Fra islam e italianità

Nuove seconde generazioni di musulmani nell’Italia monoculturale

Fabio Vicini

Università degli Studi di Verona

Indice

Apertura
Introduzione
Il dibattito su transnazionalismo, multiculturalismo e formazione identitaria
GMI e cartografia della presenza musulmana nel nord Italia
Il contesto provinciale: Il Centro Culturale Islamico e il GMI-Brescia
«Il GMI come comunità di recupero?» Riflessioni identitarie all’interno dell’islam italiano
Identità multiple
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. This paper investigates trajectories of identity formation of “new” second-generation Muslims in northern Italy through the lens of debates on transnationalism, multiculturalism, and multireligiosity. The opening vignette on the conversion of Silvia Romano to Islam is illustrative of how since the 1990s Italian identity has been formulated par opposition to migrants metonymically represented by Islam. Then the article explores the case of the Brescia section of the association Giovani Musulmani d’Italia (GMI) (Young Muslims of Italy) with a focus on the life narratives of three young Muslims. Based on online conversations with members of the association and on information gathered from their social media and online meetings, it discusses seminal works on Muslims in Europe and Italy and argues that the encounter with Muslim associative forms played a key role in their processes of identity formation. As my interlocutors rethink their identities as simultaneously rooted in only apparently contrasting traits such as being Italian, Muslim, and sons of people from a foreign country, their narratives invite us to rethink Italianness in the 21st century. In this regard, the article is an invitation to reflect on the lack of a genuine debate in Italy on the progressively more multicultural and multireligious character of the new generations of Italians. Further, it suggests that anthropology should think of involvement with our interlocutors’ forms of thought as an important kind of public engagement.

Keywords. Seconde generazioni; islam; multiculturalismo; musulmani; cittadinanza.

Apertura

Ciampino, Roma, 10 maggio 2020. Un piccolo jet di colore bianco atterra al centro della pista deserta in un caldo pomeriggio di fine primavera. Siamo nel pieno dell’emergenza covid-19, scoppiata solo un paio di mesi prima. Tre addetti aspettano di fronte alla porta dell’aereo spalancata da alcuni minuti. Pochi metri più avanti tre militari sorvegliano la scena. A un tratto dallo sportello appare la sagoma di Silvia Romano, la volontaria rapita il 20 novembre 2018 nel piccolo villaggio di Chakama in Kenya, dove si trovava per conto dell’associazione Africa Milele Onlus. La volontaria è stata liberata dopo aver trascorso 18 mesi in Somalia sotto la prigionia del gruppo jihadista Al-Shabaab. È accompagnata da tre uomini in abiti neri e passamontagna. Sono addetti ai servizi segreti che, come anticipato dai rumors delle ore precedenti, hanno avuto un ruolo centrale nella liberazione. Ma tutti gli sguardi sono rivolti alla volontaria. Silvia Romano indossa un abito verde, che le copre capo e spalle fino alle ginocchia, che diventa subito visibile mentre saluta gli astanti da lontano, sotto il ticchettio degli scatti dei pochi fotografi presenti. Il commento del cronista di Rai News 24 è perentorio: «Ecco Silvia Romano vestita in foggia islamica che scende dall’aereo»[1].

La liberazione della volontaria era stata seguita in diretta televisiva dalle principali emittenti nazionali. Ad accoglierla, oltre ai familiari, c’erano il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte. Quest’ultimo era stato il primo ad annunciare la liberazione della ragazza il giorno precedente, poco dopo le 17:00, sul suo profilo Twitter. Dopo un intenso abbraccio con la madre e il padre, seguono un breve saluto formale e i ringraziamenti della volontaria a Conte e Di Maio. Il giorno prima, dopo l’annuncio di Conte era partita un’ondata di messaggi di felicità sui social media, dal Colle a tanti politici e cittadini[2]. Ora, mentre Silvia Romano riabbraccia i familiari, si rincorrono giudizi impietosi sulla ormai certa conversione della volontaria all’islam, sul possibile riscatto pagato per la liberazione, e perfino voci su di un’ipotetica gravidanza frutto di una relazione con una delle sue guardie – giustificata ipotizzando che la cooperante sia stata vittima della “sindrome di Stoccolma”. Nelle ore successive, mentre la volontaria racconta di essersi convertita all’islam liberamente durante la prigionia, non mancheranno commenti anche più stridenti, se non incitanti l’odio razziale, da parte di personaggi politici di vario spicco legati all’opposizione[3]. Queste reazioni testimoniano di uno sconcerto diffuso tra il pubblico che, attonito, si interroga: come può una persona che è stata prigioniera di gruppi terroristici di matrice jihadista per 18 mesi abbracciare la loro stessa religione? Ma soprattutto, e più in generale, come può un’italiana abbracciare l’islam, una religione considerata oppressiva dei diritti delle donne? Il sentimento diffuso è quello di offesa all’orgoglio nazionale. La domanda che molte persone del pubblico e alcuni noti commentatori si pongono è: meritava Silvia di essere salvata appurato il fatto che lei, ora, non è più “una di noi”?[4]

Introduzione

L’articolo parte da una riflessione sulla matrice di lungo corso delle visioni diffuse circa l’incompatibilità di islam e italianità e suggerisce che interrogativi come quelli appena riportati dipendano in gran parte da una mancata presa di coscienza collettiva rispetto all’emergere di una società italiana sempre più multiculturale e multireligiosa. Il caso esplorato è quello della sezione di Brescia dei Giovani Musulmani d’Italia (GMI), un’associazione che coinvolge a livello nazionale giovani fra i 16 e i 25 anni circa, perlopiù nati e cresciuti in Italia, ma i cui genitori vengono da una storia di migrazione da un paese a maggioranza musulmana (Frisina 2007, 2010a, 2010b; Giacalone 2011; Riccio, Russo 2009). Il contributo si basa sui primi materiali di una ricerca, che intende essere pluriennale, sui giovani musulmani di “seconda generazione” in nord Italia, per ora focalizzata sulle province di Brescia e Verona. Tali materiali sono stati raccolti tramite 15 interviste, la frequentazione quotidiana dei profili Facebook e Instagram del GMI di Brescia e di altri gruppi di giovani musulmani, e la partecipazione a una serie di incontri online sempre organizzati dal GMI di Brescia fra ottobre 2020 e maggio 2021, specialmente durante il mese di Ramadan (13 aprile – 12 maggio 2021). Laddove l’articolo esplora questioni che sono state sollevate da tutti gli intervistati e che sono emerse anche in post online di altri giovani musulmani, esso si focalizza su tre storie di vita. Piuttosto che riportare un numero elevato di brevi estratti di discorso, si è ritenuto che l’esposizione delle storie di vita di queste tre persone permettesse di meglio ricostruire i loro percorsi identitari. A causa dell’emergenza covid-19, le interviste sono state condotte online su Zoom. Nonostante si trattasse del primo incontro con i miei interlocutori, si è cercato di seguire il più possibile lo stile della conversazione tipica della ricerca etnografica. Pertanto invece di porre una serie di domande strutturate si è seguito un “canovaccio di colloquio” (de Sardan 2009) composto da domande aperte. Queste sono state poste in modo colloquiale su alcune questioni considerate chiave per lo sviluppo dei percorsi identitari dei giovani intervistati[5]. Tale metodologia è stata seguita con l’intento di far emergere il più possibile il punto di vista e il vissuto degli interlocutori. Gli appunti presi durante i colloqui sono stati poi redatti nelle note di campo sia sotto forma di citazioni virgolettate che di discorsi indiretti, e vengono così riportate nell’articolo.

Il contributo illustra il caso di quelle che di seguito definisco “nuove seconde generazioni”, ovvero quei giovani musulmani nati fra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila che, in quanto tali, sono meno legati a questioni quali la cittadinanza di quanto fossero i figli delle prime generazioni nati nei due decenni precedenti. L’articolo dimostra che per questi ragazzi altre problematiche sono più rilevanti, quali la possibilità di vivere una riscoperta religiosità musulmana e di poterla conciliare col percorso di vita nel contesto italiano. In questa ottica, verrà illustrato come il GMI di Brescia abbia rappresentato un luogo centrale per l’avvio di processi di riformulazione identitaria imperniati su di un rinnovato incontro con la fede musulmana. L’associazionismo di matrice religiosa emerge come un vettore fondamentale per questi giovani al fine di trovare una collocazione all’interno del panorama identitario nazionale diversa sia da quella dei propri genitori, che continuano a rimanere perlopiù legati alle comunità nazionali di origine, sia da quella dei coetanei di origine musulmana che hanno intrapreso percorsi di assimilazione al contesto italiano o comunque optato per un percorso di vita areligioso.

