Teoria e "applicazioni", un dibattito per chi?

Ivan Severi

Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia

Indice

Parabola di un aspirante antropologo millennial
Il ghetto degli antropologi
Teoria e pratica
Bibliografia

Nello scrivere questo contributo, prendo le mosse dall’ultima parte del commento di Ferdinando Mirizzi allo scambio di missive tra Tullio Seppilli e Antonino Colajanni (Benadusi 2020), dove il primo denuncia tutta la sua perplessità nei confronti dell’antropologia applicata. In particolare, mi riferisco alla riflessione sul percorso formativo di antropologi e antropologhe:

credo che la [Laurea magistrale in Antropologia culturale n.d.r.], così come oggi è formulata, vada più nella direzione suggerita da Seppilli che in quella indicata da Colajanni, per rimanere ai principali riferimenti della nostra riflessione, perché gli obiettivi della classe sembrano rinviare a un’idea dell’antropologia come un sapere che fonda la sua legittimità nella vita sociale in principi e strumenti autonomi da un punto di vista conoscitivo e non invece da uno operativo (Mirizzi 2020: 287).

Le considerazioni che seguono sono frutto di un posizionamento molto preciso che è, prima di tutto, di carattere anagrafico, non pretendo perciò che siano generalizzabili. Avendo il dibattito preso spunto da prospettive in cui l’autobiografia gioca un ruolo di primo piano (a partire dal sostrato implicito su cui si poggiano le lettere da cui è scaturito), mi sono sentito autorizzato a prendermi tale libertà, augurandomi, come da tradizione delle autobiografie, di non peccare di eccessiva presunzione (Battistini 2007).

Parabola di un aspirante antropologo millennial

Sono nato nel 1983 e nel 2002, appena conseguita la maturità artistica sperimentale, mi sono iscritto al corso di Scienze etno-antropologiche dell’Università di Bologna. La laurea triennale era stata introdotta due anni prima e, se la memoria non mi inganna, il corso a cui decisi di iscrivermi era stato creato solo l’anno precedente. Nell’estate del 2002, mentre sfogliavo i piani di studio (allora di carta) che potevano essere ritirati chiedendo direttamente alle portinerie dei dipartimenti universitari, non avevo la più vaga idea di cosa fosse l’antropologia culturale.

Se scorro oggi l’elenco degli esami che ho sostenuto tra il 2002 e il 2005, quando mi sono laureato, ne rintraccio cinque afferenti al settore scientifico disciplinare M-DEA/01: “Antropologia culturale”, tenuto da Adriano Favole, il corso introduttivo che tutti gli studenti della mia generazione hanno preparato tra le pagine della Storia dell’antropologia di Ugo Fabietti, a tutti gli effetti un corso di storia delle idee; “Antropologia politica”, di cui non serbo un grande ricordo, ma tra le cartelle del pc trovo il programma redatto da Simonetta Grilli dal titolo “Sistemi politici Africani”: esame di alcuni casi (maiuscola nell'originale), deduco di avere portato all’esame due classici, Antropologia politica di Balandier e I Nuer di Evans-Pritchard; “Civiltà indigene d’America” tenuto da Laura Laurencich Minelli, anche se formalmente risulta essere un corso di antropologia, in sostanza si trattava di storia e archeologia meso-americana, ne ho un vaghissimo ricordo; “Etno-antropologia delle religioni”, il primo contatto con Adriana Destro, allora anche direttrice del corso di laurea: nient’altro che nebbia e noia; infine “Tecniche della ricerca etnografica ed etnostorica”, ancora con Simonetta Grilli, di questo ricordo il primo approccio con l’Introduzione all’antropologia storica di Pier Paolo Viazzo, senza dubbio se dovessi identificare il testo fondamentale su cui mi sono formato in quei primi anni sarebbe questo. Solo più tardi avrei scoperto il lavoro di Mary Douglas (incredibilmente non è nemmeno citata nel manuale di Fabietti!) e mi sarei veramente appassionato all’antropologia. Un totale di 40 dei 180 crediti maturati, a fronte dei 35 dedicati a discipline storiche e dei 30 riservati a esami di filosofia. Sono costretto ad ammettere che la gran parte dei ricordi del mio impatto con l’università, a distanza di quasi vent’anni, hanno poco a che spartire con l’antropologia. A catturarmi era stato l’eloquio forbito di Alberto Burgio a proposito dei giusnaturalisti inglesi, lo strutturalismo appreso attraverso la semiotica di Greimas grazie a Francesco Marsciani, Goffman e Adorno scoperti con Roberta Sassatelli, la rilettura del cibo fornita da Massimo Montanari, la fin troppo minuziosa analisi di Heidegger compiuta da Vittorio D’Anna, la proto-antropologia degli Idéologues francesi emersa dal corso di Valeria Babini, e poi la riflessione economica di Fred Hirsch derivata dal corso di “Sociologia delle relazioni internazionali” di Alberto Tarozzi (che da solo avevo scelto di frequentare, la mia boccata d’aria fuori dalla Facoltà di filosofia).

