Le anime della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA)

Sabrina Tosi Cambini

Università degli Studi di Firenze

La funzione dell’antropologia culturale nel contesto sociale, e i problemi e le responsabilità sociali che ne derivano per gli antropologi culturali, trovano la loro definizione nel più generale quadro del rapporto circolare fra conoscenza e prassi, fra consapevolezza della condizione umana e azione dell’uomo verso l’uomo, in cui risultano fissati, appunto, il condizionamento storico delle scienze sociali, la funzione delle scienze sociali come piattaforma conoscitiva per l’intervento nella società, il nesso fra momento della ricerca e momento dell’impegno sociale del ricercatore (Seppilli 2008a: 75).

Rileggo numerose volte il carteggio Seppilli-Colajanni (Benadusi 2020a), che mi tocca da vicino, non solo per la mia diretta partecipazione ai lavori preliminari alla fondazione della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA) e alla sua storia sino a qui, ma anche per la riflessione profonda che suscita e che va al di là delle terminologie o della questione dell’esistenza di una o più associazioni. Questo mio intervento vuole collegarsi e aggiungere, alle ricche e plurime posizioni espresse nel forum del numero precedente, un particolare punto di vista dal quale inquadrare le ragioni esposte da Seppilli nella sua lettera.

Il carteggio si presta a diversi livelli di letture: sicuramente quella più squisitamente “disciplinare”, situandosi all’interno di un dibattito di lungo periodo nelle scienze sociali che – con forme che riflettono i periodi storici e le collocazioni territoriali – si presenta periodicamente in merito ai rapporti tra oggettività, posizionamento, intervento, saperi e istituzioni, ecc.; una lettura che intercetta la biografia intellettuale, così densa di esperienze e “imprese”, dei due protagonisti; e una, infine, che ha a che fare con una dimensione umana, esistenziale, cioè col senso stesso che un individuo cerca di dare al proprio stare al mondo e al suo rapporto con questo. E se in quel senso trova posto o meno, in quale “ordine di priorità” e attraverso quali “forme”, l’impegno sociale e civile.

Inoltre, va tenuto conto che Colajanni nel carteggio ha una identità, potremmo dire, collettiva che gli deriva da rappresentare, con esplicita delega, il gruppo dei promotori della Società che stava per nascere. Una identità composita dove non c’era e non c’è una posizione né un pensiero univoci rispetto all’impegno sociale dell’antropologo e dell’antropologia. E dove la funzione storico-sociale del sapere scientifico, in generale, e dell’antropologia, in particolare, rimane in una dimensione implicita di riflessione e dibattito corali.

Il primo aspetto, quello della varietà degli approcci “applicativi” (o “usi sociali”), ci porta ad una valorizzazione positiva della SIAA come luogo anche di confronto, che si è sviluppato attraverso la miscellanea di intenti, posizionamenti, esperienze che sono confluite soprattutto nei convegni annuali, ma anche nei seminari via via organizzati dalla Società e nelle pagine della Rivista Antropologia Pubblica, animata anche da intensi dibattiti, come quello sulle accoglienze e il ruolo dell’antropologo[1]. La ricchezza di un’antropologia che si dispiega nella società emerge da questo mosaico, assieme a tutta la sua fragilità, ancora forse non debitamente affrontata. E qui sta, credo, anche il fatto che la questione della funzione storico-sociale non sia stata (ancora) presa in considerazione direttamente. Anzi, meglio: che per molti non sia necessario affrontarla esplicitamente come Società, mentre “altri molti” ritengono che sarebbe importante farlo. Tutti, nella SIAA, concordano che l’antropologia debba stare nello spazio pubblico e dare il proprio contributo al cambiamento, ed è come se si fosse preferito lasciare alla coscienza “intellettuale” individuale fare i conti con le “scelte possibili” di cui parla Seppilli.

