Tempo concesso e tempo negato nella relazione medico-paziente

Un’applicazione del sapere antropologico alla pratica del consenso informato

Chiara Quagliariello

Laboratorio dei Diritti Fondamentali, Torino

Abstract. This article analyses the multiple factors that determine the amount of time consecrated by doctors to inform the patients on the diagnostic and therapeutic procedures that should be performed on their body. The first part of the essay examines the division of time within the hospital, which appears often inadequate to establish a dialogue with patients. In the second part of the essay I highlight how the “lack of time” discourse proposed by doctors only partially corresponds to the amount of time available for the information and the listening of patients. As I substantiate in my contribution, a wide range of factors, not always connected with the material restrictions imposed by the medical patterns of work, contributes in the managing of time dedicated to the information process. The power relations within the medical staff, as the social characteristics of the patients (age, instruction, social identity, geographical origin), influence the information process and, more generally, the “quality” of patient-doctor interactions. In the third part of the article, I focus on how patients are increasingly deploying strategies to gather information about their illnesses and therapies on their own. Such gathering of information takes place primarily within the family group, through the Internet and through the exchanges with other patients in the hospital. My contribution, inspired by a socio-anthropological approach, intends to stress the main issues affecting the informed consent system, a realm often studied from a legal perspective only. As I will argue, the deployment of anthropological concepts and methods within medical institutions allows to effectively reveal many of the limits in the doctor-patient interactions and the informed consent system. Finally, my article proposes a meta-disciplinary reflection discussing the ethical conditions of ethnographic research and the possible roles that anthropological knowledge might play within medical institutions.

Keywords: informed consent; medical anthropology; ethnography; social inequalities; health democracy.

Nota introduttiva

Le riflessioni proposte in questo articolo sono il risultato di una ricerca etnografica realizzata presso la Città della Salute e della Scienza di Torino nel periodo compreso tra aprile 2014 e marzo 2015per conto del Laboratorio dei Diritti Fondamentali di Torino[1] focalizzata sul possibile scarto tra la realtà e le categorie giuridiche relative al consenso informato in ambito ospedaliero. La particolarità di questo studio, che si situa nell’ambito dell’antropologia medica applicata, è illustrata dalla sua stessa genesi. Come accade in molti casi negli studi di antropologia applicata, si è trattato di uno studio affidato da terzi ad un antropologo. Insieme alla restituzione di alcuni risultati della ricerca, questo articolo si propone di riflettere sulle condizioni della ricerca etnografica, le potenzialità del sapere antropologico e il possibile ruolo dell’antropologia medica all’interno dello spazio dell’istituzione ospedaliera.

Inquadramento teorico

Introdotto in Italia all’inizio degli anni 2000, sulla scia di quanto avvenuto negli stessi anni in altri paesi d’Europa, il consenso informato è una pratica che vede spesso contrapposte due istituzioni alleate nella storia della medicina e della società occidentale: il sapere medico e il potere giuridico (Foucault 1996; 1978). Eppure pochi sono stati finora gli studi volti ad esplorare la portata innovatrice di questa pratica in cui ad essere ridefiniti non sono soltanto i rapporti tra il mondo medico e il potere giuridico, ma anche e soprattutto i termini della relazione medico-paziente. Come sostenuto da Sylvie Fainzang (2006), l’introduzione del consenso informato rappresenta l’ultima tappa del percorso di superamento del modello paternalista nella medicina moderna. Secondo questo modello, rimasto indiscusso fino agli anni 1980, al paziente non era chiesto nient’altro che affidarsi al sapere del personale medico. Come evidenziato anche da altri antropologi medici, spesso vicini ad un approccio teorico di stampo foucaultiano (Fassin 1996), di fronte al sapere medico il paziente perdeva qualsiasi tipo di potere sulla gestione del proprio corpo, della propria salute e della propria vita. Questa era rimessa in tutti e tre i casi nelle mani degli esperti. Più che la critica ad un modello basato su una forte asimmetria di ruoli medico-paziente, in questa sede ci interessa analizzare la sua progressiva sostituzione con un altro modello di cura, ufficialmente introdotto in Europa negli anni 2000[2]. Diversi studi in ambito statunitense (Charles et al. 1999) sottolineano come questo nuovo modello di cura, anche detto orizzontale o co-partecipato, abbia ridefinito il ruolo del paziente nella relazione terapeutica, che non risulta più un semplice destinatario oggetto delle cure mediche, ma co-protagonista delle scelte che riguardano il proprio corpo, la propria salute e la propria vita. In questo modello non sta più al medico decidere al posto del paziente ma è il paziente che decide cosa è meglio per sé insieme al medico. La valutazione condivisa del percorso di cura è un elemento indispensabile della cosiddetta alleanza terapeutica. È così che il paziente entra a far parte del processo di cura e si assiste all’affermazione di nuovi concetti-chiave – quale la libertà di scelta da parte del paziente – che ribaltano la vecchia idea di delega al personale medico (Edozien 2015).

L’introduzione del modello co-partecipato va di pari passo ad una trasformazione concreta della medicina moderna. Per non essere dei principî che rimangono circoscritti al campo delle idee, la costruzione di un’alleanza terapeutica e la difesa della libertà di scelta richiedono un effettivo cambiamento della prassi ospedaliera. Tale processo di cambiamento, affidato in un primo momento alla sensibilità e al libero comportamento dei singoli operatori sanitari, è inquadrato al giorno d’oggi dalla pratica del consenso informato, dove emergono in maniera esplicita i nuovi diritti dei pazienti, e i nuovi doveri per il personale medico. Tra questi, il diritto ad essere informati sul decorso della malattia, sulle diverse possibilità di cura e sui rischi legati ai possibili trattamenti, per i primi; il dovere di fornire informazioni chiare, complete ed esaustive sui diversi trattamenti, i rischi e la malattia, per i secondi. È solo dopo aver ricevuto un’adeguata informazione da parte del personale medico che il paziente può fare la propria scelta: offrire (o meno) il proprio consenso al trattamento proposto. Ciò che emerge, dunque, è una nuova importanza del processo informativo nel rapporto medico-paziente (Coulter et al. 1999; Mol 2008). Laddove il principale elemento della relazione di cura erano gli interventi sul corpo, al giorno d’oggi una crescente attenzione è dedicata al processo che conduce alla realizzazione degli atti medico-sanitari. Quest’inversione di tendenza è testimoniata dalle recenti modifiche alla normativa italiana sul consenso informato. In essa si stabilisce la possibilità, per il paziente, di denunciare la mancata informazione da parte del personale medico anche nel caso in cui l’intervento o l’esame proposto sia andato a buon fine[3]. Tale possibilità conferma l’idea che la decisione del paziente sia indissociabile dallo scambio avuto in precedenza con il personale medico. In mancanza di un confronto medico-paziente, il consenso offerto da quest’ultimo – sia esso scritto o orale – non può dirsi informato (Graziadei 2011). Da qui, l’attuale centralità della dimensione comunicativa nell’agire medico: una professione in cui la spiegazione delle cure proposte ai pazienti precede la loro esecuzione sul corpo.

