Saperci fare nel rapporto uomo-animale

Il contributo antropologico sulla salvaguardia della biodiversità

Flavio Lorenzoni

Sapienza Università di Roma

Vincenzo Padiglione

Sapienza Università di Roma

Daniele Quadraccia

Sapienza Università di Roma

Indice

Il rapporto uomo-animale tra comunicazione interspecifica e documentazione dei saperi
Quali prospettive per i saperi locali oggi
Ampliando l’orizzonte. La svolta ontologica tra dibattiti e nuovi interrogativi
Riflessioni conclusive
Bibliografia

Abstract. On a global scale, the current political agenda is focusing ever more on the consequences of human actions on the environment and on the need to consider and suggest new ways to interact with our planet. While the green message has acquired a global reach, it seems new theories arise among the human sciences and political discourses when the carbon footprint becomes too evident to be ignored. In this dichotomy of excitement for new possibilities and the state of the emergency of our ecosystem, the anthropological debate calls for multifocal ethnographies and a glocal view capable of highlighting specific contexts to the point of being able to rethink the concept of “living” and “person”. Analysing the experience of the ethnographic research known as “Saperci Fare" – conducted by a team of anthropologists in collaboration with various institutions – the findings give cause for reflection on the ongoing debate regarding the anthropology of biodiversity and the human-animal relationship, wondering what role local knowledge and know-how play in today’s society in the fight to preserve biodiversity, communities and places. All in the name of preserving different individual memories broadening the horizon for what concern theoretical and methodological studies pioneered by ontological authors.

Keywords. Biodiversità; saperi tradizionali; salvaguardia; etnopastorizia; ontological turn.

Il rapporto uomo-animale tra comunicazione interspecifica e documentazione dei saperi

Prive di contesto, le parole e le azioni non hanno alcun significato. Ciò vale non solo per la comunicazione verbale umana ma per qualunque comunicazione, per tutti i processi mentali, per tutta la mente, compreso ciò che dice all'anemone di mare come deve crescere e all'ameba cosa fare il momento successivo

(Bateson 2004: 30)

Il successo[1] dell’etologia, dell’ambientalismo e dell’animalismo ci spingono sempre più ad interessarci alle relazioni che costruiamo con gli animali, alle rappresentazioni quotidiane, etico-politiche o scientifiche, che sono inscritte in queste relazioni. Dalla curiosità che mi ha spinto verso l’analisi di fenomeni di “soggettivazione” dell’animale o di “animalizzazione” dell’uomo, è nata la ricerca sul linguaggio specifico che viene usato dall’uomo per comunicare con gli animali, in particolar modo sui richiami pastorali e venatori. Per comprendere la complessità di saperi e pratiche che evidenziano le relazioni uomo-animale in contesti agropastorali è necessaria una rigorosa documentazione, che relativamente al tema in questione risulta ancora oggi, nonostante non siano mancati gli studi, particolarmente carente, frammentata, dispersa in pubblicazioni di scarso rilievo e sostanzialmente inadeguata. Sappiamo ancora poco di come animali e uomini comunicano tra di loro cercando di adattare la propria esistenza verso una qualche sintonica reciprocità[2]. Questa carenza documentaria non può essere associata a problemi di natura tecnica, oggi ampiamente superati grazie alla grande disponibilità di strumentazione tecnologica; riguarda piuttosto difficoltà interpretative che rimandano a questioni concettuali ed epistemologiche spinose, di non facile gestione. Come definire “comunicazione” un’interazione tra entità biologiche molto diverse che vivono in prossimità nello stesso ambiente? Come può questo termine riferirsi alla pratica pastorale che mostra con evidenza il suo carattere di manipolazione strumentale? Quali caratteristiche avrebbe poi tale comunicazione nell’uso? Si possono inferire da queste pratiche dei saperi espliciti o impliciti, dei "modi di dire" che rinviano reciprocamente a dei "modi di fare", delle rappresentazioni di lunga durata su un presunto ordine delle cose? E quale potrebbe essere il grado di sistematicità e di coerenza di questi saperi naturali? Qual è la pervasività dei sistemi simbolici sottostanti (Albert-Llorca 1991: 77 e segg.)? Senza voler fornire risposte esaustive, è utile ribadire il contesto interpretativo mutevole e sfuggente in cui si inseriscono riflessioni confinate nel liminale spazio dei rapporti con gli animali. Per riflettere su queste questioni, in questo paragrafo sono stati individuati due orizzonti culturali in cui è interessante osservare questo tipo di interazione interspecifica: la pratica venatoria tradizionale e alcune forme di allevamento, attraverso ricerche etnografiche svolte in Sardegna e nel Lazio. Si tratta di interazioni incorporate attraverso saper fare tradizionali che risulta importante cogliere. Proprio i saper fare locali sono stati messi al centro di un progetto di ricerca/catalogazione ancora in corso, i cui principi teorici retrostanti suscitano riflessioni interessanti sul panorama antropologico e sociopolitico attuale.

Il contesto della caccia tradizionale consente di immergersi in paesaggi sonori, ormai quasi del tutto scomparsi, all’interno dei quali sono identificabili strategie comunicative e interazioni interspecifiche basate su pratiche, movenze, strategie e suoni che compongono un particolare sistema semiotico volto alla cattura delle prede (Padiglione 1989). Da questa ed altre esperienze etnografiche sono stati individuati due tipi di usi diversi di questo sistema comunicativo: il “richiamo” e lo “spauracchio” (Padiglione 1994). Essi si configurano come un potente linguaggio di sentimenti simulati e solo un esame del complesso funzionamento di queste particolari esche può consentire di rivelare le concezioni e le implicite rappresentazioni del rapporto uomo-animale.

Utilizzando il “richiamo” viene messa in gioco una vera e propria trappola relazionale: una finta collusione, per cui si predispone un contesto e si simula un ruolo che avvantaggerebbero il partner ambito, ma quando questi decide di aderire alla relazione, di unirsi alla compagnia, gli si rivelano bruscamente le vere intenzioni. La caccia diventa un’arte seduttiva che, per convincere la preda a diventare tale, ricorre ad una retorica delle passioni, mette in scena emozioni contagianti, fa leva sull’attrazione che esercita non solo l’amore ma anche il conflitto, o la paura, mediante riproduzioni di specie altre da quella cacciata, ad esempio. Lo “spauracchio”, ovvero il catturare facendo paura, il fingere un’aggressione col proposito di meglio colpire quelli che si danno alla fuga, rappresenta la polarità contrapposta a quella attraente, individuata dai “richiami”; contrapposta all’interno del sistema per meglio potenziarlo.

Se l’universo venatorio risulta in qualche modo descrivibile sulla base della gamma delle combinazioni possibili di “richiami” e “spauracchi”, si evidenziano nessi significativi con i saperi tradizionali di tipo etno-ecologico in possesso alle comunità pastorali. Il pastore sa i trucchi necessari per attrarre e per scacciare vari tipi di animali; si avvale quotidianamente di quella che veniva definita “lotta biologica”, ovvero delle particolari solidarietà o delle naturali inimicizie che esistono tra le specie (separando congiungendo le greggi, impiegando il cane pastore, ecc.); ma soprattutto il pastore altera e regola la vita sessuale ed affettiva dei propri animali in sincronia con i bisogni della società umana. In che senso possiamo “credere” che venga dispiegato un parlare del pastore con i suoi animali tale da prevedere un ritorno di informazione nel senso inverso? Quale rete viene dispiegata per rendere ciò possibile? Quali mezzi e quali convenzioni si trovano a condividere soggetti fatalmente distanti?

Per rispondere a questi interrogativi è necessario porre in termini di comunicazione quei problemi di controllo e di gestione dalla cui soluzione dipende il buon andamento dell'attività pastorale. Interventi più o meno complessi, come spostare da una parte all'altra un gregge, selezionare repentinamente i maschi dalle femmine, chiamare alla mungitura, entrare nel recinto del toro o farsi largo nella porcilaia, implicano comunque un'autorevolezza comunicativa orientata costantemente in funzione “conativa”. Se si osserva durante la giornata il repertorio del loro “parlare”, dell’intenzionale comunicazione espressa dai pastori, la gran parte dei segnali sembra volta a “esercitare pressione sul destinatario”, a ordinare, a persuadere.