La ricerca verrà inizialmente collocata nel panorama degli studi sul transnazionalismo e le seconde generazioni. Come verrà messo in luce con particolare riferimento al lavoro di Bowen (2004), tuttavia, tale focus teorico pone dei limiti per l’analisi dei vissuti di ragazzi che sono cresciuti in Italia e hanno un limitato rapporto col paese d’origine. Le loro storie sono quindi indagate tramite la lente teorica offerta dai dibattiti sull’islam in Italia con particolare riguardo alle questioni dell’identità, del multiculturalismo e della multireligiosità.[6] Gli studi sul multiculturalismo in Italia (Grillo e Pratt 2002) hanno osservato che sebbene nel contesto italiano sia sempre maggiore la presenza di persone che si identificano con coordinate culturali e religiose diverse da quelle autoctone, queste rimangono escluse dall’idea diffusa di “italianità”. Grillo (2002: 10-14) sostiene che l’approccio alla multiculturalità in Italia sia determinato, e in buona misura limitato, da quattro fattori fra loro interrelati e sovrapponentisi che strutturano il rapporto con l’alterità: il divario interno nord-sud, l’eredità del passato coloniale, il discorso orientalista e africanista sull’alterità, e la percezione dell’Italia come un paese cattolico. Questi fattori sono stati riattivati a partire dagli anni Novanta in concomitanza con le cosiddette crisi migratorie in Europa quando, non a caso, esponenti politici e cittadini hanno cominciato ad appellarsi alle radici cristiane del continente (Bachis 2019; Marinaro, Walston 2010). In questo periodo la visione dell’Italia come un paese cattolico è stata rinsaldata dall’opposizione ad una alterità percepita come sempre più invadente, metonimicamente rappresentata dall’islam, la religione della maggior parte di questi migranti.

Tale opposizione ha le sue radici nel rapporto di lungo corso tra mondo Occidentale e Orientale. I musulmani e la loro fede hanno nel tempo rappresentano quella alterità radicale rispetto alla quale l’Occidente, e l’Europa in particolare, hanno storicamente costruito la propria identità (Delanty 1995; Goody 2004). Rinforzata dalla retorica anti-islamica di media e politici che ha fatto seguito agli attentanti dell’11 settembre 2001, nell’immaginario comune l’islam è venuto a incarnare il principale opposto dei valori e dell’identità italiani, sempre più identificati con le “radici cristiane” del paese (Salih 2009). L’italianità è quindi in questo articolo intesa come una particolare configurazione dell’identità italiana che distingue questo particolare momento storico. Se l’identità ha infatti un carattere contingente e relazionale (Remotti 1996; Fabietti 1998), quella italiana è al momento cristallizzata attorno all’opposizione al “migrante”, al “musulmano”, all’islam. Per tale ragione, essa non sembra in grado di accogliere al suo interno la presenza di giovani italiani musulmani. Come mostrato dal caso di Silvia Romano riportato in apertura, la possibile sovrapposizione fra italianità e fede musulmana è solitamente affrontata pubblicamente solo in senso negativo, quando l’integrità della nazione e la fedeltà ad essa sono percepite come sotto minaccia. Invece una discussione seria e programmatica sulla crescente presenza delle cosiddette seconde generazioni di musulmani – così come di un consistente seppur limitato numero di convertiti autoctoni[7] – non è all’ordine del giorno[8]. Al contrario ogni riforma che ambisca ad ampliare il quadro legislativo al fine di riconoscere ai ragazzi di seconda generazione alcuni i diritti fondamentali come ad esempio lo ius soli è ostracizzata da alcune delle principali forze politiche del paese.

Il presente contributo illustra il caso dei Giovani Musulmani d’Italia con l’intento di interfacciare le loro istanze rispetto a una discussione pubblica su questi temi. Porre le riflessioni e le preoccupazioni dei propri interlocutori all’attenzione di un pubblico più ampio si è nel tempo affermata come una delle missioni principali della disciplina antropologica.[9] Nel caso specifico, rendere conto dei vissuti di giovani musulmani nati e cresciuti in Italia e dei loro tentativi di rinegoziare le loro identità rispetto a un contesto istituzionale, sociale, e mediatico come quello appena delineato, significa contribuire ad ampliare la riflessione sull’italianità in una chiave che permetta di includere la pluralità religiosa come nuovo elemento decisivo per declinare la stessa nel 21° secolo. I miei interlocutori hanno riflettuto in modo costante su queste tematiche, sia come conseguenza del loro vissuto personale, che come pratica di pensiero condivisa all’interno delle loro realtà associative. Pertanto l’articolo suggerisce spunti di riflessione sulle modalità con cui la ricerca antropologica debba declinare l’engagement anche come partecipazione alle forme di pensiero e istanze dei nostri interlocutori.

Il dibattito su transnazionalismo, multiculturalismo e formazione identitaria

A partire dagli anni Novanta un crescente numero di studi ha cominciato ad affrontare il tema dell’islam in Italia. Ciò è avvenuto con un certo ritardo rispetto ai paesi del nord Europa dove il fenomeno migratorio era cominciato alcuni decenni prima. La maggioranza di questi studi è stata condotta in ambito sociologico, in particolare dalla sociologia delle migrazioni e della religione (si veda Allievi, Dassetto 1993; Allievi 2003; Saint-Blancat 1999; Schmidt di Friedberg 1994). Mentre inizialmente gli studi sociologici si sono focalizzati su comunità di migranti provenienti da uno specifico paese (si veda Saint-Blancat 1990; Schmidt di Friedberg 1994), quelli successivi hanno teso a privilegiare una prospettiva di larga scala finalizzata a offrire una mappatura del fenomeno a livello nazionale – tendenza che si afferma anche nei lavori più recenti (si veda Ciocca 2019).

Gli studi antropologici sulla presenza musulmana in Italia hanno invece da sempre prediletto una prospettiva etnografica centrata sullo studio di singole comunità nazionali di migranti residenti in contesti urbani, o comunque regionali, specifici (si veda Cingolani, Ricucci 2014; Copertino 2013; Ferrero 2018; Giacalone 2002; Notarangelo 2011; Riccio 2001, 2007; Salih 2001, 2003). La principale lente di osservazione è stata quella delle migrazioni con una attenzione teorica e metodologica per le dinamiche transnazionali che legano le comunità di migranti simultaneamente alla loro patria di origine, al contesto di accoglienza, e agli altri paesi di arrivo dei loro connazionali (Glick Schiller, Basch, Blanc-Szanton 1992). Questi sforzi si inserivano all’interno di un mutato contesto di ricerca che a partire dagli anni Novanta ha riconsiderato criticamente, in antropologia, concetti come quelli di identità, comunità e cultura, in linea con nuovi studi sulla globalizzazione che mettevano in risalto il carattere ibrido e composito delle identità nel nuovo panorama mondiale (Appadurai 2001 [1996]; Hannerz 1998).

L’attenzione per le dinamiche transnazionali si accompagnava a una parallela revisione critica del multiculturalismo sia a livello teorico che di politiche per la gestione della differenza nell’ambito dell’accoglienza e della scuola (Benadusi 2008; Notarangelo 2011). Gli antropologi hanno infatti ormai da tempo argomentato che il multiculturalismo finisce per privilegiare, per definizione, “l’agenda della differenza” (Grillo 2002: 18). Seppur nella maggior parte dei casi motivate da buone intenzioni, le politiche orientate al multiculturalismo hanno spesso finito per essenzializzare le differenze culturali, contribuendo a riprodurre opposizioni asimmetriche fra un “noi” autoctono e un “loro” rappresentato dai migranti (Grillo 2005; Vertovec, Wessendorf 2009). In parallelo vi è stata una crescente preoccupazione per come decifrare la questione identitaria. Laddove alcuni studi hanno posto l’accento sul carattere fluido e plurimo delle identità dei migranti teorizzando una loro presunta capacità di abitare spazi culturali e sociali spesso agli antipodi, come quello del paese di origine e quello di destinazione, è stato osservato come una eccessiva celebrazione di tale capacità abbia teso a mettere in secondo piano il persistere di profonde diseguaglianze e difficoltà nel collocarsi in entrambi i contesti (Notarangelo 2011). Alcuni studi hanno così evidenziato gli elementi contradditori che sottendono i difficili processi di mediazione e negoziazione, così come gli stati di ansia, insicurezza, e precarietà che accompagnano i migranti nel loro vissuto quotidiano (Salih 2001).