Fino a che punto questi principî, sostenuti a livello legislativo e sottoscritti sul piano deontologico dalla professione medica[4], hanno prodotto un effettivo cambiamento delle forme di esercizio della medicina moderna? Il riconoscimento del diritto all’informazione del paziente si è tradotto in un maggiore dialogo medico-paziente? Il consenso alle cure offerto dal paziente prima di qualsiasi trattamento diagnostico o terapeutico è davvero informato? A queste domande si è cercato di rispondere tramite il percorso di ricerca realizzato all’interno della Città della Salute e della Scienza di Torino.

Materiali e metodi

Come anticipato nella nota introduttiva, il progetto di ricerca nasce dall’idea del Laboratorio dei Diritti Fondamentali di realizzare uno studio sulla realtà ospedaliera per comprendere le sfide poste dalla pratica del consenso informato nella realtà ospedaliera. La realizzazione della ricerca non sarebbe potuta avvenire senza l’aiuto della Direzione Sanitaria della Città della Salute e della Scienza, il cui coinvolgimento non si è limitato ad un ruolo amministrativo, o di aiuto all’accesso al campo. L’interesse nei confronti della ricerca da parte dei direttori generali si è tradotto, in breve tempo, in un ripensamento degli obiettivi proposti dal Laboratorio dei Diritti Fondamentali. La Direzione Sanitaria ci ha richiesto infatti uno studio per la realtà ospedaliera e così gli obiettivi della ricerca si sono così moltiplicati, insieme ai compiti assegnati alla figura dell’antropologo sollecitato a fornire indicazioni su come migliorare la raccolta del consenso informato. La considerazione del nostro progetto di ricerca come un’occasione utile per l’universo ospedaliero si è tradotta nella proposta di effettuare uno studio ad ampio raggio in cui mettere a confronto quante più aree e settori possibili della medicina ospedaliera.

La scelta dei reparti in cui svolgere la ricerca è avvenuta, in buona parte, insieme ai direttori sanitari, interessati a coinvolgere tutti e quattro i presidi ospedalieri che compongono la Città della Salute e della Scienza di Torino: l’ospedale per adulti Le Molinette, l’ospedale ostetrico ginecologico Sant’Anna, l’ospedale pediatrico Regina Margherita e il Centro Traumatologico Ortopedico (CTO). La selezione dei reparti è avvenuta in base a due criteri contrapposti e complementari tra loro: l’omogeneità delle cure e l’eterogeneità dei pazienti, da un lato, ovvero lo studio dello stesso percorso di cura o intervento per diverse tipologie di pazienti, ad esempio neonati, adulti e bambini; l’eterogeneità delle cure e l’omogeneità dei pazienti, dall’altro, ovvero lo studio della differenziazione interna ai percorsi di cura destinati ad una specifica categoria di pazienti, quali le cure destinate alle donne nell’area ostetrico-ginecologica (Press, Browner 1997; Dixon-Woods et al. 2006; Manaï et al 2010) o le cure destinate ai bambini in area pediatrica (Alderson 1993; Crocetta 2014). Ai reparti selezionati insieme alla direzione sanitaria come campione rappresentativo, occorre poi aggiungere quelli che hanno scelto di entrare a far parte della ricerca, proponendosi come possibili terreni di studio per l’antropologo. Il risultato di questo processo di selezione dall’alto e dal basso, è stato il coinvolgimento di oltre venti reparti. Tra questi: i reparti di medicina interna, radiologia, oncologia, ematologia, chirurgia di elezione, chirurgia dei trapianti, terapia intensiva e rianimazione nei due ospedali Le Molinette e Regina Margherita; il centro di ecografie e diagnosi prenatali, il centro di procreazione medicalmente assistita, i reparti di ostetricia e ginecologia nell’ospedale Sant’Anna; il pronto soccorso del Centro Traumatologico Ortopedico. Nonostante l’alto numero di reparti coinvolti nella ricerca si è trattato principalmente di uno studio qualitativo. Le metodologie impiegate per lo svolgimento della ricerca sono state quelle proprie della disciplina antropologica, primo tra tutti il metodo etnografico, quale l’assidua frequentazione dei reparti, rispettivamente analizzati uno in successione all’altro o insieme, in base agli itinerari terapeutici dei pazienti. Il principale strumento di ricerca è stata l’osservazione partecipante e l’affiancamento al personale ospedaliero (medici, infermieri, ostetriche) nei momenti destinati alla trasmissione delle informazioni e alla raccolta del consenso informato. I luoghi e i momenti scelti di volta in volta per lo studio delle interazioni medico-paziente sono stati: gli ambulatori per le prime visite, gli ambulatori per le visite di controllo (follow-up), i colloqui informativi durante l’orario di visita dei parenti e il giro di visite del personale medico all’interno dei reparti. L’altro strumento metodologico è stato quello delle interviste semi-strutturate; durante lo svolgimento della ricerca ne sono state realizzate in tutto 130, di cui metà (70) agli operatori sanitari – personale medico, ostetrico ed infermieristico, assistenti sociali, mediatori culturali e psicologi – e metà (60) a pazienti e ai familiari dei pazienti incontrati negli ambulatori e nei reparti[5]. Tra i diversi temi esplorati nel corso della ricerca, questo articolo si concentrerà sulla questione del tempo destinato dai professionisti ospedalieri all’informazione dei pazienti. La tesi sostenuta dalla maggior parte degli operatori sanitari incontrati all’interno dei reparti è quella della mancanza di tempo: non sarebbe possibile fornire le informazioni necessarie ai pazienti poiché non si avrebbe il tempo per farlo. Nell’opinione della maggioranza degli operatori sanitari, per informare correttamente i pazienti, bisognerebbe dedicarsi unicamente a questa attività. Ciò che servirebbe, affermano, è il doppio del tempo a disposizione. A partire da questo discorso condiviso dalla maggior parte degli operatori sanitari, la domanda che farà da filo conduttore a questo articolo sarà: il tempo che manca per la giusta informazione è legato ad altri elementi costitutivi della relazione medico-paziente? Come si mostrerà attraverso lo studio dei molti e diversi fattori intorno ai quali ruota la quantità di tempo destinata all’informazione dei pazienti, questa domanda non ha una risposta univoca. Nella prima parte dell’articolo, si esaminerà la particolare scansione del tempo ospedaliero. Un tempo che scorre ad alta velocità e che appare spesso insufficiente per il dialogo con i pazienti. Nella seconda parte, si prenderanno in considerazione altri aspetti del fenomeno i quali evidenziano, all’opposto, come il tempo per l’informazione dei pazienti non manchi allo stesso modo a tutti gli operatori sanitari e per tutte le categorie di pazienti. Nella terza parte dell’articolo, l’attenzione si sposterà infine sulla relativa centralità dello scambio medico-paziente nel percorso informativo e sulle strategie messe in atto, in prima persona, da parte dei pazienti per la raccolta di altre informazioni sulla malattia e i possibili percorsi di cura.

Velocità ed efficienza: la scansione del tempo ospedaliero.

Partendo dall’analisi della scansione del tempo ospedaliero, la recente trasformazione degli ospedali in aziende chiamate a rispondere a specifici obiettivi di bilancio è il primo dei fattori che incide negativamente sulla durata dei colloqui destinati all’informazione dei pazienti. Come evidenziato soprattutto dagli studi di sociologia della salute (Marzano 2006; Adam, Herzlich 1994), la logica dominante al giorno d’oggi nello spazio ospedaliero è una logica aziendale basata sui criteri della produttività e dell’efficienza. Il mercato sanitario, anche nel settore pubblico, si presenta come un mercato altamente competitivo, orientato all’offerta di un certo numero di prestazioni al giorno. È sulla base di questi numeri che dipendono, infatti, i finanziamenti concessi dalle regioni e dallo Stato alle singole aziende sanitarie locali (ASL).