È l’esplicita funzione persuasiva che, se associata a quest'idea di “ragionarci”, al nesso capire-parlare precedentemente esplorato, legittima il dubbio che si possa estendere l'accezione di “retorica” anche a queste pratiche comunicative. Che certo non prevedono un interlocutore umano né un'argomentazione articolata (narratio) ma sembrano pur sempre presupporre nell'interlocutore animale un mondo interno mentale (di schemi, attese, emozioni), manipolabile (su cui agire) a fini pragmatici. E così facendo, implicitamente contestano le nostre categorie costruite sui rigidi steccati della definizione dell’uomo nella separazione dall'animale.

Sembrerebbe che la comunicazione possa fluire sin tanto che il pastore resti in grado nella sua prassi quotidiana di attualizzare queste tre condizioni: a) “socializzare” di continuo gli animali in un ambiente multisensoriale stabile che porta già i segni dell'uomo; b) trasformare in vario modo l'animale in un interlocutore espressivo; c) proporre un sistema semiotico ibrido da condividere.

Quanto alla prima strategia, per renderla esplicita, possiamo accogliere il suggerimento di Bateson quando invita a ritenere niente affatto scontato un fondamentale piano della comunicazione, e cioè considerare che le strutture dei contesti possono essere esse stesse messaggi (Bateson 1976).

La comunicazione pastorale viaggia non solo in modo “intenzionale” ma anche, soprattutto, “contestuale”. Questa caratteristica si palesa nelle ripetute e minute pratiche quotidiane di contatto ravvicinato con gli animali: in quella costruzione di una pervasiva relazione che vede lo stesso pastore, con i suoi modi e i suoi attrezzi, divenire parte di un ambiente multisensoriale, domestico perché stabile e dunque prevedibile sul piano dei flussi comunicativi possibili.

La seconda strategia è volta a potenziare la capacità di riconoscimento degli animali da parte dei pastori anche per ottenere una risposta personalizzata all'azione comunicativa a loro singolarmente rivolta. Un costruire nell'altro un “interlocutore” trasformando l'animale da muto per l'uomo in dotato di un'espressività comprensibile. Un passaggio in direzione antropomorfica necessario per rendere poi l'animale moralmente responsabile delle sue azioni. Il nome sembra proprio il produttore eccellente di differenze: ha contemporaneamente una valenza individualizzante, distinguente e immediatamente comunicativa. La risposta al nome non è semplicemente la verifica di un rapporto personalizzato ma il segno dello sfaldamento della solidarietà tra congeneri, l'accettazione di un canale di comunicazione privilegiato con l'uomo.

Grazie infine alla terza strategia si rende ancor più evidente la complessa natura dei processi di comunicazione attivati a fini manipolativi. Se osserviamo il complesso sistema semiotico messo in scena dal pastore è facile accorgersi che esso non assomiglia affatto a quello che regola le interazioni umane: prevede infatti che i canali sensoriali e gli stessi codici siano frutto di una sorta di “compromesso interspecifico” anch'esso precario e continuamente negoziabile. L'offerta di un codice da condividere con il destinatario, il pastore la compie con modalità non dissimili da quelle che molti genitori attuano quando tentano di costruire un linguaggio comune con i loro bambini. Avendo in mente cosa può capire un infante e come potrebbe comunicare, operano consistenti adattamenti nel lessico, semplificazioni nella sintassi. In una parola, improvvisano, sulla base di convenzioni già acquisite dal contesto culturale, una lingua ibrida (baby talk) in cui l'invenzione dei simboli, la scelta delle parole, non è del tutto definita esclusivamente dal genitore. A costruire questo “codice di compromesso” contribuisce lo stesso bambino con la sua particolare vocalizzazione, con la scelta di ripetere alcune e non altre espressioni, tra quelle a lui offerte. In modo non dissimile i pastori predispongono uno strumentario espressivo immaginato già in sintonia con le risorse comunicative dell'animale. Al tempo stesso sono attenti a cogliere dallo specifico repertorio di suoni e gesti dell'animale tutto ciò che possa essere enfatizzato e reimpiegato per allestire un messaggio condiviso. In tal modo, ciò che ne emerge è quello che abbiamo deciso di chiamate animal talk, un “sistema” di comunicazione convenzionale (anche per il suo necessario legame con i saperi tramandati) che è anche tuttavia negoziabile, sino talora a risentire delle differenze individuali; un “sistema” sostanzialmente “ibrido”, in quanto si avvale di tutte le risorse espressive disponibili pur di oltrepassare con efficacia i confini delle specie. La cinesica, la prossemica e il paralinguaggio ne costituiscono i serbatoi privilegiati. Ma vi dobbiamo aggiungere l'impiego di strumenti, ad esempio quali sassi e frustini, usati esplicitamente con funzione convenzionale di segnalazione e non semplicemente di punizione. Altrettanto integrata in questo “sistema” ibrido è la manipolazione dell'informazione olfattiva o delle relazioni sociali intra e interspecifiche. Anche le presupposte simpatie e antipatie degli animali verso i congeneri e gli individui di altre specie costituiscono un serbatoio di risorse espressive per manipolare il comportamento degli animali domestici.

Per la costruzione di questo ibrido “sistema” di comunicazione nulla può essere a priori escluso; anche una simulazione è giustificata e considerata parte del repertorio in quanto l'obiettivo prioritario resta quello di convincere attraverso “argomentazioni adeguate”. Si tratta di una competenza relazionale specifica, riconosciuta e valorizzata localmente, come testimonia la derisione a cui vanno incontro coloro che tentano di influenzare il comportamento degli animali solo attraverso l'uso della forza. All'interno di questa competenza comunicativa, che sfrutta come abbiamo visto un'ampia commistione di segnali e codici, ci siamo soffermati maggiormente sul repertorio sonoro interrogandoci sulla possibilità di individuarvi una “logica interna”.

Nel presente studio il nostro intento era di valutare se la strutturazione dell'universo venatorio sul binomio “richiamo-spauracchio” fosse ravvisabile nelle pratiche pastorali.

Si può quindi osservare che le due articolazioni “strutturaliste” che abbiamo disegnato, “richiamo-spauracchio” e “partenza-fermata”, ci appaiono decisamente insufficienti per dare ordine al repertorio sonoro e attribuirgli uno statuto autonomo di sistema semiotico. Esso, laddove non poggia sulla significazione della parola umana, presenta un alto grado di indefinitezza che rende necessario il sostegno di altri strumenti espressivi, siano essi gesti, attrezzi o ordini tattili. Sembra sorreggersi dunque su una autonomia zoppa, sempre precaria, perché parte di un universo semiotico complesso e frammentato, nonostante il nostro sguardo (intento nella ricerca di una logica interna) lo ricostruisca omogeneo e sistematizzabile, operando tagli alla sua complessità e scegliendo le strade a noi più congeniali tra le tante percorribili. Un repertorio sfuggente tanto da farci riflettere sull'opportunità di definirlo un “sapere”, data la grande varietà con cui si manifesta. Abbiamo riscontrato differenze individuali significative, riconducibili al personale modo di interpretare la peculiarità della relazione e della comunicazione con gli animali. Inoltre, come altre skills presenti nella cultura popolare, risente in modo rilevante del contesto d'uso.

Se “sapere” è da definirsi, si tratta allora di quel genere di competenza tecnica che Angioni definisce “sapere della mano”, ossia «un sapere quasi del tutto implicito del fare, che quasi esclusivamente nel fare è capace di esplicitarsi» (Angioni 1986: 95). Ne deriva non solo la difficoltà di esplicitare verbalmente, o comunque al di fuori della situazione concreta, una competenza esercitata quotidianamente, ma anche una forte dipendenza del repertorio dalla specifica situazione d'uso. Tanto che si sta assistendo, per il modificarsi delle situazioni lavorative (di fatto il processo di modernizzazione degli allevamenti diminuisce la necessità di saper gestire i comportamenti degli animali che vivono pressoché immobili), ad una rapida scomparsa (anche dalla memoria) di questo “sapere” che non ha più bisogno di essere esercitato quotidianamente e che non è mai stato codificato verbalmente.