Un anno di ricerca di campo, seppur sotto casa, sull’identità post-comunista e la tesi di triennale era pronta. Una ricerca che avrebbe avuto come strascico cinque anni da amministratore locale all’interno di un percorso di fusione comunale, forse un segnale del fatto che già mi ritenevo un aspirante “antropologo applicato”. La sensazione che tutt’ora associo a quei primi anni è di inconsistenza. L’antropologia usciva schiacciata dal confronto teorico con le altre discipline, ciononostante decisi di continuare, senza una ragione vera e propria, un po’ com’era accaduto al momento dell’iscrizione alla laurea triennale. Leggendo il piano di studi mi era parso il corso contenente le materie più belle e varie, non proprio la più dignitosa delle motivazioni.

Il corso magistrale si rivelò decisamente più interessante, complice il fatto che nel frattempo erano arrivati alcuni giovani docenti, come Luca Jourdan e Ivo Quaranta, che noi studenti vedevamo avvolti da un’aura quasi da rivoluzionari. Di certo furono una ventata d’aria fresca, tematiche attuali (basta con il cristianesimo delle origini!) e una presa di posizione politica che traspariva dalle loro parole e li faceva volare oltre lo stantio relativismo a tutti i costi che avevamo respirato negli anni precedenti. Ora fare antropologia politica voleva dire occuparsi dei bambini soldato e non di popoli che vivevano cristallizzati nei racconti dei funzionalisti, e pareva che con l’antropologia medica tutte le storture dell’Occidente venissero a galla, attraverso il filtro impietoso di Michel Foucault (mai autore fu più tossico, per fortuna sono poi riuscito a sbarazzarmene, purtroppo non prima che colonizzasse completamente la mia tesi di magistrale, rendendola materiale buono per il macero). Si può dire che durante la magistrale emerse quella “postura critica” a cui avrei poi scoperto gli antropologi si riferiscono in modo incessante.

Troppo povero per vivere senza lavorare, troppo ricco per vedermi esonerato dal pagamento delle tasse universitarie, qualche anno di lavoro e studio ritardarono la fine del mio percorso. D’altra parte, una volta finita l’Università, che avrei dovuto farci con Foucault (che non ha mai speso un giorno della sua vita occupandosi di antropologia!) e con i bambini soldato? Che cosa avevo imparato a fare? Sono tutt’ora propenso a pensare che l’antropologia avesse apportato ben poco al mio percorso di crescita intellettuale, se così si può dire. Di certo molto meno del programma su Thomas Müntzer che avevo potuto ritagliarmi su misura nel corso di Umberto Mazzone o di quello del corso di “Sociologia delle migrazioni” tenuto da Sandro Mezzadra che, ancora una volta, ero andato a cercarmi fuori.