Come emerso nel corso della ricerca, questi processi hanno un impatto sui ritmi del lavoro ospedaliero. Il raggiungimento dei cosiddetti “obiettivi di reparto” richiede la costante esecuzione dei propri compiti in maniera veloce, secondo l’idea che più si fa e meglio è. Secondo la logica dell’ospedale-azienda, maggiori saranno i traguardi raggiunti dal personale sanitario, più il reparto sarà valutato in maniera positiva all’interno dell’azienda, più l’azienda acquisterà valore sul mercato territoriale. Allo stesso modo, la crescente massificazione del mercato ospedaliero ha trasformato le prestazioni mediche in un vero sistema di produzione ad alta velocità. Fatta eccezione dei piccoli centri ospedalieri – spesso vittime delle politiche di accorpamento regionali e nazionali – gli standard di produttività richiesti agli operatori sanitari li vedono impegnati in una medicina dai grandi numeri, il cui funzionamento ricorda quello di una catena di montaggio. Ad una visita ambulatoriale ne segue immediatamente un’altra, senza interruzioni o pause, fino a quando non si è esaurito il numero di pazienti. Ugualmente, in un sistema basato sull’incessante susseguirsi di pazienti, alle visite del primo turno (mattina) seguiranno quelle del turno successivo (pomeriggio) in cui ci saranno altrettanti pazienti da visitare. La necessità di andare “dritto al sodo” è sottolineata così da uno dei medici degli ambulatori di prima visita del servizio di onco-ematologia, dove sono accolti ogni giorno tra i sette e i dieci pazienti per turno: «Non si può sforare. Per ogni paziente abbiamo un tot. di tempo, se ci fermiamo a parlare di più, se ci perdiamo in chiacchiere, tutto il sistema si rallenta. Il ritardo accumulato in una visita non può essere smaltito perché i pazienti sono tanti. Per riuscire a stare nei tempi bisogna fare in fretta»[6]. Come emerge da questa testimonianza, in un sistema in cui il personale medico è chiamato ad adeguarsi ai ritmi di lavoro stabiliti dall’azienda ospedaliera, il numero di pazienti da visitare ogni giorno è spesso sovradimensionato rispetto al tempo richiesto per confrontarsi in maniera approfondita con ognuno di loro. Un altro dei medici intervistati, questa volta del servizio di cardiochirurgia, afferma :

Non c’è molto da scegliere. Non potendo tagliare sulla parte clinica, la parte destinata all’informazione dei pazienti è quella che si sacrifica. Spesso non abbiamo neanche il tempo di spiegare l’operazione, figuriamoci se possiamo metterci a descrivere tutti i rischi o gli effetti collaterali dei farmaci che utilizzeremo in sala operatoria[7]!

La riduzione ai minimi termini delle informazioni trasmesse ai pazienti, spesso fornite in uno o due minuti alla fine della visita medica, non può essere separata dunque dalle modalità di funzionamento o, per riprendere le parole di Mary Douglas (1990), dalla maniera in cui pensa l’istituzione ospedaliera: un organismo caratterizzato da un sistema di pensiero numerico, o principalmente basato sull’importanza delle cifre. L’alto numero di pazienti e la velocità dei ritmi ospedalieri non sono gli unici fattori che spiegano la frequente opposizione tra il tempo dedicato e il tempo richiesto per l’informazione dei pazienti. Come sottolineato dai risultati della ricerca, anche nei reparti in cui il numero di pazienti è meno elevato, il tempo per l’informazione risulta essere comunque poco. Ugualmente, la tendenza dei medici a diversificare la durata dei colloqui, impegnandosi a destinare una maggiore quantità di tempo agli incontri con i pazienti che presentano delle situazioni clinicamente più importanti, risolve solo in parte il problema. Un esempio è dato dai colloqui informativi con i pazienti destinati a ricevere un trapianto di organi, ai quali occorre spiegare le diverse fasi dell’operazione, ma anche il percorso di preparazione per la ricezione del nuovo organo e i rischi legati alla fase post-operatoria. Come evidenziato dai responsabili degli ambulatori del centro trapianti, se si sceglie di dedicare una maggiore quantità di tempo – solitamente non più di due ore – alle comunicazioni che riguardano gli interventi chirurgici più articolati, è perché le informazioni da trasmettere al paziente sono più numerose di quelle da dare per gli interventi più banali, come dicono, quale una semplice appendicite. Di conseguenza, nonostante la maggiore durata dei colloqui informativi, il tempo a disposizione per spiegare in maniera approfondita i trattamenti proposti, e le conseguenze che ne derivano, è comunque poco (Corrigan 2003). La scarsità di tempo denunciata dal personale medico è legata in particolare alla difficoltà a riassumere in poche battute delle operazioni spesso difficili da un punto di vista tecnico, i cui effetti possono cambiare per sempre la vita dei pazienti e dei loro familiari (Mitola 2013). Un discorso simile è applicabile, in termini più generali, a tutte quelle situazioni in cui la raccolta del consenso richiede la firma del paziente[8]. Ancora una volta, il tempo richiesto per la lettura dei moduli informativi – i quali si compongono solitamente di diverse pagine fino ad arrivare ad un intero dossier per i trattamenti e le cure sperimentali (Felt et al. 2009) – risulta spesso incompatibile con la quantità di tempo prevista e destinata a tale scopo. Il linguaggio che li caratterizza si presenta, d’altra parte, come un linguaggio tecnico, non sempre immediatamente accessibile per i non addetti al lavoro. Di conseguenza, la lettura, la comprensione e la verifica dell’avvenuta comprensione dei moduli – secondo quanto previsto dalla normativa vigente sul consenso informato – appaiono tutte attività che necessitano di una quantità di tempo superiore a quella che il personale medico può dedicare ad ogni singolo paziente. Di fronte a questo dato, diverse sono le soluzioni adottate dal personale ospedaliero. Tra queste troviamo: la banalizzazione della firma – o come dicono in molti «si tratta del riassunto di quello che ci siamo detti» – o ancora, la proposta retorica di tornare nuovamente con il modulo firmato rimandando ad un altro momento l’inizio del trattamento proposto. In tutti i colloqui a cui si è avuto modo di assistere nel corso di un anno, la firma del consenso è avvenuta al momento, senza alcun tipo di lettura dei moduli informativi da parte del paziente o di chi ne fa le veci[9]. Emblematica a questo proposito l’interazione che segue tra un medico del reparto di oftalmologia pediatrica e la madre di un bambino ricoverato per un problema all’occhio, alla quale viene chiesta la firma del consenso per l’intervento chirurgico previsto per il giorno dopo[10]:

Medico: Questo foglio serve a dimostrare che ci siamo parlati, che io ho fatto finta di spiegarle tutti i dettagli dell’operazione e che lei ha fatto finta di aver capito tutto. Ha delle domande? Madre: (silenzio) Medico: Ecco, vuol dire che ha capito tutto. Può firmare senza problemi.

