Al di là dell’opposizione tra “malessere concettuale” e “cattiva coscienza”

Sul disagio dell’antropologia contemporanea di fronte al maltrattamento degli animali

Alessandro Mancuso

Università di Palermo

Indice

Introduzione
L’etnografia multispecie e il problema di come curarsi e “rispondere” della sofferenza animale
L’interpretazione delle attitudini verso l’uccisione degli animali tra le popolazioni di cacciatori-raccoglitori e di pastori premoderni: dalla “fiducia” alla “dominazione”?
I sentimenti di ambivalenza verso l’uccisione dell’animale: “malessere concettuale” o “cattiva coscienza”?
I “punti ciechi” delle prospettive ontologiche
Osservazioni conclusive
Bibliografia

Abstract.  In this paper I propose a critical examination of the ways in which the intersections between violence, suffering and domination in some of the main new directions of the anthropological study of the relationships between humans and other animals, notably Ingold's approach, Descola’s theory of “schemas of the practice”, and multispecies ethnography. Apparently, and despite the emphasis given to the sentience and forms of agency of non-human animals, as well as to their being active co-participants, together with humans, in the construction of social networks and the habitats that bind both, these intersections do not occupy a prominent place in these approaches, both from the point of view of their theoretical framework and from that of the ethnographic descriptions. The elusive place that the intersections between violence, suffering and domination occupies in contemporary approaches to humans/ other animals relationships has an important consequence in the the lack of a mutually constructive confrontation with animal advocacy’s movements and with the ethical and political theories to which these movements are inspired. It seems desirable and urgent to consider today the issues of suffering and violence inflicted on non-human animals assuming a careful listening posture at positions other than one’s own. Such pluralism, to be adopted both on the level of scientific debate and on that of dialogue between different ethical options, is pointed to by some important proposals developed both in other fields of contemporary anthropology and in the reflection on future prospects for the development of an “ecological justice”.

Keywords. Human-animal relationships; intersections between violence, suffering and domination; animal ethics; animal advocacy; multispecies ethnography.

Introduzione

Nel presente scritto, intendo esaminare il posto occupato dalle questioni della sofferenza e della violenza inflitta dagli esseri umani agli animali nelle ricerche e nelle riflessioni portate avanti nei nuovi indirizzi antropologici di studio dei loro rapporti – semplificando: gli studi multispecie (Van Dooren et al. 2016) – e quelli, in particolare gli approcci di Ingold e di Descola e degli studiosi che vi si sono ispirati, che hanno criticato l’universalità della distinzione ontologica natura/cultura[1].

Nel loro insieme, questi approcci hanno segnato il superamento delle impostazioni prevalenti nell’antropologia novecentesca, interessata agli animali non umani soprattutto, per usare la spesso citata formula di Lévi-Strauss, in quanto “buoni da mangiare” o “buoni da pensare”, cioè dal punto di vista della loro “utilità” per gli umani in quanto risorse materiali o simboliche (cfr. Kilani 2000; Mullin 1999; Shanklin 1985; White, Candea 2018).

È stato però sostenuto (ad es. Kohler 2016; Kopnina 2017) che, nei nuovi indirizzi di studio delle relazioni tra umani e animali, l’inquadramento teorico dei temi della sofferenza e della violenza inflitta dai primi ai secondi e del loro nesso con le differenti forme di dominazione tanto sui viventi non umani quanto sugli stessi esseri umani è restato parziale e, per certi aspetti, del tutto insoddisfacente. In particolare, il modo di trattare le dimensioni materiali, fenomenologiche e strutturali della sofferenza e della violenza inflitta agli animali sembra spesso elusivo, in quanto tali dimensioni tenderebbero a essere espunte dalla descrizione e dall’analisi etnografica, e comunque poco collegate ai quadri teorici di riferimento.

Le ragioni di questo scarso rilievo che, almeno in apparenza, i temi della sofferenza, della violenza e della dominazione patite dagli animali non umani hanno negli approcci dell’antropologia contemporanea meritano di essere approfondite per diverse ragioni.

Infatti, è stato argomentato (Robbins 2013) che, dall’inizio del nuovo millennio, questi temi siano stati posti al centro di un progetto di rinnovamento delle discipline antropologiche: nel riservarsi una propria prospettiva di teorizzazione e ricerca sull’essere umano, dopo il tramonto del progetto di occuparsi del savage slot (Trouillot 2003), esse starebbero concentrando la loro attenzione sul suffering slot (Robbins 2013: 456). In questo senso, la relegazione sullo sfondo dei temi della sofferenza, della violenza e della dominazione nella nuova antropologia delle relazioni tra uomini e animali sembra andare contro questa tendenza.

Inoltre, sul piano sociale e politico, un’importante conseguenza della loro limitata visibilità è il ridotto sviluppo di terreni comuni di confronto mutualmente costruttivo con le teorie e le pratiche dei movimenti animalisti contemporanei (Tonutti 2007; Bertuzzi 2018; Guazzaloca 2018; Best, Nocella 2011; Munro 2012; Traïni 2011; Carié, Traïni 2019; Evans 2020), per i quali invece tali temi rivestono un’importanza centrale.

Come è noto, il riconoscimento di molti, se non di tutti, animali non umani come esseri non soltanto “senzienti” e dotati di forme di “coscienza fenomenica”[2] ma anche, per molte specie, di senso di sé e soggettività, è infatti un aspetto centrale degli odierni dibattiti sul loro statuto etico (Allegri 2015; Pollo 2016; Zuolo 2018; Guazzaloca 2021)[3].

Per molti aspetti, Lévi-Strauss aveva messo a fuoco questi temi, sostenendo che «la percezione generale di uomini e animali come esseri senzienti, in cui consiste l’identificazione, ordina e precede la coscienza delle opposizioni […] fra umano e non umano» (1962: 142, traduzione italiana modificata). Egli aggiungeva che «il rispetto altrui conosce un solo fondamento naturale […], vedere un [proprio] simile in ogni essere esposto alla sofferenza, […] provvisto di un diritto imprescrittibile alla commiserazione» (1978: 77). L’universalità di questa percezione psicologica della prossimità tra uomini e animali costituirebbe il fondo da cui sarebbe emerso il sistema dei loro rapporti sul piano dell'intelligibilità. Su tale piano, le relazioni uomo/animale vengono piuttosto a essere apprese dal punto di vista di un sistema di opposizioni e correlazioni tra termini e campi differenti, di cui le operazioni metaforiche vanno considerate «una forma primaria» (1962: 145).

Il convincimento che molti animali siano capaci di sensazioni, emozioni, forme di comunicazione e di coscienza di sé e dei fenomeni presenti nell’ambiente in cui vivono, e che in particolare possano provare ansia, paura e tristezza, è d’altronde riscontrabile non soltanto presso molte società extraeuropee la cui sussistenza è, o era, basata su caccia e raccolta, orticoltura e pastorizia; esso è sempre stato diffuso anche in Occidente, anche dopo l’inizio dell’Età moderna, tanto fra la “gente comune” (Stépanoff 2021: 92-93) quanto tra “intellettuali” e “filosofi” (ad es. de Fontenay 1998)[4].

Negli ultimi decenni, tale “opinione” o “credenza” ha ricevuto una crescente legittimazione scientifica in seguito alle ricerche di etologi, psicologi e biologi sulla neurologia, cognizione e comportamento degli animali non umani. Sintetizzando i loro risultati, si può sostenere che:

mammiferi e uccelli sono […] le famiglie di animali in cui la capacità di sentience e di provare dolore è più evidente. Studi recenti suggeriscono che anche i pesci e certi molluschi (in particolare i calamari e i polpi) vanno inclusi in questo elenco. Molti lasciano la porta aperta anche ai rettili. Forse anche gli insetti esperiscono prospettive particolari sulla realtà» (Aaltola 2012: 15, cfr. D’Orsi, in questo numero).

Va inoltre introdotta una distinzione tra dolore (pain) e sofferenza (suffering). Infatti, mentre esiste oggi un largo consenso intorno alla capacità di molti animali di provare dolore, il riconoscimento che essi esperiscano sofferenza, e di un nesso intrinseco tra questa nozione e quella di sentience, restano oggetto di controversia. In questo senso, la sofferenza

può a volte essere uno stato puramente emozionale o mentale, senza cause fisiche. Per esempio, l’angoscia, la depressione, la paura e l’ansia possono essere considerati stati di sofferenza [anche quando non direttamente legati all’occorrenza attuale di dolore]. […] Il soffrire ha quindi dimensioni sia fisiche che mentali. Si assume generalmente che mentre il dolore è precisamente localizzabile (riguarda un’area particolare del nostro corpo), la sofferenza è olistica (ha presa sulla totalità del nostro essere). Il soffrire è qualcosa che ci riguarda come totalità – affetta la nostra salute, il nostro stato mentale, tutti i nostri pensieri: è uno stato si impone su tutto ciò che siamo. […] La sofferenza include anche un senso di priorità: oltrepassa qualunque altra considerazione (ivi: 16).

Come mostra Aaltola nella sua rassegna critica delle posizioni presenti nel dibattito filosofico contemporaneo sulla sofferenza animale e sui suoi nessi con numerosi contesti dei rapporti tra umani e altri animali (in particolare riguardo alla questione di considerare o meno ogni “uso” umano degli altri animali un “abuso”), nelle scienze cognitive contemporanee sono stati elaborati protocolli sperimentali per verificare quando un essere vivente provi sofferenza, intesa nel senso sopra descritto. I risultati di queste ricerche mostrano una stretta associazione tra capacità di sentience e quella di provare sofferenza. Secondo il tipo di animali e la situazione considerata, i modi con cui tale sofferenza viene manifestata possono variare, ma il fatto stesso che gli animali “senzienti” possano soffrire appare oggi fuori discussione.

Queste conclusioni sono rilevanti perché tolgono molta della sua forza all’argomento scettico – diffuso, come si vedrà, anche nelle scienze sociali contemporanee – secondo cui della sofferenza degli altri, ancor più se essi sono animali non umani, non si può avere esperienza diretta: ciò getterebbe dubbi quanto meno sul fatto di poter sapere e descrivere cosa essi stiano provando[5].

Un’altra importante questione affrontata da Aaltola è quella dei rapporti tra patire, vulnerabilità e agency. Tanto nel dibattito filosofico quanto nelle ricerche sulla cognizione e il comportamento animale, il provare sofferenza, negli uomini come negli altri animali senzienti, è infatti esso stesso considerato manifestazione della loro capacità di agency: la sofferenza spesso scatta quando si è sottoposti a forme di privazione di quest’ultima.

Inoltre, a costituire un problema per la riflessione etica non è la sofferenza in sé, ma la vulnerabilità che accomuna gli umani a molti altri animali (Aaltola 2012: 132-135).

Anche in questo caso la disanima di Aaltola risulta di grande interesse ai fini di una valutazione di come gli indirizzi contemporanei di studio antropologico dei rapporti tra umani e altri animali si facciano carico dei temi della sofferenza e della violenza inflitta a questi ultimi, in contesti in cui essi sono sottoposti a forme di dominazione da parte degli umani.

Infatti, tutti gli approcci che stiamo considerando sono accomunati dalla considerazione degli animali non umani come agenti che contribuiscono attivamente alla costruzione e al divenire coevolutivi della socialità umana. Tuttavia, secondo i principali esponenti di questi approcci, il fatto che molti animali non umani possano essere considerati come esseri “senzienti” va tenuto distinto dall’attenzione per i loro modi di essere “agenti attivi”. Per Descola e per filoni importanti del dibattito contemporaneo sulle relazioni tra uomini e altri animali, occorre anzi superare il “patocentrismo” (Bimbenet 2017) che caratterizzerebbe le principali posizioni filosofiche che hanno alimentato i dibattiti sullo status etico di questi ultimi. Tale patocentrismo avrebbe infatti come conseguenza non voluta quella di perpetuare una concezione della “passività” degli animali, trascurando dunque i loro ruoli attivi nella costruzione di una sfera di socialità condivisa con gli esseri umani. Una tale concezione degli animali limiterebbe in ultima analisi anche i modi di immaginare e mettere in atto, sul piano etico e politico, un rinnovamento degli odierni rapporti tra umani e animali.

Nelle prossime sezioni dell’articolo, esamino più in dettaglio lo svolgimento di questi argomenti negli approcci antropologici succitati, mostrando che, sebbene il patocentrismo abbia giocato un ruolo importante nello sviluppo del dibattito filosofico sullo statuto etico degli animali non umani, al suo interno stiano oggi emergendo altri punti di vista che integrano, senza smentirne la rilevanza, l’attenzione per la questione della sofferenza e, più particolarmente, della vulnerabilità a quest’ultima, con una loro considerazione in quanto esseri capaci di agency.

Proverò, più in generale, ad analizzare i modi di trattare le questioni della violenza e della dominazione umana sugli altri animali in alcuni dei più noti e recenti approcci di studio antropologici alle relazioni tra umani e animali.

Partirò da come tali questioni sono affrontate in alcune influenti formulazioni degli obiettivi e dei campi d’interesse privilegiati nell’etnografia multispecie. Come sostenuto da Haraway (2008), questo indirizzo intende esplorare, anche attraverso la realizzazione di etnografie sperimentali, modalità di convivenza tra umani e altre specie che risultano nel loro mutuo benessere. Ciò non esclude che queste modalità possano essere asimmetriche e implicare sofferenza, soprattutto per ciò che concerne esseri appartenenti a specie non umane. Nel prendere in carico anche le relazioni di convivenza che implicano l’infliggere sofferenza a questi esseri, l’importante è provare a prestarvi una costante attenzione, sviluppando doti adeguate di empatia. Tuttavia, per affrontare da un punto di vista etico queste situazioni non esistono ricette e principi assoluti. L’etnografia multispecie, in questo senso, si “assume il rischio” di sperimentare nuove forme di relazione etica in cui risultino rafforzate le attitudini di reciproca cura e attenzione verso la presenza attiva e responsiva dell’altro. Le analogie con la proposta di nuove “poetiche e politiche dell’etnografia” e di nuove forme di sperimentazione nella ricerca e nella scrittura etnografica (Clifford, Marcus 2016; Marcus, Fisher 1999) sono evidenti. Il carattere “sperimentale” degli studi apre nuove prospettive non solo di ricerca ma di sviluppo di una sensibilità etica “situata”, attenta al pluralismo dei punti di vista e non definita in base a principi assoluti e decontestualizzati. Al contempo, essa può incorrere nel soggettivismo e nella sottovalutazione dei contesti strutturali di potere in cui si situano comunque sia la relazione tra l’etnografo e i suoi interlocutori sia l’impatto delle sue ricerche nella sfera pubblica.

Proseguirò esaminando la tesi di Ingold secondo cui presso le popolazioni di cacciatori-raccoglitori prevarrebbe una concezione della caccia in cui la cattura e l’uccisione della preda è considerata un atto non violento e in cui invece si rivela la connivenza di quest’ultima con il cacciatore; subito dopo, tratterò della discussione di tale tesi, specialmente con riferimento ad alcune recenti interpretazioni delle differenze tra queste popolazioni e quelle di pastori riguardo ai modi di rapportarsi agli animali.

Passerò poi a trattare la tesi di Descola, ripresa in diversi studi ispirati dalla sua teoria degli “schemi della pratica”, secondo cui i modi in cui vengono affrontati e rielaborati i sentimenti e le attitudini ambivalenti nei confronti dell’uccisione degli animali – di cui egli ammette l’universalità – dipendono sia dai regimi ontologici e cosmologici che dagli schemi di relazione, ossia dalle differenze nella concettualizzazione di questo atto; in questo senso tali modi esprimerebbero un “malessere concettuale”, mentre è inappropriato interpretarli come manifestazione di una “cattiva coscienza”. Sulla base di alcune critiche rivolte a questa tesi, argomenterò che alla teoria degli schemi della pratica, anche nelle versioni più elaborate proposte dopo la pubblicazione di Oltre natura e cultura (Descola 2021), possono essere mosse critiche analoghe a quelle rivolte alle teorie strutturaliste classiche: insufficiente capacità di recuperare le dimensioni del vissuto, della quotidianità, dell’affettività, della storicità e del politico all’interno di una spiegazione dei fenomeni presi in considerazione rivolta principalmente alle mediazioni strutturali delle relazioni. Nella teoria degli schemi della pratica, questi elementi risaltano anzi maggiormente di quanto avvenisse nello strutturalismo classico, sia per le maggiori ambizioni di questa teoria (che intende, per l’appunto, inventariare lo spettro di regolarità e variabili di tutte le pratiche sociali, e mostrare la comunanza di schemi che informano le relazioni tra umani e quelle tra essi e i non umani), sia perché, come si dirà, oggi, a differenza di qualche decennio fa, sono stati sviluppati in antropologia altri approcci che provano ad articolare in uno stesso quadro teorico ed etnografico quegli aspetti che nella teoria degli schemi della pratica tendono a restare disgiunti.

