Antropologie dell’applicazione e uso sociale delle discipline demoetnoantropologiche

Bruno Riccio

Università di Bologna

Indice

Applicare o non applicare?
Oltre la dicotomia puro/applicato
Il cammino della SIAA
Opportunità nelle criticità
Bibliografia

Colgo con piacere l’invito di Mara Benadusi per contribuire al confronto tra colleghi a proposito del carteggio tra Seppilli e Colajanni che si sviluppò in occasione della costituzione dell’associazione scientifica SIAA (Società Italiana di Antropologia Applicata) e di recente pubblicazione (2020a). In effetti, nonostante siano passati poco più di sette anni e lo scenario sociale, scientifico, accademico e professionale sembri mutato per diversi aspetti, il carteggio tra questi due importanti esponenti delle discipline demoetnoantropologiche in Italia si è rivelato ancora capace di stimolare riflessioni rilevanti. Tali riflessioni si articolano in varie direzioni, come dimostrano gli interventi apparsi nel numero precedente della rivista (Benadusi 2020a; Mirizzi 2020; Piasere 2020; Pizza 2020; Simonicca 2020). Per mia fortuna, i colleghi hanno già toccato e approfondito, in modo più che esaustivo, diverse questioni e questo mi permette di contribuire al dibattito con un approccio “situato” e personale, sfruttando come sponda gli stimolanti spunti forniti da chi mi ha preceduto.

Vorrei portare un contributo che contestualizzi il 2013 e i suoi sviluppi a partire da una prospettiva auto-biografica, capace di mettere in luce quanto sia avvenuto attorno a quell’anno, il suo passato, presente e futuro, circa il dibattito riguardo l’uso sociale dell’antropologia culturale o, alternativamente, l’applicazione dell’antropologia sociale e culturale. In altre parole, desidero spiegare da dove venivo rispetto al dibattito in questione, come ho vissuto le attività svolte dall’associazione in questi anni (2013-2020), che mi hanno visto coinvolto, di volta in volta, come socio-fondatore, segretario, presidente e membro del direttivo SIAA. Infine, vorrei dedicare qualche spunto al futuro e a come si prospettano i cantieri di lavoro inter-associativi[1], che a mio avviso possono aprire una nuova fase dell’antropologia italiana, in cui le fratture del passato – tra Scuole, quando si desidera nobilitare la situazione, tra chefferies o tribù, quando le si discute più criticamente (Palumbo 2018) – lasciano gradualmente lo spazio a una logica modulare più focalizzata sull’ “oggetto di lavoro” che sulle appartenenze.

Per molti aspetti condivido le argomentazioni di Colajanni nella sua risposta e da lui anche approfondite successivamente. I suoi contributi nella rivista Dada e nel volume a cura di Palmisano (2014) argomentano in maniera convincente le caratteristiche dell’antropologia applicata attuale, e la differenziano fortemente da quella stigmatizzata nel passato, tanto da poter evocare una «nuova antropologia applicativa» (Colajanni 2014: 32). Inoltre, molti dei timori espressi da Seppilli sono stati smentiti dai fatti, come hanno potuto notare gli altri colleghi intervenuti. I timori di scissionismo dovrebbero essere temperati dalla nascita della SIAC (Società Italiana di Antropologia Culturale), grazie alla fusione delle due associazioni generaliste (AISEA e ANUAC). Tale processo è stato da me personalmente incoraggiato in qualità di socio di entrambe le associazioni e rappresenta un importante passo in avanti verso una rappresentanza unitaria degli antropologi culturali nel rapporto con le istituzioni, il MIUR e il Cun in particolare. La nascita di ANPIA, di cui sono stato uno dei primi iscritti, corrisponde perfettamente a quell’auspicio di Seppilli nei confronti di una associazione in grado di fornire la difesa e tutela “sindacale” degli antropologi professionali. Tuttavia, come anticipavo, vorrei avvicinarmi alla questione della (ri)-applicazione delle discipline demoetnoantropologiche facendo un passo indietro per spiegare, senza pretese di esaustività e generalità, il mio posizionamento all’interno del dibattito affrontato in questa sede. Benadusi ben ricorda nella sua introduzione al forum come tale dibattito non riguardi l’“applicazione” in sé e per sé, ma una riflessione più ampia sulla «valenza sociale dell’antropologia nello spazio pubblico, in campo professionale, nella ricerca consulenziale, nel mondo del lavoro, negli spazi della cura» (Benadusi 2020a: 246).

