Recensione

Roberta Raffaetà, Antropologia dei microbi. Come la metagenomica sta riconfigurando l’umano e la salute, CISU, Roma, 2020

Nadia Breda

Università degli Studi di Firenze

Il libro di Roberta Raffaetà propone all’attenzione del pubblico italiano un innovativo tema di antropologia che difficilmente può essere classificato entro griglie concettuali precostituite: un’antropologia dei microbi, che nel sottotitolo fa riferimento alla problematica della riconfigurazione dell’umano e della salute da parte della metagenomica contemporanea[1], che posiziona la ricerca di Roberta Raffaetà tra antropologia medica, antropologia della scienza e antropologia dell’ambiente.

Si tratta di un’etnografia svoltasi prevalentemente in un laboratorio di metagenomica dell’Università di Trento, ma anche attraverso visite di durata inferiore ad alcuni laboratori della California. Attraverso questa ricerca l’autrice ha potuto avvicinare le pratiche e le teorie degli scienziati che studiano le comunità di microbi che co-abitano dentro e attorno agli umani componendo quel “microbioma” che ha un grande impatto sulla salute e sull’ambiente.

Raffaetà ha proposto uno studio sul corpo umano e al contempo sui non umani, uno sguardo sul vicino (il Laboratorio di Trento) e al contempo uno sguardo globalizzato (i Laboratori internazionali), sul piccolo (i microbi) e sull’infinito (l’ambiente che circonda umani e non umani), un approccio all’antropologia della salute pubblica e al contempo alle evoluzioni della scienza e della ricerca. Si tratta insomma di un libro innovativo e coraggioso nel panorama italiano, ma con ampi echi e connessioni con il panorama di studi e ricerche internazionali che affrontano temi simili già da molti anni, temi ai quali già da lungo corso Raffaetà si dedica, frequentando gruppi di ricerca, laboratori e convegni internazionali.

Si comincia appassionandoci di microbi e si finisce con lo scoprire, in quanto antropologi, che tra essi e gli umani si sviluppano relazioni intime e allo stesso tempo immensamente estese, relazioni pacifiche e conflittuali, fisico-corporee e intellettuali. La metagenomica è una rivoluzione scientifica e allo stesso tempo culturale e sociale, e Raffaetà dimostra con le sue ricerche sul campo tra i laboratori di metagenomica che gli scienziati che stanno studiando i microbi stanno al contempo sperimentando rivoluzioni dei paradigmi, di cui la più importante, ci segnala l’autrice, è costituita dal passaggio da una visione del bioma individualista, monolitica (i microbi come “entità isolabili” scrive Raffaetà), a una visione sistemica, ambientale, connessionista, ramificata e quindi implicata con gli umani, con l’ambiente, con la cultura e con la società (anche le pratiche religiose influiscono sullo stato del bioma, scrive Raffaetà). Mentre fino a prima della metagenomica si poteva unicamente “coltivare” in vitro alcuni specifici batteri, ora gli scienziati sono capaci di individuarli nell’ambiente, e di vedere chi c’è e, possibilmente, cosa fa in quel dato ambiente. È un passaggio dal paradigma molecolare a quello sistemico, da una visione particolaristica a una visione ambientale.

Questo spaventa gli scienziati stessi, che si trovano a percepire un mondo (il loro mondo, quello dei biomi) come molto meno puro di quanto finora fosse stato considerato. Gli antropologi erano avvezzi alla questione che “i frutti puri impazziscono” (James Clifford) già da molto tempo, per nulla spaventati dal frequentare teorie e terrains contaminati e impuri, e hanno quindi salutato con approvazione questo “cambio di paradigma” (Raffaetà 2020, capitolo 3), che permette di rivisitare ancora una volta il dispositivo di frattura della dicotomia natura/cultura. Roberta Raffaetà infatti inserisce questo libro all’interno di un dibattito contemporaneo molto ampio, quello della svolta ontologica che ha origine e piedistallo nella critica della dicotomia natura/cultura di autori come Philippe Descola, Bruno Latour, Eduardo Viveiros de Castro, Tim Ingold, Luigi Pellizzoni, e sono infatti questi autori e queste tematiche l’orizzonte più ampio di questo libro, anche se la verifica di questo approccio è consistita per l’autrice nelle ricerche sul campo in specifici laboratori, una “etnografia di laboratorio” di latouriana ispirazione, ma che va oltre l’approccio sociologico verso una profondità antropologica fatta di significati, di strutture più profonde, non senza slanci verso la valutazione etica e politica dell’approccio pragmatico al bioma.

