Il tempo e la vita

Considerazioni di antropologia medica

Giovanni Pizza

Università degli Studi di Perugia

Abstract. A conclusione di una lettera dal carcere indirizzata a sua cognata Tatiana Schucht il 2 luglio 1933, Antonio Gramsci scrive la seguente frase: «[I]l tempo è la cosa più importante: esso è un semplice pseudonimo della vita stessa». Si tratta di una concezione importante qualora contestualizzata nella pratica teorica del politico sardo. Inquadrando il nesso tra tempo e vita in una lettura antropologica delle eterocronie gramsciane e facendo riferimento a etnografie comparate dei tempi corporei in campo clinico, l'Autore cercherà di svolgere alcune considerazioni per un'antropologia medica gramsciana, non senza evocare lo scenario epidemico contemporaneo in riferimento al carattere plurale dell'esperienza temporale.

Keywords. antropologia socioculturale applicata, antropologia medica, tempo, vita, Gramsci

Non c’è un solo tempo. Ce ne sono tantissimi.

(Rovelli 2017: 24)

Leonardo Piasere ha già detto molte cose nella sua generosa presentazione della mia figura di studioso e lo ringrazio. Egli fece parte del Comitato di redazione della rivista Etnosistemi. Processi e dinamiche culturali, per la quale, in verità, mi chiedo come mai i numerosi storici degli studi antropologici non evidenzino l’importanza, certo tale secondo me[1]. Si è trattato di dieci anni di lavoro etnologico dal 1994 al 2003[2]. Posso testimoniare che Etnosistemi seppe creare un laboratorio comune, una cornice di libertà per tutti noi che ne facemmo parte (e ciò francamente mi onora). Piasere ha usato parole stupende, nel presentarmi a questa platea in gran parte composta da amiche e amici, colleghe e colleghi. Vorrei però dissolvere un dubbio, sciogliere un mistero da lui evocato: quello della “salama da sugo”. Facevo quella ricerca sulla “salama da sugo” a Ferrara e provincia, durante il mio contratto di insegnamento universitario a Verona, etnografando la costruzione sociale di un prodotto tipico locale per conto di ricercatori francesi che mi erogavano alcuni fondi[3]. Allora ero precario, feci una lunga ricerca e consegnai loro un ampio rapporto, più di 150 pagine, sulla salama, con le fotografie, le interviste e così via. Presi i fondi, ma non ho mai pubblicato nulla, ancorché richiestomi varie volte da più parti. Potrei certo tenere una “lezione” su questo, ma la risparmio sicuramente. Anche perché devo parlare dell’antropologia (medica) del tempo. Che poi “il tempo” è l’argomento del convegno intero, scelto dalla SIAA, associazione che per questo (e altro) merita certamente un pieno elogio.

Entro nell’argomento: la questione del tempo, una volta affrontata antropologicamente, ci può consentire di denudare i processi di decostruzione di quanto andiamo osservando, di criticare, ad esempio, il concetto di antropologia, quello di cultura o la nozione stessa di società. Tutto questo la SIAA lo fa criticamente e lucidamente e perciò manifesto la mia gratitudine. Certo il tempo, è un tratto costitutivo dell’umanità. È un trait d’union che, come suggeriva Piasere nel suo intervento di apertura, unisce l’antropologia fisica e l’antropologia socioculturale e connette diverse specializzazioni di quest’ultima, tra le quali l’antropologia medica. L’unità fra Antropologia fisica e Antropologia socioculturale è una questione che mi sono posto molte volte. Quando gli studenti ti chiedono che differenza c’è tra le due discipline, quando i colleghi dicono: “Io sono BIO/08 e tu M-DEA/01”, devo spiegare e saper cogliere la distanza che separa i due settori scientifico disciplinari; allora mi convinco che essa sia piuttosto ovvia: è la differenza tra l’Antropologia fisica che è biologica e l’Antropologia culturale che è appunto culturale. Però rimane sempre un dubbio, che proviene proprio dalla comune parola “antropologia”. Se riflettiamo sul fatto che anche se la parola anthropos include uomo e donna essa non ci soddisfa, capiremo perché il nostro compianto amico Ugo Fabietti, che ha scritto egregiamente numerosi manuali di antropologia, ci parli di un’antropologia come studio culturale comparato del genere umano (Fabietti 2015), riproducendo dunque quell’anthropos inclusivo, ma evitando l’espressione “Studio dell’uomo”[4]. Non è una barzelletta, non è una questione ridicola: anthropos non soddisfa, perché se oggi ci siamo tutti alle nostre lezioni è un tutti, cioè un plurale maschile, che può essere revocato in dubbio, che può essere criticato da considerazioni che evidenzino il maschile dominante. Perché il plurale della nostra lingua è sempre un plurale maschile? Si può chiedere? Allora, forse, un trait d’union tra Antropologia fisica e Antropologia culturale si potrebbe anche trovare, se è vero che le antropologie possono criticare la sessualizzazione della/nella lingua[5].

