Superare le dicotomie

Trasformazioni nelle relazioni con gli altri animali

Annalisa D’Orsi

Associazione Himby

Maria Benciolini

Cooperativa Eliante

Indice

Introduzione
Una prospettiva interdisciplinare
Quale ruolo per l’antropologia?
Conclusioni
Bibliografia

Introduzione

Questo numero monografico di Antropologia pubblica nasce per dare continuità al panel “Ripensare la relazione umani-animali ai tempi dell’Antropocene, organizzato, nel dicembre 2020, nel contesto dell’ottavo convegno della Società Italiana di Antropologia Applicata “FARE (IN) TEMPO. Cosa dicono gli antropologi sulle società dell’incertezza”.

Il panel, che sottolineava l’urgenza di ripensare le relazioni tra gli esseri umani e gli altri animali all’interno delle nostre società e culture, considerando anche diversi ambiti specialistici quali l’antropologia, la filosofia, il diritto, le scienze naturali e la medicina veterinaria, ha suscitato una forte partecipazione da parte degli iscritti al convegno. Tale partecipazione è stata, secondo noi, un chiaro segno dell’interesse sollevato ormai da queste tematiche, destinate probabilmente ad assumere uno spazio sempre più rilevante nella società come all’interno della nostra disciplina (Fabiano, Mangiameli 2019: 15), anche in relazione a problemi molto concreti.

Purtroppo, l’opportunità di pubblicare a brevissimo termine, e le difficoltà che hanno caratterizzato questo secondo anno di crisi pandemica, hanno impedito ad alcuni studiosi che avevano partecipato al panel d’inviarci dei contributi scritti. Esisteranno, speriamo, altri luoghi e occasioni per proseguire il dialogo avviato, come per coinvolgere gli specialisti che, nostro malgrado, non ci è stato possibile contattare.

La recente emergenza sanitaria, che ha mostrato quanto la nostra relazione con gli altri animali incida profondamente su corpi, spazi e culture, i conflitti legati alla protezione della biodiversità, l’emergere di nuovi movimenti filosofici e sociali antispecisti ed ecocentrici, gli orrori etici, ambientali e sanitari che caratterizzano l’allevamento industriale, l’inclusione dei diritti degli animali nella legislazione di numerosi paesi o ancora la scelta etica o ecologica di un crescente numero di persone di passare a un’alimentazione vegetariana o vegana, per non citare che alcuni esempi, sono tutte questioni di forte rilevanza pubblica, che meriterebbero di essere approfondite maggiormente da un punto di vista antropologico, anche con opportune ricerche etnografiche.

Le relazioni umani-animali suscitano interrogativi complessi e appassionanti per l’antropologia e al tempo stesso evidenziano la necessità d’istaurare un più stretto dialogo con saperi e competenze diversi. Un approccio interdisciplinare, come vedremo, profondamente sentito dalle curatrici di questo numero di Antropologia Pubblica, come da tutti gli studiosi ed esperti coinvolti nel progetto.

In questa sezione monografica, l’urgenza di riflettere sulla relazione fra umani e animali è stata declinata con il tema delle trasformazioni in corso. Come è cambiata la rappresentazione degli animali nelle scienze sociali e in quelle del comportamento animale e con quali ripercussioni a livello epistemologico, etico e giuridico? Quali sono le idee e i paradigmi culturali impliciti nelle strategie di conservazione della biodiversità e come si stanno evolvendo? Possiamo immaginare nuovi interventi e progetti dedicati alla fauna che tengano conto delle esigenze, della cultura e delle percezioni dei gruppi umani coinvolti? In che modo il ritorno dei grandi carnivori sulle Alpi sta cambiando le percezioni e le pratiche di allevamento locali? La valorizzazione di pratiche tradizionali può contribuire alla conservazione di preziosi ecosistemi e alla rivitalizzazione dei territori rurali?

Questi e altri interrogativi sono attraversati, al tempo stesso, da una questione sulla quale vorremmo sollecitare la riflessione: il ruolo emergente dell’antropologia e delle scienze sociali in contesti nei quali, fino ad ora, avevano avuto spazi marginali, come la concezione di nuove politiche di gestione degli ecosistemi, la creazione e la conduzione di aree protette (anche, eventualmente, nell’ambito di progetti di cooperazione internazionale), la protezione di particolari specie animali e la prevenzione dei conflitti con la popolazione umana.