Appare dunque quanto mai centrale la salvaguardia dei traditional knowledges, e in particolar modo quelli che concorrono al mantenimento della biodiversità, che sta vieppiù acquisendo maggior rilevanza nelle politiche locali e internazionali. A partire dalla Convenzione sulla biodiversità (1992), si è fatta strada l'esigenza di preservare la biodiversità in situ, dando molta importanza alle comunità locali che partecipano attivamente alla conservazione. Anche la Convenzione di Faro (2013), riconoscendo e promuovendo il ruolo delle comunità di eredità nella salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, ha sollecitato gli stati aderenti a una sempre più alta attenzione alla partecipazione attiva delle comunità nei processi di “arricchimento” del patrimonio culturale dei territori. Le due Convenzioni, oltre alle spinte internazionali di movimenti ambientalisti e di tutela della terra, hanno portato ad aggiornamenti e modifiche anche radicali delle politiche di conservazione delle specie locali. In Italia, diverse regioni hanno aderito promulgando leggi sulla tutela della biodiversità locale, a partire dalla regione Toscana con la legge 50/1997. È in questo dinamico processo che si situa il progetto realizzato da Sapienza e ARSIAL (Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio) fin dal 2009, che ha portato alla pubblicazione del volume Saperci fare. Capitale culturale e biodiversità agraria del Lazio (Padiglione 2018) e che si avvale di antropologi e antropologhe per la realizzazione di schede etnografiche sulle risorse autoctone vegetali e animali a rischio erosione genetica[3]. A rendere urgente e necessaria la ricerca etnografica sono i radicali mutamenti a livello ecologico, demografico, economico e sociale che stanno investendo le comunità detentrici di saperi produttivi, estetici ed affettivi relativi al rapporto uomo-natura. Trasformazioni che rischiano di far perdere del tutto conoscenze popolari necessarie per la salvaguardia della biodiversità agraria, proprio perché hanno contribuito a formarla e a garantirne la sopravvivenza[4]. Saperi fondamentali per dare continuità alla visione del mondo delle comunità locali, alimento prezioso e indispensabile di una identità culturale densa, di un rapporto affettivo e simbolico con il territorio. La ricerca/catalogazione finora realizzata ha proprio, in primo luogo, il vantaggio di favorire ed estendere questo radicamento locale contrastando l’impoverimento culturale in corso indotto dalla modernità e dai processi di globalizzazione. In secondo luogo, la resa testuale dei saperi, quale traduzione semiotica e interculturale efficace, permette di evidenziarli all’interno della contemporaneità, rendendoli più traducibili e quindi spendibili ad uso di altri possibili fruitori di differenti territori. Come dire che la ricerca assurge a farmaco, a cura indispensabile per la salvaguardia del bene culturale immateriale connesso con la risorsa genetica specifica.

Va detto che la domanda di conoscere meglio il lavoro dei contadini e dei pastori non si sarebbe data se non fossimo ormai dentro un contesto di “natura post-agricola” (Padiglione 2013-2014a). Il post-agricolo è per noi soprattutto una nozione passe-partout grazie alla quale accedere alla visione del complesso groviglio contemporaneo che si è andato a formare nell’arco di pochi decenni intrecciando, in modi inediti e bizzarri rispetto al passato, il rurale con l’urbano, l’agricolo con l’industriale, il finanziario con il produttivo, il tecnologico con il tradizionale, il locale con il globale. Un groviglio dal quale in evidenza compaiono nodi e lacerazioni a segnalare contrapposizioni dall’incerto esito. Quale ad esempio il conflitto, sotto gli occhi di tutti, tra l’egemonia delle multinazionali del cibo – protese a definire insieme al gusto contemporaneo gli scenari mondiali del paesaggio, della ricchezza, della povertà e della salute – e un attivismo etico-politico di resistenza e creatività che cerca di aprirsi una strada nella distribuzione (ad esempio, il commercio equo solidale) ma opera soprattutto a livello locale dimostrando inedite potenzialità di mobilitazione e penetrazione.

Questo porta a riflettere sui contesti rurali non solo come oscurati dalla storia ma anche come luoghi capaci di mobilitare un potente immaginario grazie alla loro intrinseca marginalità, alla alterità culturale di cui erano e sono ancora testimonianza vivente. La campagna può dunque porsi come “luogo profetico” capace di intercettare e alimentare bisogni di riscatto e redenzione:

quelle idealizzazioni che hanno investito il mondo rurale nell’ultimo secolo e che, in qualità di dispositivi dell’immaginario, sono apparsi capaci di aprire alla storia nuovi orizzonti, di mettere in circolazione poetiche popolari e colte, sensibilità locali e globali (Padiglione 2013-2014b: 101).

La ricerca, dunque, documenta le forme dell’allevamento di specifiche risorse genetiche inscrivendo questa rilevazione all’interno di una indagine sui modi in cui la natura coltivata e allevata è interpretata, vissuta e manipolata dalle popolazioni locali; la ricerca documenta anche le specifiche modalità (tradizionali come contemporanee) di relazione tra un gruppo umano e un determinato ambiente, con uno specifico riferimento sia ai valori e ai saperi naturalistici (o etnoagricoltura, etnopastorizia, etnoecologia) che la popolazione locale ha elaborato e praticato, sia alle originali forme di utilizzazione dei beni naturali (flora, fauna, suolo) nei loro articolati livelli di relazione con la sfera della produzione, dei rapporti sociali, dell'immaginario, dell'etica e della devozionalità popolare. È proprio l'esistenza di questo patrimonio culturale che sovente non è tenuta in giusta considerazione. Si immagina che una risorsa genetica o un bene naturalistico si configuri come un'eccellenza da tutelare sulla base di criteri obiettivi che nulla avrebbero a che vedere con le rappresentazioni che tradizionalmente di quel territorio hanno espresso i locali. Non viene pensato in alcun modo il raccordo culturale, simbolico, tra i valori e i saperi naturalistici della comunità scientifica e quelli etno-ecologici delle comunità locali. La prospettiva antropologica intende invece studiare le possibilità effettive di questa connessione simbolica avviando e promuovendo una conoscenza criticamente orientata del patrimonio documentario, relativo alle testimonianze presenti e passate delle identità locali. Si ritiene che tale conoscenza sia indispensabile per incentivare processi guidati di tutela, valorizzazione e fruizione generalizzata dei beni naturali e culturali in tutte le loro forme e manifestazioni; documentare, infatti, la storia e la cultura di cui essi sono espressione costituisce, anche per i beni di interesse naturalistico, un elemento non certo aggiuntivo ma del tutto essenziale alla caratterizzazione del loro valore di eccellenza e alla possibilità effettiva di una loro efficace gestione. Ma soprattutto invita a ritornare ad investigare in modo sistematico e profondo i saper fare tradizionali, che fanno ancora la differenza tra territori e prodotti. Saperi della differenza che, per la loro natura incarnata e non testuale, vivono nelle biografie dei loro portatori, si riproducono spesso in famiglia e nei vicinati per apprendimento mimetico. Agli agricoltori e agli allevatori si deve un patrimonio di diversità, ad un tempo genetica e culturale, che contribuisce in modo rilevante a dare senso alla nostra esistenza ma che oggi – ne siamo consapevoli – sta progressivamente svanendo in quanto esposto a gravi rischi da dinamiche di globalizzazione e processi di razionalizzazione produttiva e commerciale. A differenza dei saperi tecnico-scientifici standardizzati, uniformati, formalizzati in procedure, modelli e voci di enciclopedie, i saper fare tecnici popolari, naturalistici e agronomici sono localizzati, contestualizzati, empirici, tramandati oralmente e in ogni passaggio generazionale in parte rimodellati. Prefigurano tratti culturali che, segnalando un rapporto privilegiato nel tempo (permanenza) con una località da parte di un gruppo umano (comunità), hanno significativamente interessato l’ambiente circostante e altri aspetti della vita economica, sociale e culturale.

Quali prospettive per i saperi locali oggi

È possibile dunque pensare che, in un ambiente condiviso da uomini, animali e vegetali, a una ricca biodiversità sia associabile un altrettanto molteplice insieme di saperi e pratiche sviluppatosi nel costante dialogo con quella ricchezza e volto al suo utilizzo e sfruttamento. Come afferma Almo Farina, docente ordinario di ecologia presso l’Università di Urbino, l’uomo è spesso intervenuto sui sistemi ecologici preesistenti modellando e indirizzando la loro evoluzione, ma lo ha fatto in modalità più sostenibili e adattate ai luoghi specifici: da un lato creando un patchwork di habitat eterogenei in cui aree coltivate e incolti coesistevano in maniera armonica, dall’altro permettendo a flora e fauna di adattarsi e cogliere le nuove opportunità offerte da tali modificazioni (D'Orsi 2018). A partire dal secondo dopoguerra, una serie di complessi fattori tra essi correlati, quali la meccanizzazione delle attività agrarie, l’aumento del fabbisogno alimentare, lo spopolamento delle zone montane verso città e coste, la globalizzazione dei mercati e delle merci, hanno rapidamente portato a uno sfruttamento intensivo degli ambienti ritenuti idonei, relegando gli altri all’improduttività e all’abbandono. In pochi decenni si è così verificato un fatale declino delle comunità custodi di quei saperi che permettevano il mantenimento degli habitat.