Come dicevo, in effetti, la questione antropologica del tempo, oggi, ci consente di andare dritti all’osso della critica culturale perché si tratta di mettere a fuoco un tratto costitutivo, non di illuminare solo un’essenzializzazione concettuale, come ad esempio quella di cultura. Essa va a mio avviso affrontata certo per il fatto che l’antropologia ha relativizzato e comparativizzato la conoscenza del tempo negli ultimi quindici anni, anche negli ultimissimi cinque o sei anni, a partire dal 2014 – penso ai lavori di Laura Bear (2007, 2014) – e anche perché essa pone un problema di contesto, di conoscenza situata. Si tratta, infatti, di un argomento che coinvolge anche la riflessione filosofica e la critica dell’Europa che hanno avuto come oggetto proprio il pensiero occidentale. Si potrebbe risalire al poeta-filosofo romano Tito Lucrezio Caro del primo secolo a.C. oppure al IV secolo di Aurelio Agostino d’Ippona, Sant’Agostino, alle sue note riflessioni sul tempo contenute nell’XI capitolo delle Confessioni. Certo, non credo siano letture da approfondire ora, anche se, evocandole, faccio riferimento all’eterogeneità di un retroterra teo-filosofico, diciamo così[6]. Del resto, arriverei anche ad attraversare, sempre pluralmente, i secoli, con Niccolò Machiavelli che ci introduce alla questione del rapporto tra il tempo e il corpo (Briguglia 2006; Marchesi 2017), oppure addirittura fino a Charles Darwin (1859) che ne parla dentro il suo Ottocento, che da un certo punto di vista è molto più vicino a noi.

L’autore che ho scelto di esplorare, però (anche perché lo conosco un po’ meglio), è Antonio Gramsci (1891-1937), che ha dato peraltro il titolo a questa mia riflessione antropologico-medica sul tempo. Ho infatti ripreso l’espressione dall’ultima frase di una lettera di Gramsci a sua cognata Tatiana Schucht e alla fine vi leggerò il brano per intero. Per ora questo titolo, che mette in connessione il tempo e la vita , sembra apra a una suggestione, che è poi l’inizio di una ricerca ancora da fare, solo in parte già fatta da alcuni studiosi, ma non in chiave etnografica e antropologica. Essa riguarda le concezioni plurali del tempo, non una definizione universale e unica. Pluralità che è affrontata da Gramsci sia nei Quaderni del carcere sia nelle Lettere dal carcere. Nelle lettere in maniera più emotiva, nei quaderni in maniera più riflessiva, ma in entrambi i casi con una scrittura molto coinvolgente. Talché la dimensione emotiva, per chi voglia recepirla, si rinviene sempre.

Pluralità temporale è un’espressione chiave. Essa, infatti, allude un approccio antropologico allo studio del tempo. Di questa “pluralità” effettivamente Lucrezio (1994) ha offerto un elemento fondante[7]. Egli ci propone un’antropologia del tempo molteplice, per così dire; ne sottolinea la dimensione plurale e la compara. Quindi pone anche una questione di relatività culturale, un termine pesante perché fa riferimento anche alla fisica del tempo, a quella relatività proposta da Albert Einstein che, insieme ad altri approcci quantistici tende oggi ad essere integrato in un unico modello contemporaneo che, per altro, paradossalmente, disegna una fisica che tende a escludere il tempo. Ci dobbiamo chiedere perché. Perché questi approcci fisici attuali tendano a escludere il tempo come variabile, pur nella messa a punto di una teoria unitaria della fisica, della natura, dell’essere umano? (Rovelli 2014, 2017)

Lo diceva già Lucrezio, sessant’anni prima di Cristo e circa duemila prima di Èmile Durkheim[8], il tempo e le cose coincidono, sono la stessa cosa. Il tempo poi non esiste, lo affermava Sant’Agostino allorché riferiva della domanda teologica su cosa facesse Dio prima di operare la creazione (egli poneva a sé stesso quell’interrogativo, ma in realtà era una contestazione che veniva dai suoi avversari dialettici). Vi rispondeva, sostenendo che non aveva alcun senso porsi la questione perché il tempo non era esistito finché Dio non ebbe operato la creazione. Da questa enunciazione antica possiamo credo far discendere la nostra convinzione presente e antropologica, che il tempo non esista al di là della sua percezione. L’antropologia ha molto da dire anche in termini operativi, perché questo non è un molto da dire universale e filosofico, con tutto il rispetto per la filosofia e anche per quella teoretica, ma è un molto da dire con molti esempi politico-culturali. Da questa rinnovata idea del tempo che vorrei proporre qui discende, a mio avviso, una operatività antropologica (una lettura antropologica operativa) che consentirebbe di cambiare, credo, anche le teorie dell’organizzazione della società, cioè il governo di essa.

