Presenza e crisi

Agentività, tempo e sapere in uno spazio sanitario

Luigigiovanni Quarta

Università di Roma "La Sapienza"

Abstract. This paper is based on an ethnographic fieldwork that was carried out in Tuscany, Italy, on blood gift and transfusion hospital ward with cord-blood donors, patients and doctors. The research was focused on the epistemological battle between the biomedical knowledge and the logics and the practices of gift in the healthcare space. By using the moral frame of gift, donors can increase their agency and can face the hegemony of clinical discourse. A theoretical change occurs when we analyze the practices of gift and their development in a complex social body like healthcare space is. The representations of actors, the making of ideologies, the production of meaning and the dialogue between different agencies structure the practices and should not be excluded by researchers. The ethnographic data show the need to go beyond the common dichotomies between gift and market, “generalized altruism” and methodological individualism. The plurality of logics characterizing the healthcare space has in the conception of time a further misunderstanding: social actors at stake (the doctors, the patients, the donors) convey different experiences of time (the time of pregnancy, the time of work, the time of wait) that coexist inside the hospital ward. In particular, the biomedical discourse is unable to take into account the different aspects of time in patient’s experience. Thus, we observe different social constructions of time and how their development gives rise to personal, political, psychological, institutional conflicts.

Keywords: agency, cord blood donors, gift, subjectivity, medical-bureaucratic discourse.

Introduzione

I dati e le analisi discusse nel presente lavoro fanno riferimento ad una ricerca etnografica sul dono del sangue del cordone ombelicale, da me svolta presso la ASL 11 Empoli, nell’Unità Operativa Trasfusionale, e durata circa sette mesi, da Novembre 2013 a Maggio 2014. Quando iniziai la mia ricerca, l’obiettivo principale era quello di prendere in considerazione la pratica della donazione del sangue del cordone ombelicale come caso specifico di una più ampia forma di “società civile”. Cercavo, cioè, di capire quale legame vi fosse tra madri donatrici e associazioni di volontariato, prima tra tutte l’Associazione Donatrici Italiane di Sangue del Cordone Ombelicale. Gli interrogativi cui tentavo di fornire una risposta erano legati alle modalità con cui si produceva socialità all’interno di tali associazioni, al tipo di legami sociali che si costituivano e come questi fossero composti intorno ad una retorica fortemente incentrata su un sistema morale altruistico.

I primi contatti con il mondo delle associazioni fecero emergere come, a differenza di altri sistemi di donazione, nel caso del sangue cordonale il piano associativo dovesse essere considerato come un dispositivo ancillare e non principale. Quest’ordine di considerazioni mi obbligò a ripensare la scelta del campo. La ricerca fu così trasferita all’interno dell’U.O. Trasfusionale, reparto ospedaliero che, lontano dal mondo delle associazioni, si era fatto carico della raccolta del sangue cordonale donato. Essendo tuttavia un reparto che, come ben chiarito dal nome stesso, si occupa di medicina trasfusionale, i soggetti interagenti al suo interno non erano unicamente costituiti da madri donatrici di sangue cordonale. Se la ricerca fosse stata orientata dal campo inizialmente ipotizzato, avrei interagito quasi esclusivamente con donatrici e volontari delle associazioni. In questo caso, invece, ebbi modo di incontrare medici, infermieri, donatrici di sangue cordonale, donatori di sangue, pazienti bisognevoli di trasfusioni, volontari delle associazioni, familiari dei pazienti. Tutto ciò modificò profondamente anche i problemi che soggiacevano al primo campo ipotizzato; spostò il focus; ridefinì i confini della ricerca e le aspettative insite in essa; sollevò nuove criticità. Da una etnografia del dono, passai ad una etnografia dei luoghi sanitari intesi come spazi istituzionali. Non scomparve l’oggetto principe della ricerca, che rimaneva la pratica di donazione del corpo. Fu necessario però contestualizzarlo in uno spazio sociale differente. Si può dire che l’attenzione fu spostata dalle pratiche alle forme discorsive che dialogavano l’una con l’altra; prendere in considerazione il ruolo del discorso medico e le trasformazioni che esso subiva all’interno di una dinamica conflittuale che opponeva la logica burocratica alla semantica della morale; affrontare la difficile convivenza tra pazienti, donatori e personale sanitario in uno spazio ristretto e difficilmente parcellizzabile. E, in ultima analisi, il lavoro ermeneutico dovette centrarsi su come queste cornici discorsive informassero non solo le pratiche dei vari attori coinvolti ma anche il loro modo di esperire la quotidianità del reparto.

La trasformazione della mia posizione prospettica implicò anche un adeguamento metodologico. Se, nella prima ipotesi di ricerca, avevo immaginato la possibilità di raccogliere testimonianze delle donatrici e dei volontari, nel corso del lavoro di campo dovetti affiancare alle interviste, un’osservazione continuativa, discreta e distante. Ebbi modo di interloquire con molti abituali frequentatori del reparto ma non sempre fu possibile registrare le conversazioni. Se le madri donatrici o i donatori di sangue manifestavano una certa noncuranza rispetto alla tutela della propria privacy, il personale sanitario, al contrario, fu sempre molto preoccupato dalla registrazione delle interviste. L’ambivalenza del mio posizionamento, ovvero tanto di ricercatore quanto di donatore di sangue, tuttavia, fu fondamentale per accedere a spazi sanitari che altrimenti mi sarebbero stati preclusi. Osservazione, ascolto e, quando possibile, interviste, hanno dunque prodotto la maggior parte del materiale etnografico analizzato in questo lavoro.