Sia chiaro, le risposte di Colajanni furono, a mio parere, quelle più “autorevoli” e “adeguate” alla nascita della SIAA, ma, cionondimeno, le questioni sollevate da Seppilli devono continuare ad interrogarci come un puntello per un approccio critico alla stessa applicazione, a partire dalla constatazione che quando si “applica” un sapere lo si fa con una “direzionalità” e una interpretazione sui rapporti di forza in un determinato contesto, una consapevolezza di stare nelle “contraddizioni” e di dare un contributo al superamento di esse verso la configurazione di un “nuovo” che – se emerge dal processo – ha però delle caratteristiche che vogliamo perseguire (giustizia sociale? Riconoscimento di diritti? ecc.). Tutto ciò ha a che vedere con la scelta “etico-politica e le “opzioni etiche” che sostanziano la seconda ragione di Seppilli.

Questo rapporto fra etica e sapere scientifico è uno dei punti al centro di un famoso dibattitto che accese l’antropologia statunitense (e non solo) a metà degli anni Novanta, rappresentato dalla sezione tematica “Objectivity and Militancy: a Debate” del numero di giugno 1995 di Current Anthropology. I protagonisti erano Roy D’Andrade e una agguerrita Sheper-Hughes. I due articoli, rispettivamente “Moral Models in Anthropology” e “The Primacy of Ethical”, erano subito dopo commentati da numerosi antropologi altrettanto noti tra cui Crapanzano, Harris, Nader, Rabinow, ai quali di nuovo – nelle pagine successive – rispondevano D’Andrade e Sheper-Hughes.

Ciò che colpisce negli scritti di quest’ultimi, non è solo la posizione nei confronti di una separazione o di un’unione fra i momenti della ricerca scientifica e quelli concernenti il possibile impegno etico di tale ricerca, ma il tono e l’enfasi nel trattare la questione. In Sheper-Hughes, infatti, tono ed enfasi toccano quelli propri della necessità, in cui traspare un trascinamento passionale dell’antropologa, che non è passione “solo” per la disciplina e gli ambiti del sapere che essa è capace di dischiudere, ma per la potenza che questi saperi possono avere nel momento in cui si riesce a farli agire in un contesto nel quale i rapporti di forza sono estremamente disequilibrati. In tal senso, la finalità è politica e l’antropologia diverrebbe lo strumento-sapere, ossia quella precisa strada che l’individuo ha trovato nella propria esistenza, per perseguirla. Non a caso, l’autrice cita, oltre a Gramsci, il nostro Basaglia di Crimini di pace – di cui la stessa Sheper-Hughes aveva curato l’edizione americana – ed esprime l’idea che «anche gli antropologi possono essere lavoratori del negativo» (1995: 420)[2].

Nella SIAA ci sono certamente più anime: per alcune l’etica è legata alla stessa disciplina ma è un’“etica della disciplina”, appunto; anime per le quali la questione “morale” non è scindibile da quella scientifica; e altre anime ancora, per cui “etica” e “morale” concernono qualcosa che va al di là e che lo stesso Seppilli, mi sembra, avesse nella sua vita perseguito.

Se D’Andrade e Sheper-Hughes sono i due poli, nella SIAA c’è sicuramente tutto il continuum posizionale. Questi due poli sono fondamentalmente (e qui li idealizzo, al di là dei due antropologi statunitensi “in carne ed ossa”) tra chi concepisce un “uso sociale” dell’antropologia come soltanto una possibilità, anche non perseguibile con un intervento diretto, e legata ad una professionalità che però non mescola gli obiettivi della ricerca scientifica con quelli “morali”; e chi, all’opposto, ne fa una missione di vita. Credo che, per quel poco che ho conosciuto Seppilli durante il dottorato, e per quello che ho potuto leggere della sua sterminata produzione, Seppilli faccia parte tendenzialmente del secondo polo. Una posizione “mediana” è rappresentata da chi, dell’impegno applicativo, ne percepisce una missione “disciplinare” (ma non già di vita). D’altronde quando si fa leva su una ricerca policy oriented siamo consapevoli che uno dei problemi non è “solo” la mancanza di “saperi” da parte di politici e tecnici che fanno parte delle istituzioni, ma anche dei loro orientamenti rispetto a come dovrebbe andare il mondo e i rapporti fra i gruppi socio-culturali e le classi sociali che lo abitano.