Attraverso questa ricognizione critica, mi sembra di poter concludere che nei recenti approcci antropologici alle relazioni tra umani e altri animali, le questioni della violenza inflitta agli animali non umani e delle forme di dominazione a cui essi sono sottoposti dagli umani sono per alcuni aspetti prese in considerazione e fatte oggetto di riflessione. La loro apparente relegazione sullo sfondo del discorso teorico è, in parte, il frutto di valutazioni – di tipo diverso a seconda che si parli delle posizioni degli esponenti più influenti dell’etnografia multispecie, di Ingold o di Descola – riguardanti le priorità, non solo sul piano epistemologico ma su quello delle prospettive etiche e politiche, di quelli che vengono ritenuti un ripensamento e una reimpostazione necessari, urgenti e auspicabili, dei modi di rapportarsi agli animali non umani nel mondo contemporaneo globalizzato.

I modi in cui tali questioni vengono affrontate in questi approcci restano tuttavia parziali e per molti aspetti del tutto inadeguati a cogliere una serie di elementi di grande rilievo per la comprensione del posto che la violenza e la dominazione occupano nelle relazioni tra umani e altri viventi.

In particolare, l’inquadramento teorico e metodologico di tali aspetti delle relazioni tra umani e altri animali resta generalmente fondato sull’assunzione del punto di vista e sulle interpretazioni dei primi, mentre le esperienze e i vissuti di coloro che le patiscono e le conseguenze sulla loro vita concreta tendono a essere rimosse, già al livello delle descrizioni.

Anche nella storia delle analisi e delle riflessioni antropologiche sulla sofferenza e della violenza inflitta agli esseri umani, e delle forme di dominazione che le sottendono, è possibile scorgere «un disagio epistemologico che potrebbe definirsi “di rarefazione”» (Beneduce 2008: 6). Gli atti, i discorsi, le situazioni e i processi in cui violenza, sofferenza e dominazione si presentano strettamente intersecate risulterebbero, cioè, in qualche modo “perturbanti” (ivi: 13, cfr. Van Aken 2020) non soltanto per chi li commette, li patisce o ne è testimone, ma anche per chi prova a comprenderli e a costruirne delle rappresentazioni e a interpretarne il senso. La “resistenza” a prendere direttamente in carico questi fenomeni sarebbe stata particolarmente presente nell’antropologia novecentesca, proprio per il privilegio da essa accordato all’analisi del ruolo che strutture e sistemi simbolici hanno nella vita sociale (Beneduce 2008: 12, 15), mentre «di fronte alla violenza radicale si tratta piuttosto di restituire il senso della dissoluzione di un mondo culturale» (Dei 2005: 15).

Una riflessione sulle forme che questi atteggiamenti possono prendere nel caso della violenza e della dominazione esercitata sugli animali non umani non può prescindere dalla questione di come vengano tracciate le frontiere, tanto sul piano ontologico quanto su quello etico, tra umanità e animalità. Vi è un largo consenso tra gli antropologi sul fatto che i modi con cui gli esseri umani tracciano questi confini variano tanto nello spazio e nel tempo quanto a seconda dei contesti relazionali e discorsivi, e che, in ogni caso, nella definizione di tali confini vengono riconosciuti degli elementi di comunanza o di prossimità, e altri di differenza e di separazione. Peraltro, come ha sottolineato Derrida (2006), esiste, almeno nella storia della metafisica occidentale, una forte connessione tra i modi in cui viene giustificata e legittimata la violenza e la soppressione di un’esistenza, e il fatto stesso di istituire una distinzione tra umanità e animalità come due grandi categorie investite di valenze ontologiche ed etiche.

È abbastanza (ma mai troppo) scontato rilevare come negli ultimi due secoli nelle società occidentalizzate sia

avvenuta una trasformazione senza precedenti nel trattamento e nella riflessione sugli animali che ha seguito due direzioni: un incremento e assoggettamento degli animali e una maggiore compassione nei loro confronti. Derrida collega l’incremento dell’assoggettamento e del trattamento violento degli animali allo sviluppo scientifico e tecnologico delle pratiche di allevamento, macellazione e utilizzo degli animali per il miglioramento del benessere umano (Calarco 2012: 115).

Ci si può chiedere in questo senso se la “dura realtà” (Kopnina 2017), spesso oggetto di occultamento e diniego (ad es. Grusovnik, Spannring, Lykke Syse 2020), della moltiplicazione di scala – oggi osservabile a livello globale – della dominazione umana sugli altri animali attraverso l’introduzione di nuove tecniche di controllo e nuove forme di sapere-potere possa essere considerata un processo che ha riguardato omologamente anche i rapporti tra gli esseri umani.

L’aumento esponenziale del numero di animali sottoposti a trattamenti che implicano un controllo capillare sul loro ciclo di vita, la restrizione della loro libertà di movimento e l’inflizione di intense sofferenze, è mostrato dalle statistiche ufficiali sugli animali utilizzati nell’industria alimentare e nella sperimentazione scientifica, nonché sulla soppressione di individui appartenenti a specie ritenute nocive. Un’altra espressione di questo fenomeno sono i tassi di estinzione di specie viventi e di perdita di biodiversità imputabili allo sviluppo delle attività umane, che sono stimati essere più di mille volte maggiori rispetto a quelli considerati normali nel corso della storia naturale (ad es. Taylor 2013; Kopnina 2017). Oltre all’evidente connessione con l’espansione demografica della popolazione umana (aumentata di circa otto volte, negli ultimi due secoli), l’evoluzione delle tecnologie e dei modelli di consumo, le logiche della produzione industriale e della massimizzazione dei profitti, nonché l’espansione mondiale dei mercati, hanno concorso a un’amplificazione non solo quantitativa ma anche qualitativa delle situazioni di sofferenza animale, come mostrano ad esempio i trattamenti riservati agli animali utilizzati nell’industria alimentare. Essi infatti implicano un controllo capillare sui loro corpi e su tutte le tappe della loro vita, rendendo quest’ultima simile al processo di manifattura e confezionamento di una merce di facile e immediato consumo (Patterson 2003; Porcher 2017).

Almeno nel caso degli animali non umani, si può dunque constatare un’escalation delle forme di “violenza antropica” nel mondo contemporaneo, che in effetti, come mostrato dalle inedite dimensioni planetarie della crisi ambientale, sta colpendo massicciamente la totalità delle forme di vita e degli ecosistemi terrestri (Stépanoff 2021). Peraltro, la constatazione di questi aspetti di discontinuità non esclude che si debba riflettere, in particolare per quanto concerne le relazioni tra umani e animali, su ciò che è stato chiamato il continuum che lega forme di violenza e di dominazione apparentemente molto diverse (Beneduce 2008: 19).

La rilettura, alla luce delle categorie della teoria di Descola, dell’analisi di Thomas (1996) dei mutamenti nelle sensibilità verso il mondo naturale prodottisi in Europa a partire dall’inizio dell’Età moderna, che Stépanoff (2021) ha recentemente proposto, fornisce un modello possibile di articolazione tra gli aspetti di discontinuità e di continuità che legano, in tale ambito, le forme contemporanee dominanti in particolare nelle società capitaliste urbanizzate e occidentalizzate a quelle documentate in altre società. Secondo Stépanoff, la coesistenza di attitudini di sfruttamento (exploitation) e di protezione, che egli propone di chiamare in francese exploitection, è un portato originale dell’Occidente moderno è, «sul versante dell’ecologia delle relazioni, il correlato del binomio metafisico natura-cultura» (ivi: 14).

Un lavoro come quello di Stépanoff invita ad adottare una prospettiva comparativa, e non esclusivamente incentrata sulla rilettura delle vicissitudini dell’antropocentrismo nella storia dell’Occidente, per riflettere sugli elementi di analogia e di differenza insiti nei modi di funzionamento, nelle diverse società umane, di ciò che Agamben (2002) ha chiamato la “macchina antropologica” come dispositivo mediante il quale vengono tracciate linee di cesura tra umanità e animalità[6] che sono al contempo impiegate per distinguere e gerarchizzare gli stessi esseri umani in base ai gradi di compiutezza della loro umanità e di distacco dal suo “fondo” di animalità (Kohler 2016).

Come è noto, l’assimilazione all’animalità è una modalità comunemente associata a un’attitudine etnocentrica, in quanto viene impiegata per marcare la distanza che separa determinate categorie di umani dall’umanità del gruppo di appartenenza di chi propone tale assimilazione[7]. In particolare, l’accostamento all’animalità, e più particolarmente alla bestialità, sia degli esseri umani che subiscono violenza sia di coloro che la commettono, è un procedimento assai diffuso tra gli esseri umani ed è stata notata la sua funzione di legittimazione di una violenza che altrimenti apparirebbe essa stessa “inumana” (Kilani 2008: 134-135). Inoltre, la consuetudine di considerare “bestie” le persone umane cui si infliggono forme estreme di violenza presenta dei paralleli con il considerare come semplice carne o cibo l’animale ucciso. Questa forma di assimilazione, prossima a una “reificazione” (Dalla Bernardina 2020: 62-72), si riscontra non soltanto tra quelle popolazioni, come quelle indigene dell’Amazzonia nord-occidentale, in cui il consumo dell’animale, per non produrre malattie in chi lo mangia, è preceduto da rituali atti a espellere la sua “anima” (ad es. Hugh-Jones 2019, 2020), o laddove tale consumo è preceduto da rituali sacrificali (Kilani 2008: 106-115); essa può essere presente anche quando tale preliminare ritualizzazione non è prevista, come è stato mostrato anche per quanto concerne gli indigeni amazzonici (Kohler 2016) e, soprattutto, con riferimento alle società urbane contemporanee in cui si sono affermati l’allevamento industriale e la separazione spaziale tra il momento dell’uccisione e quello del consumo (ad es. Burgat 2017; Kilani 2000; Porcher 2017; Remy 2009; Vialles 1987)[8].

Mostrerò come questo tipo di slittamenti categoriali, diffusi nei contesti più diversi, nei modi di tracciare le frontiere tra umanità e animalità, mal si conciliano con l’ipotesi che in ogni società prevalga, in ogni contesto di relazione tra umani e animali, un determinato “regime ontologico”. Detto altrimenti, la “dominanza” di un regime ontologico in una data società richiederebbe una riflessione sulle forme e la storia dei meccanismi di esercizio di rapporti di dominazione più approfondita di quanto non lo sia in molti degli approcci antropologici contemporanei al campo delle relazioni tra uomini e altri animali.

Alcune delle difficoltà che gli approcci contemporanei di studio delle relazioni tra umani e altri animali evidenziano nel trattamento delle intersezioni (Beneduce 2008: 27) tra sofferenza, violenza, soggettività e dominazione dipendono dalle particolari impostazioni teoriche e metodologiche che differenziano tra loro gli approcci presi in considerazione. Altre, però, sono comuni: in particolare permane una difficoltà di armonizzazione tra un approccio di tipo ecosistemico e olistico incentrato soprattutto su specie e popolazioni, e un altro che privilegia invece i vissuti individuali. Questa stessa difficoltà presenta peraltro molte analogie con quella che ha storicamente caratterizzato i rapporti tra etiche ecocentriche ed etiche animaliste.

L’esplorazione di questi paralleli potrebbe costituire un terreno di confronto mutualmente costruttivo tra questi diversi versanti della riflessione teorica ed etico-politica sulle relazioni tra umani e altri animali. Da questo punto di vista, tanto alcuni sviluppi dei dibattiti sulle prospettive di una “giustizia ecologica”, quanto le riflessioni recenti sulle possibili giunture tra un’antropologia incentrata sui temi della sofferenza, della violenza, del trauma e della dominazione offrono, a mio parere, indicazioni utili su come avviare tale dialogo, in quanto in entrambi i casi viene argomentato che bisogna prendere atto della pluralità di visioni etiche coesistenti nel mondo contemporaneo, in cui nessuna offre in anticipo tutte le risposte alla molteplicità di situazioni e di casi in cui occorre “prendere in carico” le relazioni tra uomini e altri animali, incluse quelle che implicano violenza e dominazione. Per questo, un principio di pluralismo deve guidare il loro confronto, perché è proprio dal rispetto di esso che si possono costruire, soprattutto politicamente, modalità delle relazioni tra uomini e altri animali più giuste ed eque di quelle attuali.

L’etnografia multispecie e il problema di come curarsi e “rispondere” della sofferenza animale

Per molti aspetti, la proposta di una “etnografia multispecie”, alla quale i lavori di Donna Haraway (2003, 2008, 2019) hanno fatto da battistrada, sta sviluppando il programma di una nuova “antropologia oltre l’umano” (Kohn 2021) delineato dai proponenti di un ontological turn tanto negli Science and Technology Studies quanto nell’antropologia socioculturale propriamente detta[9]. Gli studi multispecie si concentrano infatti sulla «moltitudine di agenti viventi che si sostengono uno con l’altro mediante relazioni di entanglement» (Van Dooren et al. 2016: 4), sulle «ecologie dei sé» (Kohn 2021) e «sulle forme di partecipazione» (Keck 2020a) che coinvolgono assieme umani e viventi non umani. Come argomentano i sostenitori di questo approccio (ad es. Kirksey, Helmreich 2010; Locke, Muenster 2015; Locke 2018; Ogden, Hall, Tanita 2013; Van Dooren et al. 2016), l’agency dei viventi non umani si esplicita nei processi implicati nell’articolazione di reti, o “assemblaggi” (Latour 2005), di relazioni socioecologiche, nella “simbio-poiesi” (Haraway 2019), nelle proprietà di “divenire” e “rinascita” (resurgence) intrinseche ai fenomeni vitali (Tsing 2021). Diversi degli studiosi vicini all’approccio multispecie ritengono inoltre che forme di agency [10] possano essere riscontrate non solo in tutti gli animali non umani ma anche in piante, funghi, virus, entità come fiumi, rocce, ghiacciai, montagne, fenomeni atmosferici, geo-luoghi, ecosistemi e, come implicato dall’“ipotesi Gaia”, persino nell’intero sistema costituito dalla biosfera e dall’ecosfera terrestre (ad es. Latour 2020; Strang 2017, 2020)[11].

L’accento su come l’interazione reciproca tra le agency umane e quelle dei non-umani contribuisce allo svolgimento e al divenire delle loro relazioni bio-socio-ecologiche è strettamente associato alla proposta di un «more-than-human-approach» in antropologia in base alla posizione secondo cui «non possiamo comprendere l’umanità in isolamento dalle specie non umane implicate nella vita umana» (Locke 2018, cfr. Latour 2019)[12]. D’accordo con il superamento delle dicotomie tra cultura e natura, società e ambiente, persona e organismo, e della loro equiparazione con quella tra umano e non umano, le ricerche dell’etnografia multispecie intendono dunque esplorare le differenti «dimensioni della relazionalità multispecie nel mondo contemporaneo» studiando le interazioni tra «umani e altre specie nella produzione di cibo, nella ricerca scientifica e nella biotecnologia; nella conservazione dei paesaggi e dei modi di vita; nei vari contesti dell’intimità interspecie; e negli scenari di epidemie, intrusioni ed estinzioni» (ivi).

Leggendo l’elencazione di questi ambiti, ci si aspetterebbe che le intersezioni tra sofferenza, violenza, soggettività e dominazione (Beneduce 2008) nelle relazioni multispecie occupino un posto di rilievo negli studi e nelle ricerche ascritte all’etnografia multispecie. Apparentemente così non è successo, almeno se si consulta la bibliografia commentata di questi studi pubblicata da Locke e Münster (2015) nelle cui 36 pagine i termini suffering e domination non sono mai impiegati, violence compare due volte, al pari di dominated, che è tuttavia riferito alla dominazione umana sul paesaggio (landscape).