Per comprendere meglio le peculiarità della ricerca che verrà di seguito esposta e poter evidenziare alcuni elementi di particolare novità, è essenziale presentare brevemente quale siano i presupposti teorici a partire dai quali ho formulato le domande di partenza per orientarmi nel lavoro di campo. Tale cornice teorica, per quanto abbia costituito il presupposto dell’etnografia, è stata spesso ripensata e, in parte, abbandonata. Nelle pagine che seguiranno traccerò, dunque, i confini di campo di studio, accennando ai principali apporti scientifici dati dalle ricerche sul dono e sul dono del corpo; presenterò, quindi, in modo dettagliato il caso etnografico da me studiato, ponendo attenzione a quanto se ne possa dedurre in termini di scarto, di differenza, rispetto alle ricerche finora svolte; mi soffermerò su alcuni aspetti del dono del Sé corporeo inteso come pratica individuale, approfondendo le tensioni politiche ed epistemiche degli operatori sanitari, i risvolti politici della pratica del dono, le peculiarità delle relazioni sociali create all’interno di un reparto ospedaliero, e l’embricazione di queste con la rappresentazione che gli attori producono su se stessi e sugli altri; concluderò, quindi, fornendo una possibile visione di insieme e segnalando percorsi che, eventualmente, si potranno seguire nelle future ricerche.

Cornice e premesse

Uno degli indirizzi teorici più attuali è sicuramente quello che tende ad analizzare tutto ciò che riguarda il corpo e la salute come una possibile declinazione della categoria foucaultiana di biopotere. In un testo relativamente recente, Nikolas Rose (Rose 2008) ha ribadito la necessità di concepire il nostro tempo come quello in cui gli esseri umani, nel loro essere sociali, sono divenuti in modo sempre più evidente e crescente esseri “biologici”. Life itself: questa l’endiadi, che mal si adatta alla traduzione italiana di “vita stessa”, con cui egli definisce, in chiave socio-economica e culturale, la dimensione esistenziale dell’essere “biologici” nel mondo contemporaneo.

Per una disamina più completa sulle prospettive delineate dai discorsi focalizzati sull’uso politico del corpo è opportuno accostare a life itself la “vita in quanto tale”, concepita da Didier Fassin come lo sviluppo necessario di una riflessione che dal biopotere si muova in direzione della biolegittimità. Scrive Fassin: «Parlare di biolegittimità, piuttosto che di biopotere, significa mettere in evidenza la costruzione del senso e dei valori legati alla vita, invece che l’esercizio delle forze e delle strategie che la controllano» (Fassin 2014: 33). Da un lato, dunque, life itself implica un legame particolarmente accentuato con la letteratura foucaultiana e, nello specifico, con i due testi del 1976 sul biopotere (Foucault 2010a; 2010b); dall’altro, invece, si deve porre l’accento su dimensioni che tentano di attualizzare all’interno di un contesto mutato rispetto agli anni Settanta le analisi classiche della biopolitica e della governamentalità. Si tratta così di approfondire le problematiche della biolegittimità e della “cittadinanza biologica”, ad essa strettamente collegata (Petryna 2004).

Se il corpo, individuale e sociale, è poi riconosciuto quale terreno privilegiato di scontro, di resistenza, di narrazione, si intuisce bene come il tema del dono del Sé corporeo possa rientrare tra le priorità della attuale ricerca antropologica che si pensa come politica e militante (Lock, Scheper-Huges 2006). D’altro canto, il campo di studi che ha come oggetto le pratiche di donazione del corpo ha ormai una sua storia ed autonomia. Esso si afferma nel mondo dell’antropologia parallelamente alla diffusione del testo di Richard Titmuss, pubblicato nel 1970, The gift relationship (Titmuss 1997). Il lavoro di Titmuss è un denso studio comparativo dei sistemi di donazione. Considera principalmente due modalità antitetiche nella raccolta del sangue: il modello statunitense, a base remunerativa, e quello britannico, fondato sulla donazione gratuita e volontaria. L’intento perseguito da Titmuss è quello di delimitare le possibilità di articolazione di spazi di libertà e di espansione, per una modalità di produzione di socialità, l’“altruismo generalizzato”, il cui primato morale appare, all’autore, inconfutabile.