Il caso de Martino-Friedmann, che Benadusi ha il merito di riportare all’attenzione (2020b), riecheggia anche queste “missioni” professionali e/o di vita, al di là della storicissima questione comunismo vs capitalismo (rappresentato dagli Stati Uniti). De Martino sceglie un posizionamento rivoluzionario contro un atteggiamento riformista perché è estremamente consapevole che i presupposti sui quali si basa il progetto e i saperi messi in campo non daranno piena dignità e riconoscimento alle persone, non si metteranno in ascolto e in posizione di comprensione dei mondi di vita, ma si focalizzeranno sul presunto bisogno della popolazione, operando così in modo riduttivo e di fatto all’interno del sistema. E, guardando al primato dell’urbanistica (previsto in quel programma) e dei sui scellerati sviluppi tra gli anni Settanta e gli anni Novanta (quelli, per intenderci, che hanno visto la nascita di sterminati quartieri periferici, luoghi di produzione istituzionale dell’esclusione e della marginalizzazione), possiamo forse non dire che la lettura demartiniana era stata di nuovo capace di vedere oltre? Di vedere la differenza tra un approccio che, di fatto, riproduce i rapporti di potere e uno che tende a sovvertirli? Ciò non significa che la scelta di Tentori non fosse “condivisibile”, ma significa cogliere una sostanziale differenza e che questa ci dice qualcosa sugli approcci, i metodi, le finalità, la topologia sociale, ecc. ecc. E qualcosa anche sui presupposti che smuovono un intellettuale.

I quarant’anni che ricorda Seppilli nella sua lettera, rappresentano, a mio parere, anche una serie di questioni con le quali egli si era via via confrontato per arrivare a quell’“uso sociale dell’antropologia” e che la SIAA nel suo nascere ha in parte, mi sembra, messo pragmaticamente fra parentesi, per essere un motore innovatore, propulsore di un’antropologia italiana che si sporca i pantaloni (secondo la vecchia, ma sempre buona metafora di Park) e rinvigorirne l’impegno a rispondere alla sfide attuali, così come essere un organismo che si rivolge e, al contempo, si costituisce anche di antropologi che lavorano in contesti sociali diversi dall’accademia.

Ma, pur avendo fatto tutto questo, sembra aver dribblato la diretta riflessione sulla pratica come un prodotto storico sociale. Non è che questa sia assente, ma strategicamente lasciata nelle pieghe dei micro-contesti dei panel, dei seminari o degli interventi nelle pagine di AP.

Tornando a Crimini di pace e a Sheper-Hughes, già nel 1979, Seppilli proponeva una riflessione che ponesse le basi per una riformulazione del «problema della collocazione della ricerca sociale, e del ruolo stesso del ricercatore, in rapporto al movimento rivoluzionario complessivo» (2008b: 115), affermando che tale «problema non può essere posto in termini di ‘dentro’ e di ‘fuori’» (ibidem), e concludendo:

Si tratta anzitutto di assumere il rapporto di circolarità fra conoscenza e prassi come un rapporto fra due momenti correlati e tuttavia caratterizzati da un certo grado di reciproca autonomia. Ciò appare particolarmente importante quando il processo conoscitivo si allontana dal livello di una semplice elaborazione immediata dei dati emersi nella prassi politica quotidiana e diventa necessario affrontare le ampie connessioni e i grandi e complessi problemi che caratterizzano la società contemporanea (dalle strutture degli equilibri economici mondiali alle infinite mediazioni dei processi di egemonia), o sottoporre ad indagine gruppi sociali o temi specifici che non sono oggi direttamente coinvolti dalla prassi politica del movimento operaio. E si tratta di assumere quanto di “oggettivo” è stato prodotto dalla ricerca – anche da quella condotta nel contesto istituzionale del sistema capitalistico – per contrastare sul terreno scientifico ogni intrusione di distorsioni ideologiche, per affrontare i problemi metodologici rimasti aperti, e per allargare il processo conoscitivo, capovolgendo la logica – coerente con la gestione del potere capitalistico – delle scelte di indagine e, impostando, nello stesso tempo, una nuova strategia fondata sui problemi della liberazione dell’uomo e sul rapporto non già di contrasto ma di piena funzionalità che tale piattaforma conoscitiva ha per la lotta della classe operaia e per il suo movimento (2008b: 117-118).