Il tema dell’identità dei migranti è stato approfondito ulteriormente dalla letteratura antropologica mano a mano che nel quadro di ricerca venivano incluse le cosiddette seconde generazioni, ovvero quel numero sempre più consistente di figli di migranti che nascevano o arrivavano da giovanissimi in Italia a seguito dei genitori. A partire da alcuni studi pioneristici sul tema svolti in contesti pur molto differenti da quello italiano (Levitt, Waters 2002), si poneva il problema di come rendere conto dell’influenza più o meno marcata che i legami transnazionali continuavano ad avere su queste persone, ovvero di come essi continuassero a essere “incastonati” (embedded) in relazioni che li legavano alla madrepatria dei genitori. Anche in ambito italiano con il crescere delle nuove generazioni sono aumentati gli studi antropologici sul tema che abbracciavano una prospettiva transnazionale (si veda Cingolani, Ricucci 2014; Notarangelo 2011; Salih 2004; Riccio, Russo 2009, 2011).

Tuttavia la letteratura sull’islam europeo ha cominciato presto a notare che le seconde generazioni di musulmani sono sempre meno legate al luogo d’origine rispetto ai genitori e si confrontano invece con altri coetanei sia all’interno dei circoli nazionali che a livello europeo. Ad esempio Salih (2004: 1000-1001), con riferimento a lavori sulle seconde generazioni di origine maghrebina in Francia (Khosrokhavar 2002), nota come i giovani musulmani cresciuti in Europa riformulino le loro identità adottando un modello “neo-comunitario” di islam con tratti universalizzanti che si differenzia da quello prevalente fra i genitori, che rimane legato alla nazione d’origine. Altri studi pioneristici sull’argomento hanno similmente osservato che questi giovani possono attivare un “processo attivo mirato a costruire network musulmani/islamici tenuti assieme da idee e risposte condivise nel contesto europeo, piuttosto che da una identità etnica o nazionale comune” (Allievi, Nielsen 2003: vii)[10]. In questa ottica, per le nuove generazioni di musulmani cresciute in Europa l’islam può diventare un riferimento significativo per la formulazione di identità che travalicano la nazionalità di appartenenza dei genitori – rispetto alla quale esse hanno contatti molto meno frequenti e intensi, se non pressoché assenti o limitati al periodo delle vacanze estive[11].

Tuttavia laddove questi studi hanno teso a enfatizzare la dimensione intra-europea, e quindi transnazionale, dell’islam in Europa, l’antropologo John Bowen (2004) – uno specialista dell’interrelazione fra secolarismo e islam in Europa – ha suggerito di restituire una dimensione contestualizzata e nazionale dei processi di formulazione identitaria e di costruzione della conoscenza musulmane. Con particolare riferimento alla circolazione di idee e produzioni intellettuali in Francia, Bowen ha proposto di guardare alle comunità musulmane in Europa “al di là della migrazione” (beyond migration) e di superare concetti quali “islam europeo” e “post-nazionale”. A suo avviso in Francia il dibattito è in primo luogo determinato dai tentativi delle nuove generazioni di definire l’islam all’interno dei confini politici e culturali nazionali, i quali sono delimitati dalle barriere linguistiche e dalla specificità del contesto politico-istituzionale.

Sebbene Bowen guardi al dibattito intellettuale piuttosto che alle forme di attivismo musulmano esplorate nel presente articolo, la sua riflessione ci offre due suggerimenti utili per la nostra analisi. Il primo è il fatto che la lente teorica del transnazionalismo abbia una utilità limitata nell’analisi del caso di ragazzi cresciuti in Italia i quali, intrattenendo scarsi rapporti col paese d’origine dei genitori, sono solo tangenzialmente “incastonati” (embedded) in quest’ultimo. In secondo luogo, l’analisi di Bowen ci invita a guardare al modo specifico in cui il rapporto con la diversità culturale, e l’islam in particolare, è strutturato all’interno del contesto italiano e, nello specifico, in quello bresciano.

GMI e cartografia della presenza musulmana nel nord Italia

Il GMI è un’associazione nazionale giovanile islamica fondata nel 2001, poco dopo gli attentati dell’11 settembre, allo scopo di «favorire la conoscenza della fede islamica, riunire i Giovani Musulmani d’Italia, organizzare attività di vario genere, dalle formative alle ludiche»[12]. Oggetto di diversi studi più o meno sistematici (Cigliuti 2018; Frisina 2007, 2010a, 2010b; Giacalone 2011; Riccio, Russo 2009), l’associazione sorge dalla volontà delle nuove generazioni di musulmani di prendere le distanze dalle modalità associative e comunicative delle organizzazioni precedenti, legate alle prime generazioni. Come musulmani nati e cresciuti in Italia questi giovani sono mossi dal desiderio di costruire un islam italiano, «cioè più autonomo e autoctono» (Frisina 2007: 15) e si distinguono dai genitori per diversi aspetti, come il modo di praticare l’islam e di vivere i rapporti con le altre comunità musulmane presenti sul territorio italiano[13]. Come vedremo, anche nel caso di Brescia i giovani si fanno portatori di una visione al contempo più “italiana” e più “ecumenica”, che intende andare oltre le divisioni etnico-nazionali che attraversano ancora i musulami di prima generazione.

I ragazzi del GMI si sono distinti per una strategia comunicativa meno esitante di quella dei loro genitori. Anche in risposta agli avvenimenti del settembre 2001, essi non hanno esitato ad apparire sui media locali e nazionali in talk show, trasmissioni di varietà e TG, confrontandosi con giornalisti e politici per sfidare alcuni stereotipi comuni sulla loro religione. Fra i principali temi promossi dall’associazione durante i primi mandati, rientra quello della legge sulla cittadinanza e, più in generale, la richiesta di una maggiore attenzione per le problematiche vissute dalle seconde generazioni, musulmane e non. Alcuni esponenti del GMI hanno deciso di attivarsi nello spazio pubblico anche entrando in politica o pubblicando libri – solitamente romanzi ispirati alla loro esperienza personale di italiani “diversi”[14].

Ad oggi il GMI conta circa 250 partecipanti a livello nazionale[15]. A questi numeri va aggiunta, e solo in parte sovrapposta, un’ampia schiera di persone adulte – nella stragrande maggioranza dei casi, ex partecipanti – che, in qualità di associati, svolgono una funzione direttiva nell’assemblea nazionale, guidando e sostenendo i membri più giovani organizzati nelle sezioni locali. Ad oggi si contano 237 associati in tutta Italia[16]. Inoltre, altre persone orbitano attorno all’organizzazione prendendo parte agli eventi in modo discontinuo. Il numero di queste persone è cresciuto negli ultimi due anni a seguito del trasferimento online delle attività a causa dell’emergenza covid-19. Se, da un lato, l’emergenza ha prodotto un calo nel senso di partecipazione e fratellanza percepiti, dall’altro ha visto la partecipazione di nuove persone, spesso sconosciute agli organizzatori, alle attività.

La composizione etnica dei partecipanti al GMI rispecchia indicativamente la distribuzione in percentuale dei musulmani a livello nazionale[17]. Fra questi si conta una maggioranza di marocchini e, in proporzioni pressoché uguali, tunisini, egiziani, e senegalesi (Caritas Migrantes 2020: 197-198). Anche fra gli intervistati della sezione bresciana, la maggior parte è composta da marocchini (3), a cui seguono 2 senegalesi, 1 egiziano, 1 pakistano, e 1 algerino. Come osservato dalla letteratura sull’argomento, la presenza musulmana in Italia si distingue per la sua molteplicità e frammentarietà rispetto agli altri maggiori paesi europei, i quali per storia coloniale o politiche di sviluppo post-belliche, ospitano maggioranze di musulmani provenienti da luoghi circoscritti (Algeria e Tunisia per la Francia, India e Pakistan per la Gran Bretagna, Turchia per la Germania) (Allievi, Dassetto 1993; Saint-Blancat 1999).