A partire da questo testo si è poi prodotta un’ampia messe di studi antropologici sul dono del corpo. La maggior parte di questi lavori, alcuni dei quali raccolti in un significativo collettaneo curato da Dei, Aria e Mancini, centrano la riflessione su un doppio binario: in primis, la possibilità di attualizzare il paradigma del dono quale è stato formulato da Marcel Mauss (Mauss 2002); secondariamente, rivolgono l’attenzione alle pratiche del dono del Sé corporeo come produttrici di forme di identità, di una azione “dal basso”, di società civile, di forme strategiche di controllo sociale ed esclusione politica (Dei et al. 2009). Se si volesse sintetizzare in un quadro omogeneo quanto finora detto si potrebbe descrivere il fenomeno sociale della donazione del Sé corporeo nel modo seguente. La pratica del dono può essere considerata come un: 1) esercizio della agentività dei soggetti coinvolti nella sfera politica, 2) prodotto interrelato di una specifica economia morale dei donatori (Salter, Salter 2007; Fassin 2014), declinata in modo locale in opposizione ad una globale e globalizzante civic epistemology (Jasanoff 2005).

Prospettive

Nelle pagine che seguiranno, tuttavia, tenterò di procedere in modo differente, percorrendo delle vie non interamente riducibili a tali schemi analitici. L’oggetto della mia trattazione sarà una riflessione sulla possibilità che, nell’ambito della discorsività biomedica, si sia prodotta una particolare frattura epistemologica e che i soggetti immersi all’interno di questa discorsività si trovano a gestire una situazione di aspro conflitto personale ed istituzionale. Cercherò inoltre, prendendo in considerazione i pazienti, di riflettere sulla loro rappresentazione personale del tempo, intesa come Erlebnis. Infine, tenterò di interpretare la pratica del dono del Sé corporeo considerandone il suo uso politico nell’azione individuale all’interno di uno spazio ospedaliero.

Da un punto di vista più strettamente teorico, cercherò di mettere in luce come la categoria demartiniana di “crisi della presenza” sia tuttora valida per descrivere la dimensione esistenziale dei malati e di come essa si possa, in casi specifici, applicare anche all’esperienza degli operatori sanitari. Per far questo, proporrò una visione dello spazio ospedaliero come territorio di conflitto, in cui il medico combatte una personale “guerra epistemologica”. Suggerirò che tale conflitto viene accresciuto dalla presenza, all’interno delle U.O., del donatore, portatore di una prospettiva di azione totalmente legata alla sfera dell’etica e della morale. L’appartenenza del donatore e del medico a giochi discorsivi differenti rende infatti arduo, per il medico, assumere una posizione dialogica nei confronti donatore. Il discorso di quest’ultimo, immerso nell’universo morale dell’etica altruistica, risulta essere difficilmente negoziabile in termini clinici e diagnostici. L’orizzonte morale del dono costituisce dunque ciò che dev’essere considerato un “impensabile”, quantomeno in una prospettiva medicalizzante. Avanzerò la possibilità di chiamare la modalità con cui il donatore esperisce la propria agentività (Ahearn 2001), modellata dai significati propri della sfera morale e vissuta come possibile resistenza all’egemonia del linguaggio medico, “effervescenza della presenza”. Lo sguardo antropologico fa, dunque, emergere una grammatica interna a quelle che Nik Brown chiama “relazioni di sangue” (Brown, Kraft 2006). Questa grammatica detta contemporaneamente le regole attraverso le quali il conflitto è sia prodotto che risolto. Oltre a ciò, sposta l’attenzione dai modi in cui le soggettività sono legate alle formazioni discorsive e ai campi del sapere a come, concretamente, soggetti differenti, tramite pratiche e rappresentazioni di Sé e dell’Altro, gestiscano reciprocamente l’incontro in uno spazio condiviso.

Pazienti, donatori e medici: un’etnografia

Non è cosa semplice accedere ad una unità operativa ospedaliera. Qualora qualcuno voglia accedervi in qualità di ricercatore deve sottoporre il proprio progetto a differenti organi giudicanti che ne valutino la conformità legale. Quando decisi di svolgere la mia ricerca all’interno della ASL 11 Empoli, seguendo il regolamento, dovetti innanzi tutto presentare un progetto dettagliato da far valutare al Comitato Etico Locale dell’Azienda Sanitaria. Dovevo approfondire lo stato dell’arte e delle prospettive auspicate nell’ambito di ricerca, nonché una disamina puntuale delle metodologie che sarebbero state utilizzate all’interno di tale ricerca. A ciò era necessario allegare una ipotesi di consenso informato da sottoporre ad ogni interlocutore, una bibliografia ragionata e delle lettere di presentazione. Presentato il progetto, dopo circa tre settimane di attesa, fui convocato presso la struttura sanitaria per discuterne con i membri del Comitato Etico, riuniti in seduta plenaria. Furono elencate delle criticità: il rispetto della privacy, la “violenza sulla madre” esercitata dalla mia intrusione all’interno del reparto, il rischio di una contaminazione biologica del sangue cordonale donato qualora la mia partecipazione ai colloqui sanitari avesse indotto le gestanti donatrici a mentire su alcuni fatti scabrosi della propria quotidianità e, infine, l’inadeguatezza del consenso informato. Dopo aver convinto i membri valutanti della infondatezza dei loro timori il progetto fu parzialmente rigettato per pochi vizi di forma. Attesi un mese e ne presentai una versione rivisitata. Il Comitato espresse così parere favorevole. Tale parere fu poi trasmesso alla Direzione Sanitaria dell’azienda la quale, concordando con il Comitato, mi inviò tutte le autorizzazioni per poter procedere nella ricerca ed accedere liberamente allo spazio ospedaliero. Nonostante ciò, parte del mio progetto, una volta all’interno della U.O. Trasfusionale, fu, prima silenziosamente poi dichiaratamente, ostracizzato, rendendomi impossibile indagare su alcuni aspetti che, per i miei obiettivi, risultavano essere essenziali. Tale ostracismo venne più volte motivato dalla urgenza di controllo assoluto del prodotto donato – cosa già emersa e stata risolta all’interno del Comitato Etico – e giustificato appoggiandosi ad una serie di cavilli e piccole sviste presenti nel progetto. L’efficacia e l’efficienza del reparto e del prodotto donato venivano considerati a rischio.