Questa interazione, scelta tra le altre per la sua accezione cinica, sintetizza quello che viene descritto da molti medici come il lato reale di un sistema ideale in cui non si considerano le possibilità di tempo in cui i professionisti sanitari operano. La mancanza di tempo per l’informazione dei pazienti trova un altro esempio significativo in tutte quelle situazioni in cui i pazienti vengono ricoverati d’urgenza in seguito ad un incidente o per l’insorgenza di un malessere improvviso, o anche in tutti quei casi in cui emergono delle complicazioni durante lo svolgimento di un’operazione chirurgica o di un test diagnostico. In tutte queste situazioni, ogni minuto che passa può essere determinante per la vita del paziente per cui l’attività medica prende le caratteristiche di una corsa contro il tempo in cui ciò che occorre fare per la sopravvivenza del paziente viene prima di ciò che bisognerebbe spiegare per renderlo informato (Graziadei 2011). In base a quanto stabilito dal protocollo d’urgenza del pronto soccorso grandi traumi – un luogo in cui vengono accolti tutti quei pazienti che hanno subito un incidente a livello fisico – la finestra di tempo prevista per la realizzazione degli accertamenti necessari a decidere se procedere (o meno) ad un’operazione chirurgica corrisponde a non oltre 15 minuti. In quest’arco di tempo occorrerà eseguire un’eco- radiografia di tutte le parti del corpo del paziente, da esaminare letteralmente dalla testa ai piedi, oltre che procedere ad un prelievo di sangue, all’idratazione tramite flebo, e al posizionamento di un accesso venoso esterno. Gli aspetti finora esaminati evidenziano tutti, da diverse angolature, la corrispondenza tra la quantità di tempo destinata all’informazione dei pazienti e il funzionamento della macchina ospedaliera. Una realtà in cui il comportamento dei professionisti è legato ad obiettivi e regole basati innanzitutto sui principi dell’efficienza e dell’efficacia delle cure mediche.

Lo specchio del tempo o gli altri fattori in gioco

Nella quantità di tempo destinata all’informazione dei pazienti ci sono, tuttavia, altri fattori in gioco. Il tempo consacrato all’ascolto e al dialogo con i pazienti appare, a questo proposito, come uno specchio che riflette e in cui si riflettono altri elementi costitutivi della relazione medico-paziente. Per brevità di analisi, questi verranno suddivisi in due macro-categorie: le dinamiche interne al personale ospedaliero e le divergenze interne all’universo dei pazienti.

Le dinamiche interne al personale ospedaliero

La mancanza di tempo per l’informazione dei pazienti è un fenomeno che non investe allo stesso modo tutti gli operatori sanitari. Il tempo impiegato per i colloqui e la raccolta del consenso informato varia soprattutto a seconda della posizione occupata all’interno della gerarchia ospedaliera (Carricaburu, Menoret 2004). In particolare, più alta è la posizione che si occupa nella gerarchia, minore è il tempo concesso all’informazione dei pazienti. La tendenza condivisa, in effetti, è la delega verso il basso di questo tipo di attività. In base a quanto è stato possibile osservare nel corso della ricerca, tale andamento non trova una spiegazione nella maggiore quantità di tempo a disposizione per gli operatori sanitari che si trovano nelle posizioni più basse della gerarchia. La ragione sta soprattutto nella differente valorizzazione dei ruoli assegnati ai diversi professionisti ospedalieri. Come evidenziato da molti dei medici intervistati, il tempo di cui dispongono i chirurghi è considerato più prezioso di quello degli anestesisti, a sua volta giudicato più prezioso di quello degli internisti, e così via. Il risultato di questa gerarchizzazione verticale del tempo è il frequente trasferimento dell’attività informativa dai chirurghi agli anestesisti, dagli anestesisti agli internisti fino alla comune delega agli infermieri, quali figure storicamente votate a fare da tramite tra il personale medico e l’universo dei pazienti. Questa tendenza, rappresentativa delle asimmetrie professionali e dei rapporti di forza esistenti all’interno della realtà ospedaliera, si traduce in due situazioni ricorrenti e, per un certo verso, paradossali. Da una parte coloro che informano non sono coloro che eseguono i trattamenti proposti ai pazienti, diversamente da quanto previsto dalla normativa sul consenso informato. Dall’altra parte, la raccolta del consenso informato esclude al momento della firma la presenza degli infermieri che si sono impegnati nella costruzione di un dialogo con i pazienti, assegnando solo al personale medico la responsabilità delle cure. In entrambi i casi, ciò che prevale è un’opposizione tra l’azione e la relazione terapeutica, quali ambiti complementari rispettivamente assegnati, da sempre, a due diverse figure professionali.

La contrapposizione tra la dimensione operativa e la dimensione relazionale dell’assistenza ospedaliera attraversa il corpo medico non solo in senso verticale, ma anche in maniera orizzontale. Se è vero che, tra le diverse figure professionali, sono soprattutto gli infermieri che passano più tempo a parlare con i pazienti, non è possibile affermare che il comportamento condiviso tanto da parte degli infermieri quanto all’interno del corpo medico sia lo stesso per tutti. La necessità di non cadere in una rigida opposizione care vs cure è sottolineata da tutti quei casi in cui relazione di cura (care) portata avanti dagli infermieri e l’assistenza clinica ( cure) garantita dai medici risultano invertite. In diverse situazioni, infatti, gli infermieri si limitano ad eseguire i trattamenti sul corpo dei pazienti senza investirsi in lavoro relazionale, così come fanno all’opposto i medici. Emblematiche a questo proposito le due testimonianze che seguono, la prima di un infermiere, la seconda di un medico, membri dello stesso reparto di medicina interna:

Infermiere: Di pazienti da curare ogni giorno ce ne sono tanti. Tra somministrare i farmaci, cambiare le flebo, fare i prelievi, controllare la pressione, eccetera, il tempo che ci rimane per chiacchierare con loro è davvero poco. Questo fatto che i medici delegano a noi il dialogo con i pazienti, ci costringe ad un doppio lavoro che non abbiamo sempre voglia o possibilità di fare. Molto dipende dalla sensibilità individuale, dalla maniera in cui ognuno vive la propria professione[11].

Medico: Molti dei miei colleghi non si fermano a parlare con i pazienti, lasciano che siano gli infermieri ad informarli sulla terapia. L’investimento nell’informazione è vissuta come una perdita di tempo o qualcosa che dobbiamo fare solo per non correre rischi a livello legale. Personalmente, mi sembra giusto costruire un dialogo con i pazienti. Per me la medicina è una scienza umana, per cui cerco sempre di relazionarmi con i pazienti prima come persone e poi come malati[12].