Il bilancio di cinque anni di studio mi portava a pensare che quanto avevo imparato fosse non grazie, ma nonostante l’antropologia, e che comunque risultasse completamente inutile una volta terminata l’università. Durante tutta la magistrale, con una mutevole combriccola di compagni di corso, avevamo elaborato progetti associativi di varia natura. Ingenui tentativi di rispondere a un’inquietudine scaturita dalla percezione di vivere fuori dal tempo, in particolare dal nostro tempo. Ci pareva che questa disciplina che si professava critica per definizione mancasse di mordente sulla realtà e vivesse solo di monografie e biografie. Monografie e biografie di persone che, in fin dei conti, cosa avevano fatto se non studiare e insegnare? Possibile che dovesse ridursi a questo il nostro futuro? Beata ingenuità. L’idea di vivere facendo ricerca, che a un certo punto ci era quasi sembrata plausibile – come credo sembri plausibile ancora oggi a diversi entusiasti aspiranti antropologi – non era comunque qualcosa all’ordine del giorno, e presto lo avremmo compreso molto bene.

Il ghetto degli antropologi

Solamente per caso, durante il percorso di un ibrido dottorato di ricerca in Science, cognition e technology, ho inteso veramente in cosa potesse consistere l’utilità di una disciplina che professavo senza capire. Questa consapevolezza è arrivata con la scoperta dell’alterità, un’alterità di tipo professionale. A quel punto ho compreso anche quali fossero le mie mancanze: ero stato forgiato come un soggetto informe, introdotto a tutto ma competente in nulla. Ed è allora che ho iniziato a interrogarmi sul come ciò fosse accaduto. Ovviamente ho trovato una mia interpretazione, figlia del mio tempo e della mia prospettiva, non necessariamente condivisa e condivisibile. Il problema stava nell’ambiguità. Cosa rendeva incomprensibile il senso dell’antropologia culturale da parte dei non iniziati? Il fatto di pretendere di occuparsi di tutto, e quindi di niente. Su questo punto credo che la storia italiana presenti tratti peculiari che risiedono in quanto Alliegro (2011) ha ricostruito assieme a tanti altri: la storia delle progressive scelte che sono confluite nella sciagurata autoreclusione nel settore disciplinare M-DEA/01. Tutti e tutte, indipendentemente da approcci, aree di studio, ambiti di intervento, scuole di pensiero, a rivendicare lo stesso ambiguo appellativo e a trasmettere l’idea che tutte e tutti fossimo intercambiabili. Automaticamente questo si è tradotto nel fatto che coloro che, per ragioni diverse, avevano un minimo di visibilità pubblica, colonizzassero l’immaginario, condannando gli altri all’oblio (Remotti 2014). Era inevitabile che questa ambiguità si riverberasse nella costruzione dei corsi specifici per antropologi e antropologhe e strabordasse fuori dai propri confini, rendendo il tono di un intero percorso di studi caratterizzato dal magma dell’indifferenziazione. Un mosaico fatto di spizzichi e bocconi, un’infarinatura di questo e una di quello, ma nessuna competenza specifica, se non il refrain costante contenuto nello slogan “pensiero critico”. Sembra non siano stati fatti particolari passi avanti rispetto ai tardi anni Ottanta, quando lo stesso Seppilli lamentava come «i currucula degli studenti [di antropologia fossero] dispersivi e approssimativi» (intervento di Tullio Seppilli contenuto in Clemente et al. 1991: 9).

Nessuna coerenza, una accozzaglia di discipline giustapposte, pescate tra quanto gli atenei avevano da offrire. Proprio il motivo per cui decisi di iscrivermi ad antropologia: tante belle materie nel piano di studi. Una strategia che paga il pegno al mercato del lavoro, non perché viviamo in un’epoca infame, ma perché ben lontana da costruire un profilo impiegabile. So benissimo che la costruzione di corsi di laurea si regge su fragili equilibri e si barcamena fra maglie rigide e griglie ministeriali. Questo non giustifica la produzione di generazioni di individui impossibilitati a trovare spazio nell’università e inoccupabili nel mondo, la cui esistenza non è nemmeno funzionale al rafforzamento, ma forse sarebbe meglio dire alla sopravvivenza, della disciplina stessa. Con il passare del tempo i corsi si sono affinati, ricalibrandosi attorno a una forma di coerenza, senza però scardinare il telaio su cui il vestito dell’antropologo viene intessuto: troppo casual per un’occasione formale e troppo elegante per essere indossato nella vita quotidiana.