Attualmente il GMI è organizzato in 17 sezioni locali di cui 2 inattive e 3 in apertura. Inoltre è in corso un tentativo di riattivare alcune sezioni minori che sono scomparse negli ultimi anni per una serie di concause quali l’assenza di una politica in tal senso da parte del GMI e il mancato ricambio generazionale, che deve avvenire molto rapidamente in questo tipo di associazioni[18]. Le sezioni più grandi sono quelle del nord, dove è nata per prima l’organizzazione: Milano e hinterland (Monza, Saronno, e Sesto San Giovanni), Brescia, Novara, Bologna, Reggio Emilia, Firenze e, a seguire, Bolzano, Trento e Treviso. La maggiore importanza rivestita da queste sezioni rispecchia la distribuzione demografica dei migranti, musulmani e non, sul territorio nazionale, che sono concentrati al nord, la parte del paese che offre maggiori opportunità lavorative. Secondo i dati più recenti, dei 5,306,548 di cittadini stranieri residenti in Italia nel 2020, il 57,8% si trova al nord, in particolare al nord-ovest (che da solo raccoglie il 33,8%), il 25,3% al centro, e il 16,9% al sud. A livello locale sono ancora le regioni più sviluppate, Lombardia su tutte (22,7% del totale), ad avere il maggior numero di stranieri, con l’eccezione della regione che ospita la capitale, il Lazio (seconda, 12,9% del totale), seguita da altre regioni altamente industrializzate come Emilia-Romagna (10,5%), Veneto (9,5%) e Piemonte (8,1%) (Caritas Migrantes 2020: 27-33).

Dati analoghi emergono se si guarda alla distribuzione dei musulmani a livello provinciale. I gruppi nazionali più numerosi al 1° gennaio 2020 si trovano in provincia di Milano (125.000 unità) e Roma (109.000). Ai due principali capoluoghi nazionali seguono le altre province del nord Italia, in testa alle quali spunta Brescia – seguita da Bergamo, Torino, Bologna e Modena (Caritas Migrantes 2020: 202-203). La provincia di Brescia si classifica infatti terza a livello nazionale per numero di musulmani, con una comunità che nel 2017 si aggira attorno alle 70,000 persone[19]. Nel 2016 i musulmani erano il 43,7% degli stranieri residenti, una quota pari al 6,8% della cittadinanza. Ciò fa di Brescia la prima provincia italiana per consistenza di popolazione musulmana[20].

Il contesto provinciale: Il Centro Culturale Islamico e il GMI-Brescia

È in questo contesto, fortemente multietnico e ad alta concentrazione musulmana, che sono cresciuti i giovani con i quali ho interloquito. Il GMI di Brescia svolge le sue attività nei locali della principale moschea della città, il Centro Culturale Islamico di Brescia, locato in una vecchia cascina ristrutturata in Via Corsica, lungo la tangenziale sud della città[21]. La comunità musulmana aveva avviato i primi esperimenti associativi negli anni Ottanta, ma è solo dopo il 2001 che il gruppo più consistente si trasferisce in questi locali. Nonostante i tentativi di opposizione all’espansione del Centro da parte dei partiti politici di centrodestra durante gli anni 2000, la comunità ha mantenuto un atteggiamento mite e aperto al dialogo (Bombardieri 2011: 159-163). Il Centro è legato alla principale organizzazione islamica nazionale, l’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia), oltre che all’Associazione italiana degli imam e delle guide religiose[22]. È il luogo di culto islamico a carattere più multietnico a Brescia, con più di 30 diverse nazionalità che lo frequentano[23]. Tale aspetto lo distingue da altri centri presenti in città che rimangono invece legati a specifiche comunità nazionali, su tutte quella pakistana – la più numerosa d’Italia[24] – come l’Associazione Culturale Islamica Muhammadiah, locata all’estremità sud-est della città, in via Volta.

Il leader spirituale (imam) del Centro, Amin El-Hamzi, è arrivato dallo Yemen nel 2005, ed è ora uno dei membri di spicco dell’islam italiano. Dal 2012 rappresenta i musulmani italiani presso il Consiglio Europeo per la Fatwa e la Ricerca (European Council for Fatwa and Research)[25]. Oltre a condurre la preghiera del venerdì, tiene diverse lezioni in arabo per la comunità bresciana su temi di diritto, dottrina ed etica islamica. Con lui collabora Morgan Abdurrashid Ghidoni, bresciano convertito che ha compiuto gli studi islamici nella stessa scuola di El-Hamzi in Yemen. Ghidoni organizza lezioni rivolte ai musulmani italofoni, fra cui convertiti e ragazzi di seconda generazione come i miei interlocutori. Nel fine settimana il Centro offre corsi di arabo per i bambini della scuola primaria – una attività tipica di molte realtà italiane (Ferrero 2018; Notarangelo 2011). Il corso di educazione islamica in italiano è rivolto sempre a loro e ambisce a trasmettere alcune conoscenze di base sulla dottrina e la pratica musulmane[26]. Esiste anche un percorso ad hoc rivolto a un gruppo selezionato di ragazzi e ragazze fra i 14 e i 17 anni. Esso prevede lezioni di carattere spirituale, tenute sia da El-Hamzi che da Ghidoni, oltre che una preparazione di tipo tecnico-organizzativo curata dal personale amministrativo del Centro. Nel corso si sono formati la maggior parte dei membri del direttivo del GMI-Brescia.

Infine, i ragazzi del GMI organizzano a loro volta degli incontri settimanali per discutere di varie tematiche, da quelle spirituali ai temi di attualità loro più cari: diritto alla cittadinanza, libertà di culto, attivismo politico e religioso. Come ho potuto verificare anche dagli incontri a cui ho partecipato, vengono solitamente invitati esponenti di rilievo della comunità islamica italiana che in passato sono stati attivi nel GMI o in altre associazioni di seconda generazione. L’età delle persone coinvolte va generalmente dai 16 ai 25 anni, per un gruppo di frequentatori regolari stimato intorno alle quaranta persone – anche se durante gli incontri online si possono raggiungere fino a un centinaio di partecipanti[27].

Come già notato in precedenza, tutti i miei interlocutori hanno rimarcato il rapporto positivo e di collaborazione che lega le prime e le seconde generazioni al Centro Culturale Islamico di Brescia. Dato che i vari GMI locali solitamente dipendono dalle rispettive moschee per l’ottenimento degli spazi, in caso di rapporto conflittuale con le prime generazioni possono riscontrarsi problemi nell’organizzazione, come nel caso di Novara[28]. Non è così per Brescia. Questo si riflette anche nelle parole di imam Hamzi e shaykh Ghidoni[29], per i quali i giovani rappresentano un asset fondamentale del Centro[30]. I giovani usano con disinvoltura i moderni mezzi di comunicazione al fine di promuovere le attività del GMI e del Centro, come ad esempio l’iniziativa “Moschea Aperta”. Quest’ultima ha registrato un grande successo nelle sue prime cinque edizioni svoltesi fra il 2015 e il 2019, ma è stata poi sospesa a causa dall’emergenza covid-19[31]. Il responsabile della sezione GMI-Brescia durante il biennio 2018-2020 è oggi nel direttivo del Centro e svolge un’importante funzione di raccordo fra esso e il GMI. Egli mi ha confermato che la segreteria del Centro è gestita perlopiù da membri del GMI. Lo stesso accade per le campagne di raccolta fondi e per molti altri aspetti organizzativi[32]. Questo clima positivo ha sicuramente contribuito a creare un ambiente sereno all’interno del Centro, che nel tempo ha facilitato l’avvicinamento allo stesso di nuovi giovani musulmani.

«Il GMI come comunità di recupero?» Riflessioni identitarie all’interno dell’islam italiano

Studi precedenti hanno indicato nel tema della cittadinanza uno fra quelli di maggiore rilievo per il GMI (Frisina 2007; Riccio, Russo 2009; Giacalone 2011). La questione era particolarmente sentita dalle “prime” seconde generazioni le quali, essendo nate solitamente all’estero, non erano in possesso della cittadinanza – pur essendo cresciute nel paese e sentendosi italiane per lingua e appartenenza. Il tema continua a essere dibattuto dalle “nuove seconde generazioni”, specialmente quando ricompare sui media nazionali, come durante le recenti discussioni sullo ius solis. Tuttavia la maggior parte di questi ragazzi è nata in Italia e ha potuto o potrà richiedere la cittadinanza al compimento del 18° anno di età. Pertanto per loro la questione è meno sentita. Dalla mia ricerca emerge invece con maggior forza un altro aspetto – anch’esso tuttavia presente da sempre nelle discussioni del GMI – ovvero quello della compatibilità fra identità multiple, religiosità, e senso di appartenenza al contesto italiano. Il GMI è uno spazio di incontro per musulmani nati e cresciuti in Italia che hanno condiviso esperienze di marginalizzazione o di difficoltà a omologarsi alle visioni del mondo autoctone; esperienze che li hanno spinti a formulare la loro identità in una nuova ottica che comprende italianità, religione musulmana e rapporto con la cultura d’origine dei genitori.