C’è quindi un lavoro teorico enorme alle spalle di questo libro che sembra incentrato sui piccoli microbi, sul cui statuto ontologico siamo ancora incerti e verso cui le nostre epistemologie sono ancora delle sabbie mobili. Roberta Raffaetà non esita a mostrare dubbi e incertezze degli scienziati microbiologi, dei quali racconta le giornate, illustra il lavoro in laboratorio, mostra le conversazioni, tra biologi del wet e biologi del dry, parti contigue dello stesso Lab, tra spazi sotterranei per il lavoro biologico e spazi laboratoriali pieni di macchine di sequenziamento per il lavoro computazionale del microbioma. Questi scienziati, molti con una formazione informatica che uniscono alla biologia, si affacciano su un mondo sistemico e cercano comunque di “ridurlo”, e Roberta Raffaetà mostra la peculiare prospettiva che rende, per essi, il riduzionismo scientifico una conquista piuttosto che un difetto. Essi analizzano una connessione alla volta, alla ricerca dell’esattezza della correlazione, della quantificazione e della descrizione comunicativa di un mondo come quello dei microbi che invece “appare”, “emerge” potremmo dire con linguaggio ingoldiano, attraverso meshwork di movimenti che stanno dentro e fuori dei nostri corpi umani e dei corpi dei non umani e che gli scienziati devono identificare come si identificherebbe una costellazione nel cielo o un gruppo di alberi nella foresta. Questi scienziati hanno uno spirito da astronauti e da esploratori.

I meshwork sono però una cosa più difficile da decifrare, da far appunto “emergere”, da valutare. È questo il compito difficile in cui sono impegnati gli scienziati del bioma tanto quanto gli antropologi (soprattutto quelli che hanno aderito alla svolta ontologica in antropologia, da cui Roberta Raffaetà non è affatto lontana, per quanto a tratti critica). Roberta Raffaetà porta avanti in più punti un convincente parallelo storico e metodologico tra i due tipi di figure, quella degli scienziati del bioma e quella degli antropologi: studiano nei contesti, procedono in maniera sperimentale aperta, hanno sempre più bisogno del dialogo tra discipline biologiche e sociali.

L’emersione di questi meshwork mostra “altre nature”, cioè altre realtà, ma la realtà dei microbi è un assemblaggio incerto, non certo ben visibile, per esempio come il cane di Donna Haraway, e più che sottolineare l’alterità, Raffaetà lavora per indicare la relazione.

Dopo l’identificazione (che secondo Philippe Descola è il primo passo della composizione del mondo, del processo di worlding), verrà da parte degli scienziati il momento della cura, cura nell’identificazione, cura dei dati, cura del rapporto con l’identificato, cura della comunicazione dell’identità degli esseri individuati. Nel laboratorio dove Roberta Raffaetà ha fatto ricerca, si tratta quindi di passare dalla concezione latouriana dei microbi come “matter of concern”, ai microbi come “matter of care”, oltre anche ai microbi come “matter of fact”. Gli scienziati dispongono di un dato biologico (“wet” nel loro linguaggio), e lo trasformano in un apparato informatico (“dry”), purificando la materia e rendendola una sequenza genetica, comunicabile, quantificabile, dialogante con altre sequenze. E questa diviene, per questi scienziati, la materialità dei microbi: una sequenza di DNA su un computer.

Roberta Raffaetà è scettica verso gli approcci multispecies che partono dall’idea di una simmetria tra umani e non umani, per lei è importante analizzare i modi specifici e le gerarchie politiche che si costituiscono nel momento in cui gli umani si relazionano ai non umani. E per far ciò, secondo Roberta Raffaetà, l’umano deve restare umano, la cultura conservare un suo ruolo, la natura un suo mistero (così scrive Raffaetà) in modo che la relazione sia possibile. È l’interdipendenza il vero tema e il vero problema, secondo Roberta Raffaetà, ed è quello che ha cercato di individuare con le sue ricerche sul campo. Secondo l’autrice si deve andare oltre l’antropocentrismo dell’umano, ma non oltre l’umano, non verso l’abbandono dell’umano. E neanche verso l’abbandono del concetto di cultura, sostiene Roberta Raffaetà, perché questo è la porta/soglia che ci permette di comunicare con il non umano, una soglia materiale e concreta, non è solo un “testo” di concezione geertziana, non è solo un insieme di simboli astratti. Il concetto di cultura va salvato perché è portatore di valori e significati che il tangibile e la dimensione della pratica da sole non riescono a esprimere.