Una su tutte? Il tempo del lavoro dovrebbe essere cambiato sulla base dell’ottica che il tempo non esiste se non come predicato umano (la percezione, il tempo incorporato). Questo rapporto tra il tempo e il corpo è fondamentale per la mia sotto-disciplina che è l’Antropologia medica e noi (e dico “noi” non certo come plurale maiestatis, ma sia perché sono contrario all’autorialità personale sia perché effettivamente intendo il lavoro spesso con altri e altre. Del resto, non siamo mai soli basti pensare alle tecniche del corpo di Marcel Mauss (2018). Pertanto, direi che sottolineiamo questa relazione tra corpo e tempo per averla individuata in una lettera di Gramsci e quindi vogliamo sottolinearla anche alla luce di questa consapevolezza. Tenni il seminario Gramsci all’Università di Perugia. Andrea F. Ravenda vi lavorò e curò poi con me per il II anno della SIAA un convegno e un volume di AP dedicato al tempo[9]. Quello scritto nostro partiva dalla suggestione gramsciana, una suggestione che collegava il tempo al corpo. In che modo Gramsci connette il tempo al corpo? Questa possibilità di leggere la pluralità temporale nell’opera di Gramsci – anche se, beninteso, nei lavori pubblicati negli ultimi tre, quattro o cinque anni che provengono dalla esegesi storica, filosofica, filologica e politologica gramsciana il tema della pluralità del tempo nei Quaderni del carcere, è bene affrontato[10] – deve essere esplorata, a mio avviso, in antropologia, cioè tentando l’unificazione di tutto quello che sappiamo sull’esperienza concreta di Gramsci nel carcere e provando ad agganciare a ciò che Gramsci scrive quello che Gramsci ha fatto e ha vissuto. Possiamo anche dire che abbiamo a disposizione grosso modo tre blocchi di scrittura gramsciana da esaminare: la scrittura “libera” di Gramsci, prodotta prima del carcere, nei testi, pochi saggi e numerosi articoli, cosiddetti “giovanili” (aggettivo qualificativo, a dire il vero, piuttosto superficiale), e abbiamo altri due blocchi importanti che sono le Lettere dal carcere e i Quaderni del carcere. Possiamo poi leggere alcune pagine dei quaderni con la contemporaneità delle lettere, perché disponiamo di numerosi studi ed edizioni gramsciane e siamo in grado di ben datare quei quaderni per capire ad esempio se la mattina o il pomeriggio Gramsci aveva scritto la lettera e contemporaneamente una pagina di quello specifico quaderno. Questo ci consente un aggancio, fra i due blocchi, molto importante. È anche questo, forse, il motivo per cui Gramsci, nel mondo, è l’autore italiano più studiato, perché la sua opera consente a diversi approcci co-disciplinari, di avviarsi alla lettura parallela delle sue scritture. Con i miei scritti, con questi discorsi, non voglio certo figurare come l’antropologo “specialista” di Gramsci, intendo solo sottolineare un’urgenza e paradossalmente lo faccio da tempo: riprendiamo in mano questi testi, andiamo oltre una lettura un po’ stereotipa. Oggi al mondo sono pubblicate moltissime monografie sul politico sardo, ma quelle scritte da antropologi sono tre, se si vuole includere il mio libro (Crehan 2002, 2016; Pizza 2020); quelle scritte in inglese, quindi internazionali, sono due (si sa: pubblicare in italiano è come mantenere un segreto…). Il primo libro antropologico, dedicato a Gramsci e al concetto di cultura, è stato quello di Kate Crehan: Gramsci, Culture and Anthropology, Pluto Press. London, 2002. La scoprii proprio per quel seminario dedicato ai tratti antropologicamente rilevanti dell’opera gramsciana. Un fantasma cadeva dinanzi ai nostri occhi ed emergeva perciò l’importanza fondamentale di una lettura diretta di quelle scritture, che tanto erano “classici” perché non avevano mai finito di dire ciò che avevano da dirci – come ci ha insegnato Italo Calvino (1992) – e in questo senso ho anche provato a proporre la traduzione di quel libro di Kate Crehan, che uscì alcuni anni dopo (nel 2010), ma, in una fase in cui non si traducevano più libri in italiano, facemmo venire Crehan in Italia, nel 2003, quando c’era la prima guerra in Iraq, in un’aula universitaria offertaci per l’occasione dagli studenti che la occupavano. Ci mettemmo d’accordo e facemmo una bella conferenza, perché Crehan, al di là di ogni limite e di ogni vantaggio, ci sottolineava una cosa fondamentale, cioè l’urgenza di andare a leggere direttamente Gramsci: questo per me è stato un massimo insegnamento e ho cercato di rilanciarlo.

A circa vent’anni di distanza, anche in questa sede vorrei rilanciare questa esigenza, perciò ho conferito un titolo gramsciano a questo scritto e alla conferenza che esso documenta: provo, cioè, a sviluppare un’antropologia medica di ispirazione gramsciana in cui, appunto, la molteplicità, la pluralità del tempo risulti fondamentale perché è un fatto storico di grande rilevanza. Ripeto, l’orologio è un giocattolo interessante però è stato strumentalizzato da una concezione universalistica del tempo che punta alla misurazione delle nostre vite.