Per questa scarsa tematizzazione esplicita di tali questioni, che contrasta con la loro centralità nei critical animal studies (ad es. Best et al. 2007; Taylor 2013), l’etnografia multispecie è stata spesso accusata di «mancanza di impegno morale» e di eludere un confronto «con l’enorme scala degli abusi nei confronti dei non umani, o con le posizioni ecocentriche più radicali» (Kopnina 2017: 347-348); di dedicare un’insufficiente attenzione ai punti di vista degli animali e alle posizioni di potere nella ricerca etnografica (Hamilton, Taylor 2017). Secondo Manceron, nell’etnografia multispecie prevarrebbe un modo di concepire l’agency

non più come una maniera d’agire – di una specie, un ecosistema o una società umana – conforme a comportamenti regolati e messi in moto da regolarità naturali (o culturali), da habitus e istinti, ma derivante da modi d’esistenza, di presenza e d’enunciazione (espressione) eminentemente contestuali e interazionali. […] Nella misura in cui questo vis-à-vis è concepito in termini di comunicazioni e interazioni, la tendenza […] è quella di isolare questo segmento di realtà, come se fosse difficile (o addirittura inutile?) elaborare anche la questione delle relazioni sociali, della gerarchia, dei conflitti o solidarietà, lavoro, rapporti con il territorio, genere, apprendimento, rituali, parentela, ecc. (Manceron 2016: 287, 293).

Queste critiche mettono in rilievo alcune tendenze insite nel carattere dichiaratamente sperimentale e volutamente etnografico degli studi multispecie, in quanto proposta di nuove poetiche e politiche dei rapporti tra umani e non umani. Tale proposta, infatti, come affermato dalla stessa Haraway, è più interessata a proiettarsi “in avanti”, prefigurando la costruzione di nuove forme future di loro convivenza più “sostenibili” di quelle attuali, che a offrire una critica dei modi oggi dominanti, in quanto la loro negatività è considerata un fatto assodato.

Le accuse di scarso impegno politico e di poca attenzione per i rapporti di potere si rivelano più giustificate nei confronti degli epigoni di tale indirizzo che delle esponenti di primo piano, come Donna Haraway e Anna Tsing.

Il testo in cui la prima ha esposto in maniera più intensa e articolata il suo pensiero sulle violenze e sulle sofferenze inflitte agli animali non umani e sui loro nessi con la sottoposizione a condizioni di dominazione è probabilmente il capitolo di When Species Meets intitolato Sharing Suffering (Haraway 2008: 70-93). Il suo punto di partenza è, come indicato dal sottotitolo (Instrumental Relations between Laboratory Animals and their People), una riflessione sulla legittimità etica dell’uso di animali in laboratorio per fini di sperimentazione scientifica. Posta di fronte all’aut-aut della questione dell’abolizione di quest’uso, Haraway risponde che “dipende”. Riprendendo diversi argomenti avanzati da Derrida (2006, 2021), Haraway sottolinea che, da un punto di vista tanto epistemologico quanto etico, ciò che è fondamentale, anche rispetto al confrontarsi con tale questione, è definire che cosa, in una relazione o interazione, significhi “rispondere” e che cosa distingua il rispondere dal mero “reagire” a una sollecitazione esterna. In questo senso è altrettanto fondamentale riconoscere che la “responso-abilità” è ciò che accomuna umani e animali distinguendoli da macchine e oggetti inanimati, perché è in questo riconoscimento e nell’attitudine di empatia che esso implica che sta l’unico principio sensato di considerazione etica di ciò che è condiviso in una relazione. Affrontare in modo realmente etico una situazione significa rinunciare all’illusione che vi siano dei principi generali astratti che permetterebbero di “valutarla”, calcolando i diversi fattori e interessi in gioco: l’etica stessa, sotto questo profilo non può che essere situata, in quanto deve tenere conto delle diverse responso-abilità la cui attivazione non può essere prevista prima di trovarsi coinvolti in una relazione. Vivere una relazione in modo etico richiede dunque al contempo sia la coltivazione di doti di attenzione e di cura verso le diverse responso-abilità messe in gioco, che un’assunzione di rischio insita nel fatto che la propria responso-abilità è senza garanzie. Haraway è pronta a riconoscere che molte relazioni tra umani e animali, tra cui quelle associate al loro uso in laboratorio per fini di sperimentazione scientifica, sono asimmetriche, strumentali e implicano l’inflizione di sofferenza; d’accordo con Derrida, ella ritiene che al fondo del concetto metafisico di animalità come contrapposto a quello di umanità vi sia l’assunto che l’animale, a differenza dell’uomo, può essere privato della vita senza che questo venga considerato e sanzionato come un crimine. Tuttavia, posta di fronte al dilemma se ogni uso strumentale degli animali, e in particolare quello per fini di sperimentazione, debba essere abolito, Haraway rifiuta di dare una risposta univoca, in quanto anche la strumentalità può generare nel tempo forme migliori di convivenza reciproca tra umani e animali. Il nodo etico non è dato dall’uso strumentale in sé ma dalla capacità di empatizzare con ciò che esso produce nella vita di chi è strumentalizzato.

Nella loro rassegna degli studi riconducibili all’etnografia multispecie, Van Dooren, Kirksey e Münster riprendono questa posizione di Haraway. Essi scrivono infatti:

rifiutando la stanca opposizione tra tre esigenze incommensurabili – giustizia sociale in chiave umanista, etica focalizzata sul benessere delle singole entità (di solito animali non umani ma in misura minore piante, funghi, pietre e altri) e un’etica ambientale preoccupata principalmente per la salute degli ecosistemi e delle specie – il lavoro negli studi multispecie ha abbracciato approcci etici relazionali per affrontare diverse rivendicazioni in competizione. […] ‘Convivendo con il problema’ [staying with the trouble][13], tale lavoro mira a mantenere gli obblighi etici in competizione, moltiplicando le prospettive su ciò che conta come ‘il bene’. […] Quest’etica richiede un continuo interrogarsi, uno sforzo per coltivare nuove modalità di attenzione – ‘innovare pratiche di ascolto come tecniche rischiose di cura cosmopolitica’ – che possano aiutarci a vivere bene all’interno di relazioni che raramente possono essere risolte con la soddisfazione di tutti e mai una volta per tutte. Da questo punto di vista, l’etica è al centro dei resoconti multispecie, e niente affatto un suo complemento marginale. Abbracciando e rielaborando la nozione deleuziana che l’etica è etologia, gli approcci multispecie sono fondati sull’idea che una minuziosa attenzione ai diversi modi di essere e divenire è inseparabile dal lavoro dell’etica (2016: 15-16, rif. bibl. omessi).

Le “tre esigenze incommensurabili” alle quali fanno riferimento questi studiosi corrispondono in realtà, come si vedrà, a un ventaglio assai diversificato, e in continua evoluzione, di prospettive su quelli che dovrebbero essere, nei molteplici contesti di relazione tra esseri umani e altri animali dei trattamenti equi. Comunque sia, anche per Van Dooren, Kirksey e Münster una prospettiva etica “disposizionale” va sperimentata, ed è in quest’orizzonte che si comprende il loro riferimento all’idea di Deleuze dell’etica come etologia, strettamente connessa alla sua concezione del “divenire animale” (Vignola 2013).

Si può dibattere intorno alla questione se un tale orientamento favorisca la sperimentazione, sul piano dei dibattiti etici e politici, di forme più profonde di convivenza e pluralismo democratico delle posizioni o se invece il suo carattere avanguardista non finisca per correre il rischio di porsene al di sopra. A questo proposito Simone Pollo (2021: 117) si chiede se «proposte del genere abbiano davvero la capacità di incidere nella reale vita ordinaria degli esseri umani o se esse, piuttosto, non siano esercizi intellettuali destinati a ispirare […] ristretti gruppi di persone». Cercherò di dare il mio parere su tale questione in sede di conclusioni.

L’interpretazione delle attitudini verso l’uccisione degli animali tra le popolazioni di cacciatori-raccoglitori e di pastori premoderni: dalla “fiducia” alla “dominazione”?

Lo iato che intercorre tra la materialità delle operazioni venatorie e dei suoi effetti concreti (l’uccisione e, spesso, il consumo della preda) e le rappresentazioni che ne danno i cacciatori è stato più volte sottolineato da antropologi e storici delle religioni. Dalla Bernardina sostiene che tale iato è presente, seppure con alcune variazioni, tanto tra le popolazioni in cui la caccia è legata fortemente alla sussistenza quanto tra i cacciatori dell’Europa contemporanea: «è in questa scollatura rispetto al reale, in questo bisogno di “riparare”, di distogliere l’attenzione dal nucleo strumentale e violento del rapporto con la natura, che mi è parso possibile rinvenire le tracce di un profondo disagio» (Dalla Bernardina 1996: 243, corsivo nel testo).

Un simile disagio sarebbe affrontato attraverso l’elaborazione di concezioni e rituali che hanno l’effetto di non fare debordare oltre misura, fino all’angoscia, la compresenza delle pulsioni aggressive e dei sensi di colpa, sentimenti connessi al commettere atti di violenza su esseri viventi che avvertiamo immediatamente come “prossimi a noi” (Dalla Bernardina 2020: 19) per caratteristiche fisiologiche e cognitive, anche se il senso di tale prossimità può variare sensibilmente a seconda del tipo di animali con cui ci si confronta; per questo, il problema di come tracciare distinzioni nette di ordine fisiologico e cognitivo tra umani e animali può essere ritenuto qualcosa che accomuna le popolazioni umane più diverse e che non è mai risolto una volta per tutte (Hugh-Jones 2019, 2020; Descola 2021).

Lévi-Strauss ha affermato a questo proposito che «non è sorprendente che uccidere degli esseri viventi per cibarsene ponga agli uomini, che ne siano o no consapevoli, un problema filosofico che tutte le civiltà hanno tentato di risolvere» (2015: 123-124).

Una simile formulazione lascia tuttavia spazio a diverse interpretazioni: un simile “problema filosofico” può essere infatti considerato come un problema che attiene tanto all’epistemologia, o addirittura all’ontologia, quanto alla dimensione etica.

Secondo Dalla Bernardina (1993, 1996, 2020), esso è comunque avvertito universalmente, e i modi di affrontarlo costituiscono un elemento di rilievo delle rappresentazioni cosmologiche di moltissime società, indipendentemente dal regime di sussistenza che vi prevale. Questi modi emergono in particolare sia nelle concezioni riguardanti le attività venatorie e i rituali connessi al trattamento delle spoglie della preda, sia in quelle in cui si espone il significato degli atti sacrificali. Per Dalla Bernardina, al di là della loro apparente variabilità, in queste concezioni, e nella stessa forma di esecuzione di questi atti rituali, sono ravvisabili dei meccanismi inconsci, di tipo psicologico e di diffusione universale, diretti a mediare ed articolare l’aggressività e la pulsione di morte che si esprimono nella violenza e nell’uccisione dell’animale, e i sentimenti di colpa che al contempo accompagnano entrambe (2020: 19-21). Da questo punto di vista, i dispositivi di ritualizzazione che accompagnano o seguono l’uccisione dell’animale costituiscono forme di “sublimazione” se non di “diniego” (ivi: 84, 175), mettendo in scena una sorta di “commedia dell’innocenza” (ivi: 18-20, 36-39 e passim; cfr. Burgat 2017; Kilani 2008). Essi sono espressione di un “rimorso” per il male che è stato inflitto e, al contempo, di una “malafede”, «termine che impiego per attribuire agli attori sociali – anche quelli più distanti dall’episteme occidentale – una capacità critica che gli consentirebbe (se l’obiettivo non fosse, per l’appunto, la dissimulazione) di riconoscere il carattere strumentale delle loro finzioni rituali» (Dalla Bernardina 2020: 21).

Dalla Bernardina sottolinea in questo senso la necessità di identificare «dietro alla varietà degli ethos, degli orientamenti psicologici comuni, insistendo sullo scarto che, anche nelle società differenti dalla nostra, separa la doxa dalle modalità concrete d’accedere ai non umani: le retoriche variano, i referenti (si uccide, si mangia) un po’ meno» (ivi: 23). Una tale posizione è enunciata con esplicito riferimento critico alla teoria, proposta da Descola (2021), secondo cui le concezioni etiche, e dunque le situazioni che producono sentimenti di colpa e rimorso, dipendono dalla particolare combinazione tra un determinato regime ontologico e un “modo di relazione” compatibile con quest’ultimo. Essa però investe direttamente anche la tesi di Ingold, che discuterò in questo paragrafo, secondo cui presso le popolazioni di cacciatori-raccoglitori prevarrebbero concezioni e pratiche dello stare al mondo caratterizzate da un intimo coinvolgimento che portano a vedere la caccia come un incontro «essenzialmente non violento» (Ingold 2000: 69, corsivo dell’autore), che implica la connivenza e la collaborazione reciproca tra i cacciatori e gli animali cacciati.

Questa tesi è esposta da Ingold in From trust to domination. An alternative history of human-animal relations (in Ingold 2000: 61-76), un testo in cui egli interpreta le differenze tra le relazioni tra esseri umani e animali presso le popolazioni di cacciatori-raccoglitori rispetto a quelle esistenti presso le popolazioni di pastori nei termini di una distinzione tra fiducia reciproca (trust) e dominazione.

L’antropologo britannico fa notare che, almeno per quanto riguarda le popolazioni di cacciatori-raccoglitori contemporanei, esistono pochi indizi che nelle loro concezioni dei propri rapporti con l’ambiente si rifletta l’esistenza di un antagonismo tra la “natura” e le proprie possibilità di esistenza e sopravvivenza. Ciò che prevarrebbe è invece l’idea che i rapporti tra umani e animali sono caratterizzati dalla combinazione di interdipendenza e reciproca autonomia. Queste qualità delle relazioni con gli animali vanno tuttavia “coltivate” e “curate” dai cacciatori, che devono cercare di non infliggere sofferenze inutili alle prede e trattare appropriatamente le loro spoglie. Purché vengano seguiti questi e altri principi di rispetto, si pensa anzi che sia la selvaggina a “offrirsi” al cacciatore. La concezione della caccia come “atto non violento” sarebbe ravvisabile anche nelle armi impiegate: «lungi dall’essere strumenti di controllo o manipolazione, esse servono l’obiettivo di acquisire conoscenza. Attraverso di esse il cacciatore non trasforma il mondo, piuttosto è il mondo ad aprirsi a lui» (ivi: 72). Questo non esclude che ogni interazione tra preda e cacciatore sia avvertita come carica di rischio e che divenga fonte di ansia, dato che il modo di presentarsi e di comportarsi degli altri, essendo comunque legato alla loro libertà e autonomia, non è prevedibile.

Per Ingold, inoltre, le popolazioni di cacciatori-raccoglitori non considerano le relazioni tra esseri umani e quelle tra umani e gli animali come appartenenti a due ambiti distinti, rispettivamente quello della “società” e quello dell’“appropriazione della natura”, ma come due aspetti diversi di un’esperienza dello stare al mondo che è concepita come partecipazione alla continua tessitura di processi di vita e morte strettamente interconnessi. La combinazione tra un senso di interdipendenza e il valore dell’autonomia individuale è connessa a questo modo di sentirsi parte del mondo. Presso i cacciatori-raccoglitori, i rapporti con gli altri, sia umani che non umani, sono fondati su una disposizione di “fiducia”, incompatibile con l’idea che qualcuno possa “imporre” la propria volontà su un altro attraverso l’esercizio di un controllo sulla sua vita.

Nelle popolazioni di pastori si affermano invece forme di controllo sul comportamento degli altri. Anche se il pastore ha cura dei suoi animali, mostra loro benevolenza e si sente ad essi legato da relazioni di familiarità e interdipendenza reciproca, è tuttavia lui

a prendere decisioni di vita e di morte riguardo a quelli che ora sono i “suoi” animali, […] agendo al contempo come loro protettore, guardiano e carnefice. È lui a sacrificarli, non sono loro a sacrificarsi a lui. […] In breve, la relazione pastorale di cura, a differenza di quella tra il cacciatore e gli animali, non è fondata su un principio di fiducia ma di dominazione. […] Gli strumenti impiegati dal pastore, a differenza di quelli del cacciatore, sono diretti al controllo invece che alla rivelazione [sic]: essi includono la sferza, lo sperone, l’imbracatura, le pastoie, tutti progettati per limitare o indurre il movimento mediante l’inflizione di forza fisica e, a volte, dolore acuto” (ivi: 72-73).

Ingold aggiunge che «evidentemente una transizione nella qualità della relazione, dalla fiducia alla dominazione, incide sulle relazioni non solo tra gli umani e gli animali non umani, ma anche, e in egual modo, su quelle tra gli stessi umani» (ivi: 76), e indica uno di questi paralleli nella frequente presenza di forme di schiavitù nelle società pastorali. Egli sottolinea che comunque la distinzione tra trust e domination non implica una comparazione di questi due modelli di relazione sotto il profilo morale (ivi: 75). Entrambi, infatti sono accomunati dalla «stessa premessa, e cioè che gli animali sono, come gli esseri umani, dotati di poteri senzienti e di azione autonoma che devono essere rispettati, come nella caccia, o sottomessi mediante l’esercizio di una forza superiore, come nella pastorizia»(ivi: 74).