L’assimilazione totale tra natura e cultura, in un’illusione di simmetria, rischia di esporre la natura (ma anche la cultura) a nuove forme di dominazione e controllo, tipiche dell’assetto neoliberale, in cui ogni forma del vivente è malleabile secondo il volere del più forte. Alla fine, quindi, la dicotomia natura/cultura non è del tutto scardinata da Roberta Raffaetà, che scrive: “L’esistenza di un concetto di natura aiuta a bilanciare gli eccessi della società” (2020: 92). Roberta Raffaetà non si butta a capofitto nella decostruzione della dicotomia natura/cultura, in questo incontrando appieno le posizioni del sociologo Luigi Pellizzoni, ispiratore del gruppo di discussione POE (Politica, Ontologie, Ecologia) a cui abbiamo partecipato insieme.

Oltre a ciò, la pratica e la teoria sono i termini di un bilanciamento su cui Roberta Raffaetà riflette molto nel suo libro. L’autrice riflette criticamente sulla practical turn, che avendo portato maggiore enfasi sull’importanza delle pratiche agite, in certe sue interpretazioni tende a intravedere nelle pratiche un sostrato ontologico che non può esserci senza una contestualizzazione teorica, che è anche quella che fornisce la possibilità di un’analisi etico-politica del fenomeno che si sta analizzando. Tutto il suo lavoro è stato proprio uno studio profondo delle strutture teoriche che sorreggono con linguaggi e simboli le pratiche degli scienziati. I suoi informatori stessi hanno comunque un posizionamento riguardo a questa questione, poiché dichiarano di voler essere “informati” dalla teoria, e non “trainati” da essa (Raffaetà 2020: 162), non meri verificatori di caselle/quadri/posizioni teoriche. Questo posizionamento ha scalzato il metodo dell’ipotesi verifica per avvicinarsi a quello dei continui aggiustamenti che creano le condizioni per il manifestarsi del fenomeno (Raffaetà 2020: 149). Una posizione molto più ingoldiana di certo, o se vogliamo anche ispirata a Maturana e Varela.

La rivoluzione del paradigma (che sarà ciò che avrà conseguenze nuove sulla salute degli umani e sul concetto di corpo stesso) porta da una visione dei microbi come invisibili, entità isolate, a quella di una comunità di esseri, comunità che dal corpo degli umani risuona con l’ambiente esterno, in stato di interdipendenza e di risonanza, in una visione di corpo molteplice (di remottiana memoria, del Remotti antropologo contro l’identità, perché il corpo è relazione), in una situazione multispecies, dove i microbi possono quindi fare da mediatori, sono interfaccia, in dialogo. È una rivoluzione che ha risvolti politici importanti. Ma anche qui, in assenza di una riflessione teorica e di una contestualizzazione culturale, essa rischia di essere catturata anche dalle posizioni politiche di destra, con riattivazioni del concetto di razza, per esempio, o di aspirazioni all’individualismo esasperato socialmente irresponsabile. Raffaetà invita ad andare a fondo di pratiche e di teorie, a non accontentarsi né dell’una né dell’altra, ma a verificarle costantemente (come d’altronde si deve fare con la coppia natura/cultura). Possiamo probabilmente parlare di un posizionamento della nostra autrice nella svolta ontologica molto delicato e prudente, un approccio che cerca di non seguire la moda teorica del momento ma di fare i conti con la realtà etnografica e politica che analizza, e di un esempio concreto di ricerca del dialogo tra discipline sociali e discipline scientifiche.

Non si può dire che l’autrice non sia consapevole anche delle frizioni del dialogo interdisciplinare, delle catture e del domino della scienza e degli scienziati da parte della cornice biotech capitalista, degli atteggiamenti di dominio verso la natura, più che di dialogo con essa. Roberta Raffaetà con questo libro spinge a fare passi in direzione degli studi di scienza e tecnologia da parte degli antropologi, per far emergere le frizioni e aprire il dibattito. La scienza è vasta, c’è una molteplicità di visioni e di pratiche, di cui sappiamo ancora troppo poco. Il libro di Roberta Raffaetà mostra una strada concreta per sperimentare ulteriori studi che rispondano a queste esigenze.



[1] “La metagenomica è lo studio di comunità microbiche nel loro ambiente naturale” (Raffaetà 2020: 37).