In verità, alla precedente ed eterogenea costellazione di antenati evocati per la genealogia del concetto di “tempo”, da Lucrezio a Sant’Agostino a Machiavelli, va aggiunto last but not least at all anche Marx. Ritengo, infatti, che la critica marxista del capitalismo occidentale non solo possa arricchire la nostra genealogia eterogenea, ma consenta anche, a mio avviso, di guardare con l’“etnocentrismo critico”, di cui ci ha parlato il fondatore della nuova antropologia italiana Ernesto de Martino, quindi con occhio antropologico, alla nostra storica tradizione intellettuale e quindi anche di criticarla[11]. L’idea di un’universalità del tempo credo sia di tendenza capitalistica, liberista e oggi neoliberista ed è assolutamente da scardinare: l’antropologia può e deve farlo, secondo me. Ricordo un vecchio manuale che studiavo da ragazzo, era scritto da Philip Bock (1978) e si trattava di un libro importante che studiavamo all’Istituto Universitario Orientale di Napoli per l’esame di Antropologia culturale con Clara Gallini nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Aveva una parte sul tempo in cui Bock sottolineava come i Nuer, per esempio, leggessero il tempo in base ai loro lignaggi, come altri lo faceva in base a differenti punti di vista[12]. Oggi questi parametri culturali, nella esperienza del tempo, forse ci dicono solo una cosa: che dobbiamo combattere l’invenzione dell’orologio, perché la misurazione del tempo, che è un giocattolo bellissimo, ci mancherebbe altro, è utilizzata nel nostro tempo, cioè oggi, come un’arma contro di noi, e dobbiamo assolutamente criticare questo, credo. Non è questione di essere antropologi di sinistra o di destra: se siamo comunque antropologi impegnati nell’azione per trasformare cose che non ci piacciono, credo che dobbiamo combattere l’orologio. Io l’orologio me lo dimentico, però non è a questo livello che vorrei approfondire la questione. Ricordo il bellissimo film di Charlie Chaplin[13], degli anni trenta, gli stessi anni novecenteschi gramsciani: il 1934 del Gramsci della catena di montaggio, del noto Quaderno 22 (Gramsci 1950), il 1936 di Tempi moderni. Personalmente ho sempre letto il testo gramsciano tenendo a mente il film di Chaplin. Quella pellicola era molto bella perché ci offriva la medesima critica della catena di montaggio, di un tempo parcellizzato e incorporato. Evocando un “Gramsci antropologo”, a mio avviso, che ci parla del tempo incarnato. Quando racconta, in una lettera del primo luglio del 1929 (a soli tre anni dall’arresto, quindi sta ancora abbastanza bene, diciamo), di aver piantato e coltivato una rosa nel cortile del carcere di Turi, non intende certo dirci che la rosa invecchia e che cambia, perché la descrive minutamente. La rosa di Gramsci è il tempo, non è soggetta al “fluire del tempo”, quest’idea del “fluire” è un’idea culturale, nostra, dell’Occidente, che dobbiamo assolutamente scardinare. Credo che dobbiamo provare a cambiare l’epistemologia sociale che nasce anche dal tempo e guardare a esso con un occhio antropologico. Se riuscissimo a far questo forse i nostri discorsi non sarebbero più astratti, non assumerebbero un tono esclusivamente filosofico, ma diventerebbero radicalmente operativi, applicativi, destinati a un uso sociale non sporadico, sarebbero conseguenze assolutamente importanti di una critica epistemologica fondamentale che dobbiamo continuare perché si spera che cambiando le parole, usando l’asterisco (e chi lo trova “brutto” se ne faccia una ragione!) per esempio in “tutt*”, la realtà possa cambiare. C’è un nesso forte tra lingua e realtà. Eravamo arrivati, a un certo punto, con il grande movimento femminista, a proporre riforme del dizionario attraverso una critica della lingua che in qualche modo mettesse in discussione il plurale maschile che pare, stando al senso comune anche accademico, non si possa revocare in dubbio. È chiaro anche come la cosiddetta “inclusione” si proponga in una dialettica polarizzata fra uomo e donna (M/F) che personalmente trovo molto limitante: tra maschio e femmina fiorisce un’immensità possibile di cui si dovrebbe tenere conto. Eppure, vorremmo che almeno questa dialettica M/F cominciasse ad agire, rispetto a un mascolino imperante, che ci governa tutt* e che è del tutto inaccettabile. È accettabile che per esempio nel nostro Paese, dal 1948 a oggi, non ci sia mai stato un Presidente della Repubblica donna? Un Presidente del Consiglio donna? È accettabile che Tina Anselmi sia ricordata come la prima ministra donna? Io, nato nel 1963, sono forse figlio del Medioevo (con tutto il rispetto per i colleghi medievisti)? È incredibile. Certo non comprendo il dibattito sulle “quote rosa”, ma a fine 2020 trovo davvero irricevibile tutto questo. Poi, certo, leggo anche eccezionali filosofi, storici italiani che irridono al lessico “inclusivo” e mi domando: quand’è che passeremo dalla teoria alla pratica?