Di seguito riporto le storie di Leila[33] e Amal, due ragazze di origine marocchina, e Amadou, un ragazzo di origine senegalese, dalle quali emerge che la partecipazione al GMI ha rappresentato per loro una tappa fondamentale per la formulazione di una identità musulmana che, diversamente da quella delle prime generazioni, non si pone in modo antagonistico rispetto all’italianità. Il ruolo del GMI in questo percorso emerge con particolare evidenza dalle storie di vita di quei ragazzi che hanno conosciuto l’associazione dopo i 18 anni, come Leila e Amadou. Tuttavia anche nel caso di Amal, che ha frequentato il Centro Islamico di Brescia con regolarità fin da bambina e ha quindi abbracciato la proposta identitaria del GMI-Brescia più gradualmente, l’incontro coi coetanei e la contrapposizione al paese di origine emergono come elementi fondamentali per pensare il carattere molteplice della propria identità.

Leila nasce alla fine degli anni Novanta in un paese di meno di mille abitanti in provincia di Brescia da due genitori di origine marocchina. Cresce qui insieme ai genitori e alle due sorelle, una maggiore e una minore, fino alle scuole medie, quando si trasferiscono tutti in un paese poco più grande ma vicino alla città, dove risiedono tuttora. Leila mi ha spiegato che durante la sua infanzia aveva rinnegato la sua «parte etnica» e usava «atteggiarsi come un’italiana»[34]. I suoi genitori avevano educato lei e le sorelle in questa direzione, dicendo loro: «Mostriamoci come italiani perché così ci reputeranno tali». Come chiarito da Leila: «Siamo state abituate che marocchino significa immigrato». La negazione dell’identità d’origine emerge dalla narrazione di Leila come un elemento caratterizzante di questo periodo della sua vita. Ad esempio mi ha raccontato di quando un giorno la sorella maggiore aveva risposto irritata a una signora che aveva chiamato la sorella minore «marocchina», dicendole di non chiamarla così perché non lo era!

È stato con l’inizio dell’università che Leila ha cominciato, nelle sue parole, a «uscire dal suo guscio» e a scoprire che c’erano altri come lei. Frequentando altri studenti stranieri all’università ha infatti cominciato a vedere le proprie origini sotto una nuova luce e a non censurarle più. A chi le domandasse da dove veniva lei ora rispondeva: «italiana di origine marocchina». Ciò non significa che il passaggio sia stato semplice. Leila ha ammesso che le capitava spesso di piangere con un’amica a cui confessava di non sapere più chi era. Tuttavia qualcosa era scattato in lei.

Un episodio che secondo Leila è stato decisivo per la maturazione della sua riflessione personale, è stato l’incontro, durante il tirocinio formativo tenuto al secondo anno di psicologia, con un ragazzo tunisino più giovane che si poneva costantemente domande circa la propria identità. Leila mi ha spiegato che vedere un ragazzo così giovane riflettere su interrogativi che lei aveva sempre represso ha fatto scattare in lei una molla che l’ha portata, da lì a pochi mesi, a velarsi – nonostante il parere contrario di entrambi i genitori, che ritenevano che la scelta le avrebbe complicato la vita. Leila mi ha descritto la sua decisione di indossare il velo nei termini di un «rito di avvicinamento»: si è avvicinata ad essa passo dopo passo, dapprima smettendo di indossare canottiere e magliette a maniche corte, preferendo abiti con maniche lunghe anche d’estate nonostante il caldo. Mi ha raccontato di come durante i primi tempi stendeva i veli della madre sul letto per osservarli e abituarsi all’idea di indossarli. All’inizio non fu facile e provò dispiacere quando un’amica italiana che la vide per la prima volta velata le disse apertamente che sebbene sapesse che nessuno in famiglia la stava obbligando il velo rimaneva un simbolo di oppressione femminile[35]. Fino ad allora Leila aveva frequentato solo ragazze italiane, e sebbene rispettasse alcuni precetti base dell’islam come non consumare alcool e non andare in posti considerati promiscui come le discoteche, fu per lei difficile cominciare a spiegare loro che nel fine settimana aveva cominciato a recarsi in moschea. Per fortuna, ha aggiunto Leila con una nota di sollievo, col tempo un ristretto gruppo di amiche le è rimasto vicino. Alcune di loro le hanno anche fatto visita durante la giornata “Moschea Aperta 2019”.

L’inizio della frequentazione del GMI è stato particolarmente importante nel percorso di ridefinizione identitaria di Leila. Verso la fine dell’intervista, fra il serio e il faceto, e scusandomi preventivamente nel caso la battuta fosse fuori luogo, le ho detto che da quello che mi stava raccontando il GMI sembrava essere stato, per lei, una sorta di comunità di recupero. Al contrario di quanto temessi, Leila ha risposto entusiasta e sorridente: «Sì, esattamente!» Perché, ha continuato: «quando ho cominciato a frequentare il gruppo, per la prima volta non mi sono sentita inadeguata... o comunque era la prima volta che non mi sentivo inadeguata in tutto. E soprattutto mi sentivo compresa.» Poi Leila ha ricordato alcuni episodi minori ma significativi di incomprensione accaduti in precedenza con dei ragazzi italiani che, ad esempio, le chiedevano sconcertati come facesse a non andare in discoteca o a non mangiare la porchetta! Queste sono battute apparentemente innocue, ma significative, che sono emerse dalla narrazione di Leila come importanti marcatori di differenza rispetto ai coetanei autoctoni[36]. Nel contesto del GMI invece, mi ha spiegato Leila, per la prima volta non doveva più rispondere a domande di questo genere, e poteva sentirsi “sé stessa” insieme con persone con le quali condivideva un retroterra esperienziale, culturale e religioso comune.

Identità multiple

La storia di Leila si intreccia con quella di Amadou, un ragazzo di origini senegalesi di 21 anni, piuttosto estroverso, che dopo essersi diplomato nel 2018 ha deciso, diversamente da tutti gli altri intervistati, di non iscriversi all’università e di accettare un lavoro part-time in un grande magazzino[37]. A suo dire questa scelta gli ha permesso di coltivare liberamente i suoi interessi, fra cui le lingue, da autodidatta. Cresciuto anch’egli in un piccolo paesino, si è trasferito in città cinque anni fa coi genitori, un fratello più grande, e due fratelli e una sorella più piccoli. Il padre, arrivato in Italia all’inizio degli anni Ottanta, è affiliato alla Tijaniyya, una confraternita Sufi con ramificazioni internazionali, importante per i senegalesi in Italia[38]. Amadou ha affermato che il padre gli ha insegnato alcuni concetti base dell’islam e a pregare, ma che fino a prima dell’incontro col GMI, avvenuto 3 anni fa, pregava solo saltuariamente e per abitudine. Al tempo frequentava un gruppo di amici senegalesi non religiosi e alcuni ragazzi italiani e, ha ammesso, della religione non gli interessava molto. La viveva tuttalpiù come un fattore identitario. Il cambiamento (shift, come a lui piace chiamarlo con un inglesismo) è avvenuto quando ha incontrato persone con il suo stesso background religioso ed esperienziale al GMI. Sebbene Amadou non volesse andarci, dopo che la sorella aveva cominciato a frequentarlo, un giorno il padre lo aveva invitato ad andare aanche lui. Amadou mi ha spiegato che non era molto convinto dall’idea, ma che una volta trovatosi in moschea si era sentito subito a suo agio: «Non so come, ma dal primo secondo, appena sono entrato, mi sono sentito ‘da Dio’». Quel giorno l’incontro era guidato da imam Amin, che trattava un tema religioso, e quindi più noioso per lui di uno di attualità. Ciononostante Amadou si era trovato subito a suo agio e si era comportato con disinvoltura. A tal proposito ha aggiunto: «Mi sono messo subito a scherzare, a fare battute in mezzo a 30 persone. Non conoscevo nessuno, era la prima volta, eppure... da quel giorno tutto è cambiato». Ora il 90% degli amici di Amadou provengono da questo gruppo di persone.