L’acquisita consapevolezza di questa erosione ha portato oggi a un’attenzione rinnovata verso i saperi legati alla biodiversità, non senza ragioni. Le crisi ambientali e sanitarie attuali ben evidenziano i limiti dei modelli di vita occidentali, arrivati al punto tale da compromettere gli equilibri del pianeta e la sopravvivenza di molte specie viventi. Le battaglie portate avanti da tempo dall’ambientalismo globale e le recenti prospettive introdotte dalle scienze sociali (tra cui la “svolta ontologica” che verrà trattata più avanti) permettono di rileggere modelli culturali spesso additati come arcaici per capirne i profondi legami che intessono con l’ambiente e con l’obiettivo di immaginare nuovi modi di stare al mondo oggi. Per fare questo è utile riflettere sul lavoro di Giulio Angioni – docente di antropologia culturale all’Università degli Studi di Cagliari venuto a mancare nel 2017 e figura di spicco all’interno della scuola antropologica sarda – il cui interesse per i saperi locali, a partire dalla sua Sardegna, ha attraversato tutta la sua carriera di antropologo alimentando dibattiti e riflessioni tutt’ora in corso. Nel saggio Saper fare elabora un’analisi attenta dei saperi tradizionali o indigeni in relazione al sapere egemonico scientifico, il “fare” e il “dire”, affermando che entrambi partecipano della stessa capacità di agire il mondo:

che il pensare e il conoscere, come il sentire e il sentirsi e il farsi sentire, siano costruiti sul terreno dell’esperienza, sull’operare, agire e interagire, con le dita, con le mani, con gli occhi, insomma con il corpo negli spazi, negli ambienti, nei vari contesti di vita, oltre che nel e col dire e comunicare verbalmente gli uni con gli altri, è idea importante [...] Si tratta di esperienze, abilità, e conoscenze incorporate in un soggetto in quanto parte di un gruppo, di un ceto o strato sociale, di una comunità, di un’intera società: conoscenze e capacità di esecuzione che presiedono e guidano l’esecuzione di determinati lavori, o che pure, più in generale, costituiscono un fondo comune di nozioni e abilità, un “bagno di tradizione” in un “ambiente tecnico” particolare, necessario e preliminare a eventuali specializzazioni individuali, di genere, d’età, di casta, di ceto e così via (Angioni 2015: 3).

Anche nelle società più complesse una parte fondamentale che concerne l’apprendimento è ancora pratica, esperienziale, agita, incorporata, prima che istituzionale o specialistica. Il sapere codificato non potrà mai sostituirsi completamente al sapere implicito, acquisito tramite l’esperienza e in larga misura indicibile:

le tecniche del fare quotidiano come quelle tradizionali di mestiere, spesso dette povere, hanno storie autonome dalla conoscenza e dal discorso che diciamo scientifico o tecnologico. Esse sono senza apprendimento formale ed esplicito, ma da maestro ad allievo, di padre in figlio, per inferenza più o meno implicita, per impregnazione. La tecnologia, intesa come discorso sulle tecniche, non potrà forse mai dire tutto ciò che le tecniche sanno fare, né alcuna epistemologia spiegherà appieno come e quanto conosciamo né alcuna estetica darà conto esatto dei modi e dei risultati del sentire (Ivi: 10).

Questo non ha però impedito al sapere ufficiale di acquisire una preminenza decisiva sui saperi locali, per due loro caratteristiche intrinseche: il loro essere inevitabilmente radicati in contesti specifici, e dunque difficilmente estendibili a saperi globali, a differenza di quelli scientifici che non sono connotati in uno spazio e in un tempo, e la mancanza di autorità e di potere che li mettono su un piano di subordinazione rispetto ad esso. Se il primo punto però è stato ampiamente affrontato dagli studiosi, il secondo ha ricevuto meno attenzione, consegnando i saperi indigeni all’irrilevanza e allo screditamento: «I saperi tradizionali hanno il potere di poter fare, ma spesso hanno poco o nulla il potere di decidere che cosa fare, a parte il problema dei mezzi più generalmente economici maneggiati da mani diverse da quelle dei ‘portatori’ di saperi ‘indigeni’ o ‘nativi’» (Ivi: 21).

L’antropologia, fin dalle sue fasi aurorali, si è costantemente confrontata con saperi marginali e residuali, sopravvivenze e lunghe durate, mettendo in evidenza tanto le loro trasformazioni ed erosioni quanto il capitale simbolico e la possibilità di ripensamento all’interno del pensiero egemonico. Oggi appaiono più che mai evidenti le loro capacità rigenerative e di reinvenzione rispetto a un mondo che si sta accartocciando su se stesso, in estrema difficoltà nel generale valide alternative globali a dei modelli che stanno portando molti ecosistemi allo sfinimento. Non sono poche le previsioni apocalittiche (a vari livelli di credibilità) che prefigurerebbero fughe di massa dalle città verso le campagne e i territori oscurati dalla storia, dove ancora sarebbero presenti risorse e saperi utili alla sopravvivenza. Anziché attendere che tutto questo si verifichi bisognerebbe attivare diversi modelli di sviluppo e di stili di vita fondati sul rispetto del territorio e sull’uso adeguato delle risorse: «A condizione di abbandonare ogni tentazione passatista, ogni rimpianto per un "buon tempo antico" mai esistito, di declinare la parola nostalgia nel tempo futuro, di guardare a un locale attraversato dalle correnti e dai flussi del mondo» (Teti 2013-2014: 123).

Saperi definiti tradizionali ma che, se riletti nel contemporaneo, possono apportare valori che non faticheremmo a definire fortemente attuali: il mutualismo, la reciprocità, la gestione della scarsità, la conoscenza profonda degli ambienti naturali, i sistemi di sussistenza e di alimentazione a basso impatto ambientale. Valori embricati dentro a consuetudini che oggi possono apparire anacronistiche, fatte di miseria e di precarietà, ma ecologicamente sostenibili. Un folklore che Gramsci invita a rileggere con attenzione:

non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola, una cosa tutt’al più pittoresca: ma deve essere concepito come una cosa molto seria e da prendere sul serio. Solo così l’insegnamento sarà più efficace e più formativo della cultura delle grandi masse popolari e sparirà il distacco tra cultura moderna e cultura popolare o folklore (Gramsci 1975: 90).

È proprio in questi saperi così legati alle pratiche che aspetti ecologici, pratici e simbolici si manifestano in un continuum che restituisce una visione del mondo irriducibile e non scomponibile in blocchi analitici. Riflettere sui saperi marginali può essere importante, dunque, non solo nell’idea di mettere meglio a fuoco le differenze di potere coi modelli dominanti ma come proposta comune e condivisa con i saperi scientifici contro le incombenti problematiche ecologiche contemporanee al fine di:

sviluppare un dialogo efficace tra saperi scientifici ufficiali e saperi ecologici locali, slegato dalle dimensioni di dominazione e subordinazione che hanno guidato la relazione fra le due formazioni fino ai giorni nostri. Un nuovo rapporto che deve necessariamente partire dall’ascolto di saperi che si fondano su logiche distanti da quelle che alimentano la crisi ambientale, fortemente radicati nei territori e vicini alle reali necessità delle comunità locali (Pasini 2021: 2).

Anche per il fatto che i territori dove ancora questi resistono – o permangono memorie più o meno dirette – sono caratterizzati da fenomeni e mutamenti (monocolture estensive, sfruttamento improprio del suolo, inquinamento dei corsi d’acqua, ecc.) che non di rado li pongono in una situazione di difficoltà dal punto di vista ecologico e ambientale. È in quei luoghi ai margini che si manifestano, dunque, in modo chiaro le conseguenze di modelli economici globali non ben localizzabili se non nei loro impatti, dove si dovrà celermente agire per non vedere ulteriormente depauperati i fragili equilibri che preservano la biodiversità. Ascoltare e coinvolgere chi da tempi ben più lunghi, seppur senza aver codificato e formalizzato le proprie conoscenze, mantiene e cura le relazioni con gli ambienti, può essere una strategia più efficace di ottusi programmi solipsistici portati avanti spesso senza successo. E il coinvolgimento passa anche per gli interessi immediati dei soggetti locali, l’utilizzo o la produttività dei programmi in funzione delle loro esigenze. Non sempre pastori e contadini hanno le stesse ragioni dell’ambientalismo di scala globale e non per questo non devono essere presi in considerazione. Essere generici e non includere le istanze provenienti dai contesti locali può non destare l’attenzione necessaria, riducendo drasticamente la buona riuscita di un programma:

ciò che all’ecologismo planetario appare chiaro, per troppi diretti interessati il tutto resta più o meno oscuro, nuovo e anche pericoloso. E non senza ragioni da studiare e da tenere in conto, per utilizzare o per adattarle, più o meno adattate e aggiornate, a nuove conoscenze e a nuovi programmi pubblici d’azione nell’ambiente o territorio o paesaggio (Angioni 2015: 23).