Applicare o non applicare?

Certi dilemmi epistemologici, etici e politici sono discussi anche all’interno di altre scienze umane e sociali e non sono una prerogativa esclusiva della nostra disciplina. Alcune obbiezioni simili a quelle espresse da Seppilli nella sua lettera le avevo già incontrate da giovane quando ero al terzo anno di Scienze Politiche (Panebianco 1989): penso al primato dell’orientamento etico-politico a sostegno di uno scetticismo nei confronti di un impegno delle scienze sociali nel campo delle politiche pubbliche. Già allora, iniziavo a maturare la convinzione che l’impegno nello spazio pubblico delle scienze sociali fosse una questione piuttosto complessa e meritevole di un’analisi e riflessione continua.

Tale convincimento si rafforzò durante i miei studi post laurea all’Università del Sussex negli anni Novanta, periodo in cui ero stato esposto alle tensioni tra diverse traiettorie intellettuali e approcci professionali. Tali divergenze si evidenziavano particolarmente nei tentativi di sistematizzare e classificare il mondo variegato del coinvolgimento dell’antropologia sociale nello spazio pubblico, come, per esempio la ricorrente divisione tra antropologia applicata, antropologia per lo sviluppo, antropologia dello sviluppo e antropologia nello sviluppo (Grillo, Stirratt 1997). È in quell’epoca che lessi per la prima volta le riflessioni di Roger Bastide (trad. parziale in Malighetti 2020), un autore piuttosto amato da Seppilli, che già alla metà del secolo scorso proponeva una visione dell’“antropologia applicata” come una “scienza teorica della pratica” focalizzata analiticamente sui “processi di pianificazione”. Gli anni Novanta costituivano ai miei occhi un periodo in cui mi avvicinavo con sempre maggior interesse all’analisi antropologica dei processi sociali e delle relazioni di potere che coinvolgono una molteplicità di attori situati diversamente che plasmano il campo delle politiche pubbliche nella loro quotidianità (Olivier de Sardan 2008). Questa prospettiva allontana contemporaneamente i rischi di appiattimento sullo status quo, spesso imputato in modo stigmatizzante all'antropologia applicata, facendo del “potere” e dei suoi effetti sugli attori sociali «l’oggetto di accurata e spregiudicata analisi antropologica» (Colajanni 2014: 34). Più recentemente dal contesto americano siamo chiamati a schierarci tra antropologia applicata e antropologia pubblica (Borofsky 2000) che dovrebbe, secondo i suoi sostenitori, essere caratterizzata da una maggiore propensione critica e da un ipotetico circolo virtuoso tra teoria e pratica. Non è questa la sede per un'analisi approfondita di questo dibattito, per cui rimando all’accurata ricostruzione che fornisce Ivan Severi (2016). Come già altrove argomentato (Riccio 2016) ritengo, e non sono il solo a sostenerlo (Tauber, Zinn 2015; Lenzi Grillini 2019), che queste distinzioni rivelino più l’animosità delle politiche accademiche, non solo italiane, che non delle effettive divergenze programmatiche e scientifiche.

In seguito, la collaborazione con il gruppo di lavoro che operava presso l’Università di Bologna attorno alla cattedra di Matilde Callari Galli e, in particolare, con Ivo Pazzagli – il quale da diversi anni cercava di mettere in dialogo l’antropologia sociale e la teoria delle organizzazioni complesse – mi portò a partecipare alle attività dell’AISEA. La partecipazione al III° congresso dell’Associazione Italiana per le Scienze Etno-Antropologiche del 1996 fu di particolare interesse per me in quanto dedicato alla professionalità dell'antropologo e alle ricadute pratiche del sapere antropologico. Il congresso infatti verteva sulle criticità e opportunità delle esperienze professionali degli antropologi e Colajanni (1998) già in quella sede iniziava a delineare le sue note sul futuro della professione antropologica che, come altri (Zanotelli, Lenzi Grillini 2008; Declich 2012), svilupperà sempre di più negli anni successivi. Col tempo, mi sono sempre più convinto che l’antropologia culturale e sociale italiana avrebbe maggiormente beneficiato dalla costruzione di luoghi di interconnessione e confronto nello spazio pubblico, capaci di facilitare la comunicazione con gli interlocutori istituzionali, piuttosto che di ulteriori rivendicazioni di auto-etero definizioni di categoria.