Come emerge da queste testimonianze, la tendenza a destinare più o meno tempo al dialogo con i pazienti è legata solo in parte alla posizione che si occupa nella gerarchia ospedaliera. Molto dipende dalla filosofia professionale condivisa, e difesa, dal singolo professionista (Hoerni, Bénézech 2010). È così che un medico anestesista può spendere più tempo di un infermiere ad ascoltare ed informare il paziente o può essere il chirurgo stesso a passare più tempo degli altri ad informare il paziente. La diversa disponibilità al dialogo con i pazienti è strettamente legata dunque all’eterogeneità dei profili all’interno del mondo ospedaliero. A questo proposito, un dato interessante è che, nella maggior parte dei reparti esaminati, coloro che si impegnano a trovare il tempo per l’informazione e l’ascolto dei pazienti presentano quasi sempre un percorso professionale diverso dalla classica carriera biomedica. Alcuni di questi professionisti hanno scelto di affiancare agli studi di medicina degli studi in filosofia. Altri hanno seguito dei corsi di formazione o sono master in bioetica. Altri ancora fanno parte di associazioni o organizzazioni non governative impegnate nella realizzazione di progetti di sviluppo in ospedali situati nel continente africano, dove hanno vissuto per diverso tempo. L’insieme di queste esperienze altre dal percorso biomedico standard permette di sottolineare la dimensione politica della scelta di non ridurre l’interazione con i pazienti alle sole cure sul corpo proponendo, all’opposto, un modello di medicina umanitaria o umanista, incentrata sulla persona nella sua interezza.

La maggiore o minore quantità di tempo dedicata all’informazione dei pazienti appare ugualmente espressione del bisogno condiviso da buona parte del personale ospedaliero di mantenere un distacco emotivo dalle notizie da trasmettere ai pazienti. Questa esigenza si traduce, in molti casi, nella scelta di ridurre ai minimi termini gli scambi che riguardano tutte quelle informazioni particolarmente difficili da gestire, sul piano umano e interpersonale. Alcuni esempi sono dati dalle informazioni relative alla morte perinatale del feto durante i primi mesi di gravidanza o all’insorgenza di una malformazione fetale a gravidanza inoltrata. La stessa difficoltà emerge nelle comunicazioni relative al passaggio dalle cure attive alle cure palliative nel percorso oncologico; o ancora, nelle domande relative al prelievo di organi e tessuti in seguito all’avvenuta morte celebrale del paziente. Come evidenziato da alcuni dei medici intervistati, maggiore è l’impatto emotivo delle notizie, più le informazioni vanno diluite nel corso del tempo per evitare di traumatizzare il paziente e/o i suoi familiari. Dall’altro lato, più tempo si passa a discutere con i pazienti e/o i familiari dei pazienti, più si rischia di rimanere coinvolti dalla situazione. Come sottolineato da diversi operatori del reparto di terapia intensiva, dedicare poco tempo al dialogo medico-paziente (parente) aiuta ad oggettivare la situazione, e a mantenere una posizione di distacco dalle cattive notizie. Tale bisogno di distanziazione è ugualmente sottolineato dal frequente ricorso ad un protocollo comunicativo fatto di termini tecnici e frasi di routine, applicato in modo uguale a tutti i pazienti/parenti. Un altro dei rimedi possibili è il ricorso alla figura dello psicologo – in molti casi una donna – presente a fianco del personale medico durante la comunicazione delle cattive notizie e immediatamente presentata al paziente e/o ai suoi familiari, come figura di riferimento su cui poter contare durante il ricovero ospedaliero e in seguito alle dimissioni (o decesso) del paziente. Infine, fornire poche informazioni al paziente e ai suoi familiari può rappresentare un modo per proteggersi non tanto a livello emotivo, ma soprattutto a livello legale. La scelta di alcuni professionisti di orientarsi verso una medicina difensiva ha un impatto sulla quantificazione del tempo destinato all’informazione. Come ammesso da diversi medici, minore è il tempo impiegato per l’informazione, minore sarà la possibilità di ricevere delle domande a cui non si ha, o non si può avere, sempre una risposta esaustiva. Un esempio dell’impotente onnipotenza del sapere medico e delle moderne tecnologie su cui questo si basa è dato dai cosiddetti nuovi test di screening prenatali. Paradossalmente, la capacità di questi test di escludere con (quasi) assoluta certezza la presenza delle anomalie genetiche più diffuse in ambito prenatale – trisomia 16, 18 e 21 – non elimina l’impossibilità di individuare le anomalie più rare, spesso poco conosciute dallo stesso personale medico, il quale, nonostante l’impiego dei test di ultima generazione, si sente comunque esposto a dei rischi medico-legali. L’insieme di queste tendenze evidenzia dunque come il funzionamento della macchina ospedaliera sia soltanto uno degli elementi che spiega, e da cui dipende, la quantità di tempo utilizzata dal personale medico per l’informazione dei pazienti. I rapporti di forza, le filosofie e i bisogni condivisi dai diversi professionisti sanitari svolgono un ruolo altrettanto importante.

Le disuguaglianze interne all’universo dei pazienti

L’ineguale distribuzione del tempo e delle informazioni fornite da parte del personale ospedaliero va ugualmente analizzata alla luce delle molteplici asimmetrie che attraversano l’universo dei pazienti. Come suggerito dalle teorie di Pierre Aïach (2010) e Didier Fassin (2009), il tempo destinato all’informazione dei pazienti può essere descritto, a questo proposito, come il risultato di altre disuguaglianze sociali. Il primo dei fattori correlati alla maggiore o minore quantità di tempo dedicata al processo informativo è il cosiddetto “capitale sociale” dei pazienti. Le reti di conoscenza, la prossimità e i legami di parentela con il personale ospedaliero sono tutti elementi che giocano a favore della quantità di tempo e della qualità del tempo impiegato per l’informazione dei pazienti. I limiti imposti dai ritmi del lavoro ospedaliero conoscono, di fatto, delle eccezioni. Nella maggior parte dei casi, i colleghi, gli amici, i conoscenti e i parenti del personale medico sono coloro a cui si sceglie di dedicare più tempo per il dialogo, spesso trovando per loro dei momenti a parte rispetto a quelli previsti per l’informazione agli altri pazienti. Numerosi sono i medici che scelgono di incontrare ad esempio questi pazienti al di fuori dell’orario delle visite, durante la pausa pranzo, o di sera all’inizio del turno notturno.

Il tempo liberato per l’informazione dei pazienti sembra essere ugualmente legato al capitale economico degli utenti ospedalieri. Come previsto dal funzionamento del sistema sanitario nazionale, in molti reparti convivono, fianco a fianco, due diverse categorie di pazienti: i cosiddetti pazienti dell’ospedale, i quali incontrano il personale sanitario per la prima volta al momento del ricovero, e i cosiddetti pazienti del medico, i quali conoscono già almeno uno dei membri dell’équipe ospedaliera in quanto specialista di riferimento a livello privato (Carricaburu, Menoret 2004). Nella maggior parte dei casi, il tempo dedicato a questa seconda categoria di pazienti è maggiore rispetto a quello concesso alla prima. Interrogati su questa scelta, diversi medici sottolineano come sia più facile portare avanti un dialogo con i pazienti che frequentano da anni i propri ambulatori, e di cui conoscono già la situazione clinica. Esemplare a questo proposito la testimonianza di uno dei ginecologi del reparto gravidanze ad alto rischio:

Molte pazienti scelgono questo reparto per partorire perché sanno che ci sono io. È normale. Mi conoscono già, si fidano di me e non hanno voglia di mettersi nelle mani di un altro ginecologo al momento del parto, specie se si tratta di un cesareo. Da parte mia, cerco di essere quanto più presente al loro fianco, per farle sentire a proprio agio ed offrire loro un ricordo positivo del ricovero ospedaliero[13].