Proprio negli stessi anni in cui mi facevo strada nel sopracitato percorso dottorale è accaduto qualcosa che ha condotto me e molte altre e altri della mia generazione a darci inconsapevole appuntamento a Lecce, un dicembre, attratti da un miraggio: la nascita della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA). Non posso che ricordare con piacere l’entusiasmo che mi accompagnò su quel treno notturno e poi il senso di familiarità del ritrovarmi circondato di persone di cui magari avevo perso le traiettorie di vita ma che, come api al miele, erano accorse allo stesso richiamo. La dimensione raccolta e domestica del convegno SIAA si sarebbe lentamente dispersa negli anni successivi, schiacciata dal peso del numero dei partecipanti in costante crescita. Noi saremmo cresciuti e avremmo attraversato un percorso di progressiva disillusione, ma in quell’attimo quel convegno costituiva l’orizzonte delle possibilità, la risposta a una domanda che non avevamo ancora capito come formulare. Ero insomma uno di quei giovani antropologi evocati da Leonardo Piasere, quando ricorda come:

Alcuni di noi dirigenti SIAA ce ne andammo da quel convegno con sentimenti ambivalenti: contenti per la riuscita ma preoccupati, quasi spaventati, per le aspettative che i giovani antropologi ponevano in una Società nata quasi per caso, che voleva tenere un profilo basso per non urtare suscettibilità che era ben lungi dal voler urtare, e snobbata se non derisa o osteggiata da qualche collega (Piasere 2020: 260-261).

Questo lungo preambolo per dire che nel 2013 mi sarei arrabbiato nel leggere la lettera di Seppilli e l’avrei condannata senza appello, ma il me stesso che l’ha letta nel 2020 è decisamente diverso. Mi professo antropologo applicato, non temo il peso che la storia ha conferito alle parole, e sono socio SIAA da quel convegno del 2013, è quindi scontato sottolineare la mia distanza dalle motivazioni addotte da Seppilli per esternare la sua contrarietà alla nascita dell’associazione. Ciononostante, e forse è un po’ scontato da dire vista la mia posizione, la visione espressa dalla “terza ragione” risulta particolarmente lungimirante ai miei occhi:

In questa direzione di una “specializzazione operativa” mi parrebbe semmai opportuno qualcosa come una associazione sindacale, diretta in particolare a proteggere quegli antropologi che lavorano “per” enti o istituzioni pubbliche o private impegnate a gestire realtà sociali (Seppilli in Benadusi 2020: 249).

Non era questo un compito a cui la SIAA era chiamata, anche se forse, io e gli altri giovani antropologi identificati da Piasere, vedevamo nel posizionamento universitario di quei dirigenti un grimaldello capace di incidere sui percorsi formativi, affinché fossero maggiormente rispondenti alle esigenze di applicare l’antropologia all’interno di un mercato del lavoro. Forse avevamo immaginato che la loro decisione di riunirsi in associazione manifestasse una volontà concreta di riforma del sistema di cui facevano parte. Forse è dalla SIAA che ci saremmo aspettati le parole vergate da Ferdinando Mirizzi nel suo commentario (e che speriamo non restino solamente parole):

È una questione che, noi antropologi accademici, abbiamo il dovere di porre al centro della nostra riflessione, a fronte di una domanda di formazione professionale che negli ultimi anni appare sempre più pressante e a cui i nostri percorsi di laurea non sempre riescono a rispondere efficacemente (Mirizzi 2020: 285).