Il problema non è meramente gestionale: non è previsto semplicemente un discorso istituzionale che faccia propri i parametri competitivi di “efficacia” ed “efficienza” e si articoli nel lessico giurisprudenziale e burocratico. E questo lessico precipuo non si sovrappone o interseca saltuariamente il linguaggio biomedico. Risulta evidente, infatti, tanto dalla chiusura su posizioni di “medicina difensivista” da parte di una rilevante quantità di operatori sanitari all’interno del reparto in cui ho svolto la ricerca etnografica quanto dal linguaggio stesso di questi operatori, sempre incentrato sui termini “standard”, “misura delle performance”, “proceduralizzazione”, “protocolli”, “audit”, “verifica della funzionalità aziendale”, che si è generato un nuovo campo del sapere (Quaranta, Ricca 2012). Tale campo è il prodotto di una saldatura tra due forme epistemiche: la discorsività biomedica ed il linguaggio proprio della razionalità burocratica. Se, da una parte, il medico non deve cessare di quantificare il proprio lavoro all’interno di parametri ed indici “oggettivi”, contemporaneamente il suo sapere si esercita in un gioco di discernimento e verità sul corpo del malato. Questo secondo aspetto implica, contemporaneamente, l’accettazione della fallibilità. Burocrazia, verità e fallibilità. D’altronde, l’incapacità del gesto terapeutico, della pratica clinica, è sanzionata dalla legge, anch’essa coestensiva al campo burocratico.

Tutto questo emerge dalle risposte di una dottoressa da me intervistata all’interno dell’U.O. Trasfusionale. Ad esempio, alle domande su cosa significhi essere un medico all’interno di tale U.O., su quale sia il ruolo principale del medico, su come essi si relazionino ai pazienti e ai donatori, se ci sia una sperequazione nell’indirizzare attenzioni affettive e professionali verso gli uni e verso gli altri, con una possibile propensione a privilegiare i secondi, la dottoressa M. risponde:

Questo, secondo me, dipende dalla formazione. Io, ad esempio, venivo dal paziente, quindi mi veniva naturale avere una maggiore attenzione per il paziente rispetto al donatore. Però, la connotazione istituzionale dell’unità operativa dipende da tanti fattori. E fondamentalmente tante volte io sono richiamata sull’aspetto perché il compito istituzionale del trasfusionale è fare le sacche più che fare l’ambulatorio. Pensa che, prima che arrivassi io al Trasfusionale, non esisteva l’ambulatorio per i pazienti. A quel tempo il responsabile mi disse: “Se te la senti…” e mi diede carta bianca. E cominciai io l’ambulatorio. Per me fu una lacerazione venire via dall’oncoematologia, dove avevo unicamente a che fare con il paziente. E tutt’ora per me sarebbe umiliante non vedere pazienti davanti. Sarebbe terrificante.

E poi aggiunge, facendo riferimento alla differente formazione di una collega dello stesso reparto:

Credo che tutto dipenda dalla formazione dalla quale uno arriva. La pressione istituzionale ci chiede di dare ai donatori, accontentare i donatori… Vedi, il questionario infatti, viene fatto ai donatori. Io l’avrei fatto anche per i pazienti. L’ho chiesto anche per i pazienti e mi è stato detto di no. Perché se io devo valutare una performance di una unità che agisce a diversi livelli, perché non far valutare a tutta l’utenza? […] Ti faccio un altro esempio. Quando sono arrivata qua e ho cominciato a visitare i pazienti…non c’è stato un donatore che non mi abbia detto: “A me non m’ha mai visitato nessuno”. Perché l’attenzione era sulla velocità. Cioè, lei [la collega] mi diceva sempre: “Nel tempo in cui tu fai una visita io ne ho già visti tre”. “Io ti rispetto tantissimo per questa cosa”, le rispondevo, “Ti voglio un gran bene…ma io li visito” […]. E poi la “strutturazione della qualità” ti dice che la visita la devi fare. Però, se la tua formazione è differente, tu lo vivi con sofferenza. Perché non ti corrisponde. Non è nel tuo assetto mentale.