Per Ingold, la transizione dalle disposizioni di “fiducia” che informano le relazioni tra i cacciatori, le loro prede e l’ambiente di vita condiviso da entrambi a quelle di dominazione, associate alla domesticazione, non comporta l’istituzione di un “distacco” radicale tra essi, ma soltanto un cambiamento delle modalità di coinvolgimento (engagement). Con la modernità, è invece il vissuto intersoggettivo delle relazioni che viene meno: gli animali e la natura vengono in questo caso concepiti come meri oggetti esterni, come ben mostrato dal modo in cui vengono “gestiti” negli allevamenti industriali. L’istituzione delle dicotomie tra natura e umanità, e tra animalità e società, è ritenuta da Ingold «profondamente arrogante» (ivi: 76): essa avrebbe condotto all’attuale peggioramento, prossimo alla catastrofe, delle relazioni ecologiche su scala globale. In questo senso, egli pensa che occorra riarticolare queste relazioni non facendo più ricorso alle dicotomie tra natura e società e tra natura e cultura, ma recuperando il senso di coinvolgimento attivo dello stare del mondo che si è andato perdendo nell’Occidente moderno.

Secondo Ingold, «il concetto di natura, come quello di società, è inerentemente e intrinsecamente politico. Esso è infatti vincolato a una politica di pretese e contro-rivendicazioni i cui risultati dipendono dagli equilibri prevalenti di potere» (2005: 503). Tuttavia, egli riconosce che ciò vale anche per la nozione di “prospettiva dell’abitare” (o “del dimorare”: dwelling perspective), da lui proposta per sostenere che la produzione della vita sociale e dei luoghi è qualcosa che nasce non solo dagli esseri umani ma dalle loro relazioni storiche di co-engagement con i diversi “costituenti” non-umani con cui condividono uno stesso habitat:

mentre possiamo riconoscere che il dimorare è un modo di sentirsi a casa nel mondo, questa casa non è necessariamente un luogo comodo o piacevole in cui stare, né in cui siamo soli. […] Che gli umani infliggano regolarmente dolore e sofferenza ad altri umani, per non parlare dei non umani, è fin troppo ovvio. Ma vale la pena ricordare che gran parte del malessere dei non umani è attribuibile ad altri non umani e che anche gli umani possono soffrire per mano (o dei denti ed artigli) dei non umani. Forse l’inflizione [di sofferenza] è meno deliberata, ma non è meno reale nelle sue conseguenze. Contro questa inflizione, la maggior parte delle creature tenta vari mezzi di protezione. Gli esseri umani sono generalmente preoccupati di proteggere sé stessi, le loro case, i loro campi e giardini, i loro animali e la loro terra. Lo fanno per creare una sfera in cui possono dimorare in relativa pace e prosperità. Potremmo chiamare una tale sfera un luogo, intendendo con ciò non una porzione delimitata di territorio ma un nesso di attività vitali in corso. Le minacce da scongiurare possono provenire da più parti, umane e non umane. Così le persone possono cercare protezione contro furti, stregonerie, razzie o attacchi militari; ma anche contro incendi, tempeste, malattie e animali selvatici pericolosi (ivi: 503, 506).

L’aspetto più rilevante del discorso di Ingold non è tanto che la morte e la sofferenza sono presenti e, probabilmente, ineliminabili anche nella “prospettiva del dimorare”, quanto il tipo di spiegazione di questo stato di cose. La “prospettiva del dimorare” è vista come una modalità di relazionarsi con l’ambiente più “vitale” di quella moderna, ma proprio per questo in essa è particolarmente presente un forte “istinto di conservazione” il quale, più che specie-specifico (“specista”, direbbero i sostenitori della liberazione animale), potrebbe essere definito ego o sé-centrico, non nel senso che porterebbe sempre a privilegiare la sopravvivenza individuale rispetto a quella degli altri, ma in quello che comunque le esperienze di vita e di relazione individuali restano alla base dell’identificazione di ciò che va salvaguardato, protetto e coltivato[14].

L’approccio di Ingold ha avuto una grande risonanza soprattutto per la possibilità di vedere le differenze tra caccia-raccolta e pastorizia non solo e tanto in termini di regimi di sussistenza economica, ma come differenze tra modi fenomenologici di stare nel mondo e, dunque, tra concezioni cosmologiche. Esso inoltre riguarda indirettamente una questione emersa recentemente all’interno dei movimenti di animal advocacy e riguardante le cause della diffusione transculturale dello specismo nel mondo contemporaneo. Discostandosi dalla posizione di Singer, che si era limitato a indicare nello specismo una disposizione psicologica fortemente radicata, diversi teorici della questione animale, tra cui Nibert (2013) e svariati filosofi italiani (ad es. Filippi Trasatti 2013; Maurizi 2021), hanno infatti proposto di interpretarlo come ideologia sviluppatasi storicamente, a partire dalla rivoluzione neolitica, per giustificare l’uccisione e le forme di dominazione e di sfruttamento degli animali non-umani. Per tali studiosi vi sarebbe inoltre un’intrinseca connessione tra queste forme e lo sviluppo dei rapporti di dominazione e sfruttamento nelle popolazioni umane. Di conseguenza, essi si sono fatti fautori di un “antispecismo politico” come principio per cui il superamento degli attuali rapporti di dominazione tra umani e animali sarebbe strettamente legato a un mutamento di quelli tra gli esseri umani. Una tesi che non è condivisa dai sostenitori di un “antispecismo debole” (ad es. Caffo 2016, 2018), secondo cui, sebbene vi sia una connessione genealogica tra un ambito e l’altro, le due agende devono essere tenute distinte, in quanto niente può garantire che a un mutamento dei rapporti di dominazione tra esseri umani ne corrisponda uno analogo nei confronti degli animali non umani.

Sotto tutti questi profili, è tuttavia interessante osservare come la tesi di Ingold sia stata criticata per riproporre una concezione abbastanza unilaterale dei processi di domesticazione (Russell 2002; Cassidy 2007) e, in particolare, delle transizioni, sia storiche che strutturali, tra i tipi di rapporti con gli animali vigenti nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori e in quelle di pastori. Ciò che si registra alla luce di una ricognizione comparativa degli studi etnografici è piuttosto l’esistenza di una pluralità di situazioni che si distribuiscono lungo un continuum, includendo molti casi di società in cui, nonostante la presenza di forme di domesticazione, i rapporti con gli animali non umani sono spesso caratterizzati, per impiegare la terminologia di Ingold, da disposizioni che sono di “fiducia”, che rivestono pari o maggiore importanza di quelle di “dominazione” (ad es. Beach, Stammler 2006; Kratli 2007; Stammler, Takakura 2010; Fijn 2011; Stépanoff 2017; Stépanoff et al. 2017; Govindrajan 2018; White, Fijn 2020).

Ma ad essere altresì contestata è stata la sua interpretazione delle concezioni e delle pratiche venatorie presso le popolazioni in cui la caccia e raccolta costituisce la principale attività di sussistenza. Va innanzitutto osservato che il campione preso in esame da Ingold riguarda solo quattro gruppi (Cree, Ojibwa, Koyukon, Nayaka) di cui tre dell’area subartica dell’America del Nord[15].

Peraltro, una lettura delle etnografie riguardanti le stesse popolazioni subartiche (ad es. Brigthman 1993), rivela il suo uso selettivo dei modi con cui i cacciatori parlano delle loro relazioni con le prede. In esse emerge come, in effetti, la concezione secondo cui la preda “si offre” al cacciatore coesiste con un’altra in cui si riconosce che l’animale spesso si oppone decisamente all’intento del cacciatore, considerandolo un avversario e un dominatore, che riesce a uccidere la preda solo grazie all’inganno e all’impiego di arti magiche. Inoltre, la rappresentazione della caccia in termini di reciprocità e di scambio coesiste con un’altra in termini di conquista e puro prelievo, essendo questo un tratto che accomuna i cacciatori subartici del Nordamerica e della Siberia a quelli dell’Europa contemporanea (Dalla Bernardina 2020: 45, 47-48).

Ancora, secondo quanto emerge da uno spoglio più ampio della documentazione contenuta nella letteratura etnografica sulle popolazioni subartiche (Knight 2012; Willerslev, Vitebsky, Alekseyev 2015), prima della caccia i cacciatori adottano precauzioni rituali di vario tipo dirette a propiziare il suo successo e scongiurare ogni infortunio.La caccia stessa generalmente comporta lunghi inseguimenti, appostamenti, camuffamenti, strategie di avvicinamento e accerchiamento basate sull’accumulazione estesa di conoscenze ed esperienze pregresse che consentono di prevedere il comportamento dell’animale. Nelle attività venatorie vengono impiegate armi e altri apparati (come frecce avvelenate e trappole con vario tipo di innesco), che, al contrario di quanto sostenuto da Ingold, sono non solo funzionali al condizionamento del comportamento dell’animale e a coglierlo di sorpresa, ma gli causano a volte, prima del sopraggiungere della morte, una intensa sofferenza.

Inoltre, tanto prima che durante e dopo la caccia, è frequente l’uso di un linguaggio ricco di eufemismi ed ellissi, che spesso è diretto allo stesso animale o alle entità “metapersonali” (Sahlins, Graeber 2019) considerate i suoi signori legittimi, il cui scopo dichiarato è di dissimulare le intenzioni del cacciatore, presentate come atti, a volte reciproci, di seduzione amorosa o di invito amichevole e familiare a venire incontro ai suoi desideri.

Dopo l’uccisione, i rituali riguardanti il trattamento delle spoglie sia prima che dopo il consumo della preda sono spesso spiegati dalle persone non semplicemente come forme di rispetto per l’animale ucciso e mangiato ma come atti la cui mancata effettuazione provocherebbe la vendetta del suo “spirito” o dei “signori della selvaggina”, sia sotto forma di malattie inviate al cacciatore e ai suoi familiari che di “nascondimento” della selvaggina.

Considerando l’insieme di queste concezioni e pratiche rituali, Willerslev, Vitebsky e Alekseyev (2015: 7) sostengono che esse implicano la percezione di «un paradosso». Da una parte si pensa che, per non offendere gli animali cacciati e i “signori della selvaggina”, sia necessario uccidere i primi senza arrecare loro sofferenza ed effettuare rituali che testimonino del rispetto verso di loro, sia preliminarmente al loro consumo che nel trattamento delle spoglie. Dall’altra, gli accorgimenti di ordine pratico e rituale connessi alla caccia, all’uccisione e al consumo delle prede mostrano la consapevolezza che esse molto spesso non si comportino in accordo con l’ideale di una loro connivenza e collaborazione con i cacciatori.

Per Knight (2012), infine, Ingold avrebbe trascurato di distinguere il tipo di relazioni che presso i cacciatori-raccoglitori caratterizzano la socialità tra i membri della banda dalle interazioni che si stabiliscono nella caccia con le prede. Nel primo caso, le relazioni si basano su una storia ripetuta di eventi di condivisione, derivante dal condurre una vita in comune, caratterizzata da una familiarità e un’intimità continua tra i membri del gruppo. Nel secondo caso, invece, siamo di fronte a interazioni fugaci, che sono per lo più circoscritte al momento della caccia, e che di fatto terminano inevitabilmente con l’uccisione della preda, precludendo lo sviluppo di una vera e propria socialità condivisa. Knight fa osservare che presso queste popolazioni generalmente la reciprocità viene riferita non ai rapporti tra i cacciatori e i singoli animali, ma a quella tra i primi e i “signori della selvaggina”, frequentemente rappresentati come una sorta di prototipo astratto della specie cacciata: sono dunque queste entità “metapersonali” e non i singoli animali predati a essere concepiti come partner attivi di tali relazioni. L’agency e la natura di esseri senzienti delle prede è ben conosciuta dai cacciatori, ma:

come soggetto della relazione di condivisione, il singolo animale è in effetti assente. In realtà, l’animale senziente è intrinsecamente presente nella caccia. Si mostra recalcitrante quando sfugge al cacciatore e si oppone a tutti i tentativi di cattura. […] questa connessione stabilita [tra cacciatore e preda] nella caccia non ha niente a che fare con la socialità. L’agency dell’animale si manifesta non nella sua abilità di interagire con il cacciatore ma soprattutto in quella di evitare tale interazione (Knight 2012: 346).

In sintesi, l’idea della caccia come condivisione appartiene alle rappresentazioni cosmologiche, ma non alla percezione concreta che il cacciatore ha della sua esperienza di interazione con la preda: «Quando la caccia è vista in termini generali, le morti dei singoli animali si allontanano dalla vista. L’effetto di questa rappresentazione è quello di espurgare dalla caccia la disposizione fondamentale dell’animale cacciato» (ibidem).

Tutti questi rilievi critici mossi alla tesi di Ingold secondo cui presso i cacciatori-raccoglitori la caccia è considerata un atto non violento e piuttosto di condivisione, non possono tuttavia portare al rigetto del suo argomento secondo cui i modi in cui presso queste società (e non solo) sono esperite le relazioni con la preda, e più in generale con l’ambiente non umano, dipendono da un particolare senso dello “stare nel mondo” e di abitarvi e, dunque, da particolari concezioni sui processi che legano ecologicamente e cosmologicamente i diversi processi vitali, la loro riproduzione e sviluppo, e in cui la morte e la privazione di una vita vengono considerate snodi che sono parte di tali processi. Il lessico psicanalitico insito nell’uso di termini come “rimorso”, “colpa”, “cattiva coscienza”, “sublimazione” restituisce solo in parte, e in modo a volte del tutto inadeguato, il tipo di problematicità che in questi contesti sta dietro alle rappresentazioni e ai rituali connessi alla caccia e al trattamento delle spoglie della preda. La presenza di questi rituali tra i cacciatori-raccoglitori può d’altronde essere in certi casi scarsa o nulla, come mostra il caso degli aborigeni australiani (Testart 1987, cit. in Dalla Bernardina 2020: 22), e richiede una considerazione più approfondita dello spettro diversificato sia di concezioni cosmologiche che di variabili di tipo demografico, economico, tecnico e sociologico, documentabili in queste popolazioni (Testart 2012).

I sentimenti di ambivalenza verso l’uccisione dell’animale: “malessere concettuale” o “cattiva coscienza”?

Una critica della tesi secondo cui una “cattiva coscienza” presiederebbe universalmente alle concezioni cosmologiche e al simbolismo dei rituali connessi alla caccia, all’uccisione e al consumo degli animali è stata avanzata da Descola, nel contesto di un dibattito sui modi in cui nelle popolazioni indigene dell’Amazzonia – in cui la caccia e la pesca, anche nei gruppi di orticultori, hanno mantenuto fino a tempi recenti una grande importanza per la sussistenza, al contrario dell’allevamento (come ad esempio accade invece non solo in Siberia ma anche in Nuova Guinea) – viene affrontato il “problema filosofico” (per tornare all’espressione di Lévi-Strauss) posto da questi atti.

Secondo Erikson, l’uccisione e il consumo di animali susciterebbero presso queste popolazioni un “malessere concettuale” in quanto contrastano con la percezione secondo cui essi sono per diversi aspetti simili agli esseri umani. Oltre che con le consuete cautele rituali e le offerte alle entità considerate i signori della selvaggina, le persone gestirebbero tale malessere attraverso la pratica, ampiamente documentata, di mantenere in cattività e trattare come pets ai quali si dedicano cure e premure i cuccioli delle prede. Questa pratica, aggiunge questo antropologo, può essere in effetti interpretata come “compensazione” per la vita tolta ai loro genitori e come un modo di “discolparsi” per tale azione avvertita come “disonesta” (Erikson 1987: 115): il malessere concettuale trapasserebbe dunque in una “cattiva coscienza” e nell’elaborazione di pratiche considerate una “riparazione”, se non addirittura un tentativo di “riconciliazione” (Dalla Bernardina 2020: 51, 150, 219; cfr. Stépanoff 2021: 148).

L’espressione “cattiva coscienza” è stata successivamente impiegata da Hugh-Jones per sottolineare come i sentimenti ambivalenti suscitati dall’uccisione e consumo della carne degli animali tra gli indigeni amazzonici non siano tanto diversi da quelli presenti tra molti europei “moderni”, soprattutto tra gli allevatori: «questa cattiva coscienza è direttamente collegata alla [concezione della] personhood degli animali e all’intimità delle relazioni umane con loro. Questo non vuol dire che anche altri fattori pratici, sociologici o cosmologici non siano rilevanti» (Hugh-Jones 2019: 103, 108, corsivi miei).