Forse l’«assurda scissura tra teoria e pratica» (Pizza 2020: 266) non riguarda tanto il vetusto dibattito tra antropologia “pura” e “applicata” performato nelle missive di Seppilli e Colajanni, bensì quello inerente un’antropologia praticata e una insegnata secondo modalità che trovano un riscontro esclusivamente all’interno di un inesistente mercato della ricerca, senza curarsi del fatto che i “giovani antropologi” (a cui staranno suonando le orecchie) si troveranno costretti in un mercato professionale che nessuno si è curato di abbozzare. Forse perché troppo occupati dal dibattito. Ma forse, e sottolineo forse, le nostre aspettative erano eccessive.

Teoria e pratica

Non è tanto la riflessione sul concetto di applicazione che tocca le mie corde in questo momento, bensì quanto riportato da Seppilli nella prima delle ragioni del suo rifiuto (Seppilli in Benadusi 2020: 248): l’ambizione all’unità. È il momento di domandarsi come, nonostante Riall W. Nolan (2017) inserisca l’antropologo tra le dieci professioni del futuro, sia così difficoltoso per i laureati in antropologia italiani trovare uno spazio nella società. E forse è in questa prospettiva che dovremmo rileggere l’agitarsi dei dottorandi e delle dottorande M-DEA/01 a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi del 2020 e nei primi mesi del 2021[1], così come il dibattito rifiorito tra antropologhe e antropologi della mia generazione sulla loro condizione e il loro destino[2].

Dalla sua fondazione, e fino a poco tempo fa, l’ANPIA (Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia) è stata socia del Coordinamento delle Libere Associazioni Professionali (CoLAP), un organo di secondo livello, nato per portare avanti istanze collettive riguardanti il variegato mondo delle associazioni professionali fiorite dopo la riforma 1/2014. Fin da subito c’è stata qualche difficoltà nel collocarsi in un contesto simile, caratterizzato da realtà molto professionalizzate ma soprattutto fortemente specialistiche. Le associazioni con cui abbiamo avuto rapporti maggiori, complice il dialogo aperto con il MiBACT (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, ora MiC), sono state quelle afferenti ai settori dei beni culturali, quali archeologi, archivisti e bibliotecari. Con loro abbiamo partecipato ad alcune mobilitazioni e ci capita spesso di venire contattati per nuove iniziative. Più passa il tempo e più mi rendo conto di quanto sia difficile scalfire la loro idea secondo cui saremmo un’associazione che si occupa solo di beni culturali, e quindi anche che tutti gli antropologi lo facciano. Come spiegargli che nel documento che abbiamo presentato al MiSE (Ministero dello sviluppo economico) a seguito di un grossissimo sforzo di sistematizzazione interna, sono stati individuati nove ambiti di intervento dell’antropologo professionista: migrazioni e mobilità; pratiche e politiche sanitarie; beni culturali e patrimonio; cooperazione internazionale; scuola, formazione, educazione; lavoro e impresa; città, spazio e territorio; ambiente; welfare. Come possiamo pensare di portare avanti con forza e determinazione una battaglia per l’allargamento del mercato del lavoro in ognuno di questi nove ambiti, ciascuno dei quali pressoché sconfinato, con una sola associazione professionale?

Se finora ci siamo attenuti alle modalità operative dei partecipanti delle intentional communities (Love Brown 2002), comportandoci quindi come se già fossimo professionisti riconosciuti, perché solo riferendosi al futuro come se fosse già presente è possibile mantenere la coesione necessaria per un progetto di questo tipo, non possiamo però non riconoscere la precarietà di questo equilibrio.

Se le tradizioni anglofone affondano le loro radici nella dimensione applicativa delle relazioni coloniali (interne o esterne ai confini dello stato nazione), in Italia il rapporto con l’applicazione, come rinvenuto anche dai colleghi che mi hanno preceduto, è stato sempre carsico. Elitismo e volontà di controllo hanno condotto al vicolo cieco del settore disciplinare unificato, più che “strabismo” un vero e proprio accecamento (Palumbo 2018): l’antropologia italiana incapace di vedere continua, come Polifemo, a rispondere “nessuno” alla domanda relativa a chi ne sia il responsabile.