Le parole di questo ginecologo riflettono la tesi condivisa da altri numerosi professionisti dei reparti analizzati: più tempo si passa con i pazienti dell’ospedale, più tempo si sottrae ai propri pazienti, i quali si aspettano di essere trattati con una certa attenzione dal proprio medico di fiducia. Alla pregressa conoscenza medico/paziente si affianca, in molti casi, un altro fattore in gioco, questa volta di natura economica. I pazienti privati rappresentano spesso per il personale medico dei clienti a cui conviene dedicare del tempo per poter continuare ad assisterli al di fuori dello spazio ospedaliero. Lo stesso discorso vale per i pazienti che scelgono di farsi assistere nello spazio ospedaliero attraverso la cosiddetta attività intramoenia (o semi-privata). Rimanendo nel campo della ginecologia, se l’assistenza al parto è gratuita – o meglio presa in carico dal sistema sanitario nazionale – per le donne che partoriscono all’interno dei reparti ospedalieri, i costi dell’assistenza al parto nelle aree ospedaliere – le cosiddette cliniche – destinate all’attività intramoenia ammontano a diverse centinaia di euro. Come per i propri pazienti privati, la tendenza osservata in questi casi è quella di dedicare molto tempo al dialogo e all’informazione dei pazienti-clienti ospedalieri i quali, di fronte agli alti costi dell’assistenza, si aspettano di essere ben accolti dal personale medico. Ciò che emerge dunque in tutti questi casi è un valore commerciale del tempo dedicato all’informazione dei pazienti, quale possibile fonte di guadagno per il personale medico. Un altro elemento determinante è il capitale culturale dei pazienti. In molte situazioni osservate, più il paziente appare istruito, più tempo si dedica all’informazione. All’opposto, meno il paziente appare istruito, meno tempo si dedica all’informazione. Il parere di uno dei medici del servizio di anestesiologia sottolinea questa tendenza ad adeguare la durata dei colloqui alla capacità (reale o presunta) del paziente di comprendere le notizie trasmesse dal personale medico:

Le spiegazioni fornite dal paziente, la maniera di fare e di parlare ci fanno capire subito se siamo di fronte ad una persona capace di ricevere delle informazioni approfondite. È soprattutto sulla base di questo che valuto quanto spingermi nella descrizione dell’anestesia. Se mi rendo conto che il paziente può capire poco di quello che dico, taglio corto e passo al paziente successivo[14].

Come emerso dalle osservazioni svolte all’interno dei reparti, il risultato di questi andamenti è un rafforzamento delle fragilità sociali. Nella maggior parte dei casi, i pazienti che avrebbero bisogno di un maggiore spazio di tempo per ricevere le informazioni mediche sono quelli a cui si danno meno spiegazioni e quelli con cui si passa meno tempo a discutere (Sankar 2004). La valutazione delle capacità intellettuali dei pazienti poggia su diversi fattori. L’età anagrafica dei pazienti è uno di questi. Diversi medici, per esempio, tendono a fornire più informazioni ai pazienti adulti o semi-adulti (tra i 16 e i 70 anni) rispetto ai pazienti anziani (oltre gli 80 anni), per i quali si sceglie spesso di parlare direttamente con i familiari[15]. Maria, 84 anni, ricoverata presso il reparto di medicina interna, sottolinea così la sua percezione del fatto che più i medici pensano che ci sia una difficoltà a comprendere le informazioni, meno tempo dedicano alla comunicazione con i pazienti:

Sono sicura che i medici pensano che non capisco nulla di quello che dicono. Vengono qui e spiegano tutto a mia sorella. Anche quando c’è da firmare qualcosa parlano prima con lei. Quando ero giovane ho lavorato molti anni come infermiera in Sardegna, mia sorella invece è rimasta sempre a casa senza lavorare. Se c’è qualcuno che capisce le spiegazioni dei medici non è lei, ma sono io! Questo però i medici non lo sanno, pensano solo che sono vecchia, per cui è meglio parlare con mia sorella che è più giovane di me[16].

Un altro dei criteri di valutazione è dato dall’origine italiana o straniera. Riguardo ai pazienti stranieri che parlano correntemente l’italiano, l’idea prevalente tra il personale ospedaliero è che questi non capiscano comunque le informazioni mediche. Nell’opinione di molti professionisti, si tratta di pazienti a cui mancano le competenze di base per confrontarsi con il linguaggio medico, da cui la scelta di ridurre ai minimi termini la durata dei colloqui per la raccolta del consenso informato. Pochi sono gli interrogativi sull’effettivo livello di istruzione di questi pazienti. Poche le domande sul livello di familiarità con la pratica del consenso informato spesso inesistente nei loro paesi di origine. Poche le riflessioni su altre possibili concezioni del corpo, della salute e della malattia (Marzano 2004; Quaranta, Ricca 2012). A questo proposito, l’interpretazione del sistematico rifiuto dell’amniocentesi da parte delle pazienti di origine senegalese, descritto dalle ostetriche come un’evidente prova dell’incomprensione di questa pratica da parte delle straniere, è emblematica dello scarto tra la nostra visione della gravidanza e la visione condivisa dalle pazienti senegalesi. Quella che, per l’ostetricia occidentale, è una pratica orientata a ridurre i rischi per il nascituro, appare ai loro occhi come un modo di esporre il bambino a diversi pericoli, primo tra tutti la possibilità di attrarre i cosiddetti dëmm, o stregoni antropofagi, i quali si nutrono dell’acqua del ventre materno o del liquido amniotico (Quagliariello 2014). Nel caso in cui i pazienti stranieri non parlino l’italiano, la comunicazione richiede l’aiuto di altre figure. Che si tratti di parenti, familiari, altri membri della comunità o delle mediatrici culturali presenti (solo) in alcuni orari presso i servizi ospedalieri, il risultato non cambia: al tempo delle spiegazioni si aggiunge il tempo della traduzione, per cui la durata dei colloqui aumenta[17]. Di fronte a questi andamenti, molti sono i professionisti che evidenziano la quantità di tempo sprecata in queste interazioni. Un tempo, come dicono, che potrebbe essere impiegato altrimenti, soprattutto quando le scelte portate avanti dalle pazienti non dipendono dalle spiegazioni offerte dai medici, ma dai valori suggeriti dalla religione e/o dalla cultura di appartenenza. In accordo con questa visione, uno dei medici del servizio di ecografia afferma: «Perché perdere tutto questo tempo a parlare con le donne musulmane? A volte passiamo ore a informarle sui rischi legati alla salute del feto, anche se sappiamo già cosa sceglieranno. Non sarebbe meglio utilizzare questo tempo per informare altre pazienti sugli stessi problemi?»[18]. Come riassunto da queste parole, lontano dall’essere considerato una regola che vale per tutti, il tempo destinato all’informazione è un tempo che si ritiene ben speso o mal speso a seconda della tipologia di pazienti.

Dalla parte dei pazienti.