Hugh-Jones mostra in particolare come le manifestazioni dei sentimenti di ambivalenza verso l’uccisione e il consumo degli animali presso gli indigeni amazzonici possano prendere forme molto diverse a seconda della popolazione considerata. Inoltre, anche all’interno di una stessa popolazione, i modi in cui è elaborata tale ambivalenza dipendono da una molteplicità di variabili: la specie di animale (l’uccisione e il consumo di pesci e di altri animali acquatici, ad esempio, non suscitano generalmente intensi sentimenti conflittuali, al contrario della selvaggina terrestre, tra le cui specie si operano, sotto questo profilo, ulteriori distinzioni); il tipo di armi con cui le prede sono state uccise; la presenza di particolari tabù o di particolari associazioni totemiche riguardanti determinate specie; l’avere rispettato o infranto regole di purificazione rituale degli alimenti; l’appropriatezza delle occasioni in cui la carne viene consumata e delle modalità con cui viene preparata per il consumo; lo status sociale di chi uccide e consuma; il fatto che gli animali uccisi e mangiati frequentino gli stessi spazi degli uomini o spazi diversi; l’uso e il valore annesso alle parti non mangiabili (ad esempio le piume di determinati uccelli impiegate come ornamenti o le ossa impiegate come strumenti musicali); ecc.

Tutte queste variabili producono dunque un ampio spettro di configurazioni rispetto ai modi in cui questi sentimenti ambivalenti possono presentarsi ed essere elaborati. Anche se per molti aspetti questi modi differiscono rispetto a quelli presenti nelle società europee contemporanee, tuttavia ciò non deve portare a trascurare le loro similitudini. Hugh-Jones riconosce che connotare queste similitudini in termini di “cattiva coscienza” presenta degli inconvenienti:

“cattiva coscienza” evoca una morale del peccato e della colpa non facilmente trasponibile in un contesto amazzonico; forse la più neutra [espressione] “malessere concettuale” [impiegata] da Erikson risulterebbe più appropriata. Detto questo, almeno sotto certi aspetti, noi europei possiamo ben comprendere le contraddizioni e i compromessi che si ravvisano nelle credenze e pratiche apparentemente aliene degli amerindi, poiché, a un livello molto generale, hanno le loro radici in un modo di pensare che trascende le differenze culturali e storiche (ivi: 115-116)[16].

Nel commentare i testi di Erikson e Hugh-Jones, Descola riconosce che «la necessità di mettere a morte degli animali per nutrirsene possa suscitare sentimenti ambivalenti» (Descola 1998: 32), «che questa ambivalenza sia universale è altamente probabile» (ibidem) e che, presso gli indigeni amazzonici, essa emerge chiaramente nei discorsi e nei rituali che riguardano la caccia e l’uccisione degli animali. Apparentemente, nei regimi animisti in cui molti animali sono ritenuti persone, e non semplicemente esseri senzienti, il fatto di ucciderli e mangiarli dovrebbe anzi risultare ancora più difficile da elaborare di quanto lo sia nell’Europa contemporanea. Tuttavia, per Descola è meglio connotare il modo in cui gli indigeni amazzonici si pongono e affrontano tale problema in termini di “malessere concettuale”, come proposto da Erikson, ossia di un disagio che deriva dalla difficoltà di conciliare il tipo di relazione ontologica che si traccia tra umani e animali con il fatto di uccidere e, soprattutto, mangiare questi ultimi. Parlare a tal proposito di una “cattiva coscienza” sarebbe invece inappropriato in quanto questa espressione «implica un dilemma morale, e quindi un quadro etico all’interno del quale si dispiega un sistema più o meno esplicito di diritti, obblighi e valori. Dovremmo quindi presumere che questo quadro etico sia universale e che, ovunque e sempre, sia lo stesso tipo di dilemma che sorge quando un animale viene ucciso» (ivi: 33).

Per Descola, un simile “dilemma morale” non si pone nel quadro dei particolari ethos che informano i comportamenti dei membri delle popolazioni indigene amazzoniche. Sebbene possano essere diversi, questi ethos sono infatti accomunati dalla loro dipendenza dal regime ontologico e da un quadro cosmologico di tipo animista. Nel caso (come quello degli Achuar) in cui il modo di identificazione animista è accompagnato dalla “predazione” come “modo di relazione” dominante, i cacciatori non avvertirebbero:

il bisogno di nascondere la natura asimmetrica del loro rapporto con la selvaggina. La malafede di cui essi danno prova quando fingono di stare con essa in un rapporto paritario di affinità – senza mai assolvere agli obblighi di reciprocità che tale rapporto implica – è motivata più dal timore che la preda si sottragga loro che da un qualsiasi senso di colpa. La violenza è qui manifesta e presa in carico (ivi: 43).

Nei casi in cui tale modo di identificazione è invece associato allo scambio o al dono come modi di relazione dominanti:

uccidere un animale [che si crede che] si reincarni immediatamente non è uccidere ma essere l’agente di una metamorfosi. Allo stesso modo, uccidere un animale che [si crede che] sia permutabile a breve [attraverso l’offerta di anime umane] è più prossimo a ricevere in anticipo una vita che a uccidere. La violenza qui non scompare perché viene rimossa, ma perché non può essere effettiva in cosmologie concepite come sistemi chiusi dove la conservazione del movimento degli esseri e delle cose richiede che le parti cambino costantemente posizione (ivi: 44).

Se si eccettuano le differenze di “area culturale” e di categorie concettuali, l’argomentazione di Descola non è dissimile da quella di Ingold, almeno nella misura in cui presso gli indigeni amazzonici prevalgono concezioni cosmologiche nelle quali i problemi filosofici posti dall’uccisione e dal consumo alimentare di animali non sono concepiti come dilemmi morali.

Tuttavia, secondo Kohler, una tale argomentazione, in cui si privilegia il piano delle cosmologie, ha da un lato l’effetto di trascurare aspetti più prosaici dei discorsi degli indigeni amazzonici sui loro rapporti con gli animali, e dall’altro di espungere da ogni problematizzazione, tanto teorica quanto etica, la materialità e la concretezza della violenza e dell’uccisione cui questi ultimi vengono sottoposti:

Descola tende a liquidare come oziosa ogni considerazione morale [di queste]: da un lato, perché queste considerazioni provenienti da osservatori esterni a queste società sono informate dall’antropocentrismo occidentale; dall’altro perché le questioni di ordine morale si pongono rispetto ai quadri di pensiero che sono ad esse propri (Kohler 2016: 129).

Concentrandosi sui discorsi e sulle pratiche quotidiane di trattamento degli animali tra le popolazioni indigene del bacino dello Uaçá (un’area di frontiera tra Brasile e Guiana francese), egli si domanda se e come sia possibile «“strutturalizzare” – in altre parole dare un senso scoprendo un sistema sottostante – il trattamento inflitto ai rettili, in particolare iguane e caimani» (ivi: 130).

A tal proposito Kohler, come Knight (2012, cfr. Stépanoff 2021: 267), sottolinea la necessità di distinguere i discorsi che riguardano il modo di concepire le relazioni con i “signori degli animali” da quelli sugli animali concretamente predati. La risposta ricevuta da un indigeno alla domanda posta dall’etnografo, di fronte allo spettacolo di un caimano sofferente dopo essere stato catturato e strettamente legato, su perché fosse trattato così, è rivelatrice: “è un cibo, non una persona”. Inoltre, nel contesto etnografico preso in considerazione da Kohler i discorsi sulla personhood degli animali venivano generalmente riferiti a un passato mitico; quando invece si trattava di parlare di situazioni di interazione attuale le opinioni erano caratterizzate da «molte incertezze» (Kohler 2016: 134). In base all’analisi di alcune storie mitiche relative al passato delle relazioni interetniche nella regione, in cui spesso si parla dei gruppi stranieri come di ex-animali trasformati o, al contrario, come esseri umani poi trasformatisi in animali, Kohler ipotizza che queste narrazioni funzionano come metafore in cui si traspone l’idea di una distanza spaziale, temporale o sociale (come nel caso degli Achuar, gli animali vengono assimilati alla categoria sociologica di “affini potenziali”) su un piano ontologico; da questo punto di vista gli animali sono comunque concepiti in termini di estraneità e alterità rispetto a un “noi” definito dai rapporti di consanguineità e familiarità vigenti tra i componenti umani di un insediamento locale.

Per Kohler, inoltre, un’etnografia delle pratiche venatorie e di trattamento degli animali non può limitarsi a illustrare le concezioni cosmologiche che le riguardano: essa deve prestare uguale attenzione alla materialità di ogni pratica e alla sua contestualizzazione storica. Da questo punto di vista, egli analizza l’importanza economica attuale della caccia tra gli indigeni dello Uaçá, legata non tanto al consumo ma alla vendita della carne e di altre parti delle prede (ad esempio il cuoio e le piume), e registra le testimonianze degli indigeni che confermano la forte riduzione, rispetto al passato, del numero di animali delle specie cacciate, segnalata dagli zoologi e dagli esperti di conservazione ambientale. A tal proposito, egli, osserva, non senza sarcasmo:

è abbastanza rimarchevole che gli antropologi generalmente ignorino […] questo tipo di informazioni terra-terra, preferendo [riportare] discorsi intrisi di antica saggezza. Piuttosto che constatare, a tutti gli effetti, una caccia eccessiva dei caimani dagli occhiali, ci si atterrà a una spiegazione cosmopolitica, secondo cui la madre dei caimani, furiosa con gli esseri umani, ha rinchiuso i suoi animali in una gabbia sottomarina […] (Kohler 2016: 141).

Con riferimento al trattamento delle prede, in particolare per quanto riguarda i caimani e le iguane, Kohler descrive le “tecniche” con cui sono catturati e mantenuti in cattività in attesa di essere venduti o consumati, mostrando come esse comportino “innegabilmente”, come direbbe Derrida, sofferenze atroci per gli animali imprigionati, e osservando come anche in questo caso il senso di queste pratiche non venga tematizzato tanto nelle rappresentazioni cosmologiche indigene quanto, e soprattutto, nelle analisi antropologiche, proprio perché apparentemente esso risulta di difficile inserimento in un sistema cosmologico e simbolico. Approcci come quello di Descola porterebbero dunque a concludere che:

la crudeltà attuata senza una ragione particolare non sia un oggetto antropologico e non possa essere costruita come tale: in quanto quotidiana, diventa anodina; in quanto anodina, non diventa elemento di significazione; in quanto insignificante, non può essere incorporata in nessun sistema di rappresentazione […]. Poiché il trattamento delle iguane non interesserebbe, per gli indigeni, il campo della morale, diventa ozioso per un antropologo condannare moralmente le sofferenze inflitte, in quanto tale disapprovazione tradurrebbe la proiezione etnocentrica dei suoi valori. La [mia descrizione etnografica], quindi, non può che apparire deludente da un punto di vista scientifico: il fatto di legare le iguane con i propri nervi digitali non interessa né gli ecologi, che si occupano di specie e popolazioni, né gli antropologi, che sono alla ricerca di sistemi di significazione. Formando per questo un punto cieco nelle nostre problematiche, le iguane dovranno accontentarsi di agonizzare in silenzio, in un angolo della casa (Kohler 2016: 143, corsivo mio).

In ultima analisi, sostiene Kohler,

quando si rivolge l’attenzione a queste pratiche, ci si rende presto conto dell’assenza di strumenti adeguati a prendere in considerazione la sofferenza inflitta alla selvaggina […], a causa della mancanza di un discorso esplicativo che permetta di integrare queste pratiche entro dei sistemi di rappresentazione. L’edificio cosmologico, elaborato con pazienza negli studi amazzonici, nel presentare la “natura” come un’estensione del campo della socialità umana, sembra incapace di integrare i trattamenti non rituali, che costituiscono così angoli morti della ricerca (ivi: 143-144, corsivo dell’autore).

L’argomento critico di Kohler secondo cui la teoria degli schemi della pratica di Descola e, più in generale, gli approcci ontologici, non riescono a inquadrare al loro interno molti aspetti della violenza inflitta agli animali, finendo così per espungerli dall’analisi e dalla spiegazione di fenomeni non significa che non occorra prestare attenzione alle mediazioni di carattere strutturale e ai contesti storici: è d’altronde quello che Kohler fa evidenziando il quadro storico, le condizioni economiche e politiche e di deterioramento degli assetti ambientali in cui va collocato uno studio del ruolo che le attività venatorie giocano oggi nella vita degli indigeni dello Uaçá.

Né può essere criticata di per sé la scelta di privilegiare lo studio del ruolo di concezioni ontologiche e cosmologiche e di come esse si riflettono nella dimensione rituale. Ciò che invece costituisce un problema, come si mostrerà nella sezione seguente, è la tendenza in cui incorrono spesso gli approcci ontologici quando smettono di presentarsi come opzione metodologica in base alla quale è epistemologicamente preferibile iniziare ad analizzare i fenomeni partendo dai loro aspetti strutturati, per poi recuperare e collegarvi l’analisi di altre dimensioni, e pretendono invece di esaurire la loro spiegazione facendo appello a tipologie ontologiche e cosmologiche scarsamente flessibili.

I “punti ciechi” delle prospettive ontologiche

La tendenza a trascurare le variabili di ordine sociale, politico, storico e simbolico che mediano le relazioni degli esseri umani con i loro ambienti di vita è stata spesso attribuita all’approccio fenomenologico di Ingold.

Un rilievo simile gli è stato mosso, ad esempio, da Campbell (2005), che pur sottolinea le potenzialità della “prospettiva del dimorare” per il ripensamento delle concezioni dominanti nelle politiche di conservazione ambientale, basate su una rigida contrapposizione tra natura e società. Questa contrapposizione, osserva Campbell, ha infatti spesso portato alla posizione per cui la conservazione ambientale richiederebbe l’isolamento delle aree naturali protette da ogni presenza umana, giustificando dunque, in vari casi, la “rimozione” e il “distanziamento” degli esseri umani dai luoghi che danno senso al loro abitare (2005: 291, cfr. Fairhead et al.2012; Blanc 2020).

Tuttavia Campbell si domanda in che misura le relazioni di intimo engagement tra un luogo e i suoi abitanti umani, che costituiscono il tratto distintivo della “prospettiva dell’abitare”, possano essere considerate in modo separato dalle mediazioni derivanti dai sistemi di proprietà, dalla definizione della territorialità, dai regimi riguardanti la trasmissione dei diritti terrieri, dai rapporti di genere. Inoltre,

la gente compie comparazioni tra il proprio modo di fare qualcosa e quello degli altri e ha la capacità di fare proiezioni su come in futuro le stesse cose potrebbero essere fatte in modo diverso. Senza questa dimensione complementare di consapevole posizionamento rispetto a modalità alternative di coinvolgimento, l’impressione è che la “prospettiva del dimorare” resti di applicabilità comparativa limitata, ristretta a situazioni relativamente statiche (Campbell 2005: 289).

Muovendo una critica all’interpretazione che Ingold propone di tali rapporti tra le popolazioni di cacciatori-raccoglitori, anche Descola ha affermato che questi le «descrive […] come un’immersione totale, un impegno attivo, percettivo e pratico con gli elementi del mondo vissuto» (2013: 82), finendo per «eliminare tutte le mediazioni sociali ritenute la causa dell’offuscamento del valore dell’attività pratica – categorie linguistiche, norme di comportamento, valori, sistemi educativi e saperi» (ivi: 84).

Per Descola, come si è detto, gli schemi della pratica, e in particolare i “modi di identificazione” e i “modi di relazione”, per come da lui definiti e tipizzati, costituiscono un primo, fondamentale, livello di strutturazione di queste mediazioni. La loro combinazione, secondo principi di compatibilità e incompatibilità reciproca, orienta gli ethos dei rapporti tra gli esseri umani e tra questi e i non-umani; ciò determina inoltre le modalità di inclusione ed esclusione di umani e non-umani all’interno della sfera di rapporti sociopolitici che deriva dall’appartenenza a uno stesso collettivo o a collettivi differenti. In particolare, i modi di relazione possono essere raggruppati in due sottoinsiemi:

il primo raggruppa delle relazioni potenzialmente reversibili tra elementi sostituibili in quanto situati su uno stesso piano ontologico (scambio, predazione e dono), il secondo comprende delle relazioni orientate e irreversibili tra elementi non sostituibili poiché intrinsecamente gerarchizzati l’uno rispetto all’altro (produzione, protezione e trasmissione) (Descola 2021: 378).