Prima di considerare più approfonditamente i singoli contributi, pare utile aggiungere una breve considerazione terminologica. Mentre il termine “non umani” o “altro che umani” include chiaramente tutti gli attanti biotici ed abiotici a cui la teoria dell’attore-rete e l’etnografia multispecie attribuiscono un ruolo attivo in quel complesso intreccio d’interrelazioni che costituisce le società e la vita, la parola “animali” sembra richiedere, oggi, alcune particolari precauzioni per il fatto di essere stata spesso usata, fino a un passato molto recente, in contrapposizione agli esseri umani. A questo problema, sono state date, in letteratura, diverse soluzioni. Le espressioni “altri animali” e “animali non umani” s’inseriscono chiaramente nel superamento di una visione dicotomica umani-animali. Ma mentre alcuni autori, come il primatologo Frans de Waal (de Wall 2016: 44) o il biologo Mauro Belardi, criticano la seconda espressione, attribuendole una forma di antropocentrismo implicito[1], molti studiosi autorevoli – naturalisti e antropologi – ne fanno un uso frequente. In altri casi, si continua ancora a utilizzare, semplicemente, il termine “animali”, inserendo eventualmente una nota, a inizio testo, per esplicitare le distanze rispetto a una visione discontinuista.

Una prospettiva interdisciplinare

Gli articoli che compongono questa sezione monografica sono caratterizzati da un impegno interdisciplinare. Tutti gli autori dialogano con altre discipline, attraverso una lettura antropologica della letteratura specialistica, oppure descrivendo progetti e pratiche interdisciplinari di natura applicativa.

Come ha ben sottolineato Alessandro Mancuso nel suo contributo, l’antropologia si è aperta, in anni recenti, a una riflessione sull’agentività degli altri animali e sul modo in cui questi interagiscono con gli esseri umani, costruendo insieme un mondo composto, composito e condiviso.

Questo passo in avanti ha sicuramente predisposto l’antropologia, forse più che in passato, a valicare la consueta separazione fra scienze naturali e sociali. Se gli esseri umani e gli altri animali sono coinvolti in processi di «entanglement» (Van Doreen et al. 2016: 4), anche le discipline corrispondenti non possono che lavorare di concerto nei loro sforzi di comprensione come nella ricerca di soluzioni ai problemi esistenti.

L’articolata riflessione di Alessandro Mancuso sullo spazio dedicato alla sofferenza e alla violenza inflitta dagli esseri umani agli altri animali negli odierni approcci antropologici dialoga costantemente con il lavoro di alcuni filosofi che si sono occupati di etica animale e dominazione umana come con le posizioni assunte dai movimenti di animal advocacy contemporanei.

L’articolo di Annalisa D’Orsi si situa sulla frontiera fra antropologia ed etologia. Nell’ambito delle scienze del comportamento animale, mostra l’autrice, il progressivo riconoscimento negli altri animali di caratteristiche un tempo considerate prettamente umane – intenzionalità, emozioni, pensiero, cultura e autoconsapevolezza – ha richiesto il superamento di radicati pregiudizi culturali e antropocentrici che contrapponevano dicotomicamente umani e animali, come pure la maturazione di una maggiore consapevolezza dei processi di entanglement che caratterizzano le pratiche di ricerca. Tali profonde trasformazioni nella rappresentazione degli altri animali, oltre a interrogare l’etica e il diritto, hanno prodotto cambiamenti rilevanti nella metodologia, nell’epistemologia, negli obiettivi e nelle domande di un numero crescente di ricercatori, avvicinando fortemente il lavoro di alcuni etologi a quello degli antropologi sul campo.