Gli antropologi conoscono bene l’isolamento e l’assenza di dialogo che subisce chi vive ai margini, relegato a ruoli per lo più di comparsa nelle strategie di conservazione e di sviluppo o messo del tutto a tacere perché considerato un ostacolo alla loro realizzazione. Il loro apporto è stato quello di descrivere e incentivare la crescente rivendicazione di partecipazione delle comunità all’interno dei programmi, sia attraverso la documentazione dei know-how locali che intervengono sulla salvaguardia degli ecosistemi, sia chiarendo le diverse preoccupazioni e visioni relative alla biodiversità di attori locali e di ambientalisti. Un ruolo dunque necessario a favorire piattaforme negoziali e visioni comuni:

Sia nel ruolo accademico che in quello di advocacy, gli antropologi hanno sostenuto con forza la partecipazione delle popolazioni locali nella pianificazione e nella gestione delle aree protette. Istanze che si basano su rivendicazioni di giustizia sociale – ovvero che gli abitanti spesso poveri ed emarginati non dovrebbero subire i costi della conservazione – o sui diritti umani, per cui le popolazioni locali hanno diritti come cittadini, come popolazioni autoctone o indigene, con specifiche pretese di sovranità sui loro territori, e come esseri umani che partecipano alle interazioni planetarie tra specie diverse. In altri casi tali argomenti si fondano su basi pragmatiche. Senza il consenso delle popolazioni locali le aree protette non possono essere gestite efficacemente. Questo lavoro applicato e di advocacy è reso difficile dal contrasto tra la natura temporanea dei successi e la permanenza dei fallimenti (tutte le estinzioni di specie e la maggior parte degli spostamenti delle popolazioni locali sono irreversibili) (Brush, Orlove 1996: 334-35)[5].

Gli antropologi, da una parte, hanno il compito di difendere i diritti degli attori locali, ascoltando le loro istanze e portandole all’attenzione dei contesti istituzionali, combattendo col rigore proprio della ricerca i luoghi comuni, ancor oggi duri a morire, sull’arretratezza dei modi di vita di pastori, contadini, artigiani, e dimostrando che quei saperi e quelle pratiche possono essere di notevole supporto al lavoro di specialisti come agronomi, zootecnici, architetti del paesaggio e altri professionisti che operano nel campo della tutela degli ecosistemi. Dall’altra, devono impegnarsi per avvicinare il sapere scientifico ad essi, dimostrando che il loro contributo può essere decisivo in un’idea di salvaguardia che va molto al di là del loro contesto di riferimento.

La negoziazione non è certo scevra di difficoltà, a causa di complesse e strutturali dinamiche che difficilmente riescono a convergere in una direzione comune, capaci di generare attriti anche piuttosto violenti. L’esempio delle Carresi del Basso Molise, una rete di feste patronali caratterizzate da corse rituali di carri trainati da buoi sospinti e guidati da cavalli (Ballacchino, Bindi 2013-2014), testimonia come l’incontro/scontro tra riti tradizionali legati al mondo agropastorale e istanze animaliste – che rinvengono in queste feste arcaici retaggi lesivi della salute e della tutela dei diritti degli animali, togliendo ogni forma di dialogo e applicando dettami ideologici di respiro globale in territori con una forte depressione demografica ed economica – stimola riflessioni sul ruolo dell’etnografo all’interno dei conflitti “glocali”[6]. La complessità è accresciuta anche a causa di una sempre più ampia partecipazione degli indigeni nei processi politici che investono i territori. Questo può portare a dei dilemmi personali negli attori locali che si prestano alla cooperazione, con la possibilità di trovarsi in situazioni contrastanti come insiders che collaborano con outsiders. Non è detto inoltre che essi rappresentino tutta la comunità. Al contrario, possono rappresentare le élite che hanno tra i loro scopi quello di neutralizzare ogni minaccia che attenti al loro status privilegiato, e questo può passare anche per la collaborazione con azioni provenienti dall’esterno (Silitoe 2018). Tutto questo può portare anche a fallimenti sul piano della gestione partecipata dei programmi di sviluppo, seppur è doveroso dire che la collaborazione con le comunità è l’unica forma di gestione di territori marginali, come gran parte di quelli che interessano la salvaguardia dei sistemi socio-ecologici, dal punto di vista etico e politico. È certamente un processo molto impegnativo, che richiede tempo e risorse maggiori e con il rischio di fare un buco nell’acqua, però va perseguito applicando metodologie e strumenti innovativi al fine di ampliare sempre di più il plateau di soggetti coinvolti.

Di notevole interesse in questa direzione possono risultare quei saperi e quelle pratiche riguardanti il rapporto uomo-animale. Per capire a fondo questa relazione non basta osservare, seppur meticolosamente, le azioni di chi dei due si fa portavoce dell’altro, o conoscere a sufficienza l’etologia animale. Si deve partire dall’assunto di base che «una gran parte delle performances extragenetiche dell’uomo è in realtà il frutto di un’ibridazione culturale con la realtà non umana» (Marchesini 2000: XI), per capire il debito che la nostra specie ha nei confronti delle altre sotto innumerevoli punti di vista. Le categorie “uomo” e “animale”, così ben chiaramente decodificabili e spesso usate in contrapposizione, rimandano a confini che sono più di natura analitica e strumentale che concrete differenze ontologiche che ci vedrebbero preminenti rispetto al resto del regno, semplificato e uniformato in un unico dominio. Il rischio che si corre è quello di far

scivolare la separazione fra domini dal livello delle categorie di analisi a quello ontologico: avviene infatti che determinate categorie vengono elicitate e vi si costruiscano sopra domini e paradigmatiche barriere connotate da “naturalità” e “necessità”, che sembrano dunque rinviare a realtà oggettive, di ordine “naturale”, mentre appartengono all’ordine “culturale” (Tonutti 2006: 72).

Superata questa dicotomia fuorviante, è bene includere all’interno delle ricerche sulla biodiversità non solo le conoscenze locali ma anche quelle non umane, acquisendo i recenti apporti dell’etnografia multispecie. Riconoscere agli animali uno statuto di attori al pari degli esseri umani, con cui condividono l’ambiente e le conoscenze, permette di aprire a inedite forme di partecipazione e di ottenere risultati finora inimmaginabili. L’applicazione di questo paradigma può segnare nuovi scenari sulla discussione della nozione di saperi locali, inclusiva verso gli animali stessi, le loro conoscenze e le loro interazioni con l’ambiente. A tale scopo risultano importanti da una parte la mediazione di pastori e allevatori, i quali, attraverso i loro saperi incorporati, possono riconoscerne comportamenti e percezioni fornendo efficaci strumenti di comprensione, dall’altra una solida un’alleanza tra scienze sociali e naturali attraverso un approccio fortemente multidisciplinare.

Ampliando l’orizzonte. La svolta ontologica tra dibattiti e nuovi interrogativi

Quanto è stato appena descritto relativamente alla ricerca antropologica sul rapporto uomo-animale e sui saperi locali legati a questo tema ha fornito strumenti e approcci teorici che si inseriscono molto bene nel dibattito antropologico ambientale contemporaneo. Il contributo dell’antropologia su questi temi ruota intorno agli autori legati all’ontological turn e alle loro ricerche, e ha generato un dialogo ancora oggi vivace e proficuo. Tale dialogo si inserisce in un contesto, quello socio-politico relativo alle tematiche ambientali, che è anch’esso mutato, e i cui cambiamenti hanno contribuito a catalizzare sempre più l’attenzione su questi temi. Una presentazione per sommi capi di tale dibattito e di tali mutamenti sono l'obiettivo di questa parte del contributo, nella profonda convinzione che tracciare l’ampio orizzonte teorico in cui collocare la ricerca sui saperi tradizionali, il rapporto uomo-animale e l’esperienza etnografica precedentemente descritti possa porre interessanti questioni e stimolare ulteriori esperienze etnografiche.