È proprio sviluppando quest’aspetto del suo quadro teorico che Descola esprime le sue riserve sull’utilità analitica dei concetti di dominazione e sfruttamento:

Quanto al dominio e allo sfruttamento, di cui potremmo contestare l’assenza visto il ruolo che hanno avuto nella storia, essi si nascondono nelle altre relazioni sotto forma di una delle loro componenti: il primo è inerente alla protezione e alla trasmissione, il secondo si manifesta nei rapporti di forza stabiliti in occasione del controllo delle condizioni di produzione o di scambio. Inoltre, a differenza delle relazioni che abbiamo considerato, è raro che lo sfruttamento e il dominio si presentino per quello che sono a coloro che vi sono implicati; più frequentemente, essi assumono l’aspetto di una relazione di scambio di servizi dietro cui la loro diseguaglianza di fondo si trova parzialmente mascherata (ibidem).

Per questo motivo, egli preferisce il termine “asimmetria”, il quale tuttavia, è riferito alla collocazione gerarchica di determinati “esistenti” in “piani ontologici” diversi, e non alle modalità di esercizio di rapporti di potere e di sfruttamento.

Un simile punto di vista è stato espresso anche da Charbonnier:

il rapporto moderno con gli animali non può essere concepito attraverso il concetto di dominazione. Questa nozione designa infatti una situazione in cui, all’interno di una comunità politica data, una categoria della popolazione è in una posizione di definire le condizioni di esistenza di un’altra, di stabilire standard per gli altri […]. Perché vi sia dominazione, quindi, una comunità politica deve preesistere e includere esseri che si riconoscono come appartenenti ad essa. Ma non è questo che succede con gli animali (2015: 179).

In questo senso, sarebbe più appropriato descrivere le relazioni umani/animali nelle società moderne in termini di “asimmetria”(ivi: 179-180).

In sintesi, sia Descola che Charbonnier sostengono che le teorie e i movimenti “animalisti”, al di là dei loro lodevoli propositi, fanno ricorso ad apparati concettuali – riguardanti non solo i modi di tracciare le somiglianze e le differenze tra gli esseri umani e gli altri animali ma anche la definizione della stessa sfera giuridica e politica – propri di un’ontologia “naturalista”, e intrinsecamente correlati non solo all’individualismo giuridico e politico, ma a un modo antropocentrico di concepire la costituzione dei collettivi sociopolitici.

Tuttavia, si potrebbe obiettare a Descola, che il fatto, come egli scrive, che lo sfruttamento, il dominio e la disuguaglianza siano spesso “mascherati” e “nascosti”, non nega la loro realtà, e richiede anzi una spiegazione del perché essa venga dissimulata che non si può fermare all’invocazione della presenza di particolari “modi di relazione”. Un analogo discorso si potrebbe fare per la scelta di connotare i “rapporti moderni” con gli animali esclusivamente in termini di “asimmetria”, e non anche di “dominazione”, soprattutto se si considera che quest’ultima è indicata come un carattere di tali rapporti non soltanto dai sostenitori dei movimenti “animalisti”, ma da moltissimi altri membri umani delle società moderne, inclusi quelli che si riconoscono come “dominatori”.

Più in generale, non si può fare a meno di notare come nel privilegio accordato al ruolo “strutturante” che i regimi ontologici rivestirebbero rispetto alla fenomenologia storica dei rapporti e delle pratiche sociali, la dialettica dei rapporti di determinazione tra regimi ontologici e regimi di dominazione politica ed economica venga trattata in modo alquanto unilaterale e statico. Ad esempio, Descola scrive che:

il naturalismo occidentale […] soprattutto a causa della frattura instaurata tra il mondo degli umani e quello dei non-umani, ha trattato la natura come un terreno di sperimentazione e un giacimento inesauribile di risorse, con le conseguenze che conosciamo. Il colonialismo ha trasportato questa concezione e questi usi della natura a tutte le latitudini ed è quindi dalla seconda metà del XIX secolo che alcune popolazioni non moderne hanno visto il loro ambiente di vita trasformarsi in maniera drastica in conseguenza della sovrapposizione della nostra visione della natura sulla loro (2013, p. 111).

Una simile osservazione ben coglie il ruolo giocato dai processi di dominazione coloniale nell’espansione del naturalismo come regime ontologico oggi prevalente nel mondo globalizzato, ma dice poco o nulla riguardo alle forze, alle cause e ai meccanismi di questi processi. È proprio tale problematizzazione dei rapporti tra regimi ontologici, forme di dominazione e di esercizio del potere e “schemi della pratica” che tende a restare elusa nell’approccio teorico di Descola. Infatti, o si assume che la combinazione tra un modo di identificazione e dei modi di relazione stia alla base degli schemi della pratica, e allora il colonialismo o, qualsivoglia modalità di esercizio di potere e di dominazione politica, ne dipendono fondamentalmente; oppure si deve ammettere che queste modalità siano capaci di imporre “dal di fuori” i regimi ontologici e i modi di relazione dominanti, situandosi dunque su un piano distinto. Senza necessità di invocare una relazione di determinismo causale tra questi piani, è piuttosto la relazione dinamica tra processi, tecniche e schemi di esercizio del potere e della dominazione che resta ai margini delle analisi, incluse quelle dei rapporti umani/animali, di molti approcci teorici (di impianto sia “strutturalista” che “post-strutturalista”) riconducibili alla “svolta ontologica”: in questi approcci la posizione del “politico” rispetto alle determinanti ontologiche ed etiche delle relazioni e delle pratiche sociali sembra infatti oscillare continuamente tra quella di un loro aspetto “sovradeterminato” e quella di un piano che le “sovradetermina in ultima istanza” (Pellizzoni 2015)[17].

Descola non si è sottratto a un confronto con i dibattiti contemporanei sullo status etico da riconoscere agli animali non umani e alle questioni “ambientali”. In Oltre natura e cultura egli discute le teorie di Singer e Regan sulla “liberazione animale”, sostenendo che esse manterrebbero molti dei presupposti “antropocentrici” che connotano il “naturalismo” in quanto regime ontologico[18]. Nella teoria di Singer,

l’argomentazione “patocentrica” dell’estensione del diritto alla vita a tutti gli esseri sensibili si basa sulla valorizzazione di una somiglianza sul piano fisico degli esistenti, per lo meno fino agli organismi dotati di un sistema nervoso centrale, mentre l’estensione della qualità di persona solo a certi animali si fonda sul fatto che condividono con gli umani “normali” un’interiorità della stessa natura” (Descola 2021: 225).

Nel caso di Regan,

un’interiorità simile a quella degli umani non è attribuita che ad alcuni animali in ragione di indizi che suggeriscono in modo verosimile che effettivamente la possiedano, e non, come nel caso dell’animismo, in virtù di una petizione di principio secondo cui, non essendo sempre facile identificare la soggettività attraverso i suoi effetti empirici, non esiste una valida ragione per privarne le piante o gli artefatti. [Inoltre] l’interiorità attribuita da Regan alle grandi scimmie non ne fa comunque dei soggetti collettivi, dal momento che per lui solo gli individui sono fonte di diritti, a differenza della propensione animista a vedere in ogni sorta di classe di esistenti delle comunità sui generis organizzate secondo principi analoghi a quelli che reggono gli umani. […] Di sicuro, anche l’estensionismo di Regan parrebbe assurdo agli occhi di un Makuna o di un Montagnais. Il primo invita a proteggere alcuni animali per quello che sono, cioè dei soggetti, riconoscendo al contempo che hanno bisogno di essere rappresentati per far valere i propri diritti; i secondi ammettono da molto tempo che la maggioranza degli animali sono dei soggetti, ma è proprio a causa di questa autonomia costitutiva che diventa assurdo sconfinare e intromettersi per volerli difendere a ogni costo. È evidente come i malintesi tra le associazioni di protezione della fauna selvatica e i cacciatori autoctoni dell’Amazzonia o del Subartico siano lungi dal potersi risolvere” (225-227, mio corsivo).

Descola analizza le filosofie di Singer e di Regan (come anche le etiche ambientali ecocentriche) da un punto di vista teorico: né in questo passo né nel resto dei suoi lavori, egli esprime un giudizio di valore sul naturalismo in sé, sottolineando che ogni regime ontologico permette, e al contempo preclude, determinate possibilità di conoscenza e di valutazione dei fenomeni; avrebbe dunque poco senso considerare un regime ontologico “migliore” in assoluto di un altro sotto il profilo tanto conoscitivo quanto morale.

Lungi da Descola e dalla sua proposta di un “universalismo relativo” esprimere dunque una condanna in blocco dell’ontologia naturalista. In Oltre natura e cultura, egli insiste inoltre sul fatto che i cambiamenti di regime ontologico sono possibili solo nel momento in cui, per diverse ragioni, non solo di ordine storico, un “modo di relazione” incompatibile con il regime ontologico fino a quel momento dominante si insinua progressivamente nel complesso di pratiche di rapporto tra umani e tra questi e i non-umani, fino a diventare talmente rilevante da determinare il passaggio da quel regime a un altro con esso compatibile (Descola 2021: 413-442). I cambiamenti insiti nel riconoscimento di molte specie animali come esseri senzienti e soggetti di una vita, sul piano dei discorsi filosofici, della ricerca scientifica e del diritto, possono dunque, secondo Descola, potenzialmente contribuire al cambiamento del regime ontologico oggi dominante nel mondo globalizzato.

Tuttavia, diversi punti dell’analisi che egli presenta nel brano prima citato riflettono i limiti del suo approccio idealtipico e incentrato più sul carattere strutturale degli schemi della pratica che sulla loro concreta contestualizzazione storica.

Ci si può chiedere innanzitutto dove si situi la sentience rispetto alla dicotomia tra “interiorità” e “fisicità”, che Descola considera un tratto fenomenologico universalmente presente della coscienza umana. Egli scrive che con “interiorità”

bisogna intendere una serie di proprietà riconosciute da tutti gli esseri umani e che corrispondono parzialmente a ciò che di solito chiamiamo spirito, anima o coscienza – intenzionalità, soggettività, riflessività, affetti, capacità di conferire significati o di sognare. […] La fisicità riguarda la forma esteriore, la sostanza, i processi fisiologici, percettivi e sensomotori, nonché il temperamento o il modo di agire nel mondo in quanto manifesterebbero l’influenza esercitata sui comportamenti o sugli habitus da umori del corpo, abitudini alimentari, tratti anatomici o modi di riproduzione particolari (Descola 2021: 138).

Resta però da verificare se questa distribuzione delle proprietà sopra elencate tra interiorità e fisicità sia realmente universale o non sia invece propria, come si potrebbe ipotizzare ad esempio a proposito del “temperamento”, soltanto di certe teorie locali, incluse quelle discusse attualmente da neurobiologi e psicologi, dei rapporti tra cognizione, emozioni e sensibilità. Come si è visto nella sezione introduttiva, per come è stata definita in questo campo di ricerche, la sentience non è facilmente collocabile né dal lato dell’interiorità né da quello della fisicità, almeno nell’accezione che Descola dà a questi concetti. Ciò mi sembra rivelatorio di una certa rigidità delle premesse concettuali della sua teoria.

Da questo punto di vista, si possono realmente considerare secondarie, non soltanto da un punto di vista analitico e concettuale ma anche propriamente “ontologico”, le differenze che intercorrono tra il tipo di “naturalismo” e di “antropocentrismo” che informa le concezioni, sostenute da Cartesio e da filoni importanti del behaviorismo otto-novecentesco (si veda D’Orsi in questo numero) degli animali non umani come automi inanimati, e quello che informa le posizioni oggi sostenute dagli etologi, dai teorici delle etiche animali e dai movimenti di animal advocacy?

Un tentativo di rispondere a tale questione può essere ravvisato negli argomenti sostenuti da Keck e Ticktin (2015) in un articolo significativamente intitolato La souffrance animale à distance. I due autori vi propongono un confronto con le “etiche animali” proprio a partire dalla centralità che vi occupano i temi della sofferenza animale e della compassione che essa suscita. Keck e Ticktin affermano che «le scienze umane, allorché hanno ripreso dalla filosofia il tema della sofferenza animale hanno tuttavia dovuto affrontare problemi metodologici particolari» (2015: 145). Questi deriverebbero dal fatto che gli esseri umani non avrebbero un accesso «diretto», ma soltanto «mediato» alla sofferenza animale. Esisterebbe anzi, in questo caso, una «doppia barriera», in quanto la conoscenza della sofferenza altrui sarebbe in questo caso ostacolata non solo dal fatto che questo altro non è “me”, ma anche dal fatto che appartenga a un’altra specie (ivi: 145-146). Secondo Keck e Ticktin, «la sociologia pragmatica risolve il problema della conoscenza degli affetti altrui [affects d’autrui] attraverso uno studio delle azioni mediante le quali la distanza tra me e gli altri è attenuata e negoziata» (ivi: 146, corsivo mio). Riprendendo gli approcci di Boltanski e Fassin ai nessi tra rappresentazione della sofferenza, identificazione delle vittime e dei colpevoli di quest’ultima, e ricorso alla compassione come strategia di mobilitazione pubblica in supporto delle politiche umanitarie, Keck e Ticktin considerano alcuni scenari (dalle iniziative e mobilitazioni pubbliche contro atti di crudeltà inflitti ad animali domestici fino alle pratiche attivate in occasione di zoonosi) in cui il trattamento degli animali è divenuto parte di queste ultime, concentrandosi su una serie di variabili che intervengono nelle «modalità di costruzione della sofferenza animale» (ibidem).

L’argomento di Keck e Ticktin secondo cui non si può avere accesso diretto alla sofferenza altrui, ma soltanto alla propria è in sé incontestabile, anche se evidentemente potrebbe essere sollevato rispetto a un gran numero di stati mentali esperiti tanto dagli esseri umani quanto da altre specie di animali. Tuttavia, le implicazioni che i due studiosi ne traggono rispetto alle possibilità di comprensione e di conoscibilità della sofferenza provata dagli animali non umani, vale a dire il suggerimento che le scienze umane se ne possano occupare soltanto dal punto di vista dei fattori che “mediano” i suoi “modi di costruzione” da parte degli esseri umani, suscita perplessità. Ci si può chiedere che cosa impedisca di unire alla considerazione di queste “mediazioni” anche i vissuti della sofferenza dal punto di vista di chi la patisce, tanto più che tale considerazione congiunta caratterizza molti approcci impiegati in antropologia medica per occuparsi della sofferenza sociale e della violenza (ad es. Kleinman et al. 1997; Das et al. 2000; Farmer 2004).

Anticipando la possibile obiezione che oggi esistono protocolli per trattare, in modo abbastanza “oggettivo”, le forme in cui molti animali non umani esperiscono la sofferenza (Aaltola 2012), Keck e Ticktin ribattono che esse vanno visti in termini di particolari “costruzioni ontologiche” delle frontiere tra umani e altri animali. Con riferimento esplicito alle teorie dei “neuroni specchio” e dell’empatia come capacità che gli umani condividerebbero con molti altri animali, i due studiosi sostengono che esse potrebbero essere ascritte a

un’ontologia diversa dall’ontologia naturalistica analizzata da Philippe Descola, in cui gli animali sono simili agli umani per la loro fisicità ma differenti per interiorità: qui, la somiglianza fisica con gli animali è proprio ciò che mostra le loro somiglianza nell’affettività. La sofferenza diventa un fenomeno biologico che unisce umani e non umani in nuovi collettivi (2015: 155)[19].

Da un lato, dunque, Keck e Ticktin si discostano da Descola, in quanto sostengono che l’accomunare umani e animali in base alla somiglianza dei loro affetti, da ascrivere alla sfera della fisicità, delinea un tipo di ontologia diversa da quella naturalista. Dall’altro, è interessante il loro accostamento della sua teoria a una sorta di costruttivismo “ontologico”, piuttosto che “sociale”.

Ciò che in ogni caso appare azzardato, prima di tutto epistemologicamente, nell’argomentazione presentata nel loro articolo, non è l’insistenza sull’importanza della considerazione dei fattori strutturali, di carattere non solo sociologico ma anche “ontologico”, che presiedono alla costruzione della sfera emotiva, ma il modo in cui, ponendosi l’obiettivo di “risolvere il problema della conoscenza degli affetti degli altri”, essi finiscono per concentrarsi solo sui “modi di costruzione” della sofferenza animale, ritenendo impossibile entrare nella questione di come essa è vissuta da chi la patisce.