Da parte loro, Maria Benciolini e Mauro Belardi mettono in evidenza la necessità di acquisire degli approcci interdisciplinari nella risoluzione di problemi concreti, come i conflitti legati alla protezione di alcune specie animali. Sul piano applicativo, questo permette la ricerca di soluzioni più condivise per la conservazione di specie ed ecosistemi, facilita il dialogo tra portatori di interessi, e permette l’accesso delle parti coinvolte ai saperi e alle pratiche degli altri attori in gioco. Inoltre, l’approccio interdisciplinare ha consentito agli autori di sviluppare una riflessione comune sulle difficoltà metodologiche che possono insorgere nella collaborazione fra specialisti provenienti da discipline diverse: le modalità di produzione e d’interpretazione dei dati, i tempi richiesti per la ricerca e l’analisi non sono gli stessi e a volte può risultare difficile organizzarli in modo che possano dialogare tra loro; la traduzione da una disciplina all’altra dei dati e delle analisi può rappresentare una sfida che richiede anch’essa del tempo e la creazione di un linguaggio comune.

Flavio Lorenzoni, Vincenzo Padiglione e Daniele Quadraccia hanno, a loro volta, considerato il tessersi di un dialogo più fitto fra scienze sociali e naturali in relazione ai gravissimi problemi ambientali contemporanei. Nella prima parte dell’articolo, Padiglione propone di pensare le relazioni tra esseri umani e altri animali, in contesti di forte prossimità, nei termini di un rapporto di reciprocità, più o meno simmetrico ed equilibrato. Una simile lettura potrebbe aiutare, ci sembra, anche gli specialisti di altre discipline a meglio comprendere le pratiche e i punti di vista degli attori in gioco e a trovare chiavi interpretative nuove per situazioni già note. Ad esempio, introdurre l’elemento della reciprocità nella complessa rete di relazioni che caratterizza le pratiche di allevatori e pastori (animali da allevamento, esseri umani, cani da lavoro, fauna selvatica) potrebbe permettere a chi si occupa di conservazione di meglio comprendere alcuni dei loro atteggiamenti nei confronti della fauna selvatica.

Nello stesso articolo, Lorenzoni presenta sinteticamente il pensiero degli autori legati alla svolta ontologica, focalizzandosi soprattutto sulla messa in discussione della dicotomia natura/cultura, mentre una critica implicita alla definizione di ontologia “naturalistica” di Philippe Descola (2021) attraversa il lavoro di Benciolini e Belardi come il contributo di D’Orsi.

La collaborazione di Benciolini e Belardi li ha portati a riflettere sull’attribuzione di una prospettiva oggettivante e riduzionistica alle scienze naturali e biologiche da parte degli scienziati sociali. Come è stato recentemente sottolineato anche dall’antropologo Matei Candea, questa idea pare essere alimentata, talvolta, da una visione teorica piuttosto schematica e pregiudiziale invece che corrispondere a un’approfondita conoscenza, anche etnografica, delle attuali pratiche di ricerca e riflessioni in corso nell’ambito delle scienze naturali (Candea 2013). L’approccio interdisciplinare, dunque, non richiede soltanto l’abilità di dialogare su un tema comune a partire da prospettive e metodologie diverse, ma anche la capacità di mettere in discussione alcuni dei propri assunti sul modo in cui altre discipline concepiscono i loro oggetti di studio. In questo caso, anche il concetto di natura, pur all’interno del sistema epistemologico occidentale, appare molto meno oggettivato di quello che si possa pensare.

In modo complementare, D’Orsi riflette criticamente sulla terminologia impiegata da Descola, e sulla sua analisi delle scienze del comportamento animale, sottolineando che una visione continuista delle facoltà mentali, così come la consapevolezza del complesso intreccio esistente fra biologico e culturale, corpo e mente, trasmissione genetica e culturale, è innanzitutto maturata, nella nostra società, proprio all’interno delle scienze naturali, in continuità col lavoro, sovversivo dal punto di vista dell’ontologia dominante, di grandi scienziati come Johann Wolfgang von Goethe, Alexander von Humbold, Charles Darwin, Konrad Lorenz, Jakob von Uexküll o, più recentemente, per citare solo alcuni esempi, Donald Griffin e Jane Goodall.

Quale ruolo per l’antropologia?

La necessità di confrontarci come scienziati sociali con le tematiche ambientali e l’interesse di comprendere con meno pregiudizi ontologie diverse dalla nostra hanno determinato, nella nostra disciplina, una crescente attenzione per soggetti biotici e abiotici non umani e per le loro interrelazioni. Gli ultimi anni hanno visto anche emergere in modo particolarmente esplicito importanti conflitti fra la conservazione degli ecosistemi e delle specie e le esigenze delle popolazioni che abitano alcuni territori considerati hotspot della biodiversità, come del resto fra alcune associazioni e ong impegnate, rispettivamente, nella protezione della natura e nella difesa dei diritti di autodeterminazione dei popoli autoctoni.