Ciò che è sotto gli occhi di tutti è che alla costruzione dei percorsi di laurea che hanno allargato enormemente il numero di individui con la qualifica di antropologo, non è corrisposto il processo di professionalizzazione che ha invece accompagnato l’ingresso nel mercato del lavoro di scienziati sociali nei decenni passati (in modo più o meno formale). La costruzione di profili indefiniti, la cui messa all’opera è demandata a un momento successivo alla laurea, quasi che il job placement non fosse responsabilità dell’università, costituisce probabilmente una delle ragioni di questo “mancato aggancio”. Non è certo ricercando i cavilli nei termini che ci si avvicina alla soluzione dei problemi, forse però la stessa idea che esista una antropologia applicata e non singoli antropologi e antropologhe che applicano la disciplina a contesti specifici veicola un immaginario oscuro. In questo senso ben vengano le associazioni come SIAM (Società Italiana di Antropologia Medica) e SIMBDEA (Società Italiana per la Museografia ed i beni DemoEtnoAntropologici), capaci di veicolare una forma di specializzazione che, se resa visibile e comprensibile, può aiutare a costruire e poi articolare la figura dell’antropologo operante in contesti specifici. Peccato solo che alla fine tutto frani nuovamente nel Ssd M-DEA/01. Nell’attuale panorama accademico, l’unica via che vedo perseguibile sarebbe un’articolazione dei percorsi didattici delle varie università, in modo da costruire profili specializzati in uno o più tra gli ambiti che sono stati rilevati. Se gli antropologi italiani ragionassero in tal senso, nell’arco di una manciata di anni aspiranti antropologi e antropologhe sarebbero messe nelle condizioni di scegliere una sede universitaria, sulla base della volontà di accedere a un profilo di antropologo o antropologa specialista nell’ambito del welfare o della migrazione. Non più quindi una figura generica a cui attribuire un’identità lavorativa, ma un potenziale professionista capace di collocarsi in un mercato lavorativo circostanziato.

Marietta Baba, un po’ di anni orsono, ha restituito con questo schema la relazione tra antropologia accademica, antropologia applicata e antropologia professionale negli Stati Uniti, affermando che:

Poiché i professionisti condividono preoccupazioni che sono relativamente nuove all’interno della nostra disciplina, alcuni identificano questa comunità di pratica come una quinta sottodisciplina all’interno dell’antropologia […]. Sebbene questa quinta sottodisciplina sia definita principalmente dallo status occupazionale, essa ha il potenziale per dare preziosi contributi alla teoria in termini di contenuti (Baba 1994: 176, traduzione mia).

Esattamente come è accaduto negli Stati Uniti, la genesi della SIAA è avvenuta in contesto accademico e tuttora l’associazione si regge su un parterre di soci composto da antropologi e antropologhe che mantengono un interesse per il confronto interno alla disciplina e per la produzione scientifica. Un interesse che, secondo Baba, tenderebbe a scemare con la strutturazione di un mercato del lavoro maturo, in quanto la produzione scientifica spesso non è una attività rendicontabile e quindi di scarso appeal per il professionista. L’area di intersezione identificata con “II” rappresenta l’insieme degli interessi condivisi tra antropologi accademici e antropologi professionisti, ad esempio: esigenze formative e implementazione di competenze dei professionisti, certificazione e garanzia del lavoro professionale, foundrising e sistemi di finanziamenti per la ricerca applicata, metodologie specialistiche della ricerca applicata, canali di circolazione per letteratura grigia e prodotti della ricerca fatta in ambito professionale, l’utilizzo della disciplina in contesti di policy making, la salvaguardia della connessione tra teoria e applicazione (Baba 1994: 175). L’elenco potrebbe essere molto più lungo e sta a dimostrare che esistono aree di raccordo, ma che non possono prescindere dall’articolazione per ambiti perché, una volta arrivati al livello di dettaglio che queste specializzazioni richiedono, il punto di riferimento non può più essere il concetto di antropologia culturale nella sua genericità.