Nel 1972 a Stoccolma si tiene la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano (United Nations Conference on Human Environment). Nello stesso anno viene pubblicato The Limits to Growth, il rapporto commissionato dal Club di Roma al Massachusetts Institute of Technology su, appunto, i limiti dello sviluppo (Meadows et al. 1972). Questi due eventi hanno rappresentato uno spartiacque decisivo per i movimenti di protesta in merito al cambiamento ambientale e, più in generale, per i movimenti ecologisti e ambientalisti. In particolare, il rapporto del Club di Roma ha avuto un enorme rilievo per la drasticità con cui ha messo in luce i danni già irreversibili e i pericoli catastrofici all'orizzonte. Questi due avvenimenti rappresentano simbolicamente le voci della politica internazionale e delle scienze dure in merito alla questione ambientale e al cambiamento climatico, consentendo ai vari movimenti politici di protesta in favore dell’ambiente, che già dall’inizio del secolo muovevano i loro primi passi, di compiere un vero e proprio cambio di orizzonte che avrebbe consentito a queste tematiche di raggiungere la rilevanza che conosciamo, passando per le lotte di inizio millennio contro la globalizzazione – o forse sarebbe più corretto dire contro il tipo di globalizzazione che si stava prefigurando e che si è poi realizzata – fino ad arrivare agli odierni movimenti ambientalisti. Parallelamente, abbiamo conosciuto i dati scientifici relativi ai principali cambiamenti del pianeta, dallo scioglimento dei ghiacciai, alle plastiche negli oceani agli incendi, fino a quantificare il limite massimo di aumento della temperatura media che il pianeta può sopportare prima di raggiungere quella che ormai tutti conosciamo come la soglia di non ritorno.

Questi avvenimenti hanno comportato per le scienze umane la consapevolezza che l’uomo è diventata una «forza geologica» (Danowski, Viveros de Castro 2017: 45) e questo ha portato ad un sempre maggior dialogo con il mondo delle scienze dure, dei dati misurati e misurabili degli effetti dell’uomo sull’ambiente. Un dialogo che si è sviluppato a partire proprio dalla coscienza dell’impatto dell’uomo sull’ambiente. Il concetto di “antropocene”, presentato per la prima volta al mondo scientifico nel 2000 dal premio Nobel Paul Jozef Curtzen, scomparso a gennaio di quest’anno, ha spinto le discipline sociali e l’antropologia in particolare ad una profonda riflessione dalla quale sono derivati concetti liminali, laterali, come l’idea che la vera forza geologica non sia tanto l’essere umano quanto il sistema economico e sociale che esso utilizza. Jason Moore (2016) propone infatti la definizione di “capitalocene”. Il dibattito intorno al concetto di antropocene è stato accuratamente descritto da Francesco Lai, che formalizza così il suo pensiero in merito al dialogo con le scienze dure:

Gli scienziati sociali hanno una conoscenza capillare dei processi storici e sociali, ma per capire i loro effetti è necessario rivolgersi alla letteratura scientifica nel campo delle scienze biomeccaniche, della Terra e del clima. Anche gli scienziati, d’altra parte, riflettono sempre più sulle basi storiche e sociali dei processi ambientali con un monitoraggio continuo dei dati sul mutamento climatico e sugli effetti delle attività umane nella biosfera (Lai 2020: 23).

Fondamentale, in questo quadro, è il ruolo dell’etnografia, con gli strumenti d’indagine conoscitiva che la contraddistinguono, per tenere la dimensione storica e quella scientifica bene ancorate ai contesti locali e alle esperienze dirette. L’importanza di questa disciplina all’interno dell’episteme occidentale viene puntualmente descritta e motivata da Michel Foucault in Le parole e le cose (2021). Viene qui posta infatti l’etnologia, insieme alla psicanalisi, su un gradino diverso rispetto al trittico composto dalle scienze economiche, da quelle biologiche e da quelle linguistiche, trittico dal quale deriverebbero, secondo il sistema foucaultiano, tutte le altre scienze,

perché esse costituiscono senz’altro, ai confini di tutte le conoscenze sull’uomo, un tesoro inesauribile d’esperienze, di concetti, e soprattutto un perpetuo principio d’inquietudine, di problematizzazione, di critica e di contestazione di ciò che altrove poteva sembrare acquisito. Tutto questo si spiega avendo riguardo all’oggetto che entrambe si propongono, ma ancor più alla posizione da esse occupata e alla funzione che esercitano entro lo spazio generale dell’episteme (Foucault 2021: 399).

Di più, Foucault identificava già allora il problema generale di ogni etnografia «con quello dei rapporti (di continuità e discontinuità) fra natura e cultura» (Ivi: 403). Il principio d’inquietudine e la tendenza a porsi problemi e a contestare dell’etnologia (e della psicanalisi ma della prima ci interessa particolarmente) svolgono per il filosofo francese un ruolo fondamentale nella struttura conoscitiva occidentale.

Nessuna scienza umana può avere la certezza di non dover loro qualcosa, o di non essere almeno parzialmente subordinata a ciò che hanno potuto scoprire, o di non dipenderne in un modo o nell’altro. Ma il loro supporto ha questo di particolare: per quanto abbiano una “portata” quasi universale, non per questo esse si avvicinano a un concetto generale dell’uomo; non mirano mai, infatti, a delimitare ciò che nell’uomo potrebbe esservi di specifico, d’irriducibile, d’uniformemente valido ovunque l’uomo è dato all’esperienza. […] Non soltanto etnologia e psicanalisi possono fare a meno del concetto di uomo, ma non possono nemmeno incontrarlo, dal momento che sono costantemente volte a ciò che ne costituisce i limiti esterni (Ivi: 405).

L’antropologia, con il suo senso di irrequietezza e la capacità di far emergere le specificità locali in un orizzonte teorico più ampio, il suo trovarsi comoda nei contesti di frattura, liminari, spesso confusi, e di difficile accesso, ha la naturale tendenza a cercare costantemente il limite esterno del proprio oggetto di studio, a sondarne lo spessore e la consistenza e spesso a spostarlo più in avanti.

Questa specificità dell’etnografia è un tratto che emerge con forza nel filone di ricerca e di riflessione composto dagli autori legati alla ormai nota svolta ontologica.

Tra i più noti autori della svolta ontologica c’è l’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro, docente di antropologia sociale presso il Museu Nacional dell'Università federale di Rio de Janeiro. I suoi scritti sulle popolazioni amazzoniche sono un punto fermo delle discussioni intorno alla svolta ontologica. Sintetizzando, due sono le intuizioni di Viveiros De Castro: il prospettivismo, derivato da una profonda riflessione sull’animismo, e la critica più radicale relativa al ruolo delle ontologie indigene – amerindiane, in questo caso – nel processo conoscitivo antropologico. In Prospettivismo cosmologico in Amazzonia e altrove (2019), una raccolta di lezioni tenute da Viveiros de Castro a Cambridge nel 1998, egli definisce il prospettivismo come l’identificazione dell’osservatore con il punto di vista di ciò che osserva, una sorta di “vedere come”. Nulla di nuovo per la ricerca antropologica, che ha tra i suoi principi fondamentali la tendenza costante ad acquisire il punto di vista del nativo. L’innovatività della proposta di Viveiros de Castro sta nel tentativo di rivolgere questo concetto anche a ciò che è – per noi – non umano. L’autore brasiliano presenta e riflette nei suoi scritti intorno al prospettivismo degli araweté, che per certi versi si avvicina all’animismo o al totemismo ma se ne discosta. Gli esseri umani sono accomunati agli animali e al mondo degli spiriti e altre entità poiché considerati, tramite complessi sistemi di comunicazione, all’interno di una rete di relazioni e interazioni che porta alla possibilità di divenire altro dalla loro forma materiale.

Tale pensiero sovverte il binomio dicotomico natura-cultura occidentale, secondo il quale da una “natura” – forma esteriore, corporea, materiale – platonicamente unica, emerge l’uomo, intrinsecamente diverso perché dotato di un’anima, una forma interiore, incorporea, immateriale, culturale che la definisce qualitativamente. Secondo la prospettiva di Viveiros de Castro, e dell’animismo più in generale, diverse forme fisicamente, esteriormente diverse – diverse nature quindi – condividono una unica, incorporea, caratteristica intrinseca: l’anima – un’unica cultura, o meglio, un’unica umanità. Il concetto di umanità è fondamentale per l’autore brasiliano, secondo cui «la condizione comune agli uomini e agli animali non è l’animalità, ma l’umanità» (Viveiros de Castro 2017:54).