Fino a che punto dunque il dialogo medico-paziente rappresenta la principale fonte di informazione per i pazienti? La risposta a questa domanda vede contrapposte due diverse visioni: quella del personale ospedaliero e quella offerta da parte dei pazienti. Nel primo caso, fatta eccezione dei pazienti-medici, la rappresentazione condivisa è quella dei pazienti- tabula rasa a cui il personale medico deve fornire ogni informazione sulla malattia. Unica fonte attendibile per il paziente, la parola del medico insegna ed istruisce, fino a rendere consapevoli della propria situazione. In accordo con queste idee, il processo informativo è pensato come uno scambio a direzione unica, dal medico al paziente. Raramente si sceglie di focalizzare l’attenzione su cosa pensano i pazienti della loro malattia (Good 2006). Ancor più raramente si cerca di capire qual è il loro sapere sulla terapia. Nelle testimonianze dei medici, l’impossibilità di fornire tutte le informazioni necessarie nel poco tempo a disposizione è espressione della tendenza a ridurre l’intero processo informativo allo scambio medico-paziente. La prospettiva prevalente tra il personale ospedaliero è, in altre parole, una prospettiva medico-centrata.

Diversamente da questa visione, pochi sono i pazienti che arrivano alla firma del consenso senza alcun tipo di sapere, o senza alcuna informazione preliminare, sulla malattia. La raccolta del consenso informato è, di fatto, un momento non estrapolabile da quanto avviene prima e al fianco dell’incontro medico-paziente. Esclusi coloro che scelgono di non sapere, la maggior parte dei pazienti è alla costante ricerca di informazioni. Tra i percorsi utilizzati per rispondere a questo bisogno conoscitivo, o volontà di sapere, troviamo: gli approfondimenti individuali sulla malattia, quali le ricerche su internet o la lettura di riviste specializzate (Hardey 2001; 2004); il confronto con altri membri del gruppo familiare; il confronto con amici e conoscenti che hanno vissuto altre esperienze di malattia; la socializzazione con altri pazienti all’interno dello spazio ospedaliero. Giacomo, 26 anni, riassume così le tappe del percorso informativo sulla malattia (una leucemia) contro cui sta combattendo da circa un anno:

All’inizio mi sono documentato soprattutto su internet, sui siti di riviste specializzate, ma anche su siti meno specializzati. Dopo qualche mese mi sono iscritto a diversi forum di persone che sono passate per la mia stessa malattia. Le informazioni più importanti però sono state quelle che ho raccolto dal vivo, dalla sorella di un mio amico che ha avuto un problema simile e dai pazienti del reparto che hanno cominciato la terapia nel mio stesso periodo. Sono soprattutto loro che mi hanno aiutato a capire cosa stavo vivendo[19].

Come evidenziato dalle parole di Giacomo, il tempo trascorso in ospedale è uno dei fattori esperienziali che contribuiscono all’acquisizione di conoscenze sulla malattia. Durante le osservazioni svolte nelle sale d’attesa ospedaliere, la tendenza a fare gruppo è emersa tanto tra i pazienti più anziani, quanto tra i nuovi arrivati. I primi contenti di fare da maestri ai nuovi arrivati, i secondi curiosi di apprendere dalle esperienze degli altri. In entrambi i casi, durante il tempo (spesso alcune ore) in cui si aspetta di essere chiamati dal medico si tende a non rimanere in silenzio. L’estratto dell’interazione che segue riflette queste tendenze:

Paziente 1 (nuovo arrivato): «Qualcuno di voi aspetta per la biopsia? E’ la prima volta che vengo». Paziente 2 (anziano del servizio): «Altro che prima volta! Io ne ho già fatte tante. Ti dirò, alla fine sono utili, servono a vedere il livello di penetrazione della malattia nei nostri organi». Paziente 3 (anziano del servizio): «Non servono solo a questo! Aiutano anche i medici a capire come combinare meglio i farmaci per evitare altri danni sul nostro corpo». Paziente 2 (verso paziente 1): «Hai sentito ? Se hai domande chiedi a lui (indicando il paziente 3), è qui da anni e ne sa più dei medici!»[20].

Il confronto tra pari non solo anticipa, ma spesso compensa e sostituisce lo scambio con il personale ospedaliero. In molti casi è attraverso questo confronto che i pazienti ricevono risposta alle domande che non hanno il coraggio di porre al personale medico. In altri casi, è grazie a queste interazioni che si ha accesso alle informazioni volontariamente omesse o trasmesse solo in parte dal personale medico, quali le informazioni relative alle aspettative di vita del malato (Gordon 1991; Abiven 1996; Pizza 2005). A differenza di quanto sostenuto dal personale ospedaliero, lo scambio medico-paziente, dunque, è soltanto uno dei momenti costitutivi del processo informativo. La costruzione di un proprio sapere sulla malattia da parte dei pazienti, così come la scelta di accettare o meno il trattamento proposto, sono ugualmente legati ad altre fonti di informazioni, da cui il personale medico è generalmente escluso.

Conclusioni

Gli andamenti finora descritti evidenziano come la gestione del tempo destinato all’informazione dei pazienti – quale momento cardine per la raccolta del consenso informato – rappresenti un oggetto particolarmente utile per riflettere sulla relazione medico-paziente. Diversi appaiono ancora oggi i limiti del processo informativo assegnato al personale sanitario. Alcuni dipendono dallo stesso funzionamento della macchina ospedaliera. Altri dalle disuguaglianze interne all’universo dei pazienti. Altri ancora dall’idea che il personale medico sia l’unico depositario di un sapere sulla salute e sulla malattia. Alla luce di questi processi, i traguardi posti dalla pratica del consenso informato – quale il definitivo superamento dell’asimmetria medico-paziente, la costruzione di un’alleanza terapeutica e il rafforzamento della cosiddetta democrazia sanitaria (Brocas, Le Coz 2000) – risultano solo in parte raggiunti.

Le riflessioni proposte sottolineano, allo stesso tempo, la ricchezza, oltre che l’utilità della costruzione di un dialogo inter-disciplinare sui temi legati al diritto alla salute. Questa ricerca, nata come uno studio proposto dal Laboratorio dei diritti fondamentali che voleva indagare le pratiche connesse alle norme, evidenzia le opportunità offerte dall’antropologia applicata in campo sanitario. Se da un lato, il sapere antropologico è stato a lungo escluso da terreni di ricerca di altri professionisti – quali i giuristi –, dall’altro, le teorie antropologiche appaiono in grado di fornire delle chiavi di lettura inedite sulle norme e sulle pratiche contemporanee della relazione medico-paziente suggerite dai giuristi. In particolare, le categorie analitiche dell’antropologia medica (Crudo 2004) permettono di allargare lo sguardo su fenomeni spesso analizzati solo da un punto di vista giuridico o medico legale. Come sottolineato in questo articolo, nelle modalità in cui avviene la raccolta del consenso informato ci sono altri fattori in gioco, sui quali appare necessario riflettere in senso socio-antropologico. Al contempo, la possibilità per l’antropologo di svolgere le proprie osservazioni all’interno dello spazio ospedaliero per la realizzazione di ricerche considerate utili da e per lo stesso universo ospedaliero attribuisce una nuova responsabilità, se non un nuovo potere, alla nostra disciplina. La messa in valore e la messa in opera del sapere antropologico all’interno dello spazio ospedaliero permettono di portare avanti il duplice ruolo di sapere critico e di strumento operativo dell’antropologia. Come evidenzia quest’articolo, attraverso la propria metodologia, la ricerca antropologica riesce a far emergere i meccanismi discriminatori in atto all’interno dello spazio ospedaliero. Se il valore della ricerca sul campo ospedaliero consiste nella possibilità di portare alla luce ciò che appare spesso invisibile agli occhi del personale medico, nel nostro caso questa ha permesso di mostrare come i percorsi informativi siano inegualmente distribuiti all’interno dell’universo dei pazienti, in base alle scelte portate avanti dal personale ospedaliero.