Quando, più tardi durante il nostro colloquio, gli chiedo cosa pensa che sia scattato in lui quel giorno, Amadou mi ha risposto:

La famiglia che si è creata... Vedi? Dico ‘amici’ ma per me è strano chiamarli ‘amici’ [i ragazzi del GMI]. Noi ci chiamiamo akhi, che in arabo vuol dire fratello[39]. Ci chiamiamo così. Per me sarebbe strano chiamarli in altro modo. Non so... Ad esempio, durante l’ultimo Ramadan abbiamo fatto un iftar a casa mia[40]. Casa mia ha due camere da letto, una cucina, un piccolo salotto, due bagni e fine. Eppure eravamo in 30 persone che giravamo per casa...

Anche nel caso di Amadou, l’incontro con persone provenienti da uno stesso background religioso-culturale e che hanno vissuto esperienze simili a casa (come i ritrovi in occasione dell’iftar durante il Ramadan) ha giocato un ruolo fondamentale nel suo percorso di ridefinizione identitaria. Durante l’intervista ha anche affermato chiaramente: «Io ho un prima e un dopo [l’incontro col GMI-Brescia] e sono molto felice di questo mio passaggio». Da quando frequenta il GMI Amadou dice di non sentirsi più un ragazzo italiano “ma diverso”. Piuttosto, l’essere “diverso”, inteso come la appartenenza a identità multiple, viene da lui elevato a valore. Quando al termine dell’intervista gli ho domandato come egli definirebbe la sua identità, Amadou mi ha risposto: «Musulmano, senegalese, italiano». La risposta era marcata da un tono polemico. Infatti mi disse di aver recentemente aiutato un amico per una ricerca di tesi di laurea per la quale questi gli aveva chiesto di scegliere fra una di queste identità. Ma Amadou mi ha detto di non aver trovato alcun senso nella richiesta poiché considera il poter definirsi sia italiano, che senegalese, che musulmano come un punto di forza. Infine, ha sottolineato che al GMI-Brescia «ci sono mille etnie!» e che la frequentazione di queste persone gli conferisce ulteriore ricchezza in quanto aggiunge al suo bagaglio la conoscenza di altre realtà culturali.

Passiamo ora all’ultimo caso preso in analisi, quello di Amal, una ragazza del 2000 di origini marocchine. Anche lei è cresciuta in un piccolo paese di provincia fino ai 9 anni, dopodiché si è trasferita coi genitori e la sorella minore in un comune limitrofo a Brescia[41]. Diversamente da Leila e Amadou, Amal ha frequentato il Centro fin dalla scuola primaria. Da allora mi ha detto di aver condotto due vite parallele, una durante la settimana, legata alla scuola e alle amicizie italiane, e una il sabato e la domenica al Centro, dove si recava con la famiglia per seguire le lezioni di arabo e, una volta cresciuta, di educazione islamica. Amal ha cominciato a portare il velo molto prima di Leila, nell’estate fra la seconda e la terza media, periodo in cui forgiava le prime amicizie al GMI, che da allora non ha più smesso di frequentare. Rispetto a Leila e Amadou, Amal traspirava serenità e naturalezza nel descrivere l’adesione al GMI-Brescia. Per lei questa scelta non ha rappresentato una rottura netta rispetto al suo percorso identitario. Tuttavia anche Amal ha parlato dei ragazzi incontrati al GMI come di «un gruppo che è un po’ una famiglia». Mi ha spiegato che come lei erano tutte persone che venivano da piccoli paesi, dove solo pochi altri ragazzi di origine straniera vivevano. Il Centro era divenuto per questi ragazzi “diversi” un luogo di ritrovo dove crescere assieme.

Quando ho domando ad Amal del rapporto col paese d’origine dei genitori, mi ha detto che fino a prima dell’emergenza covid-19 ci andava ogni anno per salutare i parenti, inclusi lontani cugini di cui spesso non ricordava neppure l’esistenza! Tuttavia ha aggiunto che per lei rappresenta un po’ il «paese di vacanza» e non andrebbe mai a viverci, perché è molto diverso dall’Italia. Quando le ho domandato come si definirebbe da un punto di vista identitario, mi ha risposto:

Io ho un modo tutto mio di definirmi: 100% italiana più 50% marocchina. Del Marocco ho il gusto per certi cibi, la lingua, alcuni modi di pensare... E tutte queste cose sono un’aggiunta a quello che sono io... Anche se io sono molto il risultato di una mescolanza. [...] La mia idea è che niente [nessuna delle due parti] toglie niente all’altra, ma porta invece qualcosa in più.

Se dovesse quindi scegliere una sigla sintetica per definirsi, dopo averci pensato su qualche secondo, Amal ha detto che probabilmente questa sarebbe «italiana musulmana di origine marocchina». Infatti, ha aggiunto, anche se non si identifica molto col Marocco, questa componente non può essere cancellata da quello che lei è poiché l’ha assorbita dai suoi genitori. Inoltre, sebbene abbia spesso sofferto in Italia quando, ad esempio, alcune persone l’apostrofavano come “marocchina”, per converso, quando va in Marocco le dicono che lei è italiana! Quindi, ha concluso: «...Poi con un mio ragionamento io sono uscita da questo problema e sono arrivata a una mia sintesi [di quello che sono]».

Dalla narrazione di Amal emerge come lei abbia avuto un percorso identitario più lineare rispetto a Leila e Amadou. Fin da piccola si è integrata con la visione promossa dal Centro e dal GMI-Brescia. Tuttavia ha vissuto anche lei episodi di esclusione. Anche lei ha sofferto il fatto di venire spesso inquadrata da chi non la conosceva in modo escludente come “marocchina” e quindi di non veder a volte riconosciuta la sua parte italiana di identità. È da questa esperienza di non riconoscimento all’interno del modello di italianità diffuso in società, un’esperienza condivisa dai ragazzi del GMI-Brescia da me incontrati, che emerge un percorso identitario particolare ma comune fra questi ragazzi. Se, da un lato, essi vengono esclusi da una possibile piena assimilazione al contesto nel quale sono cresciuti, dall’altro ritrovano nell’associazione quelle risorse emotive e culturali che li spingono nella direzione di formulare proposte identitarie nuove, basate sull’identificazione con una molteplicità di marcatori identitari quali italianità, essere musulmani cresciuti in Italia e portatori del retroterra culturale del paese d’origine dei genitori.

Conclusioni

Alcuni anni fa l’autore franco-algerino Abdelmalek Sayad (2002 [1999]) ha usato il termine “doppia assenza” per criticare quei primi studi sulle migrazioni che nel considerare i migranti di prima generazione come assenti sia dal paese d’origine che da quello di accoglienza, finivano per negare le loro esperienze di vita, troppo spesso ridotte a quelle di “migrante” o “lavoratore” (Fadil 2019: 122). Tuttavia la sua critica rifletteva anche uno dei principali sentimenti che accompagna l’esperienza migratoria della maggioranza di queste persone: l’esclusione sia dal paese di arrivo che da quello di origine. In questa prospettiva si possono tracciare alcune analogie con le esperienze vissute dai musulmani di seconda generazione cresciuti in Italia. Anche questi ultimi si sentono esclusi, nella complessità delle loro identità, dalle visioni di italianità diffuse in società. Inoltre – e in questo ancora meno dei loro genitori – essi non possono connettersi neppure immaginariamente col “loro luogo d’origine”, poiché ai più questo rimane estraneo o talvolta persino avverso.