Ciò che il prospettivismo afferma, in definitiva, non è tanto l’idea secondo cui gli animali sono “in fondo” simili agli umani, ma piuttosto l’idea secondo cui, in quanto umani, essi sono “in fondo” un’altra cosa: essi hanno, alla fine, un “fondo”, un altro “aspetto”; sono differenti da se stessi. Il prospettivismo non è né animismo – che affermerebbe una somiglianza sostanziale o analogica tra animali e umani –, né totemismo – che affermerebbe una somiglianza formale oppure ontologica tra differenze intraumane e differenze inter-animali –; esso afferma una differenza intensiva che trasferisce la differenza umano/non umano all’interno di ogni esistente. Così ogni essere si trova come separato da se stesso e diviene simile agli altri (Ivi: 2017: 55).

Nelle sue lezioni l’antropologo brasiliano propone dunque un ribaltamento del punto di vista. Tra le pratiche privilegiate per l’esplicazione di questo concetto c’è la caccia, che Viveiros de Castro in Metafisiche Cannibali assume come «modello d’agonismo prospettico» (p. 133), nella quale il giaguaro, cacciando l’uomo, avrà del sangue che sta bevendo la stessa impressione che l’uomo ha quando beve la birra di manioca, o quando si nutre di un pecari: «l’umanità […] è reciprocamente riflessiva (il giaguaro è un uomo per il giaguaro, il pecari è un uomo per il pecari) ma non può essere reciproca (quando il giaguaro è un uomo, il pecari non lo è, e viceversa)» (Ivi: 55-56).

Viveiros de Castro trae dalle proprie esperienze di campo tra le culture amerindiane delle profonde riflessioni di carattere epistemologico. In questo senso lui e più in generale gli antropologi del filone amerindiano che confluiscono nella svolta ontologica si muovono su un territorio di ricerca affine con gli autori di scuola italiana descritti nei precedenti capitoli di questo contributo. Pur differendo radicalmente il periodo storico di ricerca, il territorio oggetto di studio e soprattutto l’approccio teorico metodologico, caratterizzato dalla ricerca di una chiave interpretativa con la quale leggere ciò che si stava osservando nel primo caso, e nella volontà di far emergere l’ontologia amerindia nel secondo, ad avvicinare le due esperienze di ricerca sembra essere una domanda comune incentrata sul tentativo di meglio comprendere il profondo rapporto che si instaura tra l’umano e il non umano in contesti di forte prossimità.

Metafisiche cannibali, infine, viene presentato come testo a sua volta di presentazione ad un libro invisibile, mai scritto, immaginato dall’autore con il titolo di L’anti-Narciso. L’antropologia come scienza minore (Ivi: 27).

L'obiettivo principale di L’anti-Narciso è di rispondere al seguente quesito: qual è il debito concettuale dell’antropologia nei confronti dei popoli che studia? La questione de L’anti-Narciso è […] epistemologica, e perciò politica. Se siamo tutti più o meno d’accordo nel dire che l’antropologia, benché il colonialismo costituisca uno dei suoi a prioristorici, sembra essere arrivata, oggi, a concludere il suo ciclo karmico, allora bisogna proprio accettare che sia giunto il momento di radicalizzare il processo di costituzione della disciplina portandolo fino alla sua conclusione. L’antropologia è pronta ad assumere integralmente la propria nuova missione: quella di essere la teoria-pratica della decolonizzazione permanente del pensiero (Ivi: 28).

L’autore parte dalla convinzione che la caratteristica originale dell’antropologia sia proprio quella di una costante, feconda equivocità tra oggetto e soggetto. Viveiros de Castro, tramite l’idea di uomo e il prospettivismo degli araweté propone una nuova antropologia che “cannibalizzi” il suo oggetto di studi e si concentri, finalmente libera di ciò che ne costituisce l’oggetto disciplinare ma che ne definisce anche i limiti del campo di studio, su un modello conoscitivo non più antropocentrico. La proposta di Viveiros de Castro, tornando a Foucault, è proprio quella di un'antropologia che superi definitivamente la dicotomia tra natura e cultura, liberandosi del limite dell’“anthropos” come oggetto di studio per potersi concentrare sulle relazioni che esso intesse con ciò che non è – nella visione occidentale – umano.

Gli scritti di Eduardo Viveiros de Castro hanno avviato, oltre ad uno sguardo innovativo sulla disciplina, un intenso dibattito. Una cronistoria delle posizioni e delle critiche in merito a quanto scritto dall’autore brasiliano è tracciata da Antonino Colajanni, che si concentra sul dibattito internazionale in merito a queste posizioni, principalmente tra studiosi amazzonici, e divide in periodi storici sia le posizioni dell’autore, sia le critiche ad esso riservate, spiegando nel dettaglio le posizioni dei vari autori. Pur riconoscendo a Viveiros de Castro e agli studiosi che lo hanno affiancato, tra cui l’allieva Tania Stolze Lima, il merito di «aver spinto verso l’attenzione alle concezioni indigene delle relazioni (materiali e di pensiero) tra esseri umani, animali ed esseri non umani, in una visione globalistica della condizione umana nel suo contesto totale più ampio» (Colajanni 2020: 46-7), Colajanni non risparmia all’autore una critica puntuale ed argomentata, evidenziando una certa approssimazione nel trattare i riferimenti etnografici, comunque insolitamente carenti, criticando il ricorso alla filosofia postmoderna di Deleuze, Guattari e Latour, dall’autore definiti «critici spietati, spesso rapidi e aggressivi, liquidatori e con tendenza alla semplificazione, di tradizioni filosofiche e psicologiche che – si accolgano o no – possiedono invece una intensità non da poco» (Ivi: 46), fino ad individuare la scarsa disponibilità al confronto tra posizioni diverse e la ricerca continua di innovazioni anche mediante l’utilizzo di slogan semplificanti che contribuiscono a generare posizioni rigide.

Tra gli autori della svolta ontologica non può mancare Philippe Descola con il testo Oltre natura e cultura (2005) nel quale, in piena tradizione francese, l’antropologo s’impegna in un costante sforzo di allargare l’orizzonte di riflessione partendo dai casi etnografici per arrivare alle questioni filosofiche. Descola dedica il suo capitolo sesto, «L’animismo restaurato», ad una riflessione sui concetti proposti da Viveiros de Castro, lasciando trapelare sottili perplessità in merito alla possibilità di generalizzazione che l’autore brasiliano compie e sull’uniformità da lui proposta del concetto di animismo, attribuito a tutte le società amerindiane.

Nonostante queste perplessità, l’autore francese manifesta concreta e positiva considerazione per il lavoro di Viveiros de Castro, contribuendo alla sua diffusione, soprattutto nei primi anni Duemila.

In Oltre Natura e Cultura, Descola concentra la maggior parte delle sue energie in una ricostruzione meticolosa del travagliato percorso che ha portato alla genesi delle idee filosofiche e politiche occidentali, concentrandosi sulle categorie dicotomiche di “natura” e “cultura”, e sulle opposizioni da esse derivate. L’autore propone inoltre la sua nota quadripartizione ontologica, descrivendo le quattro ontologie che individua e intendendo queste ultime come costrutti atti a meglio comprendere i sistemi culturali: totemismo, animismo, naturalismo, analogismo.

Nel convegno “La svolta delicata, oltre nature e culture” organizzato dall’Università degli Studi di Firenze il 30 aprile 2021, Nadia Breda, autrice della postfazione all’ultima edizione del lavoro di Descola, inserisce interessanti proposte di rilettura del sistema di ontologie in una prospettiva goethiana, per poi proporre un’interessante problematizzazione, nell’ambito della svolta ontologica, della progressiva decostruzione della dicotomia natura/cultura. Se infatti è ben chiaro il ruolo del secondo concetto attraverso la proposta del multiculturalismo, è ben più difficile capire quale sia il destino del concetto di natura oggi. È proprio l’autore francese ad evidenziare la provenienza e l’utilizzo vantaggioso di “natura” ad uso e consumo dell’ontologia occidentale. Non è chiaro tuttavia quale ne sia il destino, non essendo più possibile considerare un’unica natura che ospita diverse culture: c’è dunque da chiedersi che rapporto abbia questo concetto con quello di “realtà” e se quindi si possa parlare di diverse culture e diverse realtà.

