specifica dellɜ s/oggettɜ cui si rivolge, forte proprio della possibilità di riadattare in itinere strumenti, concetti, pratiche e metodi. Nonostante in questa mia esperienza etnografica abbia tentato di coniugare antropologia e femminismi, riprendendo una tradizione avviata da anni e riconoscendo alcuni caratteri applicativi che l’antropologia femminista può svolgere nel campo dell’educazione alla sessualità, è più che mai necessario che le modalità di costruzione e diffusione di una tale prospettiva in ottica applicativa si fondino sulla valutazione caso per caso.

Quali passi muovere verso un’antropologia pubblica femminista in Italia? Quanto problematizzare le categorie e le metodologie di analisi antropologica consolidate in modo da metterle in campo nelle pratiche femministe? Come conciliare (o meno) interventi nell’ambito istituzionale, nei contesti dell’attivismo, della socialità associativa e dell’auto mutuo aiuto? Come costruire collettivamente, dentro e fuori l’accademia, un’antropologia pubblica femminista capace di tenere insieme i molteplici femminismi e posizionamenti senza riprodurre confini disciplinari normativi ed escludenti?

Domande che lascio aperte proprio per non “restringere” i confini delle possibili risposte e che forse possono essere un punto di partenza per interrogarsi sulle difficoltà che fino adesso abbiamo incontrato, in Italia, nel coniugare attivamente antropologia e femminismi (Papa 2018). Influenzata, dalle riflessioni di alcuni ambienti femministi e transfemministi e dall’arricchente confronto con colleghe antropologhe femministe, vorrei proporre di andare verso una prospettiva antropologica che rivendichi il suo essere un sapere politicamente posizionato e si riallacci ai tradizionali studi di antropologia femminista, sviluppati in continuo dialogo con i movimenti che ne hanno influenzato e ne possono ancora oggi influenzare gli approcci e i contenuti. Una prospettiva e una metodologia di intervento che riconquisti spazio nell’interdisciplinarità dei recenti studi e movimenti femministi, transfemmnisti e queer e che problematizzi l’eterosessualità e il binarismo di genere alla base dei nostri campi di indagine e di intervento, dei nostri saperi e strumenti disciplinari. Un percorso che porti, dunque, a (ri)posizionare l’antropologia al centro delle riflessioni teoriche, degli interventi professionali e del dibattito pubblico sulla sessualità, ma anche a (ri)mettere la sessualità al centro degli studi e degli interventi antropologici.

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[1] Nel corso dell’elaborato per declinare il genere di gruppi o persone utilizzerò il simbolo fonetico schwa – singolare (ə) e plurale (ɜ) – come desinenza capace di superare il rigido binarismo di genere della lingua italiana e riconoscere le molteplici esperienze di genere. L’utilizzo di un linguaggio non binario viene, infatti, considerato come una delle pratiche di lotta per destabilizzare il dispositivo di genere che continua a produrre soggettività binarie. Una scelta che si inserisce all’interno di un più ampio dibattito pubblico riguardo al linguaggio inclusivo e alle sue modalità di costruzione dove si ritrovano posizioni diverse sulla scelta delle desinenze da utilizzare (es. l’utilizzo della u, x, *, @ o la doppia desinenza maschile e femminile). Evidenzio qui che le singole persone con cui mi sono interfacciata sul campo (compresi/e i ragazzi e le ragazze che hanno parlato durante gli incontri di educazione sessuale) si sono sempre identificate nel genere maschile o femminile e, nel testo, sarò quindi fedele alla loro affermazione di genere. Tuttavia, mi riferirò al gruppo classe utilizzando lo schwa poiché non sono a conoscenza del genere con cui si identificavano tuttɜ lɜ ragazzɜ incontratɜ e non vorrei sovradeterminarlɜ.

[2] L. 405/75. «Istituzione dei consultori familiari». https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1975/08/27/075U0405/sg (ultima consultazione15/12/2019).

[3] L. R. 15/76. «Istituzione del servizio di assistenza alla famiglia e di educazione alla maternità e paternità responsabili».https://www.consiglio.regione.lazio.it/consiglioregionale/?vw=leggiregionalidettaglio&id=8062&sv=vigente (ultima consultazione 20/01/2020).

[4] L. 194/78. «Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza». https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1978-05-22&atto.codiceRedazionale=078U0194&elenco30giorni=false (ultima consultazione 10/01/2020).

[5] Un consultorio che era uno dei pochi ad aver attivato progetti di educazione sessuale nelle scuole e in cui avevo intrapreso un rapporto di ricerca privilegiato con l’operatrice che se ne occupava. Il servizio si trovava in un quartiere centrale e, a differenza di altri, presentava l’équipe consultoriale completa.