In fondo amo Gramsci perché tutta la sua opera può essere vista come il tentativo di mettere insieme teoria e pratica, di unire questi due aspetti. Egli, in una lettera alla cognata Tatiana, dice di non riuscire a immaginare una teoria sganciata da una iniziativa di volontà, una sua tesi che non sia contrapposta a quella di un’altra persona. Perché non riesce ad elaborare idee se non in un’ottica dialettica, in rapporto con altre. Del resto, il sardo ci sta proprio segnalando l’esigenza di collegare una riflessione di pensiero all’azione pratica. Come antropologo di Gramsci sono forse noto (a Perugia) per aver sottolineato la dimensione antropologica del concetto gramsciano di “molecolare” L’ho letto e mi ha impressionato: ripeto quando lo ho scoperto un fantoccio indiretto e fantasmatico sembra essersi dissolto. Evocato subito da molti studiosi di altre discipline, c’è da chiedersi come mai l’antropologia, pur stabilendo un asse forte con Gramsci, non ci abbia insegnato questa nozione, a noi, nipotini/e di Ernesto de Martino. Il molecolare è una questione importantissima, perché non è solo il dettaglio minimo dell’esperienza, è anche il tentativo gramsciano di elaborare una novità epistemica. È un modo di “fare cose con le parole” (Austin 1987)? Non lo so, ma Gramsci comunque riesce a coniugare pratica e teoria in un unico lessico. Il suo “molecolare” è un ponte e noi, antropolog* gramscian* seguendo questa linea, dobbiamo credo trasformare ogni consapevolezza che abbiamo in una pratica perché il mondo così com’è non ci piace e le parole che servono a descriverlo ancora meno.

Quando c’è stata la prima fase del Covid-19, con alcuni amici e alcune amiche avevamo fatto una rubrica che andava online con il rotocalco digitale “Atlante” della piattaforma web di Treccani e si chiamava Storie virali; a margine nacque l’idea di coinvolgere anche altre persone per un testo dietro sollecitazione di Alessandra Guigoni e Renato Ferrari (2020) che vollero curare un instant book digitale sul Covid nella prima fase. Allora ci riunimmo noi, a partire dalla esperienza di Storie virali, con due storici della medicina e tre antropologi. I due storici della medicina erano Andrea Carlino e Maria Conforti, un antropologo ero io e gli altri due erano Berardino Palumbo e Pino Schirripa. In questo testo, raccogliendo un’idea di Palumbo, abbiamo lavorato sul tempo condizionato da questo momento epidemico. Nella prima fase si percepiva una solo apparente dilatazione del tempo, ciascuno di noi l’ha potuta avvertire e poi vedere, come un’apparenza. In questo senso anche la questione della DAD può essere affrontata, come tentammo di osservarla in un’ottica interdisciplinare fra antropologi e storici della medicina, sulla base di quelle indicazioni che ci aveva dato la rubrica Storie virali nella prima fase della chiusura. Gli antropologi hanno riflettuto sul durante, sul dopo, sui futuri anteriori che ci vengono proiettati dall’Africa. I due storici hanno lavorato sul rapporto passato-presente, sulla struttura della crisi stessa del tempo che si va determinando. Insieme uno storico del corpo (Carlino) e una storica della medicina (Conforti), un antropologo sociale della politica (Palumbo) e due antropologi medici (Pizza, Schirripa) affrontammo l’analisi del rapporto tra rischio di malattia ed esperienza umana, storica e contemporanea. Sperimentammo un’esplorazione congiunta di quell’esperienza molteplice del tempo, intersecando il punto di vista antropologico sul presente con la lettura storica del passato. Con un’interdisciplinarità ben controllata, affinché non ne risultasse incrinata l’autonomia scientifica di ciascuno, ma al contrario si riuscisse ad alimentare il processo della ricerca comune e della sua incisività operativa nello spazio pubblico italiano, esaminammo insieme l’esperienza umana nelle sue diverse sfaccettature, osservandola, cioè, nei contesti della contaminazione attuale e in quelli d’altri tempi o in tempi d’altri. Ai nostri occhi davvero il tempo si disvelò quale elemento plurale, preso in una più articolata costellazione esperienziale: i corpi, la cura, i luoghi, gli spazi diventarono punti di vista differenti, ma tenuti insieme da uno sguardo critico comune in grado di monitorare la regola istituzionale senza proporre passi indietro accomodanti rispetto alle nostre capacità umane e sociali, pur ridotte a riprodurre vincoli e confini (e a chiedere, ancora, a tutti noi di non valicarli), ma realizzando una forma di unità paradossale in cui anche l’interdisciplinarità come metodo si spingeva a riconfigurarsi. Insomma, delineammo vere e proprie politiche del tempo, culturalmente e storicamente informate. Eravamo persuasi che non fosse possibile osservare l’esperienza del male nel passato senza esaminarne i correlati storici – culturali, politici e sociali –, ed eravamo altresìconvinti che non si potesse cadere in una sorta di “opinionismo” deteriore sul presente. Riflettere sul tempo in quella fase per noi tre antropologi significò anche fare un’etnografia auto-scrutinante che non significasse soltanto guardarsi allo specchio in una radicale forma di descrizione riflessiva, ma anche mettere in discussione, secondo le indicazioni dei grandi maestri del passato, il sistema in cui siamo nati e cresciuti, quindi i nostri stessi concetti. Gli elenchi di autori riportati da Piasere, non li indicavo nel 1998 in Etnosistemi solo per sfoggiare un sapere, ma per revocarli in dubbio, per discuterli, per dire, ad esempio, che, in passato, quegli Autori non avevano parlato mai di corpo ed ora lo facevano anche troppo (Pizza 1998)! Di fatto è in questo senso che vorrei concepire la riflessività: mettere in discussione il sistema in cui siamo nati e cresciuti (Lévi Strauss 1960). Abbiamo sostanzialmente provato a mettere insieme una riflessione sul tempo a cinque voci e quindi a dieci mani. Si è trattato di una riflessione multidisciplinare sul tempo, che per me è stata importante. Così come sono stati importanti i lavori di Palumbo (2015) sull’eterocronia, apparsi a ridosso della introduzione di Laura Bear nel monografico dedicato al tempo da lei curato per quella rivista che si chiamava Man e che ha avuto il merito di aver pubblicato una molteplicità di studi sull’antropologia del tempo molto utili (Bear 2014).