Tornando alla lettura, proposta da Descola nel brano prima citato, delle situazioni di contrapposizione tra i punti di vista e gli interessi di queste popolazioni e quelli portati avanti da movimenti ambientalisti e politiche di conservazione in termini di “conflitti ontologici” (cfr. Blaser 2013; Viveiros de Castro 2019; Mollett, Kepe 2019), ci si può inoltre domandare se essa non finisca per illuminare solo parzialmente le diverse variabili e particolarità presenti in molti di questi casi di contrapposizione. È possibile trascurare il fatto che le pratiche di interazione con l’ambiente di molte delle popolazioni autoctone alle quali allude Descola siano influenzate, spesso da secoli e in modo invasivo, dalle relazioni con le popolazioni europee, e che tali influenze (fatto del resto di cui egli è ben consapevole, come si è visto prima) si manifestino, tra l’altro, nella comune convivenza nelle stesse aree; nella perdita o nella limitazione dell’accesso ai loro habitat e nell’incertezza del riconoscimento dei loro diritti sui loro “territori di vita”; nell’appropriazione di strumenti e tecniche che hanno di fatto cambiato la relazione con i non-umani, e nell’inclusione subalterna in vasti sistemi commerciali regolati da una logica capitalista e di mercato?

Appare a questo proposito condivisibile la posizione di Shoreman-Ouimet e Kopnina secondo cui, a meno di non volere perpetuare lo stereotipo del “selvaggio ecologicamente nobile”, non necessariamente si deve dare per scontato che le cosmologie e le “ontologie indigene” siano ecologicamente “sostenibili”, specialmente se si considera come

comunità un tempo piccole, relativamente isolate, basate sulla sussistenza, vengano sempre più inghiottite dalle forze economiche del sistema capitalista occidentale che perpetua i mercati delle risorse ambientali, della produzione di merci e della crescita industriale; e mentre le dimensioni della loro popolazione continuano a crescere, la disponibilità di terra diminuisce, la sussistenza e l’esistenza equilibrate dal punto di vista ambientale diventano sempre più irrealizzabili (2016: 112-113)[20].

Osservazioni conclusive

Secondo Keck, la “svolta ontologica” in antropologia può essere considerata allo stesso tempo come una “svolta animalista”, poiché

conferirebbe agli animali non umani un’agency che, secondo l’umanesimo classico, apparterebbe esclusivamente agli umani. Una delle questioni che si pongono dunque alle scienze sociali è di come essere in grado di articolare un problema di ordine metodologico o metafisico – rivedere i presupposti ontologici della disciplina – e un problema di ordine politico o giuridico – accordare agli animali uno statuto di soggetti e non solamente di oggetti nelle interazioni sociali (2020b: 177).

Tuttavia sono evidenti quelli che Kohler ha chiamato “punti ciechi” degli approcci antropologici odierni in antropologia rispetto a una messa a fuoco adeguata delle intersezioni tra violenza e sofferenza inflitta agli animali e forme di dominazione umana su di essi. Lo stesso può essere detto per i limiti che in molti casi (in particolare per quanto riguarda gli approcci di Ingold e Descola) questi indirizzi mostrano di fronte all’analisi dei diversi fattori, processi e interessi connessi ai “conflitti ambientali”.

Appare dunque opportuno interrogarsi sulle ragioni che stanno dietro a questi “punti ciechi” della teoria e della ricerca sui rapporti umani-animali nell’antropologia contemporanea. Ho in questo senso ipotizzato che essi possano derivare da un persistente disagio di fronte alla questione di come conciliare posture metodologiche e analitiche che fanno appello a principi di “coinvolgimento attivo” e “sperimentazione di nuove forme di esperienza etica” (etnografia multispecie) da un lato, e di “distanza oggettivante” e “schematizzazione delle pratiche” dall’altro (svolta ontologica), con la descrizione e analisi dei vissuti quotidiani di sofferenza e violenza che riguardano gli animali non umani.

Inoltre, tanto nel “campo” dell’antropologia contemporanea quanto in quello delle teorie e dei movimenti di animal advocacy, continua a sussistere una forte tensione di ordine innanzitutto teorico, tra il privilegio di una prospettiva centrata sulla soggettività e la sentience degli individui, e un’altra, olistica, che privilegia il livello delle specie e degli ecosistemi (Callicott 2012; Campbell 2018; Comstock 2017; Hargrove 1992; Varner 1998). In questo senso,

L’opposizione, nata nel Settecento, tra filosofia patocentrica e prospettiva relazionale, struttura anche oggi i rapporti tra le correnti di pensiero animalista e ambientalista, che rivendicano diverse forme di protezione: mentre gli animalisti difendono gli animali come individui, gli ambientalisti intendono preservare specie e comunità. Queste due tradizioni hanno interessi che a volte si sovrappongono, ma che possono anche entrare in aspro conflitto (Stépanoff 2021: 469).

Questa contrapposizione è per molti aspetti trasversale a quella tra etiche “animaliste” e “ambientaliste”, di orientamento “antropocentrico”, “biocentrico” o “ecocentrico”[21]. A entrambe inoltre si aggiungono le divergenze di principi teorici e di orientamento politico che oppongono la prospettiva della “giustizia ambientale”, in cui la questione centrale è quella della diseguaglianza e dell’ingiustizia tra diversi individui, categorie e gruppi umani rispetto all’accesso, all’impiego e alla distribuzione delle risorse ambientali (ad es. Martinez-Allier 2003), e quella delle versioni della “giustizia ecologica” secondo cui essa va vista come una proposta di “equità interspecifica” che estende al mondo non umano l’approccio distributivo e contrattualista di Rawls (ad es. Baxter 2005).

Infine, al di là di questi assi di divergenza, che investono tanto il piano epistemologico quanto quello etico e politico, bisogna tenere conto della persistenza della presa che concezioni religiose e culturali hanno ancora oggi per la maggioranza degli esseri umani rispetto ai modi di rapportarsi con gli animali (Gross 2018)[22].

L’idea, suggerita a volte anche tra gli antropologi (ad es. Kopnina 2017), che un solo quadro di riferimento etico possa considerarsi corretto e adeguato per l’analisi critica e il confronto concreto con i diversi risvolti e contesti pratici della sofferenza, della violenza e della dominazione legate al trattamento degli animali, appare dunque non solo contraria alla realtà della pluralità delle posizioni presenti nella situazione globale, ma anche arrischiata dal punto di vista della costruzione democratica di terreni più ampi di consenso su tali questioni.

Come detto, questa limitata attitudine ad adeguare i propri principi teorici alla complessità di contesti storici e di situazioni concrete si riscontra sia in buona parte dell’universo animalista contemporaneo che in una porzione consistente degli odierni approcci antropologici ai rapporti tra uomini e altri animali. Da questo punto di vista, possibili vie d’uscita da quest’impasse vengono tanto dalle riflessioni recenti sulle possibili giunture tra un’antropologia incentrata sui temi della sofferenza, della violenza, del trauma e della dominazione, quanto da alcuni sviluppi dei dibattiti sulle prospettive di una “giustizia ecologica”.

Per ciò che riguarda il primo versante, Robbins (2013), riflettendo sul rilievo che nell’antropologia degli ultimi trent’anni hanno assunto le riflessioni e le etnografie incentrate sull’esplorazione dei nessi tra trauma, sofferenza, soggettività e dominazione, ipotizza che nel concentrarsi sugli aspetti, apparentemente transculturali ed elementarmente umani, dei vissuti e delle vite di chi ne fa esperienza, molti antropologi abbiano visto una importante possibilità di invertire la tendenza alla “alterizzazione” dei loro soggetti d’indagine. In questo senso, egli sostiene che l’antropologia di questo primo scorcio di millennio stia occupando quella che si può definire un “suffering slot” (Robbins 2013: 456) come nuova prospettiva di approccio alla variegata fenomenologia della condizione umana. Una tale prospettiva, secondo Robbins, si concentra tanto sugli aspetti apparentemente universali (in quanto in ultima analisi vanno al di là di ogni “costruzione culturale”) quanto su quelli storicamente e sociopoliticamente contestuali e variabili della violenza e della sofferenza e, correlativamente, della cura. Inoltre, essa cerca di identificare i meccanismi e le contingenze che possono incentivare o, al contrario, disattivare le disposizioni di empatia e di coinvolgimento non soltanto verso chi patisce sofferenza e violenza, ma verso chi le esercita. Per Robbins, oggi è tuttavia necessario affiancare e integrare questa nuova attenzione per il suffering slot con un programma di studio direttoall’esplorazione etnografica e alla comparazione delle differenti concezioni etiche intorno a ciò che nelle diverse società viene considerato come “bene” (good), e valorizzato, tutelato e promosso in quanto tale.

Una riflessione simile è in corso in alcune recenti rivisitazioni della questione della “giustizia ecologica” (ad es. Schlosberg 2007; Wienhues 2020), in cui si sottolinea che per tracciarne le linee e trasformarla in una prospettiva ampiamente condivisa e in grado di incidere efficacemente nella sfera pubblica e delle decisioni politiche, è controproducente riferirsi a una sola “teoria della giustizia”; ciò che è necessario è invece prendere in considerazione e articolare la pluralità che si registra tanto tra i differenti approcci accademici (teoria della giustizia distributiva, politica del riconoscimento, approccio delle capacità, approccio procedurale) quanto tra i punti di vista e le esperienze dei movimenti sociali e ambientalisti.

Queste riflessioni, avanzate parallelamente nell’antropologia contemporanea e nei dibattiti sulla giustizia ecologica, indicano, a mio avviso, non solo la necessità di un confronto tra le diverse “etiche del bene” che sottendono tanto i diversi indirizzi antropologici quanto il campo dei Critical animal studies e delle teorie delle etiche animali, ma anche le modalità con cui svilupparlo.

La constatazione che oggi esistono diverse etiche del bene e che nessuna di esse, da sola, offre tutte le risposte alle questioni di come prendere in carico i dilemmi morali suscitati dalle molteplicità di situazioni e contesti delle relazioni tra umani e altri animali, sottolinea infatti l’importanza, sul piano pratico e politico, del pluralismo come modalità di discussione tra posizioni diverse.

L’importanza di questa disposizione di ascolto e di attenzione per i punti di vista diversi dal proprio, e l’idea secondo cui, a condizione che accomuni tutti i partecipanti a un dibattito, sia essa stessa a essere costitutiva di nuovi terreni di consenso e di collaborazione reciproca, è stata in questo senso già sottolineata da Haraway (2008) ed è, in effetti, come è stato notato, fondamentale tanto per il progresso del dibattito scientifico che per l’esercizio e il rafforzamento di una democrazia politica sostanziale (Appadurai 2014), anche per ciò che riguarda specificamente i modi di discutere e di deliberare sulla questione animale nella sfera pubblica contemporanea (Pollo 2021).

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[1] Questo testo ha origine in una comunicazione presentata al panel “Ripensare la relazione umani-animali ai tempi dell’Antropocene” organizzato da Maria Benciolini e Annalisa D’Orsi in occasione dell’ottavo Congresso della SIAA “Fare (in) tempo. Cosa dicono gli antropologi sulla società dell’incertezza”, tenutosi online (a causa delle restrizioni imposte dal COVID-19) dal 3 al 6 dicembre 2020. Ringrazio le due organizzatrici per l’accoglienza nel panel. Sono particolarmente grato ad Annalisa D’Orsi per le conversazioni sui temi trattati in questo testo e per averne letto e riveduto diverse versioni. Ringrazio altresì i due referees anonimi per aver fornito indicazioni utili a migliorare l’organizzazione del testo. Ovviamente la responsabilità di eventuali errori e lacune, come anche delle posizioni esposte, è unicamente mia.

[2] La “coscienza fenomenica” può essere definita come capacità di avere «credenze riguardanti le percezioni e le sensazioni corporee», ossia di elaborarne un’esperienza (Aaltola 2012: 8, 10). Questa definizione si lega a quella di sentience come «tipo di coscienza di base, in cui il cervello produce un resoconto per immagini e non verbale di come l’organismo è affetto dal suo ambiente. […] Webster riassume il concetto nei termini seguenti: «Gli animali senzienti sono quelli in cui vi è stata l’evoluzione di processi mentali per l’interpretazione di sensazioni e informazione, in modo tale che essi possono scegliere, se posti in condizioni di farlo, quale corso di azione sia più appropriato ai loro bisogni» (Webster 2007: 151). Un termine strettamente connesso a sentience è “stato affettivo”, che si riferisce a «uno stato esperito come negativo o positivo» (Aaltola 2012: 10). Nel presente scritto, è mia la traduzione di brani in lingue diverse dall’italiano.

[3] Sul piano teorico, i “padri fondatori” dei movimenti contemporanei di animal advocacy sono generalmente considerati Peter Singer (2015) e Tom Regan (2003, 2005). Il primo ha introdotto la nozione di “liberazione animale”, elaborando un argomento etico di tipo utilitarista: le situazioni di sofferenza degli animali causate dagli uomini dovrebbero essere valutate in base a criteri applicabili a entrambi, o quantomeno a tutti quegli animali che possono essere considerati esseri senzienti. Per Singer occorre dare uguale considerazione morale, indipendentemente dall’appartenenza di specie, alla condizione di esseri senzienti. Le situazioni in cui viene inflitta una sofferenza o addirittura la morte a un animale dovrebbero essere valutate secondo principi di equità che prendano in considerazione non solo gli interessi umani ma anche i suoi interessi a evitare il dolore e a vivere una vita soddisfacente. Regan ha invece basato la sua teoria dei “diritti animali” su un’estensione dei principi dell’etica kantiana, sostenendo che tutti quegli animali capaci di esperire soggettivamente la propria vita sono, per l’appunto, “soggetti di una vita” a cui va riconosciuto un “valore inerente” e, di conseguenza, dei diritti soggettivi. A Singer e a Regan si deve inoltre l’elaborazione del concetto di “antispecismo”, ossia dell’idea che, affinché si sviluppi un sempre più ampio riconoscimento dello status morale degli animali non umani, occorra superare il pregiudizio “specista” (Ryder 2000), secondo cui soltanto i membri della specie umana, in virtù di alcune capacità peculiari distintive rispetto a quelle degli altri animali, sarebbero meritevoli di considerazione morale. Per la maggior parte dei teorici dell’animal advocacy, lo specismo sarebbe dunque strettamente associato all’“antropocentrismo”, definibile come «un punto di vista gerarchico sulla vita, i bisogni e i diritti degli umani che li considera più importanti dei non-umani, tenendo in conto la natura esclusivamente per il suo valore utilitario» (Shoreman-Ouimet, Kopnina 2016: 7) e «spesso associato con l’“umanismo”, una visione del mondo che privilegia l’obiettivo del miglioramento del benessere umano» (Kopnina 2017: 347).

[4] Riprendendo il famoso argomento antiscettico e anticartesiano di Bentham, Derrida ha a questo proposito affermato che: «nessuno può negare la sofferenza, la paura o il panico, il terrore o lo spavento che può prendere certi animali, e di cui noi uomini possiamo testimoniare […]. […] Alla domanda ‘Can they suffer?’, la risposta non lascia dubbi. D’altronde non ne ha mai lasciati; perché l’esperienza che ne abbiamo è altrettanto indubitabile: precede l’indubitabile, ed è più antica di questo. Nessun dubbio, quindi, nemmeno per la possibilità di uno slancio di compassione in noi, anche se poi viene disconosciuto, rimosso o negato, tenuto a bada» (Derrida 2006: 67, cit. in Calarco 2012: 126-127).

[5] Assieme alla pressione politica esercitata dai movimenti animalisti, la crescente diffusione nell’opinione pubblica dell’idea che molti animali siano esseri senzienti, e il supporto che essa ha ricevuto dalla ricerca nelle scienze cognitive, hanno contribuito nel secondo Novecento all’evoluzione della legislazione degli stati e degli organismi sovra-nazionali riguardante gli animali e il loro trattamento, culminata, in anni recenti, nel riconoscimento ad essi di uno speciale status intermedio tra quello delle “cose” e quello delle “persone”: quello di “esseri senzienti” e, come si legge in alcuni provvedimenti riguardanti primati o cetacei, di “persone non umane” (Castignone, Lombardi Vallauri 2012; Gazzola, Turchetto 2016; Rescigno 2005).