Nel decennio successivo, queste riflessioni si sono potute arricchire grazie al coinvolgimento in una serie di ricerche sociali policy-oriented sia per l’Enaip Emilia Romagna, sui servizi e i processi di inclusione delle donne migranti, sia per il CeSPI, sull’associazionismo migrante e sui processi di co-sviluppo. In alcune occasioni questi campi di ricerca sono stati in grado di stimolare ulteriori sviluppi di ricerca etnografica fondamentale, come è stato nel caso discusso da Selenia Marabello (2014). Marabello mostra come l’accesso alle informazioni, anche di natura “tecnico-burocratica”, abbia favorito la produzione di dati etnografici nella successiva fase di ricerca fondamentale. In modo analogo, Lenzi Grillini (2019) ha di recente mostrato come la ricerca antropologica “applicata” faciliti l'accesso a politici, funzionari e imprenditori in un modo difficilmente riscontrabile nella ricerca antropologica fondamentale. La convinzione circa l’importanza di incentivare il dialogo tra riflessione teorica, ricerca sociale e vari ambiti di applicazione del sapere antropologico stava arrivando a maturazione. All’interno della Scuola di Dottorato di Antropologia ed Epistemologia della Complessità dell’Università di Bergamo, decidemmo di organizzare un convegno internazionale con questi obiettivi assieme a Mara Benadusi, che stava sviluppando la sua riflessione sull’Antropologia dei disastri (Benadusi et al. 2010). Contestualmente, Amalia Signorelli, che partecipò al convegno, mi chiese di contribuire al manuale di Antropologia culturale che stava scrivendo, curando un paragrafo dedicato proprio all’Antropologia applicata e all’antropologia dello sviluppo (2011). In modo più informale, ma sistematico e regolare, proprio assieme ai colleghi di Bologna, avevamo simultaneamente iniziato un laboratorio permanente di antropologia applicata, che stimolava il confronto con colleghi antropologi che lavoravano nei servizi, negli enti locali oltre che con organizzazioni non governative.

Oltre la dicotomia puro/applicato

È dunque nel solco di questo lungo processo che accolsi con entusiasmo l’invito di Leonardo Piasere a riunirci per confrontarci e discutere a proposito dell’apertura di un cantiere. Con il suo intervento a questo Forum egli ricostruisce accuratamente le diverse fasi di gestazione del progetto che portò in primo luogo alla costituzione di un comitato promotore e successivamente all’associazione SIAA, contestualmente al suo primo convegno, svoltosi a Lecce nel dicembre 2013. Contrariamente a quanto paventato da Seppilli, la nascita della SIAA non fu un’esemplificazione della predisposizione italica a costruire ognuno la “sua” associazione. Come ricordato anche da altri, stendemmo uno statuto che assicurasse un continuo turnover del comitato direttivo e della presidenza proprio per impedire «il consolidamento di eventuali personalismi» (Piasere 2020: 259).

Uno degli obiettivi principali dell’associazione era quello di facilitare occasioni di confronto tra diverse figure di antropologi operanti sia dentro che fuori l’accademia e che, in vario modo, mettevano a frutto la loro formazione in attività di ricerca, consulenza e formazione all’interno di processi e contesti lavorativi diversi, quali la cooperazione internazionale, le politiche sociali e di accoglienza, l’anti-discriminazione, i processi educativi e i contesti ambientali. L’intento era quello di sostenere gli antropologi impegnati nello spazio pubblico e, contemporaneamente, di incentivare il dialogo con i colleghi universitari. Fin dai primi anni, la vocazione della SIAA era quella di costruire un ponte e non un muro, e nasceva per e non contro qualcosa o qualcuno. I rapporti sviluppatisi con le altre organizzazioni delle discipline demoetnoantropologiche negli anni successivi hanno ben dimostrato questa vocazione. Alla stregua di quanto stava avvenendo in altri paesi da tempo (in modo non esaustivo, si consideri Eriksen 2006; Low, Merry 2010, oltre alle recenti riviste internazionali come Anthropology in action e Public Anthropologist), desideravamo contribuire a superare lo scetticismo della comunità scientifica nei confronti dell’antropologia applicata nello spazio pubblico.