Altro lavoro radicale che si inserisce all’interno della svolta ontologica è How forests thinks di Eduardo Khon, pubblicato nel 2013 e giunto in Italia nel 2021. Emanuele Coccia, nella sua introduzione al volume, lo definisce come un libro capace di superare i limiti dell’interesse disciplinare. Secondo l’autore:

Nessun altro libro, in effetti, aveva cercato di formulare e risolvere in maniera altrettanto esplicita e diretta la questione del pensiero dei viventi, indifferentemente dalla loro identità, dalla loro conformazione anatomica e fisiologica, dalla loro posizione nella rete di relazioni tassonomiche. Ogni essere vivente pensa, comunica, usa segni e si rapporta a sé come una serie di segni: ogni vivente è un “sé” e lo è solo grazie alla sua capacità di pensare ed emettere e interpretare segni (Khon 2021: 14).

Il lavoro di Khon si struttura partendo dall’idea che ciò che è vivo lo è perché pensa, e se pensa interagisce, e se l’uomo non è in grado di cogliere queste interazioni è perché pensa in un altro modo. Appoggiandosi agli studi sulla semiotica di Peirce, Khon parte dall’idea che il pensiero e la comunicazione semiotica non siano il discrimine tra umano e non umano o tra uomini e altri uomini, bensì sia la caratteristica unificatrice del mondo dei viventi. Nonostante questo, Khon impiega la prima parte del primo capitolo del suo testo per farlo; non nega la specificità del pensiero umano, ma la colloca all’interno di un sistema di specificità che però fanno parte di un unico insieme. Khon propone ancora una volta un’antropologia che vada oltre l’umano.

Un aspetto centrale dei nostri modi distintivi di essere umani […] è che noi, al contrario degli altri esseri viventi, siamo creature morali. Questo è qualcosa che i Runa non perdono mai di vista mentre cercano di cavarsela in un’ecologia di sé permeata dai retaggi di una storia culturale molto umana […] Detto questo, imparare a prestare attenzione alle diverse vite che esistono oltre l’umano (e anche oltre la morale), permettendo alle logiche della vita oltre l’umano di lavorare attraverso di noi è in se stessa una pratica etica. […] Un’antropologia oltre l’umano riguarda ancora l’umano, anche se – e precisamente perché – guarda a ciò che si trova oltre essa stessa – un “oltre” che sostiene anche l’umano (ivi: 375).

Anche questo lavoro contribuisce ad un dibattito molto prolifico e in continuo sviluppo, che coinvolge riflessioni come quella di Donna Haraway sull’incontro multispecifico, o la teoria dell’attore-rete di Bruno Latour o le riflessioni di Tim Ingold sul rapporto tra i pastori lapponi e le renne e sull’agentività che egli riconosce a queste ultime. Questi autori contribuiscono a far apparire animali, piante e tutto ciò che non è umano come soggetti, “forme alternative dell’io”.

Riflessioni conclusive

È opportuno proseguire un dibattito già aperto dal prospettivismo e dalla svolta ontologica tentando un dialogo con le etnografie e le riflessioni di casa nostra per non far apparire distanti gli immaginari amazzonici con i contesti agropastorali che gli antropologi hanno già indagato e stanno continuando a fare nelle varie declinazioni contemporanee che emergono dalle realtà locali, ancora fatalmente distanti dal pensiero egemone ma capaci di produrre potenti immaginari proprio grazie alla loro alterità culturale. Pur essendo in questa sede solo accennato, il dibattito in merito alle posizioni degli autori della svolta ontologica è tutt’altro che concluso. Luigi Pellizzoni individua come un problema l’applicazione occidentale di categorie non occidentali[7]. Rifiutare le categorie ontologiche occidentali in favore di altre può comportare la ricaduta in una sorta di colonialismo alla rovescia. Viceversa, guardare alla cultura occidentale e ai suoi prodotti, ma con gli “occhi diversi” che la svolta ontologica ha prodotto, può essere secondo lui una via proficua da perseguire. Trovare quindi l’importanza della svolta ontologica non tanto nelle categorie utilizzate per studiare le popolazioni amazzoniche, ma per l’interrogativo che pone a noi stessi, al modo in cui ci spinge a guardare con occhi nuovi all’interno di casa nostra. In questo senso, proprio partendo dalla base di una critica radicale allo statuto teorico del binomio dicotomico natura/cultura, si instaura un dialogo proficuo con autori che già precedentemente si sono occupati di individuare zone d’ombra, spazi liminari d’azione tra uomo e non uomo, seppur con orizzonti teorici diversi. Esperienze etnografiche e progetti di ricerca come quello presentato in questo contributo, che hanno giovato di un proficuo incontro tra università e enti regionali, possono rappresentare importanti esempi di strumenti e di collaborazione che spingono a trovare nuove forme di analisi e di progettazione che hanno come focus pratiche e saperi utili alla “soggettivazione” dell’animale o all’“animalizzazione” dell’uomo. È proprio quest’ultimo tema inoltre a rilevare l’utilità e la necessità di nuovi e ulteriori lavori in questi orizzonti teorici. Simili pratiche, simili saperi – che siano derivanti da una cultura agropastorale ormai residuale o dalla zootecnia – mostrano come può esistere un rapporto più diretto e meno mediato possibile tra l’uomo e l’animale, contribuendo così alla messa in discussione delle stesse nozioni di uomo e animale, di soggetto e oggetto, di nuovo e tradizionale, di natura e cultura. Agricoltori, pastori, cacciatori, per interagire con gli animali, devono capire come essi pensano e interagiscono, mettendo in atto un livello di comunicazione mediato. Allo stesso modo i cacciatori di Avìla, nell’Amazzonia ecuadoriana descritta da Khon, devono stare attenti a come dormono, per evitare di dare al giaguaro l’impressione di essere prede. All’interno di questo orizzonte teorico, non mancheranno – ci auguriamo – nuove produzioni in grado di contribuire al dibattito, con gli strumenti e la profondità proprie dell’etnografia.

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[1] Il paragrafo «Il rapporto uomo-animale tra comunicazione interspecifica e documentazione dei saperi» di questo testo è da attribuirsi a Vincenzo Padiglione, il paragrafo «Quali prospettive per i saperi locali oggi» a Daniele Quadraccia, il paragrafo «Ampliando l’orizzonte. La svolta ontologica tra dibattiti e nuovi interrogativi» a Flavio Lorenzoni.

[2] Il binomio “sintonica reciprocità” si riferisce alla necessità degli esseri umani e degli animali, in contesti di forte prossimità, di trovare un punto d’incontro che consenta loro di instaurare un qualche tipo di relazione. Il termine è mutuato dalla radiofonia, nella quale un apparecchio trasmittente e uno ricevente devono “sintonizzarsi”, entrare in sintonia. In egual misura, in contesti in cui l’uomo e l’animale vivono a stretto contatto, è necessario per loro trovare un terreno di comunicazione comune, che consenta una interazione reciprocamente proficua.

[3] Per “erosione genetica” si intende il declino e/o estinzione di una specie e, comunque, la restrizione del pool genico della stessa, ovvero la riduzione della variabilità genetica (Scarascia Mugnozza 1974), dovuta a una serie di complessi fattori quali la distruzione di territori o ai repentini cambiamenti economici e sociali e che, se non opportunamente arginata, può comportare l'estinzione di popolazioni, specie e sistemi.

[4] Si intende esplicitare che quanto scritto in merito alle pratiche agropastorali tradizionali rappresenta un punto di vista emico, interno e orientato, non l’oggettività di una realtà, come sempre, più complessa e chiaroscurale.

[5] Traduzione dell’autore.

[6] Nel Basso Molise già a partire dagli anni Ottanta si sono concentrate aspre contestazioni da parte di varie associazioni animaliste per le modalità in cui avvengono le rituali corse di carri trainate da buoi. Negli ultimi anni le Carresi sono state sospese più volte e questo ha generato le proteste degli organizzatori e delle comunità locali che riconoscono in esse un forte tratto identitario, nonché un volano turistico e di sussistenza economica, spedendo al mittente anche le accuse di violenza nei confronti degli animali. Cfr. Ballacchino, Bindi2013-2014.

[7] Nel convegno “La svolta delicata, oltre nature e culture” organizzato dall’Università degli Studi di Firenze il 30 aprile 2021.