«Quando Cirese concepì l’acronimo “divino” DEA, era per dare il senso di un corpo accademico consistente e non “quattro gatti”», ricorda Clemente (in Scarpelli 2012: 172). Non è certo ripristinando la stantia ripartizione in demologi, etnologi e antropologi che è possibile rattoppare il battello arrugginito su cui navighiamo, ma immaginando una flotta rapida e versatile, capace di dare una dignità alle tante antropologie applicate esistenti e, allo stesso tempo, garantire la sopravvivenza della disciplina tutta, ancorandola a un mercato lavorativo che offre opportunità «stimolanti, emozionanti e diversificate, che stanno cambiando il carattere stesso dell’antropologia» (Nolan 2017: X, traduzione mia).

Bibliografia

Baba, M. 1994. The Fifth Subdiscipline: Anthropological Practice and the Future of Anthropology. Human Organization, 53 (2): 174-186.

Balandier, G. 2000. Antropologia politica. Roma. Armando Editore.

Battistini. A. 2007. Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia. Bologna. il Mulino.

Benadusi, M. 2020. Il carteggio Seppilli-Colajanni. Riapplicare l’antropologia applicata in Italia? Antropologia Pubblica, 6 (2): 243-254.

Clemente, P., Zerini, V., Seppilli, T., Rossi, M., Antoniotto, A., Marazzi, A., Sansone, L. (1991). La formazione universitaria e la società in trasformazione: la proposta antropologica nel dubbio. La Ricerca Folklorica, 23: 5-17.

Evans Pritchard, E.E. 2015 [1940]. I Nuer. Un’anarchia ordinata, Milano, Franco Angeli Editore.

Fabietti, U. 2011. Storia dell’antropologia. Bologna. Zanichelli.

Love Brown, S. (ed.). 2002. Intentional Community. An Anthropological Perspective. New York. State University of New York Press.

Mirizzi, F. 2020. “Antropologia applicata” o “uso sociale dell’antropologia”: una questione solo terminologica? Antropologia Pubblica, 6 (2): 281-291.

Nolan, R. W. 2017. Using Anthropology in the World. A Guide to Becoming an Anthropologist Practitioner. New York. Routledge, Taylor & Francis Group.

Palumbo, B. 2018. Lo strabismo della dea. Antropologia, accademia e società in Italia. Palermo, Museo Pasqualino.

Piasere, L. 2020. Applicare l’antropologia: quale? Antropologia Pubblica, 6 (2): 255-263.

Pizza, G. 2020. SIAA e SIAM unite nella lotta. Antropologia Pubblica, 6 (2): 265-268.

Scarpelli, F. 2012. Intervista a Pietro Clemente. L’Uomo. Società Tradizione Sviluppo, 1-2: 151-173.

Viazzo, P. P. 2004. Introduzione all’antropologia storica. Roma-Bari. Editori Laterza.



[1] Il gruppo racchiuso nell’etichetta di Coordinamento Dottorande e Dottorandi di Antropologia si è mobilitato tra la fine del 2019 e l’inizio del 2021 per ottenere un’estensione della borsa di studio del loro percorso dottorale a copertura dei mesi interessati dal lockdown per la pandemica di Covid-19: https://anpia.it/dottorato-e-pandemia-richiesta-di-proroghe-retribuite-a-sostegno-del-lavoro-di-ricerca/ (sito internet consultato in data 19/05/2021).

[2] Nei primi mesi del 2021 si sono tenute una serie di riunioni di precarie e precari della ricerca in ambito antropologico, interessati a immaginare strategie per la valorizzazione della loro posizione.