Come evidenziato da Simonicca nel suo intervento: «al centro della questione sta proprio la possibilità che il ruolo della ricerca e il ruolo della applicazione trovino una equilibrata collocazione … Il ravvicinamento fra le due attività invece permette di cercare una nuova interfaccia fra lo studio delle cose e l’uso delle conoscenze» (2020: 272). Nonostante le diversità di prospettive, orientamenti ed esperienze professionali stratificate nel passato, i membri del comitato promotore sembravano accomunati da una certa diffidenza nei confronti di una dicotomia eccessivamente categorica tra ricerca pura e ricerca applicata, «l’assurda scissura tra teoria e pratica» a cui Pizza fa riferimento (2020: 266). A tal proposito, ho trovato illuminante la lettura della monografia di Lenzi Grillini (2019) che ben mostra come la continua negoziazione a cui l’antropologo è costantemente richiamato quando impegnato sul campo caratterizzi tanto le esperienze di ricerca fondamentale, quanto altre esperienze professionali come quelle di consulenza. Non è quindi esclusiva del mondo dei progetti applicativi la sfida nei confronti della indipendenza critica dell’antropologo che permette di contestualizzare accuratamente i fenomeni presi in esame. D’altra parte, un accesso negoziato ad un campo animato da divergenze e conflitti, permette all’etnografo di cogliere aspetti e sfumature inarrivabili da una prospettiva esterna e non coinvolta. Emerge così con forza l’importanza di dedicare riflessioni approfondite al rapporto di ogni antropologo con il contesto in cui interviene. Contemporaneamente si mina l’idea che l’antropologia sia fondamentalmente un sapere critico incommensurabilmente allergico verso qualsiasi tipo di “applicazione” o di lavoro su committenza in cui si deve «saltare sul carro dominante di questioni che altri hanno già configurato» (Pizza 2020: 268).

Mirizzi (2020) attribuisce tale diffidenza a una tradizione di pensiero ben radicata nell’antropologia italiana (Benadusi 2020b) ma, come si è accennato, ritroviamo la stessa diffidenza con diverse peculiarità anche in altri contesti nazionali. Anche su questo aspetto, come ricorda Simonicca, esisteva un forte consenso all’interno del comitato promotore e dell’associazione nel suo complesso. I diversi membri erano consapevoli cioè che «si trattava di un’antropologia applicata in senso critico-concettuale nonché critico-politico» (Simonicca 2020: 275) e che si dovesse «puntare a riconfigurare sempre le cornici dei problemi» (Pizza 2020: 268). Anzi, la questione era semmai come «elaborare criticamente la sua applicazione» (Piasere 2020: 262):

Il compito odierno dell’antropologia applicata in senso critico è, a mio avviso, riflettere su questo in modo tanto sistematico da poterci costruire un’epistemologia. Ciò significa trasformare la vecchia antropologia applicata in un’antropologia dell’applicazione, antropologia esperta nel mettere a nudo tutte le forze in campo, a cominciare da quella dell’antropologo, che, in tante occasioni, in quanto persona più qualificata a cui rivolgersi, può anche valutare che il proprio disimpegno da un progetto possa essere più etico e più utile della propria partecipazione (Piasere 2020: 260).

Ritengo che queste parole illustrino molto bene le intenzionalità e lo spirito che animavano i primi passi dell’associazione. Sia dentro e ancor maggiormente fuori dall’università, emergeva l’urgenza di interrogarsi sistematicamente oltre che criticamente sui margini di manovra e di negoziazione con le committenze, sull’accesso a fondi di ricerca, sulle tempistiche di realizzazione dei progetti, sul ruolo pubblico delle scienze umane e sociali, ecc. Tutte queste criticità sono state oggetto di ripetute discussioni sia nelle conferenze che nei seminari promossi dall’associazione.