Quando la dottoressa afferma di “essere stata formata” in un determinato modo, quando parla di “ciò che viene richiesto al medico” lascia trasparire un habitus (Bourdieu 2003) e un campo del sapere innovativo che struttura questo habitus. Credo si possa definire tale campo del sapere, facendo riferimento a quanto mostrato finora, un campo “burocratico- sanitario”. È necessario, allora, riflettere su una cosa: il discorso terapeutico tra il medico ed il paziente, che dovrebbe essere un discorso co-costruito, risulta spesso inficiato dai tecnicismi che mal si adeguano al discorso medico di “senso comune” cui possono accedere i pazienti. Nel caso del dono del Sé corporeo, e nello specifico nel dono di sangue cordonale, diviene, però, ancora più difficile edificare dei canali comunicativi che siano in grado di produrre la compliance tra l’operatore sanitario e il donatore. La retorica ufficiale del dono, ovvero la retorica del “bellissimo gesto” non appartiene alla retorica burocratico-sanitaria. Gli operatori, in particolare i medici, sono estranei a queste poetiche e rappresentazioni. Nel campo della donazione il medico, con il suo bagaglio strumentale si trasforma in “umile” raccoglitore di sacche. Di fronte ad una sollecitazione su quale possa essere il senso sociale del dono, la dottoressa M. risponde:

La domanda su cos’è il dono, sinceramente, non l’ho mai fatta, neanche a me stessa. Non l’ho mai considerata. Dal nostro punto di vista non è centrale. Noi abbiamo un altro tipo di imprinting. Cioè, noi ragioniamo così: il sangue non si sintetizza in laboratorio, ce n’è bisogno, c’è bisogno di procedure, di indicatori di qualità del sistema, tanto più sono sofisticate le procedure mediche tanto più sangue consumano. Questo per noi è – afferma con molta enfasi – il razionale!

Nonostante ciò, la formazione clinica rimane una formazione che privilegia un discorso che penetri all’interno dei corpi per sentirne le voci che parlano della mutazione fisiologica, del mal-essere (Foucault 1963; Canguihlem 1966). Il sapere del medico è storicamente legato al potere sul corpo sofferente, un corpo che deve esprimersi in tutta la sua verità. Il medico è formato per potersi porre di fronte al discorso del paziente e del suo corpo e, da questi, costruire il discorso clinico. Se per il donatore il proprio corpo assume un valore simbolico tale da poter rigenerare la vita, per il medico il corpo del donatore assume il valore d’uso terapeutico. I due discorsi non possono che configgere. A quanto detto sin qui si deve aggiungere che la funzione del medico, rispetto al donatore, è profondamente differente. Il medico muta il suo sguardo di fronte al donatore. Cerca nel suo corpo i segni della malattia ma non lo fa per stabilire un percorso terapeutico. Lo sguardo è quello di colui che controlla, è di colui che chiede la verità per esercitare un potere di inclusione o esclusione. Nessun donatore può definirsi tale prima di essere stato sottoposto all’occhio impietoso del clinico, che vuole e deve sapere. Deve poter stabilire la qualità del donatore per poter certificare la qualità del dono. Deve sapere tutto: vita sessuale, storia clinica personale e familiare, stili di vita propri e del proprio compagno. Nulla può essere taciuto poiché si dovrà poi pronunciare la sentenza di verità non solo sul corpo individuale del donatore o del paziente ma su tutto il corpo sociale, su tutto l’organismo di cui il donatore non è che un’isola remota.

Di fronte a tutto questo, il medico si trova a combattere nella sua interiorità una personale “guerra epistemologica”. Tale guerra deve essere pensata come una tensione tra sistemi di sapere differenti, in cui gli sguardi si mischiano e si confondono. Il paziente è “assente”, soggetto destinatario del potere tecnico, e diventa oggetto sempre più distante; il donatore, invece, è “presente” e ripropone al medico, sotto forma differente, la sfida di un discorso co-costruito che poggia su un’economia morale “dal basso”, l’“impensabile” cui ho fatto precedentemente riferimento. Questo però è un campo insidioso poiché il medico è attore sociale di un gioco linguistico simile ma non uguale. Il medico viene a trovarsi in una posizione particolarmente insidiosa. Egli rimane imbrigliato in una matassa caotica che non riesce a districare. Da un lato egli deve dimostrare le proprie competenze nella pratica clinica, pratica però strutturata all’interno del campo del sapere burocratico-sanitario; dall’altro, le sue competenze sono parimenti modellate da un sistema deontologico che, tra le varie prescrizione, prevede l’impegno in una co-costruzione del discorso terapeutico. Nel reparto preso in esame, inoltre, il medico subisce ed interpreta una trasformazione da clinico in raccoglitore, dovendo, in qualche modo, fare propria l’urgenza di una nuova costruzione discorsiva di inclusione ed esclusione del donatore. In questo universo caotico e, spesso, conflittuale il medico si affanna cercando di ricompattare il tutto all’interno di uno schema coerente di pratiche e saperi.