L’antropologia, con il suo sguardo “da lontano” e la capacità di dare ascolto a contesti locali (esotici e nostrani) pare un ottimo strumento per riflettere criticamente sulle nostre pratiche ecologiche e interspecifiche, come per osservare le pratiche di ricerca scientifica incentrate sugli animali e l’ambiente esplicitando i pregiudizi culturali dei ricercatori (D’Orsi in questo numero). Al tempo stesso, come sottolineano i contributi di Benciolini e Belardi e quello di Lorenzoni, Padiglione e Quadraccia, la nostra disciplina può prestarsi a mediare i conflitti esistenti, dare voce agli interessi e ai valori delle istanze locali, e contribuire, in modo inclusivo, al perseguimento degli obiettivi di conservazione stabiliti dalla legislazione[2].

I saperi agro-pastorali tradizionali del Lazio e della Sardegna, proprio come quelli dei popoli amazzonici, profondamente radicati nei territori in cui si sono sviluppati, possono essere molto attuali per via della loro maggiore sostenibilità. In questo contesto, evidenzia Quadraccia, la ricerca etnografica può giocare un ruolo cruciale nel documentare e rivitalizzare dei saperi locali e instaurare un dialogo, più alla pari, con i saperi scientifici “ufficiali”.

Si tratta di un ruolo che la nostra disciplina ha assunto da tempo in ambito autoctono, pur non essendo sempre riuscita a decolonizzare il proprio pensiero, finendo così per separare e “distillare” le conoscenze empiriche native, interessanti dal punto di vista scientifico occidentale, dal loro contesto ontologico ed epistemologico (dove tra l’altro, ricorda D’Orsi, gli altri animali sono spesso percepiti come soggetti sociali, intelligenti, intenzionali e attivi), con il risultato, come hanno sottolineato Elizabeth Povinelli e Colin Scott, di perpetrare, senza volerlo, la marginalizzazione dei popoli autoctoni e le asimmetrie di potere esistenti (Povinelli 1995; Scott 1996).

Se questa difficoltà, pur continuando a persistere nel contesto contemporaneo, sembra destinata a ridursi, per lo meno in seno alla nostra disciplina, grazie anche ai dibattiti e alle riflessioni suscitate dalla cosiddetta svolta ontologica, gli articoli di Benciolini e Belardi e quello di Mancuso mostrano, in modo convincente, il permanere di alcune criticità metodologiche, etiche e politiche negli studi antropologici che includono le altre specie animali.

L’interesse per i modi in cui esseri umani e ambiente si relazionano, declinato nei suoi diversi paradigmi teorici e metodologici, non sembra sempre capace di riconoscere i processi di distruzione di habitat e specie messi in atto, più o meno consapevolmente, da alcuni specifici gruppi umani.

Anche i saperi e le pratiche non industriali possono avere un impatto distruttivo sugli ecosistemi. Nelle Alpi, per esempio, se da una parte le attività di pascolo hanno avuto importanti effetti benefici sulla conservazione della biodiversità, non va neppure dimenticato che la presenza dell’uomo ha portato all’estinzione (o quasi) di un numero significativo di specie di mammiferi, non solo carnivori, ma anche ungulati concorrenti degli animali allevati.

Analogamente, nell’ambito dell’antropologia autoctona, la legittima proposta di decolonizzare il conservazionismo, la messa in discussione del concetto di wilderness e la crescente implicazione dei ricercatori per il riconoscimento dei diritti di autodeterminazione culturale, educativa, politica ed economica dei popoli nativi non dovrebbero portare a rappresentazioni stereotipate e idealizzanti. Occorre, del resto, prendere atto delle trasformazioni in corso in molte società autoctone come pure dell’esistenza, al loro interno, di una pluralità di posizioni e pratiche in conflitto fra loro.