Il cammino della SIAA

Mirizzi (2020) nel suo intervento ricorda a più riprese le diversità interne all’evoluzione del pensiero antropologico italiano. Tale pluralità è riconoscibile anche all’interno della SIAA quando si focalizza lo sguardo sugli antropologi impegnati nella società, nelle istituzioni, nelle organizzazioni italiane e internazionali scoprendo diverse “applicazioni dell’antropologia” (Riccio 2016). Basta consultare i diversi contributi nei convegni svoltisi tra il 2013 e il 2020 (Libri degli abstracts consultabili su www.antropologiaapplicata.com) e notiamo che si spazia dalla postura consulenziale mostrata nell’analisi e nell’indirizzo dei processi decisionali delle organizzazioni e delle istituzioni, all’impegno nel generare trasformazioni nel contesto pubblico, fino ad un approccio militante e prettamente politico. Era proprio per queste ragioni che, come ricorda Simonicca, si era partiti dal «monitorare i vari specialismi, comprenderne la logica, valorizzare la discussione e l’eventuale loro uso pubblico, al fine di una gestione plurale dei saperi» (2020: 279).

Uno degli strumenti adatti a tale raccolta è stata la serie di convegni annuali della SIAA organizzati in diverse città. Dopo la sua fondazione e il convegno di Lecce organizzato da Antonio Palmisano (2014a; 2014b), nel 2014 a Rimini si è svolto il secondo convegno, di cui sono stato il responsabile scientifico. Il convegno ha visto un ampliamento del confronto, e una diversificazione degli ambiti di applicazione del sapere antropologico nella società. Il terzo convegno (2015), organizzato da Roberta Bonetti e Massimo Bressan, si è svolto a Prato affrontando le sfide comunicative in ambiti multi-professionali. Che ci si occupi di cooperazione allo sviluppo o di processi migratori, di contesti educativi o ambientali, spesso gli antropologi si trovano ad agire in campi di ricerca e azione trasversali che comportano un dialogo serrato con altre prospettive e altri linguaggi come quelli economici, giuridici, psicologici e pedagogici, per citare solo alcuni esempi. Per questa ragione il convegno si è focalizzato sulle insidie e le opportunità comunicative dell’operare in ambiti interdisciplinari. Durante il convegno del 2016, svoltosi a Trento e organizzato dall’attuale presidente dell’associazione Marco Bassi, diventa sempre più evidente il legame stingente con le dinamiche sociali che caratterizzano la società nel suo complesso. Oltre alla cooperazione internazionale (Bassi, Riccio 2018), diversi panel interrogavano in particolare le politiche d’asilo e le pratiche lavorative che queste comportano, diventando un’occasione per l’elaborazione di quelle caratteristiche professionali che gli antropologi mettono in campo, quando diversamente impegnati come operatori, ricercatori e consulenti nelle politiche locali di accoglienza dei richiedenti asilo (Altin et al. 2017).

I cantieri ritornano al sud con il convegno di Catania del 2017 e la presidenza di Mara Benadusi. Sotto la sua guida l’associazione effettua un vero salto di qualità: rafforza la sua visibilità, la partecipazione dei soci, i rapporti con le altre organizzazioni (tematiche tipiche di altre associazioni di settore come SIAM e SIMBDEA trovano sempre più cittadinanza nei congressi dell’associazione), i legami con i territori (come ricorda Piasere, a Cremona nel 2018 e a Ferrara nel 2019, convegni rispettivamente organizzati da Biscaldi e Severi e da Scandurra, Rimoldi e Tosi Cambini, le attività congressuali entrano maggiormente in città) e la diversificazione delle iniziative. Oltre ai convegni, all’interno dell’associazione si sono visti nascere le recenti antenne di prossimità per fornire un contesto di confronto snello e informale ai soci che lo desiderassero durante il difficile periodo di pandemia, l’analisi scientifica e internazionale di quest’ultima all’interno della serie di webinar Speaker’s Corner, esperienza che indurrà a spingersi anche verso l’organizzazione on line del convegno di Parma (2020) organizzato da Giuffrè, Marabello e Turci. Proprio perché virtuale, quest’ultimo convegno, oltre a rendere ancor più stringente il rapporto tra ricerca applicata e ricerca fondamentale, ha visto un’ulteriore crescita dei partecipanti attivi e dell’internazionalizzazione delle iniziative. A proposito di quest’ultimo aspetto, ci tengo a ricordare che fin dal secondo convegno, la SIAA ha sempre ospitato relatori di levatura internazionale tra i suoi keynote, da Oliver de Sardan a Ralph Grillo, da Andrea Cornwall a Marc Augé, da Ayse Caglar a Thomas Eriksen, per nominarne solo alcuni. Infine, si iniziano ad istituzionalizzare i laboratori permanenti più focalizzati, come AppLab Laboratorio di antropologia applicata ai servizi educativi, sociali e sanitari a cura di Roberta Bonetti, Cecilia Gallotti e Federica Tarabusi che si propone come luogo di confronto tra antropologi impegnati in attività di progettazione, consulenza, formazione, ricerca-intervento nei diversi ambiti dei servizi educativi e socio-sanitari, pubblici e del privato sociale.