Allo stesso tempo, diversamente da quanto suggerito dal concetto di doppia assenza, non si può dire che questi ragazzi siano “sradicati” dal contesto in cui si trovano. Parlano tutti italiano, spesso con un marcato accento locale e molto più fluentemente delle lingue dei genitori. La maggior parte è istruita e studia in alcuni dei più prestigiosi corsi di studio universitari, come medicina e ingegneria. Sono giovani attivi nelle loro realtà locali, che padroneggiano i mezzi di comunicazione e sanno come presentarsi pubblicamente. Laddove una sorta di legame permane con un altrove – seppur in gran parte immaginato e solo occasionalmente esperito: il paese d’origine dei genitori – dall’altro essi non possono più essere considerati come radicati in questo altrove. In questo senso la lente teorica del transnazionalismo può aiutarci solo in parte a rendere conto dei loro vissuti. I percorsi identitari di queste “nuove seconde generazioni” assumono infatti dei tratti sempre più “post-migratori”, in quanto sono plasmati più dal confronto col contesto di accoglienza che dall’intrattenimento di rapporti col paese d’origine[42]. Quest’ultimo diventa per loro un altro luogo, insieme a quello italiano, rispetto al quale si collocano in modi che, quando si tratta di formulare compiutamente la loro identità, si alternano fra attaccamento affettivo e distacco riflessivo. Se da un lato si sentono portatori della cultura del paese d’origine dei genitori, dall’altro sentono di non appartenervi. Questo vale sia per i loro progetti di vita che per l’esempio etico-religioso che ne possono trarre. Infatti i miei interlocutori sono stati spesso critici del modo blando in cui molte persone vivono la religione nel paese dei genitori[43].

In questa ottica in alcuni lavori sull’islam in Europa è stato notato come il transnazionalismo possa essere declinato in modi diversi, fra cui quello che prevede un islam della umma (la comunità di credenti) che si forma all’interno dei circoli transnazionali che legano le diverse comunità diasporiche tra di loro (Grillo 2004: 866-868). Tuttavia questi come altri studi (Allievi, Nielsen 2003) conferiscono un peso eccessivo alle connessioni transnazionali che legherebbero fra loro le seconde generazioni dislocate nei singoli paesi europei (Bowen 2004). Non solo i musulmani residenti in Europa parlano lingue differenti e operano in contesti nazionali che sono socialmente, istituzionalmente e politicamente diversi fra loro. Inoltre, nonostante condividano alcuni riferimenti intellettuali comuni, le loro storie non sono sempre in contatto e neppure facilmente sovrapponibili (si veda Cesari, Pacini 2005).

Tali aspetti sono rilevanti al fine di inquadrare il caso del GMI-Brescia nella prospettiva offerta dai (pochi) studi sul multiculturalismo in Italia. Ormai alcuni anni fa, Grillo e Pratt (2002) hanno messo in evidenza come le “politiche del riconoscimento della differenza” che dovrebbero stare alla base di una politica veramente inclusiva e multiculturale, possano essere definite solo localmente poiché esistono variazioni significative da uno stato-nazione europeo all’altro. Mentre il significato di multiculturalismo, così come quello di integrazione, vengono spesso trattati come autoevidenti, il modo in cui la società italiana risponde alla differenza è specifico e diverso rispetto a quanto accade in qualsiasi altro paese europeo. Nell’introduzione si è fatto riferimento a Grillo (2002) nell’indicare quei fattori che hanno principalmente contribuito alla definizione del multiculturalismo e, di riflesso, del modo in cui l’alterità è stata concepita in Italia. Come illustrato in apertura dal caso di Silvia Romano, la percezione dell’italianità come intimamente legata alla tradizione cattolica e opposta all’islam inteso sia come religione sia come civiltà, continua a stroncare sul nascere ogni possibile discussione circa l’inclusione di altre religioni, in primis quella islamica, nelle concezioni correnti di italianità.

Anche per tali ragioni, nell’articolo ho suggerito di riflettere sul caso dei musulmani d’Italia al di là di una certa enfasi posta dalla letteratura sulla questione della “cittadinanza”. Ciò non vuol dire negare l’importanza che questa battaglia ha storicamente rivestito, e continua a rivestire, per il GMI. Tuttavia il caso delle “nuove seconde generazioni” di musulmani qui esposto suggerisce che la riflessione debba andare a toccare anche le traiettorie ideologiche di lungo corso legate all’italianità; traiettorie che impediscono di ripensare quest’ultima come inclusiva di storie e vissuti come quelli qui presentati. Laddove la lotta per il riconoscimento dei diritti civili rimane fondamentale, essa deve essere affiancata da un ripensamento collettivo, genuino e profondo, di cosa “multiculturalismo” significhi e debba implicare per le politiche di riconoscimento nel contesto italiano. Le storie di vita dei miei interlocutori mostrano il modo creativo con cui essi hanno ripensato e riformulato i loro percorsi identitari. Tali percorsi dovrebbero essere presi come riferimento al fine di ridefinire l’italianità in una direzione più inclusiva e volta al riconoscimento del carattere multiculturale e multireligioso della società italiana del 21° secolo.

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[1] https://www.raiplay.it/video/2020/05/rainews24---silvia-romano--tornata-le-prime-immagini-dellabbraccio-con-la-famiglia--6045f814-3353-4515-acdc-76fb2dab9376.html (consultato in data 20 luglio 2021).

[2] Repubblica 9 maggio 2020, https://www.repubblica.it/politica/2020/05/09/news/liberata_ silvia_romano_zingaretti_-256173309/; https://video.repubblica.it/mondo/silvia-romano-libera-l-abbraccio-social-di-colle-politici-e-i-cittadini-il-2020-ha-fatto-anche-cose-buone/359997/360550 (consultati in data 2 luglio 2021).

[3] Su Facebook il sindaco di Ovindoli (Abruzzo) Simone Angelosante commenta: «Avete mai sentito di qualche ebreo che liberato da un campo di concentramento si sia convertito al nazismo e sia tornato a casa in divisa delle SS?». Sempre su Facebook, con un post poi cancellato, il vicepresidente del Consiglio regionale veneto Massimo Giorgetti, esponente eletto con Forza Italia (passato successivamente a Fratelli d’Italia) commenta: «Se sono contento per la liberazione di Silvia Romano? Per niente. Ora avremo una musulmana in più e quattro milioni di euro in meno. Un affare proprio...» (Repubblica, 11 maggio 2020, https://www.repubblica.it/politica/2020/05/11/news/salvini_rietro_silvia_romano-256286148/, consultato in data 2 luglio 2021).

[4] Somma, N. «Silvia Romano libera, le ingiurie non sono opinioni: sono pietre e fanno male», Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2020, https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/05/11/silvia-romano-libera-le-ingiurie-non-sono-opinioni-sono-pietre-e-fanno-male/5797675/ (consultato in data 1 settembre 2021).

[5] Fra le tematiche affrontate si elencano: contesto familiare di provenienza e inclinazione religiosa dei genitori, visione del mondo acquisita in famiglia, relazioni con compagni e amici autoctoni e, quando presenti, di origine straniera nei vari ordini di istruzione, episodi di razzismo vissuti, modalità di incontro con l’attivismo religioso, risvolto dell’incontro con coetanei con background non italiano sulla propria auto-percezione identitaria e visione del mondo.

[6] In antropologia al termine multiculturalismo è stato sempre più spesso preferito quello di intercultura poiché mentre il primo tende a riprodurre una visione delle culture come divise in compartimenti stagni e finisce per reificare le differenze fra i gruppi, il secondo suggerisce l’idea di una interazione e una influenza reciproche, di un rapporto dinamico, fra le culture e fra i gruppi che ne sono portatori. Tuttavia il termine multicultura è qui utilizzato in senso descrittivo, e non prescrittivo, per definire la pluralità di visioni del mondo che caratterizza le società complesse del mondo contemporaneo.

[7] Secondo le stime più recenti il numero di musulmani con cittadinanza straniera residenti in Italia all’inizio del 2018 si aggirano intorno a 1.465.000, mentre il numero di quelli dotati di cittadinanza italiana a 1.159.000 circa. Di questi ultimi, il 9% circa (attorno alle 100.000 unità) è convertito all’islam (Ciocca 2019).

[8] Tuttavia diversi tentativi sono stati portati avanti nei social dai ragazzi di seconda generazione per promuovere il tema della multiculturalità nell’Italia del 21° secolo. Fra questi spicca l’impegno di Sumaya Abdel Qader, una delle fondatrici del GMI e dal 2016 consigliera del Comune di Milano. Sul suo profilo Instagram tiene di frequente interviste con persone impegnate nel volontariato o nella promozione dei diritti civili. Recentemente ha anche condotto una puntata pilota del programma “Parliamone” (https://www.youtube.com/watch?v=rcoBRbSQORA, consultato in data 23 giugno 2021) per Netflix Italia. Sumaya ha inoltre contribuito alla creazione del personaggio Sana, giovane liceale romana di origini tunisine che indossa il velo, protagonista della quarta stagione della fiction SKAM–Italia, prodotta e trasmessa sempre da Netflix.