Tornando al titolo del mio intervento sul rapporto tra il tempo e la vita, prima di arrivare a Gramsci, restando addirittura su Lucrezio, vorrei (nuovamente) dire che il tempo e la vita sostanzialmente coincidono anche se ovviamente la vita vede una lancia spezzata in suo favore, nel senso che le cose, gli oggetti, sono il tempo in senso eidetico, non è che il tempo sia una specifica visione delle cose reali. Mi spiego meglio, come detto prima Sant’Agostino diceva che il tempo non esiste, nel senso che il tempo esiste come cultura del tempo, cioè esistono una pluralità di tempi possibili che addirittura certe etnografie riscontrano anche coevamente o simultaneamente nel medesimo “assembramento”, lasciatemi usare questa parola, ancorché tra virgolette. Certi assembramenti sono sì di culture del tempo differenziate che si mettono insieme e che dialogano. Questo, credo, è molto importante ed è il modo mio di leggere questi classici della filosofia.

Ora, per leggere invece le suggestioni che vengono da Gramsci, io adotto una metodologia che è di tipo antropologico. La filologia è importante, moltissimo certo, ma ha una tendenza a essere statica. Gramsci conosceva benissimo la filologia, ma non a caso aggiungeva, a mio avviso genialmente, accanto al nome della disciplina l’aggettivo “vivente”, scriveva di voler fare una “filologia vivente”. Io cerco di seguire queste indicazioni gramsciane sulla “filologia vivente” utilizzando quella ricchezza che vi dicevo della molteplicità degli approcci gramsciani alle sue opere, i diversi blocchi delle sue scritture. Provo anche, seguendo sempre un suo consiglio che ritengo pertinente, a contestualizzare, come è possibile fare, le singole citazioni, le “frasi staccate”, di un autore critico come lui è. Anche questa frase, “Il tempo è un sinonimo della vita”, può circolare come frase staccata, ma va comunque contestualizzata. Non per nulla l’antropologia, anche nelle forme del suo discorso, è sempre una scienza del contesto. La contestualizzazione non è solo filologica, ma è vivente, cioè calata dentro l’esperienza, centrifuga, estroflessa alla dimensione delle forme di vita culturale. Possiamo contestualizzare Gramsci anche attraverso fonti che si arricchiscono. Per esempio, noi abbiamo le Lettere dal carcere di Gramsci da cui è tratta questa frase che dà il titolo alla mia lectio; d’accordo, è un’opera importante, ha vinto il Premio Viareggio, letterariamente è fantastica, ci si può trovare dentro quello che si vuole, ma fin quando non è stato pubblicato il carteggio reale con le risposte reali della persona alla quale egli soprattutto si rivolgeva, non abbiamo potuto conoscere almeno pubblicamente la dialettica che c’era tra Gramsci e sua cognata Tatiana Schucht. Abbiamo dovuto aspettare il 1999, anno in cui io sono diventato ricercatore universitario a Perugia. In questo anno Aldo Natoli e Chiara Daniele pubblicano, rispolverandole dall’Archivio Gramsci, le lettere di Tatiana Schucht e le risposte di Gramsci, o le lettere di Gramsci e le risposte di Tania (Gramsci, Schucht 1999). Se si legge una lettera di Gramsci, così, senza la motivazione che l’aveva determinata, che è spesso una lettera a Tatiana, non si comprende molto bene.