È in questo quadro complesso che si può notare come la biologizzazione della società contemporanea, definita nei termini di controllo, crescita e salute, trovi nell’estensione del campo sanitario e nella figura del medico un naturale soggetto di aggregazione. Per dirla con Rose, l’etnografia mostra come la produzione di senso nella società contemporanea, per certi aspetti, sia legata a doppio filo con i concetti di ottimizzazione, soggettivazione e competenza somatica in una poderosa economia della vitalità (Rose 2008). Si può dunque sostenere che il campo di sapere finora descritto e definito come “sapere burocratico-sanitario” sia uno dei campi in cui maggiormente si può osservare manifestarsi il “potere sulla vita”, inteso proprio come il gioco di verità in cui le soggettività sono collegate da relazioni di potere il cui senso è definito dall’aderenza ai significati della vita e del corpo. Con ciò non voglio sostenere che il donatore è soggetto assoggettato, impotente, rispetto al sapere-potere del biomedicina. Anzi! Proprio la pratica del dono, tanto nel suo nascere da una sfera morale estranea alla clinica quanto nella sua rappresentazione etico-politica, costituisce uno scandalo di fronte cui il sapere medico palesa le proprie criticità e la propria relativa impotenza. Esso, infatti, è la dimensione resistenziale cui alcuni donatori fanno ricorso. Suggerirò quindi di pensare tale posizione resistenziale come una declinazione del tutto particolare della agentività degli attori sociali che potrebbe essere opportunamente chiamata “effervescenza della presenza”. D’altro canto, come accennavo in precedenza, pensare ad una Unità Operativa Trasfusionale (ovvero al reparto in cui si espletano la maggior parte delle pratiche legate alla donazione di beni ematici del corpo) significa figurarsi uno spazio sociale complesso. Tale complessità deriva dalla compresenza di attori sociali calati in universi morali ed sociali profondamente dissimili. I pazienti ed i donatori convivono nello stesso spazio pur non condividendo lo stesso gioco. E, tra le varie rappresentazioni esistenziali che non collimano, vi è anche il tempo.

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Per tutta la durata della ricerca etnografica mi è stato possibile interloquire tanto con i donatori e gli operatori sanitari, in modo quasi sempre ufficiale, quanto con i pazienti, in modo sempre ufficioso. È più corretto dire, in verità, che l’interlocuzione con i pazienti è stata spesso sostituita da una attenta e discreta osservazioni. Nei mesi della ricerca, le mie giornate erano organizzate all’interno del lungo e stretto corridoio, in cui, per ore, rimanevo in attesa di qualche madre donatrice di sangue del cordone ombelicale da intervistare. L’attesa era un tratto che mi avvicinava maggiormente ai pazienti, i quali, spesso a causa di patologie complesse, sono costretti a trascorrere giornate intere all’interno del reparto. Essi dividono il loro tempo tra corridoi, ambulatori, sale adibite alla trasfusione e alla donazione. Ho spesso avuto modo di ascoltare i loro discorsi con i familiari che condividevano la stessa attesa. Per una forma di pudore nei confronti della loro esperienza di malattia ho sempre evitato di invadere la loro intimità familiare o il loro spazio personale. Nel trascorrere dei mesi, ovviamente, iniziava un processo di reciproco riconoscimento, segnalato da saluti imbarazzati. Resta il fatto che non ci fu mai una vera e propria intervista o qualcosa di più strutturato di un dialogo informale. Un personaggio emblematico rispetto a tale contesto è stato il signor Gino, il cui nome, per ovvi motivi di privacy, è di pure fantasia. Uomo attempato, capelli radi ed incanutiti, silenzioso, emaciato, sempre curvo su se stesso. Un uomo profondamente affaticato. Come gli ho sentito dire una volta, con un filo di voce: «La malattia ha un suo certo peso materiale. E ti grava sul groppone». Il suo camminare è incessante, su e giù per un corridoio angusto e permanentemente affollato. Passi brevi. Brevissimi. Striscianti. Il signor Gino è spesso in reparto. Mi capita di incontrarlo anche due volte a settimana; arrivava alle 09.15 e, molto spesso, alle 14.00 è ancora lì a consumarsi in queste sue passeggiate apparentemente senza meta.

In un gioco di somiglianze con figure note alla letteratura antropologica, egli richiama alla memoria Bryan, il ragazzo affetto da un disturbo cronico all’articolazione temporo-mandibolare di cui narra Byron Good (Good 2006). Una sofferenza estrema perché cronica ed ineliminabile. Affetto da una grave forma di displasia midollare, raccoglie ogni tratto, ogni gesto, nella fotografia istantanea di una sospensione di una temporalità “normale” e condivisa. Una dilatazione delle coordinate spazio-temporali. Il suo tempo è frammentato e disarticolato o, ancora peggio, interrotto. Tutto ciò si esterna nell’impossibilità di affermare il proprio Sé, di enunciarlo in un contesto comunitario e condiviso: questa è la peculiare esperienza della precarietà. L’uso del termine “precarietà” deriva dai discorsi fatti con persone in condizioni simili a quelle del signor Gino. Ciò che costantemente emergeva era la loro impossibilità di dare forma linguistica ad un dolore sordo ed inestirpabile. Questo dolore non è meramente nel corpo. È esso stesso corpo, dolore incorporato, onnipresente. Questa esperienza è quasi sempre al di là di una capacità di enunciazione. Diviene arduo tradurla in molte frasi coerenti. Tuttavia, si traduce spesso in un’unica parola pronunciata: precarietà. Ciò si manifesta in ed è prodotto da un doppio scarto: uno scarto dall’esterno ed uno dall’interno. Uno scarto dal mondo e uno da se stessi. Distanziamento ed anticipazione. La dimensione esistenziale esperita è quella di una crisi della presenza, intesa come l’incapacità del soggetto di interagire dialetticamente con il mondo e la completa disarticolazione delle strutture di significato che gli consentono di esperire questo mondo (De Martino 1973; 2002; 2010).