Ugualmente, attraverso il proprio sguardo critico, la ricerca antropologica può favorire la de-costruzione degli ideali di uguaglianza promossi dai giuristi, mostrandone i limiti e le contraddizioni interne. Il fatto che i medici siano tenuti ad informare tutti pazienti non solo non garantisce un’informazione uguale per tutti, ma spesso non si traduce neanche in un aumento della possibilità di scelta per i pazienti. Chi decide se procedere o meno ad un certo tipo di terapia sono soprattutto i medici, i quali appaiono al contempo i primi responsabili del come e quanto informare. Infine, attraverso una messa in dialogo delle proprie categorie analitiche e delle scoperte emerse dal campo, il sapere antropologico può contribuire alla proposta di interventi ed azioni pratiche volte a migliorare le norme difese dai giuristi e gli atteggiamenti incorporati dai rappresentanti del mondo ospedaliero. Nel primo caso, proponendo delle soluzioni alternative ai criteri fissati dai giuristi per la raccolta del consenso informato. Tra queste: la ridefinizione dei formati e dei contenuti dei moduli informativi, spesso estremamente complessi per un lettore non esperto di giurisprudenza o di medicina legale, o ancora l’introduzione di altri sistemi di verifica dell’avvenuta comprensione delle informazioni da parte dei pazienti, quale il ricorso a disegni ed immagini. Nel secondo caso, partecipando alla de-costruzione di stereotipi ed immaginari negativi su alcune categorie di pazienti (come i pazienti anziani o stranieri), ma anche evidenziando le difficoltà incontrate da alcuni operatori sanitari nella comunicazione con i pazienti e/o con i familiari, soprattutto quando si tratta della trasmissione di cattive notizie. Tra le proposte avanzate dall’antropologo a partire dalle esigenze del personale ospedaliero troviamo: la moltiplicazione di corsi di formazione sulla comunicazione medico/paziente destinati al personale ospedaliero; la traduzione dei moduli informativi in diverse lingue; l’investimento nel servizio di mediazione linguistica; l’introduzione di altri strumenti della clinica transculturale (Quaranta, Ricca 2012).

Come evidenziano questi elementi, attraverso il proprio bagaglio di competenze pratiche e teoriche, l’antropologia può giocare un ruolo di esplorazione, analisi e riflessione sui bisogni, le preoccupazioni e i limiti dell’universo ospedaliero, ma anche sulle concrete possibilità di applicazione dei principî e delle norme proposti dai giuristi. La ricerca da cui nasce questo articolo testimonia tale possibilità di scambio tra il campo dell’antropologia, il sapere giuridico e l’universo sanitario. La valorizzazione di queste collaborazioni richiede, tuttavia, una serie di passaggi necessari non solo per i professionisti di altri settori disciplinari, sempre più spesso interessati ad entrare in dialogo con la nostra disciplina, ma anche per la stessa antropologia. L’apertura a nuovi ambiti di studio come la mediazione con il ruolo di esperto in questioni sanitarie riconosciuto all’antropologo medico dai rappresentanti del mondo ospedaliero e da altri settori disciplinari sembrano tutte nuove sfide da cogliere per il futuro della nostra disciplina: un sapere troppo spesso considerato privo di riscontri pratici a cui viene chiesto di mettersi alla prova aprendo il proprio sguardo su questioni all’ordine del giorno non solo all’interno dello spazio ospedaliero, ma più in generale all’interno dello spazio pubblico, quali le potenzialità e i limiti della pratica del consenso informato (Hoeyer, Hogle 2014).

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[1] La ricerca viene svolta assieme ad un’altra ricercatrice, giurista di formazione; il rapporto finale verrà pubblicato nella collana di studi di LDF (www.labdf.eu), edita da Il Mulino.

[2] Il modello di cura basato sull’informazione del paziente nasce negli Stati Uniti nel 1957. Questo è discusso in Europa dalla fine degli anni 1980 e riconosciuto come modello di riferimento a livello internazionale dalla Convenzione di Oviedo sui Diritti dell’Uomo e la Biomedicina del 1997. L’introduzione delle leggi sul consenso informato nei diversi paesi d’Europa è legata all’adesione alla convenzione di Oviedo, avvenuta in Italia nel 2001 (DL 145).

[3] La prima sentenza ad affermare questo principio risale al 2010 (sentenza n. 2847 del 9/2/2010).

[4] Il tema Informazione e comunicazione. Assenso e dissenso è affrontato nel capitolo quarto (art. 33-39) del nuovo codice di deontologia medica, approvato in Italia il 18 maggio 2014.

[5] Nel rispetto della privacy dei soggetti che hanno partecipato alla ricerca la restituzione delle testimonianze avverrà in forma anonima.

[6] Estratto dall’intervista realizzata il 18 giugno 2014.

[7] Estratto dall’intervista realizzata il 20 febbraio 2015.

[8] Come stabilito dalla normativa nazionale, la firma del paziente è necessaria per tutti i cosiddetti accertamenti diagnostici “invasivi” (amniocentesi, villocentesi, gastroscopia, colonscopia, etc.) e per tutte quelle operazioni in cui possono esserci dei rischi per il paziente. Tra le prestazioni sanitarie che prevedono il consenso scritto troviamo: le trasfusioni di sangue, l’anestesia, la donazione di organi e tessuti, l’interruzione volontaria della gravidanza, la fecondazione medicalmente assistita, l’impiego di farmaci sperimentali e off-label. Come indicato dalla normativa, l’informazione scritta è, in qualsiasi caso, integrativa e non sostitutiva del colloquio orale medico-paziente.

[9] I genitori o chi se ne occupa (tutore legale) nel caso dei minori, gli amministratori di sostegno (familiari o tutori legali) nel caso di pazienti disabili incapaci di esprimere la propria volontà.

[10] Estratto dall’interazione osservata il 14 ottobre 2014.

[11] Estratto dall’intervista realizzata il 18 novembre 2014.

[12] Estratto dall’intervista realizzata il 4 dicembre 2014.

[13] Estratto dall’intervista realizzata il 21 gennaio 2015.

[14] Estratto dall’intervista realizzata il 23 giugno 2014.

[15] Un discorso a parte vale per la pediatria dove, all’opposto, sono i genitori, o chi ne fa le veci, i principali responsabili delle scelte terapeutiche. Nonostante questa regola, molti sono i medici che, in base all’età del paziente, scelgono di coinvolgerlo comunque nel processo informativo.

[16] Estratto dall’intervista realizzata il 14 maggio 2014.

[17] Il servizio di mediazione culturale copre soltanto alcune lingue dei pazienti stranieri, quali l’arabo, il cinese, il rumeno e l’albanese. In tutti gli altri casi è necessario programmare un incontro a parte con una mediatrice della lingua più vicina a quella parlata dal paziente straniero.

[18] Estratto dall’intervista realizzata il 9 dicembre 2014.

[19] Estratto dall’intervista realizzata il 18 febbraio 2015.

[20] Estratto dall’interazione osservata il 16 dicembre 2014.