In tutti quegli anni, la SIAA patrocina anche iniziative territoriali che coinvolgono alcuni soci, come, tra le tante, quella che ha dato origine al volume Going Public (Severi, Landi 2016) o la giornata di lavoro su Antropologia culturale e contesti educativi ospitata a Bologna (2018) con le colleghe Guerzoni e Tarabusi e co-organizzata assieme a SIAC ed ANPIA. Contrariamente ai timori scissionistici espressi da Seppilli, fu quella una giornata in cui la “funzione ponte” svolta dalla SIAA tra versante accademico e versante professionale delle discipline demoetnoantropologiche è emersa con grande chiarezza (visibile sul canale youtube dell’associazione). Si è rivelato utile per giovani antropologi capire le complicazioni istituzionali che devono affrontare i colleghi incardinati nell’implementare una formazione antropologica per futuri insegnanti, come altrettanto stimolante si è rivelato per gli universitari cogliere come interventi e ricerche in contesti applicativi possano essere forieri di riflessioni teoriche originali per nulla avulse dal dibattito scientifico più ampio. Simonicca nel suo intervento si chiede retoricamente «se l’antropologia applicata agevoli, rilanci, motivi la moltiplicazione delle ricerche oppure tolga spazio politico ad altre organizzazioni» (2020: 279): trovo che la giornata di Bologna mostri come sia proprio il primo caso.

Contemporaneamente all’evolversi delle attività dell’associazione, tra il 2015 e il 2020 ha preso forma anche la sua rivista bimestrale, Antropologia pubblica, che ho avuto il piacere di co-dirigere. Al suo interno ho promosso rubriche, dibattiti e conversazioni, che trovano nel confronto e nella riflessività professionale le proprie caratteristiche distintive. Piuttosto che definire delle cornici astratte in cui delimitare l’applicazione dell’antropologia, ho preferito aprire dei cantieri in cui si esplorassero i diversi usi sociali di differenti antropologie. Le questioni o le divergenze che inizialmente si pongono come alternative, come ad esempio la presenza o meno dell’antropologo in quel mondo di mondi che sono le politiche di accoglienza, o la tensione tra mercificazione e impegno politico, diventano occasioni di confronto che gradualmente si focalizzano sul come, sui gradi di autonomia decisionale, di arbitrio ma anche di libertà di scelta. Per quanto riguarda le conversazioni invece, partendo dal presupposto che non esiste un modello di antropologia preconfezionato, questa seconda rubrica prova ad esplorare i modi e le molteplici esperienze dell’applicazione dell’antropologia in differenti contesti: clinici, educativi, della cooperazione internazionale, delle politiche pubbliche e del mondo dei servizi. Costituisce in questo modo un cantiere in cui gli antropologi possono raccontare e riflettere assieme su come gestiscono i loro diversi modi di essere antropologi nell’ottica di quello che Piasere chiama “un’antropologia dell’applicazione”. Ritengo che sia parte dello spirito delle nostre discipline lo sforzo di far emergere l’elaborazione e la graduale definizione delle caratteristiche distintive dell’impegno sociale dell’antropologia dalle esperienze dirette delle e nelle politiche pubbliche (Tarabusi 2016) e dalla continua riflessione sulle politiche d'identità professionali in gioco nei contesti di intervento. Si scorgono così incoerenze, ambiguità e contraddizioni tra differenti politiche, ma anche effetti inattesi e l'apertura di nuove cornici di vincoli ed opportunità.