In conclusione, vorrei farvi questo esempio e leggervi sia la lettera di Gramsci, che dà il titolo al mio intervento di oggi, sia la motivazione che l’ha determinata, cioè la lettera che Tatiana manda a Gramsci il giorno prima e in realtà era una cartolina postale. Tatiana la manda il primo luglio del 1933, quattro anni dopo la lettera della rosa del carcere di Turi. Anni importanti perché hanno portato a un logorio della salute, a una trasformazione profonda del carattere, della persona e del corpo di Gramsci. Quando fu liberato (ben prima degli undici anni che diceva Togliatti, perché andò nelle cliniche e quando morì il 27 aprile del 1937, morì in un giorno di piena libertà) meditava di andare a Santa Teresa di Gallura in una casa isolata da tutti, ma morì, colpito da ictus cerebrale. Quando andò nelle cliniche o a un colloquio, vado a mente e non ricordo bene, fu accompagnato da due membri delle forze dell’ordine e svenne perché aveva visto in uno specchio uno strano tipo accompagnato da due carabinieri, ma era lui la persona in mezzo alle due guardie, non si era riconosciuto allo specchio! Questo logorio del suo corpo, il fatto che sputava sangue, che avesse perso i denti, lo aveva consunto al punto che nella letteratura gramsciana, diciamo gramsciologica, un linguista, soprattutto, studioso autorevole e bravo, ormai in pensione, come Franco Lo Piparo (1979) che ha scritto su Gramsci e la lingua uno dei libri più belli sul politico sardo, ha prodotto di recente un piccolo volume polemico in cui ha inteso dire che quella trasformazione di Gramsci lo aveva portato addirittura all’anti-comunismo più radicale, è pertanto stato criticato duramente dai gramscisti comunisti[14]. Lo Piparo adotta un metodo “congetturale”, perché parte dall’idea che un quaderno sia scomparso. È una congettura forse eccessiva, ma il metodo non va buttato via. Anzi, esso merita una qualche difesa dell’antropologia, perché questa scienza sociale punta molto sul metodo congetturale[15], proprio perché vuole chiedersi, come faceva Carlo Ginzburg rievocando Bertolt Brecht, “Chi costruì Tebe dalle sette porte?”. L’antropologia non vuole parlare di Pericle o dei faraoni, ma degli anonimi muratori e allora, in questo senso, si fa le domande che si poneva Brecht sul chi fosse stata a Trafalgar, ed esempio, la cuoca di Napoleone. In questo senso la congettura è fondamentale. Allora, io non concordo con la tesi di Lo Piparo, ma concordo col metodo congetturale, certo nel suo caso eccessivo. Nondimeno sono un antropologo, e non sono uno storico “evenemenziale” che dice che il metodo congetturale non può essere usato.

Ora vi leggo la lettera di Gramsci, ma prima giunge la cartolina di Tatiana:

Nino carissimo, come ti dissi ieri, ho messo sul tuo libretto lire duecento e stamattina ho lasciato alla porta due tubetti di elastina di cui il dottore Resta ti aveva fatto avere un tubetto che tu mi dicesti di quasi aver terminato. Naturalmente non mi potevi dire se il medicinale ti aveva giovato o meno data la poca quantità da te presa. Pare che le compresse siano venti in ciascun tubetto e tre al giorno. Ti basta una settimana così, i due tubetti da me inviati ti dureranno. Potrai fare la cura durante tre settimane e forse questo tempo potrà essere sufficiente per poter dire se il rimedio ti potrebbe giovare, in tal caso ti farò avere altra quantità del farmaco. A Roma interrogherò qualche professore per avere dei consigli sulla preferenza che si debba dare a tale o tal altro preparato, voglio inoltre sentire anche il professor Fumarola, che aveva consigliato il Quadronox che poi non produce su di te alcun effetto. Può darsi che da questo stesso fatto egli possa tirare qualche conclusione utile per raccomandarti un altro preparato, tenendo sempre di mira di evitare lo spossamento delle forze, così anche per un antinevralgico, se l’aspirina Bayer, per quanto ottima, possa alla lunga produrre i suoi effetti sfavorevoli. Caro, non ti inquietare se ti scrivo ora solo queste cose banali e noiosissime per te, domani ti scriverò qualche altra cosa più lontana da questi mali (Gramsci, Schucht 1999: 1315).

Le risponde l’indomani Gramsci:

Carissima Tania, ricevo in questo momento la tua cartolina di ieri. Ho avuto le duecento lire e i due tubetti di elastina. A proposito della tua cartolina devo dirti che non voglio più essere una cavia per fare esperimenti di nuovi preparati. Non so se tutto questo ti diverta. Io sono giunto al limite estremo della pazienza. Non so e non mi pare se tu ti sei accorta che molte cose sono cambiate in me, radicalmente. Devo confessarti il mio torto di aver lasciato che le cose si trascinassero così a lungo. Spero tra breve di essere maturo a sufficienza per porre un termine a tutte queste tiri tele sconclusionate e senza senso comune. Ti prego di ricordare ciò che ti dissi a gennaio, quando venisti a colloquio, e di rileggere, se ancora l’hai a portata di mano, le lettere che ti scrissi dopo allora, così ti persuaderai che non si tratta di un colpo di testa, ma della fase terminale di un lungo processo, una fase necessaria, che solo un’incredibile cecità ti ha impedito di prevedere e di apprezzare convenientemente. Sono immensamente stanco, mi sento distaccato da tutto e da tutti. Ieri al colloquio ne ho avuto la riprova. Devo dire che il colloquio mi pesava come un supplizio, non vedevo l’ora che finisse. Voglio dirti la verità con tutta franchezza e brutalità, se la parola è più adatta: non ho niente da dirti né a te né a nessuno. Sono svuotato. L’ultimo tentativo di vita forse l’ho avuto a gennaio, ma non hai capito o non mi sono fatto capire nelle condizioni in cui dovevo muovermi e parlare. Ma ora non c’è più nulla da fare (ivi: 1316-1317).