Scrive De Martino: «Esserci nel mondo, cioè mantenersi come presenza individuale nella società e nella storia, significa agire come potenza di decisione e di scelta secondo valori, operando e ricoprendo sempre di nuovo il mai definito distacco dalla immediatezza della mera vitalità naturale, e innalzandosi alla vita culturale» (De Martino 2010: 98). La “presenza” è l’umana competenza a incorporare sistemi di valori, sistemi culturali ed utilizzarli in funzione di una affermazione del Sé. L’esperienza della crisi è precisamente la cessazione di questa complessa articolazione esistenziale. La sua conseguenza è una riduzione e un’inibizione dell’“agentività”. Una dissoluzione dell’autonomia dell’io. Come fanno notare sia Ivo Quaranta che Byron Good, la crisi di tale presenza è la condizione tipica che il malato è costretto ad esperire (Good 2002; Quaranta, Ricca 2012). Scrive Good: «Il tempo collassa. Passato e presente perdono la loro sequenza. Il dolore rallenta il tempo personale, e il tempo esterno accelera e viene perduto. “Provo come la sensazione che il mondo mi scavalchi”, mi disse un altro paziente» (Good 2002: 132). Il paziente che si aggira in un unità operativa trasfusionale, un paziente come il Sig. Gino, comunica con il corpo ciò che non è dicibile con le parole. Quaranta ha decisamente ragione nel definire le esperienze di malattia come momenti par excellence di crisi della presenza. Si deve aggiungere che i movimenti di anticipazione, la prefigurazione immediata e resa attuale della dimensione della morte che appartiene ad un futuro più o meno incerto, non si accompagnano a quella capacità di destoricizzazione del negativo in vista di una risoluzione della crisi sul piano metastorico.

In un reparto di medicina trasfusionale, però, non vi è unicamente l’esperienza del tempo vissuto propria del paziente. E non vi è neppure solo il tempo discreto e convulso di un medico che si dibatte tra analisi, procedure, protocolli, visite, anamnesi, prelievi e trasfusioni. Il suo tempo è perfettamente scandito e il “come se” del passato, del presente e del futuro è perennemente ribadito e oggettivato. La percezione del tempo che scorre è imbrigliata in ogni atto e in ogni fatto ed il medico può stabilire con buona approssimazione tanto il principio quanto la fine del suo tempo all’interno del suo vissuto. Sembrerebbe che tra tempo e durata non vi sia alcuno scollamento. Il donatore, invece, è portatore di un’altra possibilità. Il suo discorso è politico al di là di una qualsiasi forma di intenzionalità. Nasce lontano, nella memoria, nell’educazione, nell’esperienza quotidiana della solidarietà che, ancor prima di poter significare qualcosa, “performa” la realtà circostante. Afferma Gaia, una delle donatrici di sangue cordonale intervistate: «Mi è sempre piaciuta l’idea di donare il sangue. Poi ci sono sempre rimasta male perché non mi facevano mai donare… […]. Mi volevo anche informare sulla questione del latte materno. Ho visto un servizio alla televisione. Mi sembrano tutte cose belle!». Gaia è una ragazza molto graziosa, estremamente solare. È abituata a vivere una dimensione quotidiana aperta all’alterità. È una trentenne fiorentina, brillantemente laureata in matematica. Dopo alcune esperienze di ricerca all’interno dell’università ha scelto di dedicarsi, seppure momentaneamente, ad altre attività divenendo un’operaia nel settore metalmeccanico. È sposata da due anni con un ragazzo poco più grande di lei, ricercatore in fisica delle particelle presso un prestigioso istituto di ricerca italiano.

Gaia è una persona profondamente convinta della necessità di una postura esistenziale di tipo critico e riflessivo. Come mi lascerà intendere, considera la riflessione come la possibilità di una edificazione del Sé e dunque sa bene che attraverso lei parla una storia densa di significati, una cultura, di cui l’educazione esplicita è solo uno dei tanti aspetti più lampanti. È impressionante vedere con quale chiarezza è in grado di presentare quelli che per lei sono i problemi e le soluzioni. Afferma:

Se togli la solidarietà, soprattutto in questa società così fortemente individualista, cosa che io noto nella mia generazione, nelle relazioni di lavoro, nelle le relazioni tra le persone… Tutto tende a diventare fragile. Si sgretola! […]. L’importante è il gesto in sé per sé. Se tutti facessimo gesti solidali, alla fine, i rapporti migliorerebbero […]. I rapporti sociali migliorano dal punto di vista interiore. Gratuità, anonimato e dono. Questo è tutto ciò di cui noi abbiamo bisogno per cambiare la società.