Certo, con altro linguaggio, oggi, potremmo scrivere o rispondere a tali riflessioni, ma è pur evidente che, nel loro nucleo centrale, esse permangono e ritornano (anche nei dibattiti più sopra ricordati apparsi in Antropologia pubblica).

È chiaro anche come, da sempre, per Seppilli non potesse esistere un’antropologia che si esimesse da fare i conti “fattivamente” col mondo. Per questo, è intuibile come – e in modo circolare arriviamo alla prima ragione – un’associazione antropologica che, almeno dal nome, quasi appariva come “specializzata” in questo, potesse risultare una sorta di non-sense agli occhi di chi, come lui, da quarant’anni “metteva all’opera” l’antropologia. Sono fermamente convinta che, sempre a quegli stessi occhi, si sarebbe ora sciolta questa apparenza, facendo affiorare proprio quell’intento fondante di rendere il “rapporto tra il sapere e il fare il fulcro” non solo della propria attenzione, di cui scrive nella sua risposta Colajanni, ma anche di una buona parte dell’antropologia italiana.

Va, inoltre, aggiunto, sulla questione dell’associazionismo, che al tempo era ancora lontana la costituzione di un’unica associazione nazionale e che la fusione di AISEA (Associazione Italiana per le Scienze Etno-Antropologiche) e ANUAC (Associazione Nazionale Universitaria degli Antropologi Culturali) è stato un lungo e non lineare processo conclusosi soltanto nel 2017, con la nascita della SIAC (Società Italiana di Antropologia Culturale). È del tutto comprensibile quindi, il dubbio e il timore di un’ulteriore “parcellizzazione” degli antropologi italiani piuttosto che il delinearsi di un dialogo costruttivo e unitario. Ed è proprio quest’ultimo, di fatto, a costituire una delle principali sfide attuali che l’antropologia in Italia sta affrontando.

Bibliografia

Basaglia, F., Basaglia Ongaro, F. (a cura di). 1975. Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all'oppressione. Torino. Einaudi.

Benadusi, M. 2020a. Il carteggio Seppilli-Colajanni. Riapplicare l’antropologia applicata in Italia? Antropologia Pubblica, 6 (2): 243-254.

Benadusi, M. 2020b. L’antropologia applicata in Italia: sviluppi e ripensamenti. Voci, 17: 93-119.

Colajanni, A. 2016. L’antropologia e l’etica: problemi generali e una rapida scorsa alla storia della disciplina. Antropologia Pubblica, 2 (2): 173-188.

Cornwall, A. 2018. Acting anthropologically. Notes on Anthropology as Practice. Antropologia Pubblica, 4 (2): 3-20.

Current Anthropology, 1995. Objectivity and Militancy: a Debate, 36 (3): 399-340.

D’Andrade, R. 1995. Moral Models in Anthropology. Current Anthropology, 36 (3): 399-408.

Lamphere, L. 2004. The Convergence of Applied, Practicing, and Public Anthropology in the 21st Century. Human Organization, 63 (4): 431-443.

Lourau, R. 1975. «Lavoratori del negativo, unitevi!», in Crimini di Pace. Basaglia, F., Basaglia Ongaro F. (a cura di). Torino. Einaudi.

Seppilli, T. 2008a [1969]. «Rapporto sull’antropologia culturale», in Scritti di Antropologia Culturale I. Minelli, M., Papa, C. (a cura di). Firenze. Leo S. Olschki: 75-104.

Seppilli, T. 2008b [1979]. «Neutralità e oggettività nelle scienze sociali. Linee per una riflessione critica sul rapporto tra conoscenza e prassi», in Scritti di Antropologia Culturale I. Minelli, M., Papa, C. (a cura di). Firenze. Leo S. Olschki: 105-118.

Scheper-Hughes, N. 1995. The Primacy of the Ethical: Propositions for a Militant Anthropology. Current Anthropology, 36 (3): 409-420.



[1] Sviluppatosi in diversi numeri della rivista: dal 3 (1) 2017 al 4 (2) 2018.

[2] In realtà la locuzione “lavoratore del negativo” è una espressione di René Lourau (1975).