E il prigioniero conclude con la frase con cui saluto anche io e che è il titolo della mia relazione:

Credi pure Tatiana, se qualche altra volta ti capiterà nella vita di avere esperienze come quelle che hai avuto con me, che il tempo è la cosa più importante, il tempo è un semplice pseudonimo della vita stessa. Ti abbraccio, Antonio (ivi: 1317).

È con l’abbraccio di Antonio Gramsci che vi stringo anch’io, tutte e tutti.

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[1] La lecture pubblicata in questo numero costituisce una revisione della key-note speach tenuta da Giovanni Pizza in occasione del VIII Convegno della SIAA, ospitato online dall’Università di Parma tra il 3 e il 6 dicembre 2020. L’introduzione della lezione e la presentazione del relatore fu affidata, in quell’occasione, a Leonardo Piasere.

[2] Etnosistemi. Processi e dinamiche culturali è stata una rivista italiana di antropologia pubblicata da Enzo Colamartini, editore Cisu di Roma, dal 1994 al 2003. Essa ha prodotto complessivamente dieci volumi monografici ed è stata diretta per i primi cinque numeri da Mariano Pavanello, per i successivi da Flavia G. Cuturi. La redazione iniziale era così composta: Flavia G. Cuturi, Berardino Palumbo, Mariano Pavanello, Leonardo Piasere, Giovanni Pizza, Fabio Viti. Variabile nel corso degli anni, la rivista ha visto aggiungersi alla redazione Daniela Berti e Pier Paolo Viazzo, nonché i corrispondenti dall’estero Daniela Merolla, Carlo Severi e il compianto Valerio Valeri.

[3] La ricerca La costruzione socioculturale di un prodotto tipico locale: la “salama da sugo” ferrarese fu svolta nel 1997 all’interno di un programma internazionale coordinato dal CNRS di Lione, in Francia, nelle figure dei proff. P. Marchenay e L. Berard, intitolato Les produits de terroir en Europe du Sud.

[4] Certo i più radicali tra noi o anche quelli più scettici diranno che è la stessa cosa, poiché “umano” è un derivato di “uomo”.

[5] Sul tema del rapporto tra genere e linguaggio vi è un’amplissima bibliografia e dal 2007 una rivista pubblicata da Equinox Publishing.

[6] Cfr. Sant’Agostino. 2006. Le confessioni, nella edizione del 2006 BUR - Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, con introduzione di C. Mohrmann.

[7] Cfr. Lucrezio. 1994. La natura delle cose, testo latino a fronte, nella edizione BUR – Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, con introduzione di G. B. Conte, commento di I. Dionigi e traduzione di L. Canali.

[8] Nel suo testo The Anthropology of Time, passando in rassegna alcune antropologie del Novecento, Alfred Gell (1992: 3-14) faceva riferimento al passo di un capitolo tratto dall’opera Les Formes élémentaires de la vie religieuse(1912) nel quale Émile Durkheim si chiedeva cosa sarebbe stato il tempo senza le nostre partizioni, divisioni, misurazioni.

[9] L. Piasere, da presidente uscente della SIAA, allora partecipò a quella sessione, attento a tutto ciò che dicevamo. Poi fu grazie a B. Riccio, che ne traemmo un volume speciale della rivista Antropologia Pubblica (Pizza, Ravenda 2016).

[10] Cfr. Filippini 2017 (in particolare il capitolo 6).

[11] Sulla filosofia marxista del tempo cfr. gli studi contenuti nel volume Tempora multa. Il governo del tempo, di Basso, L., Bracaletti, S., Farnesi Camellone, M., Frosini, F., Illuminati, A., Marcucci, N., Morfino, V., Pinzolo, L., Thomas, P.D., Tomba, M. Milano. Mimesis.

[12] Cfr. nell’ampia bibliografia il saggio di Postill, J. 2002. Clock and Calendar Time: A Missing Anthropological Problem. Time & Society, 11(2-3): 251-270.

[13] Modern Times (trad it. Tempi moderni), USA, 1936.

[14] Si tratta del libro di Lo Piparo L’enigma del quaderno. La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci. (Lo Piparo 2013), sul quale cfr. D’Orsi 2014.

[15] Sul metodo congetturale e il “paradigma indiziario”, cfr. il classico testo dello storico Carlo Ginzburg (1986).