Questi passi che ho riportato aiutano a mostrare come anche la fenomenologia del tempo vissuto per il donatore si genera in un doppio scarto. Si può parlare nuovamente di distanziamento e anticipazione. Come ho già detto, per il paziente il distanziamento è dal mondo quotidiano, il mondo degli altri, e l’anticipazione è rispetto al Sé e alla propria morte, tutto all’insegna di una immediato sentire di precarietà. Per il donatore, invece, il distanziamento è da Sé, da una prassi utilitaristica ben incorporata e l’anticipazione è per l’altro, l’Altro, quello che Titmuss chiama “lo Straniero”, anonimo ed irrintracciabile (Titmuss 1997). Tutto si realizza in una presentificazione di una necessità che non gli appartiene, poiché è la concrezione attuale del male futuro di un altro. Il rapporto del donatore con il tempo è dunque identico e opposto a quello del malato. Tutto ciò si può ritrovare anche nelle parole di Maria, un’altra futura madre decisa a divenire una donatrice di sangue cordonale. Ha quarantuno anni ed è alla sua seconda gravidanza. Lavorava in un call center. Poi, per le ovvie difficoltà fisiche, ha dovuto abbandonare il lavoro sottopagato, nella speranza di essere reintegrata al termine del periodo di maternità. Parlando del senso sociale del dono, Maria mi dice:

Fare un gesto per gli altri. Se tu doni il sangue, fai un gesto per gli altri. E questo è qualcosa di positivo. Donare è dare agli altri. Cioè, io ho una cosa e la do a te. Quindi te la dono! […] Oggi, se un bambino si trova in difficoltà o un adulto che potrebbe tu, sana, lo potresti aiutare. Salvare delle vite è sempre una cosa positiva.

Per alcuni donatori, la durata indefinita del proprio dono si colloca nell’insieme di una infinita quantità di pratiche minute, apparentemente slegate l’una dall’altra, profondamente radicate nella quotidianità. Ad esempio, mi racconta Franco, ex-operaio di mezza età in una conceria di Empoli, oggi factotum a cottimo, marito di una futura donatrice:

Se ci fosse da donare un rene, o qualsiasi altra cosa per le altre persone, io lo farei comunque. Io non sono miliardario e questa è la cosa che posso fare, nel rispetto dei miei familiari, nel rispetto di tutto. Se dovessi tagliarmi un dito, ne avrei altri nove. Non è quello il problema, capito? […]. Non siamo abbienti. Abbiamo problemi economici grossi. Lei [la moglie] è senza lavoro e io lavoro a giornata. Quando non lavoro non ci sono soldi. Pensa poi che abbiamo anche il mutuo sul groppone e non ce la facciamo sempre. Però se posso, una scatoletta di tonno, un omogeneizzato, il pacco di pasta nel carrello alimentare della Caritas lo metto. Se tutti mettessimo una scatoletta di tonno o un omogeneizzato, potremmo eliminare la fame nel mondo […]. Ad esempio, a noi hanno dato i sacchetti della Caritas con i vestiti per i bambini. Ben venga, no? Quando poi toccherà a noi, si rifarà lo stesso discorso.

Il dono degli intervistati nello spazio ospedaliero si costituisce come pratica capillare, che si insinua in ogni remoto angolo della quotidianità. Non riguarda solo il corpo, ma i vestiti, il tempo, il cibo!

Dalla “crisi” al tempo del dono. Una possibile conclusione

Il dono è la possibilità concreta di incidere su una società definita, di volta in volta, individualista, non corretta, schizofrenica, al collasso. Si intravede, in filigrana, una soggettività la cui agentività è moltiplicata. Per questo credo che si possa affermare che, se in un reparto i medici si confrontano quotidianamente con la “crisi della presenza” del paziente, in un’unità trasfusionale si possono incontrare dei donatori che agendo costantemente la pratica del dono, tanto performativa da essere efficace nella sua semplice enunciazione verbale, esperiscono una dimensione esistenziale diametralmente opposta. Essa è vissuta come la capacità illimitata di manipolazione della realtà sociale, di produzione di significati, di decostruzione di una soggettività dedita all’ontologia utilitarista del guadagno in favore di una soggettività che si forma in e forma una comunità solidale, una presenza più salda che riorganizza senza sosta ogni tipo di crisi, storica o metafisica che sia. Per l’ammalato la paziente e dolorosa attesa può rappresentare, a volte, la possibilità di agire sul negativo che domina indisturbato nello spazio sanitario i cui significati sfuggono al controllo e alla riorganizzazione del senso. Per il donatore, invece, la prassi, il dono come prassi quotidiana è la possibilità di affermare in modo preternaturale, al di là delle apparenti evidenze sociali, la propria presenza. In questa prospettiva, gran parte degli atti e delle azioni informano lo stesso orizzonte di senso. Un mondo passato, quasi mitico, a cui guardare ed un futuro da affermare nell’istante presente del gesto. Ed è proprio in contrapposizione alla dimensione della crisi, che suggerisco di considerare questa riappropriazione del tempo e della memoria una forma di effervescenza della presenza. Il dono moltiplica a dismisura la possibilità di esserci, moltiplica il senso. Franco conclude la nostra intervista dicendomi:

Tutto crolla, oggi. L’unica cosa che prospera è la gente che si dimentica degli altri. Si dimentica di tutto. Ma non è impossibile uscirne. Basta solo che io dica: “io dono!”. Basta questo. Per cosa? Perché io possa rendere il mondo di domani come quello di ieri. Un mondo migliore!

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