[6] Le “assemblee delle donne” dei consultori sono un organo di proposta e controllo a livello territoriale previsto nella Legge Regionale 15/76. Attive in molti consultori al momento della loro istituzione, si sono ricostituite da qualche anno in alcuni consultori romani e del Lazio per far fronte alle sistematiche chiusure e a un generale depotenziamento di questi servizi, proponendo altresì nuove linee di intervento per i consultori stessi (es. apertura consultori alle libere soggettività, somministrazione della contraccezione gratuita e della pillola abortiva RU486).

[7] Il transfemminismo è considerato come un insieme molteplice e variegato di pratiche, visioni e approcci che rifiutano la “stabilità” delle categorie identitarie attraverso il continuo attraversamento dei confini normativi. Nato a partire dalle rivendicazioni delle persone trans e non binarie, il transfemminismo considera il binarismo di genere come un dispositivo che, nel contesto occidentale, naturalizza le differenze dei corpi in un sistema interpretativo stabile. Centrali sono inoltre il concetto di intersezionalità e la convinzione che ogni persona abbia diritto di definire la propria identità (Crenshaw:1991; Stryker, Bettcher:2016; Koyoma: 2019).

[8] Per la Regione Lazio, sono significative la legge istitutiva dei consultori (L. R. 15/76) e le ultime linee guida per le attività consultoriali approvate all’interno del D. C. A. U00152/14.

[9] In particolare, faccio riferimento alla chiusura o all’accorpamento di più consultori, alla scarsa pubblicità o alla mancanza di iniziative aperte al territorio e alla tendenza ad omogeneizzare i servizi senza considerare il contesto territoriale di appartenenza.

[10] Lo Spazio Giovani nei consultori romani solitamente consiste in un pomeriggio a settimana dedicato all’accoglienza dellɜ giovani. Secondo le ultime linee guida regionali dovrebbe esserne garantito almeno uno per distretto sanitario con la presenza dell’intera équipe multidisciplinare.

[11] Note di campo, 22 ottobre 2018.

[12] L’OMS definisce l’adolescenza come il periodo della vita tra i dieci e i diciannove anni. Tuttavia, nel presente saggio farò riferimento principalmente allɜ adolescenti minorenni.

[13] D. C. A. U00152/14. «Rete per la Salute della Donna, della Coppia e del Bambino: ridefinizione e riordino delle funzioni e delle attività dei Consultori Familiari regionali. Tariffa per il rimborso del Parto a domicilio, ad integrazione del Decreto del Presidente in qualità di Commissario ad Acta n. U0029 del 01/04/2011». https://www.regione.lazio.it/binary/rl_sanita/tbl_contenuti/dca_152_2014.pdf (ultima consultazione 10/02/2021).

[14] Un lessico che si ritrova inoltre nella scelta del titolo dei progetti educativi dei consultori che spesso si riferiscono alla salute e all’affettività per andare incontro alle preoccupazioni delle famiglie e delle scuole.

[15] A settembre 2018, infatti, solo tre dei 26 consultori di cui ho potuto raccogliere informazioni prevedevano un progetto di educazione sessuale nelle scuole. Una netta minoranza che, inoltre, doveva fare i conti con progetti sempre più brevi (uno – due incontri per classe).

[16] Note di campo, 26 settembre 2018.

[17] In riferimento al test per l’HIV e per le IST, a febbraio 2019, l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza si è espressa in favore dell’estensione allɜ minorenni del diritto ad accedere ai test in autonomia e senza il consenso dellɜ genitorɜ. Tuttavia, per ora, non si è ancora proceduto a un cambiamento della normativa vigente.

[18] Ad esempio, numerose domande o discussioni affrontate in classe hanno riguardato l’accesso ai servizi sanitari, alla contraccezione, al percorso IVG o alla prevenzione delle IST in autonomia.

[19] Penso ad esempio a silenzi, risate, arrossamenti, battute tra compagnɜ di banco, differenze di comportamento nel prendere o meno parola davanti a tuttɜ e così via.

[20] Domanda posta in forma anonima da unə ragazzə durante una delle attività del progetto di educazione sessuale.

[21] L’aumento di serie tv o film che si occupano della sessualità e delle relazioni affettive tra adolescenti mostra come l’adolescenza e la sessualità siano ormai entrate nel mercato cinematografico mainstream diffondendo visioni più o meno normative e rientrando in una più ampia mercificazione di queste tematiche, che ritroviamo anche nei social media e nella pornografia, dove lə soggettə è (in)formatə nella privacy della propria casa.

[22] Ad esempio, la violenza di genere, l’aborto e l’omofobia.

[23] Note di campo, 29 ottobre 2019.

[24] Domande raccolte tra ottobre e dicembre 2019 durante alcuni incontri del progetto di Educazione alla salute e alla vita affettiva. Le domande sono state poste in forma anonima da ragazzɜ di diverse classi della scuola.

[25] Riporto altri esempi che seguono la stessa impostazione: «È normale guardare porno alla nostra età? È normale che le mestruazioni arrivino sempre con qualche giorno di ritardo?, Quanto, secondo una donna, dovrebbe durare un uomo?, L’aborto è giusto?, C’è un massimo di volte a settimana?».