[6] «Se la cesura fra l’umano e l’animale passa innanzitutto all’interno dell’uomo, allora è la questione stessa dell’uomo – e dell’‘umanesimo’ – che dev’essere posta in modo nuovo. […] Che cos’è l’uomo, se esso è sempre il luogo – e, insieme, il risultato – di divisioni e cesure incessanti? Lavorare su queste divisioni, chiedersi in che modo – nell’uomo – l’uomo è stato separato dal non-uomo, e l’animale dall’umano, è più urgente che prendere posizione sulle grandi questioni, sui cosiddetti valori e diritti umani» (Agamben 2002: 24).

Anche Lévi-Strauss ha associato il “mito” dell’eccezionalità della “natura umana” con l’umanesimo europeo: «Si è cominciato con il recidere l’uomo dalla natura, e con il costituirlo a regno sovrano; si è così creduto di cancellare il suo carattere più irrecusabile, ovverossia che egli è in primo luogo un essere vivente. E, non vedendo questa proprietà comune, si è dato campo libero a tutti gli abusi. Mai meglio che al termine degli ultimi quattro secoli […] l’uomo occidentale è in grado di vedere che, arrogandosi il diritto di separare radicalmente l’umanità dall’animalità, accordando all’una tutto ciò che toglieva all’altra, apriva un circolo vizioso, e che la stessa frontiera, costantemente spostata indietro, sarebbe servita a escludere dagli uomini altri uomini, e a rivendicare, a beneficio di minoranze sempre più ristrette, il privilegio di un umanismo nato corrotto per avere desunto dall’amor proprio il suo principio e la sua nozione» (1978: 74-77).

A differenza di Singer, per il quale il quale lo specismo sarebbe una sorta di disposizione psicologica “transculturale”, Lévi-Strauss considera la pietà e la compassione verso gli animali che soffrono come sentimenti “primari”. Volendo riprendere i termini dei teorici dell’antispecismo “politico” (ad es. Filippi, Trasatti 2013), Lévi-Strauss considera lo specismo un’“ideologia moderna” di cui tuttavia non viene approfondita la connessione né con contesti economici, sociali e politici concreti, né con particolari concezioni metafisiche.

[7] Va notato che Lévi-Strauss non ha mai affrontato in profondità la questione dei rapporti dello specismo con quello che da lui è presentato come un carattere “transculturale”: l’etnocentrismo. Come egli stesso sostiene (Lévi-Strauss 2002), l’etnocentrismo, come del resto molte forme di discriminazione e gerarchizzazione ideologica, oltre ad essere spesso caratterizzato non solo dal privilegio dei “valori culturali” del proprio gruppo di appartenenza ma dalla loro assolutizzazione, si associa in molti casi, alla “bestializzazione” di altri gruppi e categorie di esseri umani. Come è noto, Viveiros de Castro (2019) ha avanzato l’ipotesi che, almeno nel caso delle popolazioni i cui modi di pensare sono informati da un’ontologia “prospettivista”, dietro l’associazione che Lévi-Strauss vede tra etnocentrismo e i modi con cui un gruppo si autodesigna e designa gli altri gruppi, vi sia il fatto che tali denominazioni indicano tanto le posizioni di “soggetto” e “oggetto” quanto di “umano” e “animale”, viste non come qualcosa di stabile e prefissato, ma come “attributi pronominali”. Anche volendo recepire tale interpretazione, si può tuttavia rilevare che restano da spiegare, in termini ontologici, le altre forme di etnocentrismo, specialmente nelle società in cui il “prospettivismo cosmologico” non è così pervasivo come Viveiros de Castro ritiene che sia tra le popolazioni amerindiane.

[8] Per limiti di spazio, devo lasciare fuori dalla trattazione proposta in quest’articolo l’esame di alcuni recenti dibattiti sui significati dei sacrifici animali e della “ragione sacrificale” (ad es. Kilani 2000, 2008; Willerslev et al. 2015; Burgat 2017) e sull’apparente scomparsa di forme di ritualizzazione nella messa a morte degli animali, specialmente quelli allevati per finalità economiche, associata allo sviluppo della produzione industriale e della sperimentazione tecno-scientifica nelle società urbane moderne e contemporanee e all’associata perdita di un rapporto di tipo affettivo e intimo tra gli allevatori e gli animali allevati che caratterizzerebbe invece le società non industriali (Knight 2012; Porcher 2017).

[9] L’ontological turn viene generalmente associato all’idea che per una migliore comprensione dei modi in cui si articolano le relazioni socioecologiche, tanto tra umani quanto tra umani e non-umani, e per studiare gli schemi e le istituzioni da cui esse sono mediate, non si possa più assumere l’universalità delle distinzioni tra natura e cultura o società, come omologhe a quella tra non umano e umano. L’analisi di tali mediazioni non può dunque più essere condotta riconducendole semplicemente a determinati ordinamenti “culturali” o “sociali” o all’agency riferibile a particolari individui, perché sono proprio queste nozioni a essere divenute teoricamente di impedimento allo sviluppo di una loro migliore comprensione. Ciò su cui invece occorre concentrarsi sono le particolari concezioni ontologiche e metafisiche che in un dato contesto presiedono alla formazione di “collettivi” e agli schemi che orientano lo svolgimento delle pratiche e dell’agire (ad es. Mancuso 2018; Brigati, Gamberi 2019; Dei, Quarta 2021). Solitamente, si indicano i capiscuola di questa svolta in Latour, per quanto concerne gli Science and Technology Studies, e in Descola e Viveiros de Castro, per quanto concerne l’antropologia sociale. L’antropologia di Ingold non può essere del tutto ascritta a questo orientamento, in quanto ne condivide le premesse critiche, ma se ne discosta per il rifiuto di assumere come centrali i piani dell’ontologia e della metafisica.

[10] Va osservato che il concetto di agency viene inteso in modi diversi a seconda degli studiosi e degli indirizzi teorici. Per Latour (2019, 2020), l’agency va considerata un fenomeno “distribuito”, effetto dell’associazione tra tutte quelle entità che influiscono, in veste di “attanti” o di “mediatori”, sul corso di un’azione. Poiché questi attanti possono essere tanto “umani” quanto “non-umani”, il dualismo moderno soggetto/oggetto, e la sua omologia con il dualismo umano/non-umano, andrebbero radicalmente ripensati. Parlare di agency e di animazione, in questo senso, non presuppone che gli agenti siano necessariamente “soggetti” e “persone”. Ingold (2000, 2001, 2011) sostiene invece che occorre ripensare il concetto di personhood e i suoi nessi con la nozione di organismo. La personhood andrebbe infatti intesa come qualcosa che emerge nei processi e nei movimenti legati al divenire vitale i quali a loro volta hanno come caratteristica l’esperirsi come attivamente implicati in un campo di relazioni; l’autocoscienza riflessiva e il senso morale possono dunque anche non essere rilevanti nello svolgimento di queste relazioni e nel gioco tra disposizioni e affordances che informa una determinata “poetica della vita” e, in ogni caso, non vanno considerati un suo punto di partenza.Di fronte all’aggravarsi della crisi ecologica, anche gli antropologi che tendono a sfumare la distinzione tra agency umane e non umane sono tuttavia portati a sottolineare le particolarità umane che si legano ad altrettanto particolari forme con cui le prime possono manifestarsi. Ad esempio, Latour afferma che è impossibile prendere politicamente in considerazione gli interessi di agenti non umani «senza un umano che [li] incarni, personifichi, rappresenti» (Latour 2020: 376, corsivi dell’autore, cfr. Descola 2020: 85-86). Questo riconoscimento è presente anche nell’insistenza di Haraway (2019) sull’importanza dello sviluppo di particolari doti di “responso-abilità” tra gli esseri umani.

[11] Il supporto a tale posizione viene oggi non solo dalla rivisitazione critica della nozione di animismo (Rivera Andía 2018; Swancutt 2019), ma anche da diversi indirizzi della riflessione filosofica e antropologica contemporanea, che propongono nuove definizioni dei concetti di vivente, animazione, pensiero e materialità, nonché dei loro rapporti (Breda 2016; Cuturi 2021; Cuturi 2021a; Ingold 2011; Kohn 2021; Povinelli 2016; Tallé 2021).

[12] Occorrerebbe d’altronde approfondire il nesso tra agency morale, riflessività e linguaggio simbolico; nella misura in cui si riconosce che queste due ultime capacità hanno evolutivamente avuto un grado di sviluppo particolare nella specie umana, bisognerebbe allora ammettere che tali peculiarità riguardano anche le capacità di valutazione e giudizio morale (Kohn 2021, cfr. Schlosser 2015; Bimbenet 2017). Le implicazioni di questo ragionamento sono evidenti, non solo rispetto ai dibattiti su una rifondazione di modalità più eque e giuste di trattamento degli animali ma anche agli approcci degli antropologi a questi problemi, specialmente se li si considera alla luce dell’attuale crisi ecologica globale.

Va aggiunto che per alcuni influenti etologi (ad es. de Waal 1997, 2008, 2019; Bekoff, Pierce 2010), molti animali non umani sarebbero capaci di compiere delle “scelte morali”, in cui l’altruismo non può essere considerato derivante dall’esistenza di meccanismi evolutivi conformi ai principi della “selezione parentale”, ma tale punto di vista non è condiviso da altri specialisti (ad es. Tomasello 2019). Dai differenti modi di interpretare la nozione di agency discendono posizioni filosofiche analogamente diverse intorno alle premesse etiche di un giusto trattamento degli animali non umani, in particolare riguardo alla questione se sia prioritario, sul piano giuridico, riconoscere a questi ultimi una serie di diritti soggettivi, o se invece sia più efficace sviluppare il versante di specifici doveri umani nei loro confronti (ad es. Sunstein, Nussbaum 2004; Nussbaum 2007; Francione, Garner 2010; Donaldson, Kymlicka 2011; Korsgaard 2018).

[13] Staying with the trouble. Making kin in the Chtulucene è il titolo originale di un altro libro di Haraway (2019). Cfr., nell’ambito dei Critical Animal Studies, la posizione di Calarco (2012).

[14] Tale punto di vista è presente anche nell’immagine di Haraway (2019) del “costruire parentele” come processo che implica che la loro attivazione sia il prodotto di scelte e intenzioni, senza limitarsi a una semplice presa d’atto di un’interconnessione già data tra differenti entità viventi. Anche per Bimbenet, rispetto al ripensamento della questione animale, «il problema è […] meno quello dell’antropocentrismo propriamente detto che dell’egocentrismo proprio di tutte le forme di vita sensibile» (2017: 101). Per ragioni di spazio, lascio fuori da questo testo un esame della riflessione della Scuola di Francoforte sulla dialettica, situata al fondo della Ragione illuminista, tra sopravvivenza, affermazione di autonomia e sviluppo delle logiche di dominazione come associate alla riduzione di ogni altro da sé a “strumento” della propria affermazione. Si veda in proposito Maurizi (2021).

[15] Ingold cita anche l’etnografia di Woodburn sugli Hadza della Tanzania, osservando tuttavia che, presso di essi, i rapporti tra cacciatori e animali sembrano discostarsi dal modello “caccia come condivisione”, e ipotizzando che a questo riguardo essi costituiscano un’eccezione.

[16] Hugh-Jones è recentemente ritornato sui temi che aveva trattato vent’anni prima, discutendo le reazioni suscitate dal suo impiego dell’espressione “cattiva coscienza”. Hugh-Jones spiega che alla scelta di questa espressione non era stato estraneo il fatto che il testo nasceva da un intervento presentato a una conferenza sul consumo di carne rivolto a un pubblico che non era soltanto di antropologi, ma anche di allevatori e funzionari pubblici. Egli sottolinea che il suo intento era quello di mostrare che sia tra la popolazione europea che tra quelle indigene dell’Amazzonia le emozioni e i sentimenti suscitati dagli animali sono molto diversificate, anche rispetto ai temi della loro uccisione e del consumo della loro carne, e che tuttavia esse non sono così dissimili rispetto al vivere in modo ambivalente questi atti. Quanto a questo ultimo punto, Hugh-Jones puntualizza che: «sebbene possano differire per alcuni aspetti, per altri aspetti le idee occidentali sulla prossimità degli animali con gli esseri umani si allineano strettamente con le corrispondenti idee amerindie e sembrano fondate sull’osservazione e sull’esperienza quotidiana. L’attenzione alle buone ragioni dell’ecologia, della religione o della cosmologia rischia non solo di esagerare le differenze tra “noi” e “loro”, ma anche di trascurare variazioni, incongruenze e cambiamenti storici all’interno e tra i gruppi amerindi» (2020: 241).

[17] Sotto questo profilo, va segnalato il recente lavoro di Stépanoff (2021) che, pur riprendendo l’apparato concettuale descoliano, al fine di interpretare alla loro luce le particolarità dei regimi che orientano le nostre relazioni con gli animali non umani, non solo si concentra più sui modi di relazione che su quelli di identificazione, ma sottolinea la loro articolazione con determinate forme di definizione dell’autorità politica e di divisione sociale e spaziale dei ruoli che differenti categorie di umani giocano in tali relazioni (cfr. Dalla Bernardina 1996: 246-247).

[18] Secondo Descola: «l’antropocentrismo, vale a dire la capacità d’identificarsi con i non-umani in funzione del loro grado di supposta prossimità con la specie umana, appare quindi costituire la tendenza spontanea delle varie sensibilità ecologiche contemporanee, comprese quelle che professano le teorie più radicalmente anti-umaniste» (1998: 20).

[19] Riferendosi ai cacciatori e agli attivisti dei movimenti animalisti dell’Europa contemporanea, Stépanoff sostiene che: «le nozioni di intelligenza e di vita sociale degli animali selvatici, centrali per i cacciatori, non sono cruciali per gli attivisti che mettono in primo piano la sensibilità. […] Secondo un punto di vista ampiamente condiviso dai militanti che abbiamo incontrato, condividiamo con l’animale la sensibilità e l’emotività attraverso la nostra comune biologia derivante dall’evoluzione, ma ci distinguiamo da esso per la nostra capacità di crudeltà o compassione, quindi per la nostra moralità. […] Il vero nodo del conflitto tra i cacciatori e i loro detrattori non è tanto la difesa del cervo o del bosco quanto il confronto di diverse collocazioni del ruolo dell’uomo nella natura. La sensibilità animalista promuove un atteggiamento empatico basato sull’attenzione alla sofferenza di ogni animale, individuo unico e insostituibile. […] La sensibilità degli adepti della caccia pone l’accento non sull’individuo, ma sui rapporti eco-etologici tra le specie viventi, invocando la realtà della predazione e della morte in natura. Essi vedono gli umani come un predatore tra gli altri, inserito in un grande ciclo di vita e morte, e si oppongono a una visione della natura dalla quale gli esseri umani sono esclusi, una minaccia per il modo di vivere rurale, secondo loro. Attivisti e cacciatori condividono molto più di quanto si rendano conto: l’amore per la foresta e la soggezione per la grande fauna selvatica, ma sono separati da concezioni diverse delle continuità e delle discontinuità tra l’umanità e la natura» (2021: 270-273).

[20] I casi di estinzione di specie o impatti ambientali provocati dalle attività di gruppi “subalternizzati” riportati da queste studiose, seppure di scala inferiore a quelli indotti dai gruppi dominanti o dalle relazioni commerciali tra gli uni e gli altri, sono innegabili. Tuttavia, come testimoniato da molti studi (Wenzel 1991; West, Igoe, Brockington 2006; Hastrup 2017) sull’impatto che politiche di conservazione ambientale imposte dall’alto, senza alcuna seria considerazione delle condizioni e dei punti di vista di chi abita nelle aree su cui è istituito un regime di protezione, hanno avuto sulle vite delle popolazioni locali, i loro effetti non sono stati semplicemente una limitazione della loro autodeterminazione e sovranità territoriale, ma una vera e propria devastazione della loro qualità di vita e uno sradicamento dai loro habitat e dalle loro dimore, fino al punto di rendere insostenibile la loro stessa sopravvivenza e di ledere i loro diritti umani fondamentali.

[21] Sulla possibilità di conciliare “antropocentrismo” ed “ecocentrismo” in una prospettiva di ecologia politica, si veda Koensler, Papa (2013).

[22] Uno studio italiano che si confronta con la complessità di queste situazioni in cui si scontrano il tipo di argomenti etici sollevati dai movimenti animalisti con quelli, di tipo “culturale”, sostenuti da gruppi locali è quello di Ballacchino, Bindi (2017). A questo riguardo è tuttavia opportuno leggere gli argomenti presentati da Casal (2003) sui limiti delle possibilità di conciliazione tra “multiculturalismo” e “animalismo”. Per un esempio di coniugazione di ricerca e impegno attivo a favore di attività di protezione della vita di specie animali, si veda Breda (2019).