Opportunità nelle criticità

Nessuno desidera nascondere le difficoltà e le ruvidità insite nei tentativi di applicazione del sapere antropologico. In tutte queste occasioni (convegni, seminari, laboratori, interviste, ecc.) è innegabile che si riscontrino anche frustrazioni nei confronti dei limiti dell’applicazione dell’antropologia, nell’interazione con le istituzioni, siano esse committenti di ricerca policy oriented o responsabili delle politiche locali. Una delle criticità più ricorrenti riguarda il tempo, risorsa indispensabile nell’indagine etnografica, che quando si riduce drasticamente limita anche la portata del contributo che la formazione antropologica potrebbe fornire (Palumbo 2020). D’altra parte, Sebastiano Ceschi ammette come, pur se in modo negoziato ed intermittente, «un approccio “umanista” e sociale a questioni apparentemente solo tecniche, abbia costituito un elemento non solo fecondo ... ma anche qualcosa di utile ed apprezzato da committenti e osservatori esterni» (Ceschi 2014: 111). Questo è il mare in tempesta in cui navigano le riflessioni antropologiche e quelle applicative in particolare. Ma di una cosa sono certo: lungi da essere avulsa dalla riflessione antropologica più ampia come sembrava temere Seppilli, le antropologie dell’applicazione che ho visto emergere in questi anni di attività associativa si sono sempre nutrite di un’analisi dei processi socio-politici micro connessa a quella sui contesti sociali e sui processi storico-politici macro che canalizzano le scelte politiche e la distribuzione delle risorse.

Anche dal punto di vista metodologico, le riflessioni sull’applicazione si sono misurate con il dibattito epistemologico più ampio (Severi, Tarabusi 2019) stimolando dialoghi serrati con i colleghi di lunga esperienza come lo stesso Colajanni. Dalle discussioni emerge come l’applicazione non costituisca solo un campo da esplorare (quasi etnograficamente), ma sia anche un luogo in cui si produce sapere antropologico. Se in alcune rappresentazioni pre-confezionate domina un’idea di applicazione come mera traduzione dell’antropologia, quello che dimostrano molte esperienze professionali è che esiste anche un ritorno sulla qualità del sapere antropologico, nella pratica del lavoro dell’antropologo e nella sua riflessività e consapevolezza delle dinamiche che interessano proprio gli antropologi sociali e culturali nel loro complesso.

Vorrei anche accennare ai tavoli inter-associativi e al mio coinvolgimento su una questione affrontata da più punti vista che è quella della formazione, che rivela l’impegno critico degli antropologi nella società e con committenti eterogenei su temi di forte impatto sociale. L’aumento della richiesta formativa anche al di fuori dell’università dovrebbe indurci se non a valorizzare la formazione come occasione di presa di parola pubblica, almeno a non squalificarne la cornice e i contenuti in modo del tutto aprioristico. Essa è spesso lo spazio per divulgare l’approccio antropologico oltre che per verificare l’impatto e la ricezione degli strumenti e delle concettualizzazioni della disciplina tra persone, gruppi e spazi sociali pubblici articolati. Sarebbe opportuno impegnarsi in un processo di accompagnamento elaborativo delle diverse esperienze professionali in modo più continuativo anziché occasionale, come stanno dimostrando le iniziative seminarili di AppLab.

Sia a livello di formazione, sia nella ricerca-azione sociale, dovremmo seguire il suggerimento di Sebastiano Ceschi:

valorizzare ed estendere le nostre qualità più preziose e socialmente utili: il sapere osservare, ... ambiti e angolature specifiche attraverso l’esperienza di terreno; la sensibilità e l’abilità nel dialogare con i soggetti; la capacità di attraversare e connettere diversi piani del sociale; l’uso di prospettive (e non di un “sapere” compatto e impermeabile) precipuamente antropologiche per dare leggibilità diverse ai fenomeni studiati (2014: 111).