Strettamente collegato, e molto rilevante, è anche il tema, ampiamente approfondito da Mancuso, della sofferenza inflitta dagli esseri umani agli animali nella nostra come in altre società, comprese, ancora una volta, quelle native. Come mostrato dall’autore, attraverso un’ottima sintesi della letteratura antropologica esistente sulla relazione umani-animali, persino nei principali autori della prospettiva ontologica, come pure negli studi riconducibili all’etnografia multispecie, questo tema ha continuato a ricevere un’insufficiente attenzione, al punto di apparire, nelle parole di Kohler (2016), come un “angolo morto” dell’antropologia contemporanea. Le ragioni culturali, epistemologiche, metodologiche e psicologiche per cui questo avviene sono molteplici e complesse, ma potrebbe essere arrivato il tempo di considerare anche il punto di vista degli altri animali, di aprire il dibattito e dialogare maggiormente con altre discipline, come l’etologia e la filosofia.

Conclusioni

La raccolta di articoli di questo numero, pur nella sua eterogeneità, indica, ci sembra, che i tempi siano maturi perché gli antropologi che si occupano di ambiente e dei rapporti tra esseri umani e altri animali affrontino terreni fino ad oggi poco esplorati, di pari passo con il progressivo sfumare dei confini tra cultura e natura, umano e non umano, e con l’apertura delle scienze ad una discussione interdisciplinare il più possibile scevra di pregiudizi.

Le curatrici tengono a esprimere un sentito ringraziamento a tutti gli studiosi che hanno preso parte attivamente al panel tenutosi nel dicembre 2020 e/o al presente numero monografico: Mauro Belardi, Flavio Lorenzoni, Alessandro Mancuso, Anna Mannucci, Vincenzo Padiglione, Gianni Pavan, Daniele Quadraccia, Francesco Spagna e Massimo Vacchetta. Ringraziamo la redazione di Antropologia Pubblica e gli organizzatori dell’ottavo convegno della Società Italiana di Antropologia Applicata per la collaborazione e la fiducia che ci hanno dimostrato. Grazie moltissimo anche a tutti i colleghi che ci hanno incoraggiate a realizzare questo progetto e, in particolare, a Leonardo Piasere.

Bibliografia

Candea, M. 2013. Suspending Belief: Epoché in Animal Behavior Science. American Anthropologist, 115 (3): 423-436.

Descola, Ph. 2021 [2005]. Oltre natura e cultura. Milano. Raffaello Cortina.

de Waal, F. 2016 [2016]. Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali? Milano. Raffaello Cortina Editore.

Fabiano, E., Mangiameli, G. (a cura di). 2019. Dialoghi con i non umani. Milano-Udine. Mimesis.

Kohler, F. 2016. «Bon à manger. Réflexion sur la cruauté non rituelle envers les reptiles dans l’Uaçá, Bassin de l’Oyapock», in Trophées. Études ethnologiques, indigénistes et Amazonistes offertes à Patrick Menget, vol. 1. Erikson Ph. (dir.). Paris. Société d’ethnologie: 127-146.

Povinelli, E. 1995. Do Rocks Listen? The Cultural Politics of Apprehending Australian Aboriginal Labor. American Anthropologist, 97 (3): 505-518.

Scott, C. 1996. «Science for the West, Myth for the Rest? The Case of James Bay Cree Knowledge Construction», in Naked Science. Anthropological Inquiry into Boundaries, Power, and Knowledge. Nader, L. (ed). London-New-York. Routledge: 69-86.

Van Dooren, T., Kirksey E., Münster U. 2016. Multispecies studies: cultivating arts of attentiveness. Environmental Humanities, 8 (1): 1-23.



[1] Per de Waal, tale espressione raccoglie milioni di specie attorno a un’assenza, come se avessero tutte in comune la mancanza di qualcosa. Poiché ogni specie è unica, secondo l'autore, si dovrebbe anche dire “animali non pinguini”, “non iene” e così via (de Wall 2016: 44).

[2] Alcune legislazioni, come quella europea, stabiliscono degli obiettivi minimi di conservazione di habitat e specie e questo accresce ulteriormente la complessità di alcune problematiche: non si tratta solo di conciliare i punti di vista di diversi portatori d’interesse, ma di trovare delle possibili soluzioni meno conflittuali per il rispetto della legislazione. Cfr. Direttiva n. 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, nota come “Direttiva Habitat”.