[9] Per studi antropologici sull’islam che hanno sostenuto questo punto si veda Mahmood 2005.

[10] Traduzione dall’inglese dell’autore.

[11] Questo aspetto è emerso anche con la maggior parte dei miei intervistati. Si veda ad esempio il caso di Amal più sotto.

[12] Testo preso dalla pagina Facebook ufficiale dell’associazione: https://www.facebook.com/GiovaniMusulmanidItaliaGMI/ (consultato in data 23 giugno 2021).

[13] Sulle diverse associazioni in cui l’islam italiano è suddiviso e sulle loro differenze si vedano, fra gli altri, Allievi, Dassetto 1993; Allievi 2003; Ciocca 2019; Saint-Blancat 1999, 2014.

[14] Oltre al già citato esempio di Sumaya Abdel Qader (v. nota 8), Khalid Chaouki è stato eletto come deputato del Partito Democratico alle elezioni del febbraio 2013. Entrambi sono anche autori di romanzi autobiografici (Abdel Qader 2008, 2019; Chaouki 2005).

[15] Le informazioni contenute in questo paragrafo sono prese da un’intervista con le rappresentanti dei team risorse umane e relazione pubbliche del GMI. Note di campo, 7 luglio 2021.

[16] Stime precedenti riferiscono di 350 partecipanti (Frisina 2007) e di 300 associati (Giacalone 2011: 186).

[17] Secondo il rapporto Caritas Migrantes 2020, al 1° gennaio 2020, il 28,6% dei musulmani residenti in Italia è di nazionalità marocchina (circa 450.000 unità). A questi seguono gli albanesi (13,0%), i bangladesi (8,8%), e i pakistani (7,6%). Tuttavia dopo oltre 40 anni di dominio comunista nel loro paese d’origine, gli immigrati di nazionalità albanese non si identificano con la tradizione islamica e sono poco presenti nell’associazionismo religioso. Bangladesi e pakistani invece praticano l’islam ma tendono a organizzarsi tra di loro. Dopo queste tre nazionalità seguono in proporzione altre che vengono più spesso incontrate nel GMI, ovvero quella senegalese (6,9%), quella egiziana (6,7%) e quella tunisina (6,5%), tutte attestantisi sopra le 100.000 unità ciascuna. Seguono macedoni (3,8%), kosovari (1,9%), malesi (1,3%), algerini (1,3%), turchi (1,2%), nigeriani (1,1%), bosniaci (1,1%), e gambiani (1,1%) (Caritas Migrantes 2020: 197-198).

[18] Note di campo, 7 luglio 2021.

[19] Groppi, M. 2018. Brescia, 'Capitale islamica' d'Italia. Limesonline, 6 febbraio 2018. Url: https://www.limesonline.com/cartaceo/brescia-capitale-islamica-ditalia (consultato in data 25 giugno 2021). I musulmani bresciani provengono da oltre 30 paesi, fra i quali Albania (19.000 unità), Marocco (15.000), Pakistan (12.000) e Senegal (7.000).

[20] Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2018. Url: https://www.ilsole24ore.com/art/a-brescia-e-provincia-oltre-quattro-stranieri-dieci-sono-musulmani-AEV4qg7D (consultato in data 25 giugno 2021). Mentre in proporzione Brescia è superata da Sondrio e Lecco (con il 69,2% e il 57,3% rispettivamente di stranieri musulmani), i numeri totali di queste due province sono nettamente inferiori a quelli bresciani.

[21] La denominazione di moschea non è formalmente corretta poiché a causa di una legislazione farraginosa sui luoghi di culto musulmani, questi non sono ancora riconosciuti ufficialmente come tali, ma come associazioni o centri culturali. Anche se spesso fungono da luoghi di culto, ciò non sarebbe allo stato attuale consentito, ragion per cui i responsabili dei centri rischiano continuamente di incorrere in sanzioni di tipo penale (Allievi 2003; Anello 2020; Ciocca 2019).

[22] L’UCOII rappresenta la corrente “neo-tradizionalista” dell’islam italiano. L’ideologia di molti dei suoi esponenti è ispirata al movimento dei Fratelli Musulmani (Pacini 2000), una nota organizzazione nata in Egitto nel 1928 e che oggi ha fitte ramificazioni transnazionali. Da notare che il rinomato sapiente islamico Yusuf al-Qaradawi (v. nota 25), da anni in esilio in Qatar, ha avuto in passato un ruolo di rilievo nell’organizzazione.

[23] “Dal patrimonio classico alla realtà contingente: essere imam in Italia.” Intervista a Amin El-Hamzi e Morgan Ghidoni. Oasis, 17 aprile 2020. Url: https://www.oasiscenter.eu/it/intervista-amin-el-hazmi-morgan-ghidoni (consultato in data 25 giugno 2021).

[24] Groppi, op. cit.

[25] Questa è una fondazione privata fondata nel 1997 con sede a Dublino, presieduta dal rinomato sapiente islamico Yusuf al-Qaradawi (si veda Graf, Skovgaard-Petersen 2008). Essa ha lo scopo principale di rilasciare delle fatawa (plur. di fatwa), ovvero dei pareri giuridici non vincolanti a proposito di quesiti specifici posti dai musulmani residenti in Europa. Secondo i canoni della giurisprudenza islamica, le fatawa non sono vincolanti in quanto sono i singoli musulmani che, in base alla fiducia che hanno verso i sapienti che le emettono, decidono se ritenerli autorevoli, e quindi rispettarli, o meno.

[26] Oasis, op. cit.

[27] Note di campo, 3 febbraio 2021.

[28] Note di campo, 16 aprile 2021, 23 aprile 2021, 7 luglio 2021.

[29] In italiano “sceicco”, il termine in arabo significa letteralmente “anziano”, ma viene utilizzato per rivolgersi a persone che godono di rispetto e stima a prescindere dall’età, generalmente per il grado di conoscenza e, di conseguenza, autorevolezza che gli viene riconosciuta. È per tali ragioni che sia Ghidoni che Hamzi vengono appellati come shaykh.

[30] Oasis, op. cit.

[31] Anche in altre città italiane, iniziative simili hanno riscontrato un certo successo nel contrastare la visione diffusa che le mosche possano essere culle per il terrorismo jihadista (Saint-Blancat 2014: 279-280).

[32] Note di campo, 3 febbraio 2021.

[33] Tutti i nomi riportati sono fittizi al fine di tutelare la privacy dei miei interlocutori.

[34] Ove non espresso diversamente, tutto quanto riportato circa la storia di Leila è reperibile in Note di campo, 26 febbraio 2021.

[35] Qui l’amica riproduce uno stereotipo “secolarista” classico che associa l’uso del velo alla sottomissione delle donne nelle società musulmane. Per una ricostruzione critica si veda Abu-Lughod 2015.

[36] Con riferimento al lavoro di Twine (1996) e Rajiva (2006), Granata ha usato il termine “eventi-confine” (buondary events) per definire quei momenti in cui i ragazzi di seconda generazione scoprono di essere percepiti come diversi dai coetanei autoctoni a seguito di episodi di razzismo esplicito o che fanno riferimento in modo blando ma significativo a una differenza (Granata 2011: 50-77).

[37] Ove non espresso diversamente, tutto quanto riportato circa la storia di Amadou è reperibile in note di campo, 11 giugno 2021.

[38] In questo è simile alla Muridiyya studiata da Riccio (2001, 2004) e Schmidt di Fridberg (1994).

[39] In modo simile al termine ağabey (o abi) in turco (Vicini 2020), akhi conserva una connotazione di tipo religioso derivata dal Corano, nel quale indica il rapporto di fratellanza che lega fra loro i membri della comunità di credenti.

[40] L’iftar è il pasto serale compiuto al tramonto che interrompe il digiuno quotidiano tenuto dai fedeli musulmani durante il mese di Ramadan.

[41] Ove non espresso diversamente, tutto quanto riportato circa la storia di Amal è reperibile in note di campo, 16 aprile 2021.

[42] Queste osservazioni sono in controtendenza rispetto ad alcuni studi recenti sui musulmani di seconda generazione in Italia che invece ripropongono una lettura in chiave transnazionale dei loro vissuti (si veda Acocella e Pepicelli 2018).

[43] Per ragioni di spazio non affronto il punto, che intendo approfondire in un’altra pubblicazione.