Queste sono qualità professionali dell’antropologo che possono rivelarsi estremamente adeguate nel fornire un sostegno formativo, sempre più indispensabile ad un mutamento delle culture professionali di chi opera nelle diverse realtà delle politiche pubbliche.

A queste caratteristiche distintive va aggiunta una capacità comunicativa capace di superare i confini del nostro linguaggio specialistico in modo chiaro e accessibile, aiutando contemporaneamente le persone con cui si lavora (ricercatori di altre discipline ma anche operatori, educatori, cooperanti, funzionari) a capire il modo di guardare ed interrogarsi sui fenomeni sociali tipico dell’antropologia culturale. Questo è un tema molto sentito e dibattuto, a cui è stato dedicato il convegno di Cremona nel 2018, co-organizzato da un’esperta sul tema come Angela Biscaldi e aperto con una keynote Lecture dello stesso Colajanni pubblicata nella rivista, e che si ripropone ora al centro di un altro tavolo di lavoro inter-associativo. La sfida ricorrente che molti antropologi si pongono è quella di saper comunicare in modo efficace e intellegibile con i nostri interlocutori, senza per questo semplificare e banalizzare le questioni che si discutono.

Infine, desidererei concludere accennando allo stile paritetico e anti-gerarchico che ha sempre animato le attività dell’associazione. Come più volte riconosciuto dal presidente onorario Colajanni in diverse prolusioni di questi anni, nei workshop, laboratori come nei panel della SIAA si respira un clima collaborativo e conviviale in cui si pensa ad alta voce assieme e si esprimono punti di vista anche critici e divergenti senza eccessive tensioni. Personalmente, credo nella ricaduta pedagogica di questo ambiente, in cui anche i più giovani si sentono autorizzati ad interagire, perché è anche nell’autorizzarsi che si impara a responsabilizzarsi con argomentazioni sempre più solide.

Recentemente, Beneduce e Taliani nell’introdurre un numero di Antropologia emerso da un panel del convegno SIAM dedicato a Seppilli[2], ricordano il collega con queste belle parole: «pronto a imparare qualcosa di nuovo di sé a partire anche solo da uno sguardo, una domanda, e persino dalla più minuta reazione proveniente dal pubblico o dagli altri relatori» (2021: 8), riprendendo poi la sua introduzione ad un numero di AM:

In effetti partecipare ai convegni significa imparare molto dalle relazioni degli altri. Ma si impara, seppur può sembrare strano, anche dalla propria (già nota evidentemente all’autore): tentar di “leggere”, mentre si parla, le posture e i volti degli ascoltatori, ascoltare i primi commenti, partecipare alle discussioni “a caldo” sulla propria e le altrui relazioni, durante i rituali intervalli, è tutt’altra cosa che inviare un testo (Seppilli 2015: 10).

Se, come chiosano Beneduce e Taliani, «un convegno può essere un’occasione unica per pensare insieme e capire con gli altri come agire diversamente in questo nostro mondo comune» (2021: 8), su queste basi, amo pensare che Seppilli avrebbe apprezzato molto i convegni e i seminari organizzati dalla SIAA in questi sette anni e che l’esperienza avrebbe permesso di fugare alcune delle sue perplessità.

Bibliografia

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[1] Dalla fine del 2019 i presidenti delle diverse associazioni demoetnoantropologiche (ANPIA, SIAA, SIAC, SIAM, SIMBDEA) si sono riuniti e hanno dato vita ad un processo di confronto che ha visto coinvolti i diversi consigli direttivi in una prima fase e, successivamente, la costituzione di alcuni tavoli di lavoro che congiuntamente affrontano alcune tematiche di comune interesse: Comunicazione; Formazione; Rapporto con le istituzioni; Ricerca ed etica.

[2] Diverse riviste italiane demoetnoantropologiche hanno ospitato risultati dei lavori del bel convegno SIAM Una teoria per capire, per agire, per impegnarsi. La lezione di Tullio Seppilli: Minelli, Pizza (2019); Ravenda (2019); Palmisano et al. (2020); Taliani, Beneduce (2021) e altri approfondimenti tematici sono in uscita in altre riviste come Anuac.